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VALORI E PREZZI DELLE AZIONI NELL ERA DEGLI INTANGIBILI: UNA PROSPETTIVA EUROPEA

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VALORI E PREZZI DELLE AZIONI NELL’ERA DEGLI INTANGIBILI: UNA PROSPETTIVA EUROPEA

Mauro Bini - Ordinario di Finanza aziendale nell'Università Commerciale L.

Bocconi.

Il mio compito consiste nell'approfondire la relazione fra prezzi di mercato e valutazione degli intangibili, attraverso l'uso dei multipli. E' un tema complicato perché sono tempi difficili tanto per gli intangibili (basti pensare all'ondata di write offs realizzati dalle imprese statunitensi), sia per gli indici di borsa, lontani dai valori fondamentali (basti pensare all'ondata di delisting che sta interessando i mercati. In Italia ha fatto riflettere il caso di una impresa produttrice di yacht di lusso che entrata sul mercato nel 2000 è uscita quest'anno pagando un premio sul prezzo IPO del 76%). A tanto è giunto lo scarto fra valori che la Borsa esprime e valori intrinseci delle Società?

E’ questa anche una sfida per offrire una chiave di lettura del lavoro al quale il Prof.

Guatri ed io ci siamo dedicati nell'ultimo biennio e mostrare che i principi cui il lavoro si ispira non sono già datati, nonostante la dinamica dei mercati. Perché - come sostiene Warren Buffett - se i principi sono datati, significa che non sono veri principi.

Il miglior modo per approfondire la relazione fra prezzi di mercato e valore degli intangibili è a mio avviso prendere coscienza che siamo entrati in una fase di mercato e diversa dalle precedenti.

La generazione di valore attraverso gli intangibili non è certo un fatto nuovo. Essa, come fenomeno generalizzato, risale ai primi anni ottanta (lucido 2). Da allora si sono succedute quattro fasi storicamente ben distinte: fino al 1985, fase in cui la dotazione di intangibili implicita nella capitalizzazione di borsa era per intero spiegabile sulla base del goodwill, cioè della superiore capacità di reddito già raggiunta dalle imprese; fra il 1986 ed 1995, fase in cui la dotazione di intangibili ha iniziato a superare il goodwill, ma per la quale le attese di crescita del reddito nel medio termine ne giustificavano il valore; fra il 1996 ed il 1999, fase in cui l'accumulo di intangibili ha mostrato una forte accelerazione superando la capacità di reddito prevedibile a medio termine; ed infine

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dal 2000 ad oggi, fase in cui il valore degli intangibili implicito nella capitalizzazione di borsa si è ridimensionato ed ha iniziato a mostrare una crescente volatilità.

Queste fasi possono essere ben colte attraverso l’analisi della dinamica dei prezzi dell’indice di mercato e di alcuni titoli "intangibile intensive" (lucido 3). Come si vede dal lucido l’indice S&P tra il 1980 ed il 2000 è cresciuto di 15 volte. Tenuto conto che il dividend yield medio è stato pari all’1,5%, con un costo del capitale (rendimento equo) del 12%, l’indice avrebbe dovuto moltiplicarsi solo 7 volte. Ciò che a noi interessa in questa sede è che la differenza l’hanno fatta gli intangibili. Il lucido successivo (lucido 4) mostra l’indice S&P e il prezzo del titolo Coca Cola dal 1973. Nel caso di Coca Cola il valore si è moltiplicato in misura molto più consistente (30 volte, scala di dx). Per contro la fase di volatilità di prezzo di Coca Cola inizia già prima del 2000. Oggi comunque Coca Cola quota 9,9 volte i mezzi propri. Il suo ROE è il 37%. Anche assumendo un costo dei mezzi propri di Coca Cola pari al 10% il goodwill che la attuale capacità di reddito esprime è pari a 2,7 volte i mezzi propri. Ciò significa che gli investitori non confidano solo nella conservazione della attuale capacità di reddito, ma anche della possibilità da parte della società di accrescerla nel futuro, molto probabilmente anche oltre il medio termine. Quindi una quota rilevante degli intangibili riconosciuta dal mercato non è significativamente legata né all'utile corrente né all'utile atteso a medio termine. Dalla seconda metà degli anni novanta infatti si è andato attenuando il legame fra contabilità ed intangibili.

