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Perchè si va a Teatro

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Academic year: 2022

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DELFINO ORSI

Perchè si va a Teatro

.— —•>*<■ ■ —

CONFERENZA

tenuta il 26 inarco 1S9)

AL

CIRCOLO FILOLOGICO DI TORINO

6'qocp e)

96844 —

(B) netti Cent.

50

R. Stabilimento Tito di Gio. Ricordi e Francesco Lucca

01

G. RICORDI & C.

Uditori- Sta mpa tori

MILANO - ROMA - NAPOLI - PALERMO - PARIGI - LONDRA (PRINTED IN ITALY)

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Proprietà letteraria.Deposto.

Estratto dalla Gazzetta Musicale di Milano, anno 1893

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Signore, Signori,

no scrittore rigidamente moralista, accumu¬

lando aneddoti e dimostrazioni a prova della corruzione emanante dagli spettacoli teatrali, narra, coi capelli irti, coi segni del più grande orrore e colle più roventi frasi, narra di un padre che staffilò acerbamente un suo figliuolo, il quale erasi rifiutato di andare alla commedia. E un attor comico del seicento, famoso per aver dato anima alla curiosa maschera del Fritellino e tipico per le sue velleità di letterato e di critico, si affanna ad alleggerire la colpa di quel padre, col dire che di sicuro egli voleva correggere il figlio da più malvagie abitudini e allettarlo all’ onesto divertimento della commedia.

Io abbandono alle loro dispute oziose queste due Vestali della moralità, negata o trovata nel teatro. E mi accontento di esprimere, con molto scandalo forse dei teneri cuori, la mia schietta ammirazione pel padre staffilatore. Perchè, senza aver la pretesa di sapere o di discutere quale sia la missione dei padri di famiglia, parmi che davvero possa considerarsi un loro diritto e fors’ anche un loro dovere, l’impedire che un bimbo rinunzi per un malsano capriccio a gustare le vergini impressioni che invano ricercherà e

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rimpiangerà più tardi. Il diritto e il dovere paterno si ac¬

centuano oggi, che le preoccupazioni dell’ipercritica giungono così presto a soffocare anche nei più giovani lo scatto vero del sentimento, sottomettendolo alla doccia gelata del giu¬

dizio; siche per tal procedimento la spensieratezza del riso c 1’ amara voluttà del pianto sono per via del ragionare, non dirò affatto annientate, ma affievolite e modificate e...

rimminchionite d’assai.

E poiché i tempi nostri che son detti liberali vedono pur tante limitazioni della libertà e intransigenze dogmatiche, io per mio conto nego al bambino questa libertà di opporsi al desiderio dei genitori che lo vogliono condurre a teatro.

Perchè d’ogni fanciullesca impressione, queste di teatro sono in realtà le più vivide e le più geniali : e un Ballo in ma¬

schera o un Barbiere di Siviglia, un Fornarello di Venezia o un Lorenzino di Medici, una Consegna di russare o un qualche Diavolo verde goduti nell’ infanzia tornano oggi alla mente nostra, pur nella incertezza e nelle nebulosità delle percezioni d’ allora, tornano come le più care ricor¬

danze e risvegliano le vibrazioni più sincere e soggioganti.

Tornano — deliziose rimembranze ! — tornano gli ingenui stupori, coi quali frastornavamo il capo ai malcapitati nostri accompagnatori, costretti a dar ragione d’ogni più cervel¬

lotico perchè: e perchè la sala è rotonda? e perchè è scom¬

partita in tanti piani e in tante camerette? e che cosa fanno quegli uomini laggiù? e perchè quelle altre persone sono relegate lassù? Si alzavano i lumi della ribalta, e di¬

luviavano le nostre domande intorno alle figure del sipario, domande così insistenti e minuziose, che certo i nostri ge¬

nitori e i nostri zii mandavano volentieri a quel paese tutto 1’ armamentario mitologico onde si aiutano i scenografi, a incominciare dal Carro di Tespi e dalle Fame alate fino alle eroine affienane.

Poi d’un tratto era da parte nostra non più la domanda monotona e noiosa : ma un grido addirittura, che recla-

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mava immediata risposta. Lo sguardo aveva scoperto, nella disamina curiosa, un piccolo disco nero nel sipario, ad al¬

tezza d’uomo ; e quel disco tratto tratto si animava d un occhio scintillante e magari d’un nasone rosso. Allora allo stupore s’aggiungeva presto un’apprensione vaga e crescente;

ci stringevamo alle ginocchia dei grandi e puntavamo l’in¬

dice verso quello strano punto, gridando alla fine : cos’ è ? cos’ è ?

Ah, il foro del sipario ! Vedete bene quanto suoni netta nell’ infanzia l’intuizione del vero ! Quel buco è nel teatro un’ istituzione, tra le più importanti, certo la più resistente.

Ad esso dovrebbe applicarsi quell’assioma con cui un no¬

stro professore di filosofia si sbrogliava regolarmente e sa¬

cramentalmente da ogni discussione arruffata: « se non ci fosse, bisognerebbe crearlo. » Ma c’è per nostra grande for¬

tuna; e c’è per lo meno dal giorno in cui la boccascena dei teatri si chiuse col sipario... se pure non esisteva gii prima.

