Piccolo Karma
Iscriviti alla newsletter su www.lindau.it per essere sempre aggiornato su novità, promozioni ed eventi. Riceverai in omaggio un racconto in eBook tratto dal nostro catalogo.
In copertina: Edvard Munch, Il bacio, 1895, Kunsthalle Bremen
© 2020 Lindau s.r.l.
corso Re Umberto 37 - 10128 Torino Prima edizione: giugno 2020 ISBN 978-88-3353-357-5
Carlo Coccioli
Le corde dell’arpa
Le corde dell’arpa
David con unas tijeras Cortó las cuerdas del arpa.
Federico García Lorca
7
Un giorno all’improvviso restano soli. Loro due da una parte, gli altri dall’altra. Loro due in una camera da letto o comunque sia in un mondo che somiglia a una camera da letto; di fuori, il vuoto.
Fabrizio piange; Letizia, no. «Perché non piangi, Letizia?» geme lui piangendo. Lei non risponde. Da un’ora, da tre ore, da un giorno, da un secolo, lei si sta pettinando. Si passa a lungo, lentamente, meditativamente, il pettine poi la mano fra i capelli. Lui piange singhiozzando accovacciato sul tappeto; versa tutte le lacrime che ha di dentro; ogni tanto, coi pugni, colpisce rabbiosamente il tappe- to. Lei, nulla. Lei si pettina, si accarezza i capelli. Poi dice: «Perché piangi, Fabrizio?». Lui non risponde. Continua a piangere, ma ora senza lacrime, perché non ne ha più. Entra Geltrude e dice: «Venite a mangiare, venite a mangiare». Né lui né lei le rispondono. Lui, stanco di piangere, avvilito dal fatto di non avere più una sola la- crima, giuoca col gatto di Geltrude. Lei non si stanca di pettinarsi, di accarezzarsi i capelli. Poi, con un movimento brusco, lasciando cadere il pettine si volta e dice: «Di’, non hai voglia di un gelato?».
Lui si accorge che ne ha voglia. Escono in strada, a piedi, e la gente per la strada li guarda. Lui porta gli occhiali neri affinché non gli si vedano gli occhi rossi. Lei divora due gelati; lui, tre. Senza par- lare. Leccano avidamente la crema densa, e le loro lingue rosa si somigliano. Poi lei dice: «Di’, e se si andasse al cine?». «I soldi ce li hai?» dice lui. Lei tira fuori un fascio di biglietti da mille. «Dove li hai trovati?» dice lui spalancando gli occhi. «In un cassetto», dice lei, indifferente. Al cinema si tengono per la mano. Certo la gente li prende per due fidanzatini, forse per sposi giovanetti in viaggio
CARLO COCCIOLI
8
di nozze. Lui appoggia la testa, sfinito, languido, sulla spalla di lei.
Poi tornano a casa e sono già le undici di notte; Geltrude li riceve con negli occhi rimproveri amari. «Mettetevi a tavola, buttate giù un boccone». Non le rispondono, non la guardano nemmeno, van- no a dormire. Durante la notte, piove.
Fabrizio, nel suo sonno leggiero, le si fa vicino vicino. Letizia più che tiepida è calda; a lui piace infinitamente il calore di lei.
Il gatto di Geltrude salta sul letto, cerca d’intrufolarsi fra le len- zuola. Cerca d’introdursi fra lui e lei, di separarli. Lui riprende coscienza e, brontolando, lo afferra gentilmente per la collottola, lo posa sul suolo. Lei sospira. Lui, sentendosi assorbire dal sonno, le prende la mano e se la mette sotto la gota. La mattina dopo, Geltrude entra nella stanza col suo passo pesante di contadina;
osa scostare le cortine; osa destarli dicendo con voce lamentosa:
«Non mangiate da tre giorni; via, venite a buttar giù un boccone».