Se prendessimo un titolo della New economy - Amazon , ad esempio - vedremmo che il valore del titolo è più del 100% della dotazione di mezzi propri. Amazon quota intorno ai 19 dollari per azione, mentre il patrimonio netto (per via delle perdite cumulate in fase di start-up che superano la dotazione di mezzi propri) è negativo: pari a meno quattro dollari per azione. Quindi la dotazione di intangibili è di 23 dollari per azione.

Viste dalla prospettiva dell'investitore finanziario le quattro fasi ora descritte recano con sé differenti driver di performances. Nella prima fase in cui gli intangibili erano spiegati dal goodwill, la crescita dei prezzi era sostanzialmente guidata dalla crescita degli utili. Nella seconda fase in cui gli intangibili erano spiegati dalla capacità di reddito a medio termine, la crescita dei prezzi era guidata dalla crescita degli utili e dei

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multipli. Nella terza fase in cui la dotazione di intangibili superava la capacità di reddito a medio termine la dinamica dei prezzi era spiegata in larga misura dalla variazione dei multipli, Nella quarta ed ultima fase successiva la volatilità degli intangibili è anche volatilità dei multipli.

La debolezza del legame fra contabilità e valori ha costituito il tallone di Achille del mercato. Grazie al legame troppo tenue si è potuto innestare il tanto deplorato expectation game - quel gioco delle aspettative attraverso cui i manager alimentavano speranze di crescita degli utili a breve termine regolarmente realizzate a spese della dotazione di intangibili. Alle variazioni positive degli utili trimestrali, i mercati finanziari accompagnavano una crescita dei multipli. Fino a quando il caso Enron ha insegnato che gli utili crescevano semplicemente perché i manager consumavano gli intangibili. Così alla crescita degli utili avrebbe dovuto accompagnarsi una progressiva e più che proporzionale riduzione dei multipli; circostanza che non si è verificata. Il lucido 5 mostra il prezzo di Enron a confronto con l'indice S&P. Nel 2000, quando già il prezzo del titolo Coca Cola, come abbiamo visto in precedenza, mostrava segni crescenti di incertezza, la quotazione di Enron continuava a crescere.

Sotto il profilo logico il livello dello stock di intangibili implicito nei prezzi di mercato è diverso dal problema della variazione di valore degli intangibili. Sappiamo che per una impresa con una elevata dotazione di intangibili se l’accumulo degli intangibili stessi segue l’accumulo di patrimonio netto (cioè se il multiplo P/BV rimane nel tempo relativamente costante), la media ponderata dei ROE corrisponde al rendimento di periodo per l’investitore finanziario. Ciò per la semplice ragione che il prezzo di entrata e di uscita dall’investimento pur essendo un multiplo del patrimonio netto rimane costante (è la nota legge di Kay). Quando tuttavia siamo in presenza di modifiche di valore relativo degli intangibili questa coincidenza non vale più. Infatti se il multiplo P/BV di uscita è più elevato di quello in entrata, il rendimento dell'azionista è superiore alla media ponderata dei ROE, quando invece accade il contrario, il rendimento di periodo è inferiore. La elevata volatilità di prezzi che si scarica in una

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elevata volatilità del multiplo P/BV determina dunque un accorciamento dell'orizzonte di investimento dell'investitore finanziario. Per minimizzare il rischio, egli riduce l'holding period. All'accorciarsi del periodo di detenzione del titolo tuttavia il rendimento finisce per essere in balia del mercato finanziario: come potrebbe infatti l’impresa emittente determinare le performance del titolo in pochi giorni o in pochi mesi ? La volatilità di valore degli intangibili genera quindi conflitti di interesse fra azionisti stabili (con una prospettiva di lungo termine), investitori finanziari (sempre più di breve) e management (medio termine).

La crisi di fiducia che i mercati finanziari stanno attraversando, non si trasmette solo in multipli e prezzi più contenuti, ma anche e soprattutto nella rarefazione di operazioni di mercato. Gli IPO si contano sulla dita di un mano. Prevalgono i delisting. Le imprese buone si allontanano dal mercato, semplicemente perché……. la crisi di fiducia scarica su di esse una nuova tassa, che per semplicità ed efficacia chiamerò Enron tax.