E i teatri possono bene assumere tutte le modificazioni suggerite dal progresso della meccanica; e giungere agli sfarzi di luce elettrica, alle meraviglie ingegnose dei prati¬

cabili, all’ indefinito perfezionamento dei fondali e dei fonda¬

letti , e sostituire alle onde umane di bianchi lenzuoli se¬

moventi i velari sapientemente scossi e magari le vasche di vera acqua... ma chi s’attenterà mai ad abolire il buco del sipario?

Basta aver vissuto qualche tempo la vita calda e artifi¬

ciale dei palcoscenici per aver notato di quanta attrazione sia quel piccolo foro. In verità psicologicamente è giusto ed umano : è la ribellione in atto, è il binocolo rovesciato, è un meraviglioso caleidoscopio: e costerebbe tanto poco il dichiarare ingenuamente quest’attrazione... Ma andate a do¬

mandare al mondo dei palcoscenici una simile confessione.

I soli ad essere schietti sono di prima sera i pompieri, i tramagnini, le comparse dalla accurata scriminatura della chioma: per essi è tale il godimento che soltanto la paura

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i"

di incorrere in una multa li trattiene da mandare dal pertugio un amichevole saluto a qualche conoscenza che scorgono in loggione dove l’hanno installata con un biglietto di favore o facendola entrare pel labirinto delle porte di sicurezza.

Ma tutti gli altri, i divi grandi e piccini, affettano una olim¬

pica indifferenza, mentre han nell’animo una preoccupazione e un pensiero solo. E pur conversando, passeggiando giun¬

gono là: elegantemente disinvolte le donne, sguaiatamente impacciati gli uomini, le une c gli altri a quel modo stesso con cui in un salone si ammirano civettuolmente in uno specchio. Giungono e sbirciano: brillanti e baritoni, tenorini belli e primi attori, inconsciamente attillandosi, lisciandosi e appuntandosi i baffi per quella folla che non li vede, come nei per finire Imbecilletti si leva il cappello quando deve discorrere per telefono con una signora. Giungono e sbir¬

ciano, e la vanità individuale va in solluchero, solleticata dalla sicura convinzione che tutto quel pubblico si è mosso proprio e soltanto per ciascuno di loro : i colleghi, la com¬

media, l’opera, l’autore, tutto questo è un soprappiù. Più fortunati di noi, molto più fortunati di voi essi non fanno questioni e non subiscono conferenze per cercar la ragione di quelPagglomeramento. Ciascuno di quei comici sa bene perchè il pubblico va a teatro: ci va per lui solo, che diavolo !

Più ragionevoli i mariti delle prime attrici, ed i capoco¬

mici vengono aneli’essi a guardare il buon pubblico bello, e più riposatamente giudicano. Come non sarebbe venuta la folla, se c’ è la signora da applaudire, se c’ è la cassetta da riempire. In caso diverso, concludono e gli uni e gli altri per proprio conto, dove andrebbe a finire l’arte?

All’ultimo, proprio quando l’antica batterel.a o il novis¬

simo tintinnio elettrico hanno dato l’ultimo avviso per l’al¬

zarsi del sipario, giungono ancor correndo le attrici già imbellettate. È un’occhiata rapida ma sapientissima, sempre accompagnata da un sorriso di trionfo: 1’arte è pure una

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gran sirena quando è animata dalla femminilità! Ahi, il sipario s’alza; e dalle poltrone gli abbonati notano un pie¬

dino die sgaiattola frettoloso tra le quinte.

Quante illusioni bugiarde suggerisce dunque quel finestrino agli interessati ! Vorremmo farne colpa ad esso ? No, non commettiamo quest’errore, se non vorremo poi vederci co¬

stretti ad un novo lavoro di riabilitazione, perchè quelle bugie esistevano già prima allo stato latente. Diciamo in¬

vece alta e forte la lode : il foro del sipario proclama di per sé una gran verità; esso dice che a teatro il pubblico è esso stesso molto più interessante d’ogni azione di pal¬

coscenico. Non sarà forse questo un efficace indizio da metterci sulla buona via nel processo clic andiamo facendo circa le ragioni psicologiche che inducono il pubblico a venire al teatro ?

Sembrerà un paradosso, ma in fondo all’anima è una verità per tutti : le più noiose scene che il teatro d’ogni tempo si abbia sono le ingenue scene d’amore. Tutte con¬

dotte su uno stesso tipo, inspirate ad un medesimo falso concetto della vita materiale c morale, esse si dilungano eccessivamente per trovare una soluzione che non scioglierà niente, che non interessa nessuno, per conchiudere in una formula antipatica che tutti già conosciamo a memoria e che saremmo disposti a concedere subito purché ci facessero grazia della preparazione. Perchè l’amore, di cui ogni ge¬

nere d’arte ha commesso un abuso irragionevole e spro¬

porzionato affatto alla realtà, l’amore è nel teatro uggiosa¬

mente strabocchevole : il nervosismo ci assale di fronte a simili chiacchiere e ci costringe a chiudere occhi ed orecchie per non vedere ed udire straziata per l’ennesima volta la sedicente situazione simpatica. Allora vien naturale di voltar le spalle alle ingenue dalla voce troppo argentina e ineguale e stonata, ai primi attori giovani dagli eterni gesti conven¬

zionali, e di guardare invece con interesse il pubblico, vie-

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tima compassionevole, clic proprio in quei momenti non osa rifiatare perchè da secoli gli vanuo dicendo che son quelle le scene patetiche e culminanti... Oh! dunque, chi c’è in teatro ?