«Lasciaci in pace!» grida Letizia, destissima, cattivissima. Geltru- de va via con un grugnito. «Le darò gli otto giorni!» grida Letizia, furiosa. Fabrizio col capo sotto il lenzuolo ride. Lei si leva; indossa una camicia da notte lilla trasparente, molto vamp. Lui finge di non guardarla, ma la guarda. Lei entra nel bagno; lui si riaddor- menta. Si ridesta: ode il fruscio della doccia. Si leva, entra nel ba- gno strascicando i piedi, sbadigliando, protestando. Lei, sotto la doccia, ride. Lui si fa la barba benché ne abbia pochissima. Lei da dietro la tendina di nailon lo invita: «Vieni, vieni!». Lui si toglie il pigiama, scosta la tendina. Sotto il getto caldo c’è posto per due e si sta bene. Ridono; poi bruscamente lei si mette a piangere. «Sia- mo soli, siamo soli, siamo soli!» dice piangendo. Lui stupefatto, lui desolato vorrebbe asciugarle le lacrime, ma l’idea gli sembra ridi- cola dato che si trovano ancora sotto la doccia. La spinge, la sol- leva quasi, la sottrae al getto d’acqua, l’abbraccia, e lei non piange più. Sorride. Si asciugano con lo stesso grandissimo asciugamano giallo. «Andiamo al tennis?» dice lei. Lui dice: «D’accordo».
Al tennis si divertono fantasticamente. Quando, tre ore dopo, tornano a casa, hanno una fame «marca Diavolo», ma devono
LE CORDE DELL’ARPA
9
aspettare a mettersi a tavola perché c’è l’avvocato. L’avvocato fa loro un lungo discorso. Parla di azioni, di obbligazioni, di titoli, della banca svizzera, della fabbrica di filati, di due testamenti, di un viaggio, eccetera. Loro ascoltano in silenzio. L’avvocato è un buon uomo, ma così spaventosamente noioso. Dalla finestra aper- ta entra una farfalla esitante. È primavera. L’avvocato finalmente va via, e Letizia dice a Fabrizio: «È primavera. Perché non partia- mo per Viareggio?».
«Per il Forte vorrai dire», dice lui. «Per il Forte, sicuro», dice lei.
Partono per Forte dei Marmi due ore dopo, in automobile, senza autista, ma non vi stanno nemmeno due giorni, non c’è nessuno, fa anche freddo, che delusione.
«Torniamo a Milano», dice Letizia.
Così cominciano a vivere soli, soli, soli, e il tempo passa. Soli:
loro due da una parte, gli altri dall’altra. Letizia è ogni giorno di più una cosa meravigliosa. Possiede in grado eroico la virtù di sistemare il caos e di sgominare la noia. Fabrizio pensando alla noia che Letizia sgomina con tanta fiera disinvoltura ha inventato un motto, meglio ha parafrasato una divisa propagandistica: «Où Letizia passe, l’ennui trépasse». Letizia lo diverte sempre: quando è bianca e quando è nera. Quando è chic, per esempio, e quan- do è proprio ma proprio il contrario dello chic. Nelle sue diverse
«ere», insomma; ed è lei che ha adottato il termine. Le ere chic – al plurale, perché ve ne sono state parecchie –, da non confondersi con le ere snob, delicatamente ma sostanzialmente diverse, sono caratterizzate dalle unghie dipinte «un poco troppo» – fra lo chic e l’eleganza vi è una sottilissima eppure concreta differenza –, dalle lunghe soste dal parrucchiere, le conversazioni interminabili coi sarti, un amabile e distratto alitare sul viso dei domestici, una for- se deliberata forma di sbadataggine deliziosa con un nonnulla di offensività – chiamare «Giulia cara», per esempio, chi dalla nascita si è chiamata sempre Teresa o Barbara –, e così via: lo chic di Letizia
CARLO COCCIOLI
10
è un universo di cui Fabrizio è testimonio attento e diligentemente intento a dissimulare il divertimento folle che ciò provoca in lui:
non dissimularlo sarebbe non chic, e lui ha l’abitudine di essere ciò che lei, la sistematrice del caos, la sgominatrice della noia, vuole, ma senza dirglielo, imperiosa quanto soave, che lui sia.