Vediamo di cosa si tratta.

La Enron tax è la sottovalutazione rispetto ad un valore intrinseco del business cui i mercati finanziari espongono le migliori imprese, per via di un generico rischio medio.

La ragione è quella di sempre: la legge di Gresham. Se vi sono dubbi di comportamenti opportunistici, gli investitori ragionano sulla base del danno medio che può loro derivare e dunque formulano prezzi relativi medi. Uno stesso prezzo medio a fronte di titoli di qualità diversa fa sì che titolo cattivo scacci titolo buono. Nel nostro caso che intangibile cattivo scacci intangibile buono.

La Enron tax è ingiusta perché è pagata dai migliori, è una imposta sulla sana gestione.

Il "ricavato" della tassa va a favore delle imprese peggiori. Come tutte le tasse non scritte sul reddito, è causa di mancato sviluppo.

Gli esattori inconsapevoli della Enron tax sono i gestori di portafoglio (cioè il lato buy del mercato). Chi gestisce portafogli, sa infatti, che a fronte di uno svantaggio informativo - cioè in presenza di costi di mandato - c'è un'unica arma di difesa:

indicizzare il più possibile i portafogli agli indici di mercato. Ciò che genera la Enron

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tax è la progressiva rarefazione di gestioni attive, in grado di scostarsi significativamente dal benchmark, assumendo posizione sui titoli caratterizzati dai migliori fondamentali. In un mercato che flette, l'inadeguata domanda di fondamentalisti, che operino controtendenza, genera la Enron tax.

L'effetto complessivo è che oggi, qualsiasi investor relator, qualsiasi direttore finanziario, qualsiasi operatore del lato sell del mercato sa bene che anche con i migliori fondamentali, il mercato stenta ad assorbire carta buona. Non è stagione. E' questo un modo diverso per constatare che in un mercato afflitto da costi di mandato, i prezzi non riescono a trovare equilibrio (come siamo soliti dire ai nostri studenti dove ci sono costi di mandato non vi possono essere first best contract). Infatti, prezzi al di sotto dei fondamentali già sarebbero di per sé incentivo ad innescare un processo correttivo, ma ciò non avviene perché non sono prezzi più contenuti a dare fiducia al mercato. Il mercato è alla ricerca di prezzi meno volatili, non di buoni affari. Ma le gestioni indicizzate evitano questo.

* * *

Sui multipli si scaricano tutte le problematiche fin qui viste. I multipli mettono a rapporto il prezzo del titolo (o il valore dell'entità aziendale) con una quantità contabile. La inefficacia della rappresentazione contabile degli intangibili si scarica sul denominatore del multiplo. La Enron tax sul numeratore. Comunque analizzati i multipli mostrano oggi queste pesanti distorsioni. Il mercato esprime la inaffidabilità dei multipli stessi attraverso una volatilità mai sperimentata nel passato.

I prezzi di borsa possono essere concepiti come il prodotto fra una quantità aziendale di performance ed un multiplo. Ad esempio P = Ex P/E. La volatilità di prezzo del titolo può essere spiegata dalla volatilità dell'utile, dalla volatilità del multiplo e dalla loro correlazione. Nei settori ciclici ad esempio alla flessione degli utili si accompagna di norma un aumento dei multipli - per via di quello che è noto come effetto Modolowski - segno che la correlazione fra utili e multipli è negativa. Ciò non sta accadendo adesso, dove il trend (ribassista) di mercato si manifesta nella forma di una

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forte correlazione positiva fra risultati contabili e multipli (scendono i risultati e scendono più che proporzionalmente i multipli, etc.).

Se la volatilità di prezzo trova origine nella volatilità di valore degli intangibili dati gli elevati multipli P/BV ed il debole nesso con la contabilità non sembrerebbero esservi molte soluzioni. Eppure non è così.