Poveri sposi ! nello scorgere la vostra cera stanca e ras¬

segnata, io dimentico l’usata antipatia che mi ispirate nel vostro viaggio di nozze, quando trascinate nella volgarità degli alberghi e delle vetture da nolo i più bei giorni della vostra vita! Poveri sposi! vi sorrideva cosi lieto, dopo la stanchezza della giornata spesa a visitare monumenti che non interessano, a passare affannati davanti a quadri che non commovono, a dichiarare impressioni banali e ammi¬

razioni che non si sentono, vi sorrideva cosi lieto il riposo...

nella voluttà delle prime notti! Eppure nc: il timore di parer ridicoli davanti al cameriere di albergo che, per farsi merito della sua insolenza cogli altri avventori, vi domanda forte per quale ora deve tenervi il letto caldo;

la necessità di poter dire, ritornando al vostro paese, che avete visto.tutto, vi hanno costretti a venir qui,... dio solo sa con quanto vostro compiacimento! Vi è compagno, lo vedo bene, l’inevitabile amico dello sposo, al quale un convenzionale reciproco inganno vi tien legati tutto giorno, mentre ne fareste a meno ben volentieri, com’egli è sec¬

cato di dovervi accompagnare. E per quanto si dia un’aria disinvolta, ha nello sguardo una fretta di rimettervi all’al¬

bergo e di correre alla birreria per veder di smaltire l’ecci¬

tamento provocatogli dal vostro diuturno tubare, di respirar finalmente da solo...

Ci siete anche voi, mio caro monssù Travet: e vi si legge negli occhi la stizza pel sonno perduto e pei danari spre¬

cati... Buon per voi che la vostra signora non vi bada, in¬

tenta com’è a pavoneggiarsi, ammirata pupattola; ella si turba soltanto quando lo sguardo si fìssa sur una macchio¬

lina del corsetto. Povera lei, proprio stasera i suoi sette bambini non si potevano chetare e non si sapevano dar

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p.ice di andare a letto alle sei, e chiamavano la mamma per piangere o per baciarla : e i baci han finito per sporcare un capolavoro di teletta costata un anno di economie sulla spesa famigliare. Sono sere da tenerezze queste?

Nel mio esame del pubblico, ho modo di rallegrarmi con una quantiti di signorine che binocolano dai palchi, spe¬

rando che tra i tanti giovanotti delle poltrone vi sia pure il disgraziato o il fortunato venuto per prender moglie o maturo ad incapparvi. Sorrido con indulgenza alle signore dalle maestosissime curve — minaccia spaventosa agli smilzi ballerini — le quali hanno udito così fine da percepire ancora il battito del loro cuoricino commosso ai duettini sentimentali. Qualche vecchio appisolato o addormentato affatto nei palchi o nelle poltrone, obbedisce alle prescri¬

zioni del medico che gli ha raccomandato di distrarsi. E poi studenti che discutono, crestaine che ridono, operai che scherzano grassamente colle donne loro; e signorine spiccatamente galanti che regalano per ogni parte sorrisi in onta aH’eufemismo orientale che vorrebbe mettere una ta¬

riffa anche... ai sorrisi.

Da tutta la sala, e da tutti pare si levi un grido festoso di affermazione della loro presenza: « siam venuti anche noi, siam venuti anche noi! »

Eh, lo vedo che ci siete! Ma perchè siete venuti, se anche qui avete la fisionomia medesima della commedia che quotidianamente recitate nella vita ? E che cosa diavolo siete venuti a fare? E per colpa della interminabile prolis¬

sità delle scene amorose, che mi costringe a distrarmi dal palcoscenico, io tanto mi arrovello in questo novo labirinto di questioni, che spesso mi associerei volentieri ai padri della chiesa, a San Tomaso, nell’odio loro al teatro, purché il pubblico non fosse venuto.

A volte io spero di potermi illuminare, a quel modo stesso che tante buone persone, dopo aver presenziato una prima rappresentazione, si guardano bene dal formulare il

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loro personale giudizio, ma dicono invece con tutta mo¬

destia e calma : sentiremo che cosa diranno i giornali domani !

E sentiamoli pure.

Si tratta d’un’opera di Wagner, di un dramma di Ibsen;

e il critico esclama convinto: — Ah! finalmente, ecco un’o¬

pera forte, che fa pensare. Non è certo questo pane pei denti di coloro che a teatro cercano le volgari soddisfazioni del¬

l’arietta portata via subito a memoria, o della risata ad ogni costo, ma è concezione potente di un ingegno che parla al¬

l’intelletto. Vadano altrove gli scioperati. —

Alla buon’ora: andiamo altrove. Ma due righe più sotto, leggiamo a proposito della commedia di un giovane autore verista :

— Se, come noi crediamo, il pubblico va a teatro per vedervi riflessa la vera vita vissuta, niun dubbio che l’av¬

venire riserva a questo giovane autore molte vittorie glo¬

riose. —

E mentre attendiamo l’avvenire, vediamo ancora in modo diverso giudicato il presente, in un altro sfogo favorevole ad una commedia brillante:

— 11 pubblico ha riso ed ha applaudito. E a nostro av¬

viso ha fatto bene. Perchè noi non abbiamo mai potuto conctpire il teatro come una cattedra di filosofia simbolica, o come un’esposizione, di fotografie istantanee, o come un laboratorio di vivisezione psicologica e fisiologica. Per noi il teatro deve essenzialmente rispondere al desiderio del pubblico che ci va per riposare un’ ora dalle occupazioni della giornata, e domanda di divertirsi anzitutto. —

Molto chiaro, se ad intorbidar le cose non intervenisse il giudizio d’una pochade:

— Certo non si è potuto a meno di ridere perchè ogni sciocchezza fa ridere. Ma non sappiamo dar torto al pub¬

blico se dopo aver riso ha fischiato, perchè ci pare che

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oramai si esageri nel prendere alla leggiera il teatro e nel credere che il pubblico vi si rechi soltanto per ridere... _ Poveri noi che cerchiamo i lumi, e ammirevole davvero quel pubblico che continua ad andare a teatro con una cer¬

tezza sola: di vedersi catechizzato, cucinato e strapazzato in tutte le forme.