Passa il tempo, trascorrono gli anni, e loro due non se ne accor- gono. Vivono, si divertono, viaggiano, frequentano molta gente, poi non ne frequentano punta – le ere di solitudine –, vanno al ristorante e ingozzano ostriche e champagne, poi vanno a letto, e a letto ridono come matti, fanno la lotta greco-romana, si ac- capigliano e si baciano, inventano nomi, cambiano le consonanti alle parole, si litigano e si giurano odio a morte, poi riconciliati per l’eternità si addormentano. Trascorrono gli anni, e Letizia si- stema il mondo – agli occhi di Fabrizio –, e sgomina la noia. Lui, che in forma congenita sarebbe minacciato dal taedium vitae o spleen – «mi annoio, mi annoio così forte», gridava a dodici anni,
«che voglio morire!» –, siccome c’è Letizia non si annoia quasi mai.
Letizia gli ammazza il germe della noia quando è chic e glielo am- mazza quando afferma che l’unica forma civilizzata di vivere con- siste nell’adottare la più rude, affascinante, essenziale semplicità.
Le sue ere beatnik, insomma, o per lo meno Saint-Germain-des- Prés, o allora puramente socialiste, se non addirittura – le sfuma- ture non si contano –, anarchiche o cow-boy o nichiliste. Quando, insomma, Letizia non si fa le unghie e non se le farebbe nemmeno se le venissero a dire che rischia, non facendosele, di perdere la vita; quando parla ai domestici in tono cameratesco; quando butta i cosmetici alla spazzatura, versa i profumi francesi nel bidet, si lava stropicciandosele energicamente le mani nell’acquaio invece di umidirsele appena appena nel lavabo di marmo rosa dell’Afga- nistan coi rubinetti di oro massiccio; quando si burla dei bigodini, irride e spregia i saponi; quando non si lava più, quando non si lava nemmeno nell’acquaio. Quando si trasforma in una sciatta, spetti- natissima, divina negligente con un soupçon – dipende dalle sfu- mature –, ora di proletarismo ora d’intellettualismo: Cielo! come
LE CORDE DELL’ARPA
11
Fabrizio si diverte. Non dice nulla: guarda Letizia e tace. Tace e la guarda come si guarda un fenomeno da fiera, beninteso, o un ado- rabile feto in boccetta: È pazza, – pensa – pazza da legare; oppure si dice: È un mostro, aggiungendo subito con riverenza: Un mostro sacro. E intanto, pur così pensando e dicendosi e accuratamente dissimulando il suo sentire, Fabrizio si mette a seguire Letizia nel cammino in cui ella avanza con tanta eroica fermezza: si lascia crescere i capelli, va con enormemente meno entusiasmo sotto la doccia mattutina, rinuncia ai sali odorosi bagnandosi in vasca, tra- scura le lozioni e gli aftershave, dice «vecchio mio» al barman che gli prepara i martini, sostiene che un buon vino rosso è preferibile al migliore champagne, manda in licenza l’autista e, se ciò avviene in un momento in cui lui e Letizia hanno a disposizione due auto- mobili – possono averne quattro o cinque, perché no, tanto più che dimenticano di vendere quelle che a loro sembrano invecchiate –, per esempio una Mercedes-Benz e una Giulietta Sprint, Fabrizio trascura la Mercedes a vantaggio della Giulietta: anche lui, insom- ma, si sente agitato dalle sottili vibrazioni della Vita Semplice con ben due iniziali maiuscole. E trascorrono gli anni.
Un giorno, uno dei tanti giorni di quella divertentissima soli- tudine a due che è la loro vita, lui si scopre – meglio, glielo scopre lei – un certo qual talento per il disegno, una certa quale passione per la pittura. Vanno a stare a Firenze. A lui Firenze, così di bot- to, non piace affatto. «Mi annoio! – grida disperato. – Mi annoio, Letizia, mi annoio e ho voglia di morire!». Lei sorride tranquilla- mente. «Ma qui –, dice saggissima, – tu potrai consacrarti all’ar- te, che va oltre la noia, credimi Fabrizio, e io potrò aumentare la mia collezione di presse-papiers: gli antiquari son legione». E, siccome c’è lei, in fin dei conti Fabrizio a Firenze non si annoia smisuratamente. Chiusa dunque la vasta, lussuosa, tetra casa di Milano, con l’approvazione densa di riserve del noioso avvocato si stabiliscono nella città degli artisti e degli antiquari in un ap-
CARLO COCCIOLI
12
partamentino bohème all’ultimo piano di un palazzo di piazza Santa Croce. Col tubare e la cacca di due miliardi di piccioni, con un numero incalcolabile di presse-papiers, con parecchia ispira- zione. Il tempo passa, e Fabrizio – la gente ha un prezzo, eh sì, anche nei distretti militari – non fa nemmeno il soldato. Fanno invece amicizia con Giacinta.