Gli intangibili sono beni difficili da valutare (lucido 6). Il lucido mostra che essi figurano tra i primi nella scala dei parametri di valutazione quanto a grado di soggettività. Sono beni il cui valore è strettamente firm specific e legato alla specifica strategia aziendale. La loro valutazione richiede ciò che in gergo finanziario chiamiamo

"informazione privata". L'informazione privata è quella informazione di fonte aziendale, che per ovvie ragioni di riservatezza non può essere comunicata dall’emittente al largo pubblico. La finanza aziendale insegna che laddove l'informazione privata gioca un ruolo importante nello spiegare il valore di impresa, chi dispone di un vantaggio informativo tira ad avere un portafoglio concentrato (cioè un modello di proprietà chiuso). Il fatto è che il ruolo dell'informazione privata cambia nel tempo. I delisting sono la prova tangibile di ciò. Il management, l'azionariato stabile, fanno uso dell'informazione privata per concentrare il portafoglio a favore della propria impresa. Altre volte sono intermediari private a realizzare la concentrazione di portafoglio, ma poco conta ai nostri fini (in questo caso ciò che cambia è che il modello di proprietà rimane aperto).

Laddove l'informazione privata ha un ruolo importante, i mercati public esprimono prezzi a minor contenuto informativo (less informative prices). Di ciò gli investitori sono consapevoli e reagiscono principalmente in due modi: dando peso ai "segnali" cioè ai comportamenti degli operatori ritenuti più informati, ed investendo in ricerca. In un ottimo paper del 2000 tre autori di Standford (Barth et al.) dimostrano l'esistenza di una significativa relazione positiva fra numero di analisti e dotazione di beni intangibili della società quotata1. Tale relazione sarebbe spiegata proprio sulla base della

1 Mary E. Barth, Ron Kasznik, Maureen F. McNichols, Analyst coverage and intangible assets, march 2000, scaricabile dal sito: papers.ssrn.com

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problematicità di valutazione degli intangibili e degli straordinari ritorni che un vantaggio informativo può dare ai gestori di portafoglio.

Ciò tuttavia valeva sino al 2000 così come vale in condizioni di mercato non afflitto dalla Enron tax.

Di fronte alla crisi di fiducia nè i comportamenti, né le metriche, né i costi di research sono in grado da soli di far emergere i reali valori degli intangibili.

Quale può essere allora la soluzione? Personalmente ritengo che le strade siano tre:

1)Portare informazione privata al mercato in forme adatte; 2) aiutare il mercato a comprendere i dati contabili e le loro relazioni intertemporali; 3) coltivare un uso diverso dell'informazione pubblica da parte degli analisti. Questi ultimi due punti riguardano più da vicino l'uso dei multipli e su di essi concentrerò maggiormente la mia attenzione.

1) La prima strada che citavo è "Portare informazione privata al mercato in forme adatte". Il tema è già stato sollevato dal Prof. Guatri nella sua relazione. Gli Stati Uniti si sono mossi per primi nell'abolire voci di costo convenzionali (l'ammortamento degli intangibili acquisiti) sostituendole con valutazioni ad hoc (l'impairment test) fondate prevalentemente sull'uso di informazione privata. La soluzione dell'impairment va nella direzione di trasferire informazione privata al mercato, ma la sua efficacia dipenderà da come le imprese utilizzeranno il test. Se l'informazione privata è fonte di costo di mandato, non è chi ha il vantaggio informativo che possa in autonomia svolgere il test. Devono nascere infointermediari specializzati, per la stessa ragione per cui - riprendendo il noto esempio di Akerloff - un mercato di compravendita di auto usate non può svilupparsi fra privati, senza qualche info-intermediario che giochi il proprio capitale reputazionale. Se il lavoro degli info-intermediari sarà credibile, verrà disciplinato anche il comportamento delle imprese, che saranno più caute nel riconoscere prezzi elevati nelle operazioni di M&A solo per strappare la target alla concorrenza.

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L'esigenza di portare informazione privata al mercato in forma di giudizi, su cui pesi il capitale reputazionale di chi li esprime, diverrà a mio avviso la regola, ben oltre i semplici obblighi di legge. Sulla base di logiche di autodisciplina le imprese dovranno progettare una architettura dell'informativa privata oltre che una architettura dell'informativa pubblica. Questo accadrà perché vi è convenienza per tutti i lati del mercato. Vi è convenienza da parte delle imprese quotate per evitare costi indiretti di mandato (largamente superiori ai costi diretti di produzione e comunicazione di informazione privata). Vi è convenienza da parte del lato buy del mercato perché l'àncora della informazione privata consente di ridare fiducia ed investire in ricerca sui titoli che comunque rimangono problematici e ad alto potenziale di rendimento. Vi è convenienza, infine, da parte delle società mercato, perché altrimenti troppe imprese quotate finiscono per delistarsi solo per far miglior uso dell'informazione privata.