Ma — sia detto ad onor dei giornalisti e della verità _ sarebbe anche peggio se ricercassimo presso i pensatori massimi d’ ogni tempo e d’ogni letteratura le ragioni messe in campo a spiegare l’affluenza del popolo a teatro.

Da Aristotele in poi è tutto un coro stridente di opinioni diverse: coro stonatissimo non soltanto tra i vari soggetti ma tra i vari momenti d’ognuno : perchè ciascuno imma¬

gina sempre una ragion nova da adattare al suo caso, salvo a distruggerla di li a un momento quando è diventata un giuocattolo inservibile. Il campo di battaglia delle teoriche rappresentative ha visto sempre queste irruenze vittoriose, seguite da repentine stragi, a cui tengono dietro miraco¬

lose risurrezioni e trasformazioni a guisa dei serpenti dan¬

teschi: qui lo scambietto avviene nella triplice igiene teatrale destinata volta a volta al corpo, o all’intelletto o al cuore.

Carlo Goldoni — che fu così affannoso e penoso ricer¬

catore di formule spesso infelici e di teorie sempre infelici, e che fu grande autor comico appunto perchè nella pratica non ricordò quasi mai le teorie, e che sbagliò soltanto ogni qualvolta volle rigidamente attenervisi — Carlo Goldoni ha disseminato per le sue commedie, per le sue memorie e per le sue lettere un centinaio forse di spiegazioni diverse del nostro problema. Nel Teatro comico, che è occasione più spiccata a presentare giudizi tecnici, il suo pesantissimo Deus ex machina, il capocomico Orario, sta naturalmente a sostenere che mentre una volta si andava a teatro sola¬

mente per ridere, ora ci si va per gustare la morale.

J

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Con maggior spirito il Brighella vorrebbe dar ragione di questa influenza morale dicendola insinuante, perchè gli uomini si sentono a « biscgar » nel cuore vedendo posti m scena i loro vizi e le loro passioni, e sono indotti a cor¬

reggersi. Ma la mirabile intuizione goldoniana gli ha fatto inconsciamente, senza pur ch’egli se ne avveda, sfumare in una bolla di sapone, anzi in una arlecchinata tutte le teoriche faticosamente fin allora ammannite. Proprio nell ultima scena, quando oramai si è tutti stuccati del pontificare di Orario, ed egli seguita a trinciar giudizi, Arlecchino, in una pausa che il parlatore eterno fa per assaporare l’effetto di una sua tirata pomposa : « non si può creare senza studiare, » Arlec¬

chino è lesto ad introdursi per farlo restar male dicendogli che si può creare benissimo senza studiare. « Come ? fa l’altro corrucciato. » — « Sicuro, risponde Arlecchino : si fa come ho fatto io, si prende moglie e si mettono al mondo dei figliuoli. E servitore umilissimo. »

Come sempre, Arlecchino è filosofo ben più profondo di tutti noi ! A questo modo Gian Giacomo Rousseau in una sua famosa lettera al D’Alembert dimentica per un momento l’accesa fede di apostolo e riconosce che a teatro ci si va per divertirsi. Un ritornello questo in verità molto elastico per le deduzioni, quando si voglia, come la più parte fa, dedurre ancor qualche cosa. Sarebbe ben più ragionevole il fermarsi alla premessa e il considerarla addirittura come punto fermo.

Ma purtroppo, anche assegnando al teatro la formula di tutte più simpatica, arte per arte, il problema nostro ha pur sempre molti ostacoli alla soluzione. E in verità, se il di¬

vertimento dovesse intendersi nel senso più solito, più im¬

mediato e generale, perchè le prime rappresentazioni, dove è tanto problematica la soddisfazione estetica come è ipo¬

tetico il genio in confronto alla moltitudine ingombrante dei pigmei , perchè le prime rappresentazioni sono le più affollate? E scartatemi pure una qualche decina di persone

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che segue per dovere oramai acquisito tutte le manifesta¬

zioni dell’arte rappresentativa, e per le quali il dovere pe¬

netrato nella carne uccide il divertimento; scartatemi an¬

cora qualche centinaio di quelle persone che è convenuto debbano costituire la « tutta Torino, » la « tutta Roma, » la « tutta Parigi » e che vanno alle prime perchè il pun¬

tiglio e la civetteria ve le costringe.