2) La seconda strada individuata riguarda "Aiutare il mercato a comprendere i dati contabili e le loro relazioni intertemporali". Permettetemi di partire da questo ultimo punto - le relazioni intertemporali - perché è più semplice da affrontare in successione logica rispetto al punto precedente. L'impresa che, nonostante la flessione dei prezzi di borsa propri o della propria controllata, effettuando l'impairment test giunge alla conclusione di non dover procedere a svalutazioni, implicitamente trasferisce un messaggio al mercato, del tipo: le prospettive di risultato che ci si attende grazie agli intangibili acquisiti non sono danneggiate in via permanente perchè - contrariamente a quanto il prezzo di mercato esprime - gli utili attesi non sono previsti in flessione. L'impairment test è la via attraverso la quale le imprese possono dichiarare al mercato finanziario quanto sia ingiusta la Enron tax nei loro confronti. Tale dichiarazione - se realizzata attraverso un impairment test credibile - veicola al mercato l’informazione privata necessaria per neutralizzare la tassa iniqua. Naturalmente se a ciò seguono poi continui annunci di profit warning, il rischio di consumare in misura ancora maggiore la fiducia degli investitori è molto elevato. La Enron tax risparmiata oggi, diventerebbe molto più consistente nel futuro.

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Concentriamoci ora sull'aiuto che è possibile fornire al mercato in tema di comprensione dei dati contabili. Qui a mio avviso si può fare molto. Ancora una volta il segnale ci giunge dagli Stati Uniti. A tutti è noto, ad esempio che Standard &

Poor's il noto infointermediario statunitense ha rilasciato nel maggio di quest'anno una nuova metodologia rispetto alla quale calcolerà i cosiddetti "core earnings" delle imprese quotate ai fini del calcolo dei multipli P/E dei constituents degli indici2. Il lucido 7 mostra le voci incluse e le voci escluse dai core earnings. Alcune scelte a mio avviso sono discutibili, come ad esempio quella di includere i write offs relativi a beni a vita indefinita (ai sensi dello SFAS 144) e di escludere quelli relativi al goodwill riconosciuto in operazioni di fusione ed acquisizione (ai sensi degli SFAS 141 e 142). A prescindere da questi aspetti troppo tecnici per poter essere svolti in questa sede, a me pare che la direzione di cercare di costruire misure più significative di performance sia una strada corretta. Naturalmente S&P va alla ricerca di una configurazione di core earnings valida per tutte le imprese, una sorta di minimo comune denominatore che funga da standard, tuttavia sotto un profilo squisitamente logico dovremmo convenire che queste rettifiche debbono essere firms specific (ritagliate sulla specifica realtà aziendale). Tutto sommato questa è anche la logica cui si ispira l'impairment test. L'abolizione degli ammortamenti che ne è conseguita altro non è che la volontà di eliminare quella che per alcune imprese poteva essere una duplicazione di costi. L'impresa che sosteneva costi di manutenzione della dotazione di intangibili acquisiti si trovava nel regime precedente a veder scaricate sul conto economico due voci di costo in antitesi fra loro: i costi di manutenzione, volti a conservare il valore degli intangibili e l'ammortamento, misura convenzionale di deperimento degli intangibili. Far emergere le specificità aziendali equivale in questo caso a premiare l'impresa che conserva gli intangibili sostenendo costi di manutenzione, e a non penalizzare l'impresa che li consuma risparmiando sui costi (idealmente i mancati costi di manutenzione in questo ultimo caso dovrebbero equivalere alla perdita di valore degli intangibili).

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Gli effetti perversi della introduzione di condizioni standard di ammortamento nella contabilità erano sotto gli occhi di tutti. Ad una impresa poteva capitare di acquistare una partecipazione pari al 70% , riconoscendo nel prezzo un valore di intangibili di 70 + un premio di controllo di 30 (corrispondente alle sinergie interne attese). Ipotizzando un ammortamento lineare su vent'anni, dopo dieci anni il gruppo si sarebbe trovato con un valore netto contabile di intangibili di 50. Se nel frattempo la controllante avesse coltivato gli intangibili della controllata, facendoli crescere di valore (ad esempio elevandone il valore di due volte e mezzo, pari ad un ritorno del 10% annuo), ed al decimo anno la controllante avesse deciso di comprare il residuo 30% del capitale, avrebbe dovuto riconoscere un valore di intangibili pari a 75 (= 70/.70 x 2,5 x.30).

A seguito delle acquisizioni realizzate in tempi diversi, la controllante si sarebbe trovata ad iscrivere in bilancio un maggior valore di intangibili sulla quota minoritaria acquisita più di recente, ed un minore valore sulla quota maggioritaria acquisita dapprincipio. Il valore reale degli intangibili sarebbe di 250, cui andrebbero sommate sinergie interne corrispondenti al premio di controllo per 30 (se non già godute), contro un valore contabile di 125 (= 50 + 75).

Proprio per evitare questi assurdi si è passati all’impairment test.

Sotto un profilo strettamente logico dunque le rettifiche da compiere alle quantità aziendali di performances sono di necessità rettifiche firm specific, ancorché basate su principi comuni condivisi.

A ciò abbiamo ispirato il nostro libro sui moltiplicatori. Il libro rappresenta – nella nostra prospettiva – la integrazione fra i principi della scuola Bocconiana del valore e quelli tipici di derivazione anglosassone. Già in precedenza il Prof. Guatri richiamava l’attenzione su due concetti di fondo: il REI ed il REP. A ben vedere, come sottolineava il Prof. Guatri il REI è una misura – o comunque un tentativo di misura – ed il REP è un concetto, ma essi esprimono una eguale prospettiva di analisi. La quale in termini molto pratici può essere ricondotta alla seguente affermazione: dobbiamo lavorare molto sul denominatore del multiplo, per integrare il reddito contabile.

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Quando il professor Guatri mi propose di lavorare ad un volume sui moltiplicatori, risposi con entusiasmo non solo perché era per me una grande occasione condividere scientificamente un percorso di ricerca non breve con il Professore, ma anche perché da anni giaceva fra i tanti progetti di ricerca un lavoro su questo tema. Nella cartellina con la scarna dicitura “multipli” avevo riposto da tempo un articolo di Fischer Black (lucido 8) apparso ben vent’anni prima su Financial Analyst Journal3. In quell’articolo dal titolo: The magic in Earnings: economic earnings versus accounting earnings, veniva aperta una prospettiva di ricerca, molto simile a quella che dal fronte della misurazione veniva già da anni coltivata dalla Scuola Bocconiana del valore. La prospettiva può essere idealizzata, nel riuscire a giungere ad una configurazione di reddito economico (REP) che possa permettere di pervenire al valore di impresa semplicemente sulla base di un multiplo P/E standard, pari al reciproco del costo del capitale. L’idea era cioè di scaricare i multipli di un onere troppo gravoso, l’onere di catturare la crescita futura degli utili. Se la crescita futura degli utili è crescita di oggi del valore degli intangibili, ciò che Fischer Black andava cercando altro non era che il ∆ intangibili delle formule proposte nella sua relazione dal Prof. Guatri. L’idea già ricordava il prof. Guatri nella sua relazione è affascinante, ancor più se la si approccia dal sentiero accidentato della misurazione piuttosto che da quello rarefatto della astrazione teorica. Il lucido 9 illustra questa sequenza.

Tre lucidi in successione mostrano la logica di Fischer Black (lucido 10/11/12). Nel primo lucido è rappresentata una impresa che segue una crescita lineare. Reinveste il 60% degli utili ad un saggio del 15%. La crescita annua degli utili è il 9%. Il valore della crescita è tuttavia funzione del costo del capitale. Il lucido successivo ricava, sulla base di un modello alla Gordon, il valore dell'impresa che cresce e quello della stessa impresa senza crescita. L'impresa che cresce ha un valore quattro volte superiore a quello dell'impresa che non cresce. Il loro utile nell'anno 1 è in entrambi i casi pari a 10, quindi il multiplo dell'impresa con crescita è quattro volte il multiplo dell'impresa senza crescita. Nel lucido successivo è calcolato il multiplo ideale alla Fischer Black.