Ma io resto sempre con un migliaio di tipi ai quali devo all’ ingresso applicare il punto interrogativo : gente che non s’attenterebbe mai a leggere un romanzo senza averne prima sentito cantar le lodi ; che anche allora non lo compera, t ma se lo fa imprestare ; che avutolo in imprestito lo leg¬

gicchia appena quel tanto necessario a poterne parlare senza dire troppi spropositi di fatto ; gente che passa tutti i giorni t dinanzi a chiese e a palazzi dove sono quadri e statue, me¬

raviglie dell’arte, ma che non s’attarda di sicuro un minuto per ammirarli, o che vedendoli rimane freddissima! Ed ora ha l’iniziativa di correre per tempo a prendersi un biglietto, di affrettare il pranzo, di mettere a pericolo la digestione per sentire una nova commedia, la quale può essere la più fenomenale sciocchezza del mondo. Ma io son tentato di fermarmi a guardare ammirato questo pubblico, molto più ch’io non guardi quelle cento solite persone che hanno l’incarico di accompagnare, segnando il passo, la truppa nel cambio della guardia al palazzo reale !

La mia meraviglia per quel fenomeno, accettato e con¬

sacrato dall' universale assenso, si accentua poi quando io osservo il contegno strano, e quasi contrario ad ogni regola di igiene e di buona società, a cui s’abbandona spesso il mio buon pubblico. È riunita là gente di tutti i paesi, di tutte le condizioni fìsiche, di tutte le età, di tutte le gradazioni intellettuali e morali : ottimisti entusiasti, pacifici gaudenti, ringhiosi pessimisti, esemplari di virtù, malcontenti viziosi.

Gascuno di noi è là cacciato, perduto in mezzo alla folla;

ai nostri lati è una quantità di visi sconosciuti che non

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abbiamo mai visti, che non vedremo più mai, di cui non sappiamo nè i nomi, nè i gusti, nè le idee. Se leviamo la testa ad abbracciare d’uno sguardo la sala, ancora e dap¬

pertutto sono sguardi lucenti, volti arrossati dal caldo, vici¬

nissimi, stretti, quasi incollati gli uni agli altri: il formicolaio manzoniano. E la rappresentazione comincia mentre ognuno si assetta nel suo cantuccio, e mentre i ritardatari sollevano mormorii e proteste. L’attenzione indugia a farsi solenne.

Poi d’un tratto una frase dal palcoscenico solleva un mo¬

vimento nel pubblico meno artificiale e più facile alle im¬

pressioni, nelle gallerie e nella platea ; le poltrone e i palchi, più a lungo imbronciati e riluttanti, sono vinti all’attenzione.

Ognuno è avvertito per un istinto oscuro e potente che oramai tutti i cuori battono d’uno stesso desiderio ; un in¬

visibile filo elettrico — accennava un giorno con paragone felice il Sarcey — corre misteriosamente allacciandoli; il fluido impalpabile s’intuisce : in un istante la scintilla bril¬

lerà, e per tutta la sala sarà un solo trasalire, e tutti scat¬

teranno furiosi all’applauso o alla disapprovazione : i notai come i banchieri, i medici come i presidenti delle opere pie e i consiglieri comunali dimenticheranno repentinamente il loro inamidato prestigio per associarsi alla vivacità gio¬

vanile; e le signore ancora troveranno inconsciamente la grazia nova del calore e dell’eccitamento...

Non potrà dirsi allora che il fascino specialissimo del¬

l’arte rappresentativa in confronto a quello delle altre arti sia in gran parte costituito da questa condizione di cose?

Non badiamo alle platoniche affermazioni che il pubblico è sempre andato blaterando per trovare ai suoi stessi occhi la scusa di insistere nel vizio simpatico: tanto le amene aspi¬

razioni antiche di castigare ridendo i costumi quanto le nuove di cercare il riflesso della vita vissuta e magari il simbolo sono inganni della coscienza universale molto più

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grossolani che non i quotidiani inganni delle coscienze in¬

dividuali. No.

Appunto questa insolita vivacità prepotente, questa vio¬

lenza di manifestazione per cui ogni energia individuale si raddoppia, si triplica, si centuplica nella collettività, potrà spiegarci di che sorta sia questo fascino : non è certamente la sola emozione artistica che possa determinarlo : è l’emo¬

zione della folla giudicante, arbitra, per nulla differente questa ubbriacatura di sentimento da quella degli spettatori alle lotte nei circhi romani o alle corse dei tori in Ispagna. Tutto induce a credere che sia così: noi stessi, che tante volte imprechiamo contro la avidità degli artisti che affidano alla cassetta il computo della loro soddisfazione e nella sala piena non vedono gli eletti ma vedono la folla, noi stessi, senza darcene schietta ragione, siamo imbronciati quando ci tro¬

viamo in un teatro semivuoto, e lungi dall’inorgoglirci nel pensiero di godere una rappresentazione per noi soli, non riusciamo a scuotere la freddezza dall’animo ; e l’artista per quanto grande risente anch’egli il ghiaccio dell’ambiente, ed è monco nelle sue interpretazioni. Noi non ce lo siamo mai detti, ma la verità è questa : nella vuotaggine della sala cade lo scopo del teatro, perchè non si può stabilire la cor¬

rente magnetica tra spettatore e spettatore, tra questi e l’attore.

Se volete convincervi che proprio in questa voluttà di immensa e reciproca suggestione sta la ragione di attrat¬

tiva del teatro, non avete che a guardare invece della folla che applaude, la folla che fischia. Arturo Desjardins in una sua curiosa memoria circa il Fischio a teatro, ha trovato molto lontana l’origine di questo modo di disapprovazione in teatro... cominciato probabilmente dal giorno in cui il buon borghese pigliò l’abitudine di portare in tasca la chiave di casa; e tra le ferocie irresistibili dei pubblici il Desjardins ricorda il fischio insolente che interruppe un giorno Maria Antonietta nel teatro di Trianon, mentr’ella, al solito, sto-

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nava: il fischiatore poco galante era il regale marito, Luigi XVI.

Francesco Sarce)' ha studiato gli insuccessi da un punto di vista più largo e più comprensivo. « Osservate, egli ha detto, osservate a teatro le persone clie si annoiano : cogli occhi si cercano e s’interrogano; e la noia che ciascuno prova si esaspera per la massa di noia che grava intorno e sopra di essi! Si fanno violenza e resistono ancora; ma sarà suffi¬

ciente una sola parola maladatta per eccitarli a sfogare il loro cattivo umore; e scatteranno tutti in una volta, sod¬

disfatti di poter finalmente liberarsi da quella collera co¬

stretta. In realtà è irragionevole. Che cosa vi sarebbe di più semplice che di agire per una produzione teatrale come si fa per un romanzo, che s’interrompe a metà quando annoia? Sarebbe così naturale l’andarsene. Eppure no: a teatro si rimane; ci si arrabbia; ma si rimane ; e s’accumula in noi un desiderio di vendetta. L’autore diventa un nostro nemico; gli si desidera del male: si è stupidi e si è crudeli. » L’osservazione esattissima del Sarcey è preziosa per noi, e ci rafferma nella convinzione che a chiamare il pubblico in teatro agisca incoscientemente più d’ogni altro elemento il fascino dell’animazione, della lotta

e

del giudizio collet¬

tivo.

Al fenomeno troveranno certo spiegazione gli studi mo¬

derni sul magnetismo animale. Noi ci accontentiamo dr segnalarlo.

E avremo forse spiegati così molti corollari.

Se difatto il teatro risponde a simili sparse latenti esi¬

genze degli spiriti, non meraviglierà più l’eterna giovinezza ond’esso gode, checché ne dicano alcuni preoccupati sol¬

tanto alle forme esteriori.

Ci spiegheremo alloca quel giuoco crudele, peculiare più alla scena che ad ogni altro genere d’arte, quel giuoco cru¬

dele di far sorgere ad ogni nova stagione nuove stelle

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troppo vive e troppo presto filanti nel campo della musica e della commedia, più di questa che di quella, più di in¬

terpreti che di autori, più di attrici che di attori. Che fiori¬

tura di attrici, inopinatamente e improvvisamente meravi¬

gliose, ci regalano le stagioni estive quando la folla sciama alle arene! E non è vero, come si dice, che siano i gior¬

nalisti a giuocare di questi brutti tiri di esperimento nel- 1 anima vile del pubblico estivo. Tutti invece subiscono l’ambiente fittizio; nessuno lo crea; tutti nella noia impe¬

rante desiderano di cooperare a qualche cosa di nuovo; e si compensa allora, sempre per procedimento inconscio, in anti¬

cipazione colla intensità degli applausi la prossima inevitabile infedeltà. In una commedia di Guy de Maupassant, recente¬

mente rappresentata — dove lo spirito fine scintilla ogni momento facendo dolorosamente ripensare allo strazio d’in¬

telligenza del povero autore — c’è una moglie che trascurata abitualmente dal marito, se lo vede una volta farfallare attorno con insolite ed allarmanti galanterie. Ella è stupita dapprima, ma poi si rende ragione del fatto, e affronta brutalmente il marito: — Ah, capisco, ella dice, voi dovete essere a di¬

giuno. SI, e quando si digiuna si ha fame, e quando si ha fame tutto serve ;t satollarci. — Così è spesso in fatto di celebrità teatrali. Capita il momento in cui noi siamo a di¬

giuno, e ogni più smilza figurina di attrice ne pare un gu¬

stoso manicaretto; di lì a poco chi se ne ricorda più? Ma niuno è colpevole della volubilità.

La volubilità del resto è a teatro meritevolissima : perchè essa fu ed è causa prima di riforme veramente razionali.

Non occorre per fortuna sfoggio di erudizione per segna¬

lare radicali novità nelle convenzioni di teatro. Tutti ri¬

cordiamo quelle magnifiche stretti nei melodrammi, quando i duettisti giungevano fino alla ribalta, poi d’un tratto risa¬

livano maestosi il palcoscenico fino a toccare il scenario, e lì i tenori sputavano allegramente, e le prime donne scar¬

tavano lo strascico con un abile colpetto del piede, finché

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ad un cenno del maestro direttore precipitavano correndo lino al buco del suggeritore per lanciare di lì il concer¬

to; — Ali! no, ah! sì! Barbara! Spietata!... — E i buoni comici che verso il finire della commedia si sten¬

devano in semicerchio, rinculavano per mettersi al si¬

curo dal telone precipitante, e con un grande inchino di assieme ci avvertivano che chi sa il giuoco non lo deve in¬

segnare, o che non c’è via di mezzo tra il bere e i’affogare?

— è colpa della memoria se ho chiamato in campo una eccel¬

lenza presente e una sotto-eccellenza passata della pubblica istruzione... — Orbene, in qual sera si è cominciato a prote¬

stare contro le corserelle di Emani o di Alfredo, di Lucregia o di Rosina, e contro gli inchini di una intera compagnia?