L'economic profit è dato dalla somma di dividendo e capital gain. Nel primo anno il valore dell'impresa con crescita è 400 e offrendo un rendimento agli azionisti del 10%,

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genera un economic profit di 40 (= 4 di dividendo e 36 di capital gain). Il capital gain può essere scomposto ulteriormente in due componenti: utili trattenuti (=6) e variazione degli intangibili (=30).

Dunque è il reddito economico dell'impresa con crescita ad essere quattro volte superiore a quello dell'impresa steady state. Se a parità di prezzo (400) quadruplichiamo il reddito a denominatore del multiplo (sostituendo l'economic profit all'utile contabile) il multiplo rimane costante (10x) (è interessante notare che la differenza fra reddito contabile e reddito economico corrisponde alla quota di capital gain determinata dalla variazione di intangibili = 30).

Se i mercati finanziari fossero perfetti l’utile economico sarebbe ottenibile semplicemente dal prodotto fra il prezzo corrente del titolo ed il costo del capitale (lucido 13). Ma se così fosse, cioè se per assurdo se l’utile fosse ricavabile dai prezzi di mercato allora non avremmo bisogno né della contabilità, né dei multipli.

Il dato contabile ed in genere tutte le misure che da esso ricaviamo serve in quanto i mercati non siano perfetti. Ciò significa che quando il multiplo è uno strumento utile di valutazione mette a rapporto due quantità entrambe carenti: i dati contabili (che devono essere rettificati ed integrati, al limite anche stimati) ed i prezzi di mercato, di necessità imperfetti (lucido 14). Proprio quando si ha bisogno dei multipli essi non possono essere considerati come standard di valore. Il multiplo standard cui Black faceva riferimento è un concetto, non una misura. Per questo noi nel libro lo chiamiamo multiplo ideale.

Eppure spesso i multipli vengono trattati come fossero degli standard: si finisce cioè con il calcolare la media di multipli grezzi molto divaricati fra loro. Il mercato non esprime multipli medi. A ben vedere il mercato non esprime neppure multipli ma prezzi. I multipli non sono strumenti oggettivi di analisi. Qualsiasi prezzo efficiente diviso una quantità deficiente – cioè carente di nessi causali con il prezzo – fornisce falsi segnali. Purtroppo ad alimentare errori di valutazione vi sono falsi multipli di valore.

3) La terza via consiste nel coltivare un uso diverso dell’informazione pubblica da parte degli analisti. Il problema che vorrei in queste poche battute finali sollevare

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attiene ad un uso improprio dei multipli grezzi. Se l’informazione pubblica non consente agli analisti di costruire multipli significativi essi devono rinunciarvi. E’

inutile calcolare multipli spot su quantità correnti di cui non si sappiano spiegare le differenze e che non rappresentano nulla più che falsi multipli di valore. Se il prezzo corrente di un titolo è funzione delle attese di utili futuri, il prezzo corrente è il valore attuale di un prezzo futuro. Il problema dell’analista consiste in questo caso nell’identificare un multiplo a termine, accettabile per l’impresa. Un multiplo target, spiegabile sulla base delle variabili residue cui faceva cenno il prof. Guatri.

I lucidi 15 e 16 mostrano come sia possibile ricavare le variabili residue. La prima strada è ricostruire il multiplo sulla base di variabili di natura fondamentale; la seconda consiste nel ricavare tali variabili sulla base del paradigma valutativo di mercato.

* * *

In sintesi possiamo trarre alcune considerazioni di ordine generale:

1) i multipli sono stimatori distorti del valore;

2) il mercato finanziario esprime multipli per singole società, non multipli medi;

3) la valutazione relativa che il mercato esprime riguarda solo le società quotate;

4) il paradigma valutativo di mercato finanziario permette di apprezzare le diversità, mentre il multiplo medio le appiattisce;

5) l'uso del multiplo medio non richiede la comprensione né del business né dei prezzi che il mercato esprime.

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