Evidentemente in nessuna: l’abito si perde senza che si possa segnare il giorno della caduta, sfuma senza lasciar traccia della linea di divisione : senza scosse, senza urti, senza scismi è avvenuta la riforma, ben difficile quando è diretta ai fossili tradizionali del palcoscenico; il fluido dalla platea conquide e ringicvanisce il palcoscenico.

Io posso dunque ben dare la lode paradossale che mi sta nell’animo: Che magnifico, che inarrivabile critico teatrale è il pubblico!

Eppure non c’è da parte dei critici e degli autori e degli attori monito sufficiente per bistrattare e minacciare il pub¬

blico. Ad ogni prima, tanto gli avvocati difensori, quanto i pubblici ministeri intonano, secondo il buon uso veneto, il ri¬

tornello uggioso : « ricordatevi del povero Fornaretto. » E questo, perchè ha sbagliato una qualche volta, perchè ha fi¬

schiato Verdi, Rossini, Goldoni; perchè è riluttante ad accet¬

tare alcune innovazioni. F. non voglio neanche invocare a difesa del pubbblico la considerazione proporzionale dei po¬

chissimi granchi suoi in confronto ai moltissimi granchi pe- [. scati dai dotti d’ogni tempo ; non voglio mettere in campo ha teoria di Dumas che, essendo a teatro essenziale l’arte

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della preparazione, gli ardimenti saranno c dovranno essere accettati soltanto quando sia intervenuta una conveniente preparazione dell’ambiente; non voglio neppure ricordare che ogni qualvolta si forma per condizioni eccezionali un pubblico esclusivamente di eletti e di critici, e noi atten¬

diamo il loro giudizio come un verbo solenne, vediamo poi che essi stessi sottomettono la loro sentenza definitiva alle impressioni future di un pubblico vero : non voglio giovarmi di questi facili pistolotti.

E con tutta serenità invece mi permetto di affermare an¬

cora che a teatro il pubblico, quando non è dominato da ra¬

gioni esteriori e artificiali, quando è genuino, quando in¬

somma ha spontaneamente pagato il suo biglietto d’ingresso, per dirla in forma più grossolana ma più positiva, a teatro il pubblico ha sempre ragione lui. E non soltanto perchè è pubblico, ma perchè è un pubblico riunito a teatro: le ragioni stesse, che determinano l’incertezza e la irragione¬

volezza, e la piccineria dell’universale giudizio nelle altre forme d’arte, dove l’impressione dovrebbe essere individuale, ma per naturai ritrosìa e modestia e paura si riduce al convenzionalismo imposto, sono quelle che danno il giu¬

dizio libero, fresco, vero, giusto del pubblico a teatro;

perchè questo è l’unico luogo ancora nel quale la moltitu¬

dine si senta forte nella collettività e nella vivacità imme¬

diata di manifestazione, e possa emanciparsi dalla tutela delle convenzioni: è la ribellione della moltitudine affidata alla impunità dell’anonimìa. Questa folla, che deve dir buono un romanzo trovato detestabile, volgare una polka che ha messo il sangue a subbuglio, potente un quadro che non si capisce, orrida una statua sembrata gustosissima, e deve rinunziare ai suoi gusti schietti per sottomettersi a recitare supinamente una serie di bugie, perchè tutti gli altri dicono così e si deve dunque dir così; questa folla, che in arte è convinta di non poter aver voce in capitolo e di dover ac¬

cettare le frasi fatte, a teatro gradatamente si riscuote colla

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voluttà dei bimbi sfuggiti alla sorveglianza della governante;

c si assicura, si affranca, si ribella nella impunità della mol¬

titudine, nell’anonimia della scappatella: ed è perciò, sol¬

tanto perciò, che si diverte tanto, ed è perciò che a teatro il pubblico è critico giusto, mentre è cosi pecorone in ogni altro genere d’arte.

Ma se ha sbagliato tante volte? mi direte. Sbaglierà an¬

cora, vi rispondo; e tanto peggio per lui. Perchè se sbaglia, lo deve appunto a certi suoi rilassamenti, a certe sue de¬

bolezze dinanzi alle montature artificiali onde è continua- niente tentato. I suoi errori esso li commette, quando si lascia dirigere, quando si lascia infinocchiare, quando s’in¬

superbisce stupidamente. Allora, invece di andare a teatro cosi coni’ esso va di solito obbedendo inconsciamente al fascino magnetico e abbandonandosi poi alla voluttà brutale di portar sugli scudi o di demolire un ingegno, allora crede ingenuamente alle fole che in buona fede gli vanno susur- rando tanti bravi teologi truccati a critici d’arte. Lo vogliono convincere di un’alta missione da compiere; insieme al bi¬

nocolo gli danno a portare un bagaglio di preconcetti e di teorie, lo catechizzano, lo gonfiano come depositario di un patrimonio artistico. Il pubblico, com’è naturale, smarrisce in tal modo la serenità e il senso della misura ; diventa un vanesio ridicolo, monta in cattedra; si sa osservato, teme i fulmini della critica; si crede costretto a sostenere il suo prestigio; assume un’attitudine riservata e impacciata: è dif¬

fidente, noioso, pedante. Non più, non più la misteriosa e voluttuosa corrispondenza intellettuale e affettiva riesce a for¬

marsi ; manca lo scopo e la ragion del teatro ; un ghiaccio inorale pervade tutti. Infelicità di pubblico, che torna a casa afflitto, scorato, disgustato senza saperne il perchè; infelicità di autori e specialmente di quelli che si vedono condannati ai capolavori forcati a vita, e per cui gli spettatori credono doveroso di dire con applausi freddi e con sorrisi a denti stretti quello che domani scriveranno i cronisti dei giornali :

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« Noi ci attendevamo assai più dall’illustre autore del...

Deputalo di Gassino. »

E parmi proprio che tocchi a noi — giovani, ma vittime già croniche di questo predominio, anzi di questa violenza che l’intelletto esercita sul sentimento onde siam costretti ad invidiare tanta copia di ingenui piaceri e di schietti dolori

— parmi proprio che tocchi a noi che troppo presto a fa¬

biani visto chiudersi il paradiso delle anime vergini, il pro¬

testare in favore del pubblico e di ciò che di più simpatico hanno le moltitudini : la freschezza, la spontaneità delle impressioni. Protesta vivace contro ciò che v’ ha di più antipatico : le intransigenze preconcette, che agghiacciano ogni genere d’arte, ma più il teatro, per sua natura evi¬

dentemente ecdettico.

La critica moderna, che vanta innumerevoli conquiste del pensiero, si renderà veramente benemerita del teatro se rifuggirà da ogni violenza dello spirito, e rivolgerà invece la sua attenzione a suscitare le forze vive del pas¬

sato e a sventare coraggiosamente volta a volta le' con¬

giure artificiali onde si formano i successi, conservando d’altra parte un’attimdine riguardosa e paziente di fronte a quegli stessi giudizi del pubblico che non possono a noi piacere, ma che hanno l’irresistibile intima forza della sin¬

cerità.

L’ educazione a cui la critica dice di attendere verso il pubblico deve abbandonare oramai i criteri pedagogici as¬

surdi e antiquati ; e deve aneli’ essa accettare il metodo oggettivo. Ella si eserciti anzitutto intorno ai capolavori incontestati della letteratura teatrale, e s’industrii nel gra¬

vissimo cimento di provocare in lettori isolati quel brivido d’entusiasmo onde si levarono ammirate le migliaia di spet¬

tatori all’ Otello, alle Valkirie, al Barbiere, al Tartufo, alle Baruffe chio^vtte, alle innumerevoli meraviglie di cui non è lecito bestemmiare insulsi giudizi.

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Ma non creda la critica di potere, anche per ciò che ri¬

guarda l’avvenire, formulare un rigido catechismo sui diritti e sui doveri del pubblico, segnando una meta fìssa al pro¬

gresso indefinibile dell’arte e creando il dogmatismo più feroce, quello dei pedanti.

A questo punto i conferenzieri usano di interrompere la foga del loro dire per guardare 1 orologio e annunziare al¬

l’uditorio eh’ è ora di concludere, sollevando così un rifiato di soddisfazione da parte delle vittime che incominciano a intravedere più o meno prossima la fine del supplizio.

Pei questo riguardo io son più fortunato, perchè proprio con tutta la buona volontà non ho conclusioni da ricavare.

Una sola cosa è certa : che nonostante tutte le insolenze c le chiacchiere onde lo affliggono attori, autori, critici e...

conferenzieri, il pubblico, assai buono, continua ad andare a teatro. E continuerà. Speriamolo. Ma lasciamo che a tra¬

scinarlo sia questa inconscia suggestione della emozione col¬

lettiva ; e non dubitiamo degli effetti: la ragion d’arte vincerà sempre. Inorridiamo invece nel pensare ad un pubblico dove uomini e donne si impuntassero armati l’un contro 1’ altro della loro coscienza critica, e prima di ap¬

provare o di zittire, interrogassero, grotteschi Amieti, l’ar¬

madio della loro farmacia scientifica.

L’orrore è fortunatamente di poca durata; perchè, a di- sonor dei teorici, fu e sarà sempre anomalìa infinitesimale 1 antipatico fenomeno. Il fluido che trascina a teatro fa sfumar dal capo ogni ubbìa preconcetta. Sempre un mondo di gente, ogni qual volta a teatro la nota alta dell’ arte squillerà, un mondo di gente scatterà in piedi ad applaudire:

e sarà opera santa ma senza merito. E a teatro sempre, quando 1 arte e il buon senso riceveranno offesa, quel mondo di gente di nuovo all’ unisono sorgerà, con ardire

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maggiore, a fischiare: e sarà opera buona, forse ben me¬

ritevole.

11 teatro è capriccio divino: lasciate dunque che il pub¬

blico vada a teatro capricciosamente e non domandategli alcun exequalur, alcuna patente, alcun diploma di capacità e di competenza a giudicare : 1’ arte grande deve fare il miracolo di livellare ad un tempo le intelligenze più vaste e le più ristrette ; di ottenere lo stesso diapason vibrante nei cuori più abusati c nei più ingenui ; di convergere alla medesima illusione i gusti più oppostamente educati. Se non vi riesce, non è arte grande, è mediocrità trascurabile.

L arte grande produce sola il miracolo : a quella guisa che i mistici d’ogni tempo e d’ogni religione eran sopraffatti a un sol punto da allucinazioni stranissime e nel trasalire concordi giuravano di percepire la presenza del dio, l’arte sovrana agisce conquidendo in un punto i suoi fedeli senza distinzione di coltura e di aspirazioni. Perciò all’ arte chi¬

niamo la fronte : è cosi bello e simpatico adorare di per sé, senza chiedere e desiderare di più, adorare il miracolo.

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