Letizia si lega a Giacinta in un’era animalista. Abbandonati i presse-papiers – ne scaglia uno, preziosissimo, spaventando pic- cioni e vetturini, sulla testa del Dante marmoreo che domina la piazza –, ella diventa un bel giorno una sorellina di san Francesco, quello degli animali. Raccoglie i gatti randagi, salva le formicole che stanno per affogare, non si nutre che di verdure, concepisce un enorme, costante, inesausto rancore per il diditì. L’attico tem- pio dell’Arte si trasforma in un giardino zoologico. Le coccola- te lucertole di Letizia si arrampicano sul cavalletto di Fabrizio.
Sulla terrazza, sotto una tettoina affettuosamente improvvisata, bela una capra salvata dal macello in articulo mortis. Fabrizio si diverte. Ritratta Letizia allegra, Letizia triste, Letizia col saio delle clarisse, Letizia «as a prostitute», Letizia con un crotalo o serpente a sonagli arrotolato intorno al collo, Letizia incappottata come per andare al Polo Nord, e Letizia ignuda. Su un canapeaccio mac- chiato di colori e profumato di pipì felina, fra tre tartarughe e due cani Letizia posa ignuda come una delle due Majas di un altro famoso pittore. Gli abitanti dell’infelice palazzo si dividono in due partiti: quelli che adorano la coppia e quelli che meditano sul mi- glior modo di trucidarla. Letizia ride con la sua fauna dintorno, regina della selva, nipote di Tarzan, Diana senza turcasso, cugina in primo grado dell’eterea giovinetta per cui impazzì lo scimmio- ne King Kong.
E un giorno, per la strada, sotto la pioggia fitta fitta di novem- bre ella raccoglie col vigile udito l’appello di un sinistro miagolare.
S’inginocchia sul selciato fangoso per determinare pietosa e affan- nata dove sia la fonte di quell’implorazione animale. Viene, ahimè, dalla fogna: qualche scellerato, è evidente, vi ha gettato un par di
LE CORDE DELL’ARPA
13
gatti neonati. Sdraiata sulla pubblica via, Letizia è disposta a farsi schiacciare dalle automobili pur di salvare le innocenti creature.
Piangendo supplica i passanti che l’aiutino: crudele, la gente sghi- gnazza e non si ferma. Ma non sghignazza, e si ferma, una donna grande, robusta come un albero, come un albero frondosa e ma- tronale, aggressiva, coperta da una specie di tabarro rosso, segui- ta da un giovanotto allampanato che la ripara con un ombrellone di quelli verdi. Sì, è Giacinta. Salvati i bebè gatti, Letizia e Giacinta diventano le migliori amiche del mondo. Il giorno in cui Letizia si stanca del suo zoo personale, Giacinta lo accoglie al completo nella sua villa di San Domenico, sprezzante e comprensiva. «Io lo sapevo», dice guardando dall’altra parte. Giacinta è davvero come gli alberi, che non cambiano o cambiano di rado, maestosamente lenti. L’albero sotto le cui generose fronde si riparano settantasette animali più i piccioni decide che accidenti a lei quel filo d’erba che è Letizia può ragionevolmente essere amato a titolo animale: qua- si fosse il settantottesimo. Convertita in animale, Letizia si lascia amare. Comincia l’era di Giacinta: un’era destinata a non finire.
Giacinta è forse l’unica eccezione alla passionale, intensissima al- talena che contraddistingue la vita di Letizia.
L’altalena fra lo chic e il suo contrario, fra l’eleganza più o meno sofisticata e la rozza negligenza, fra il dandismo e il blusonnua- rismo o teddiboismo che sia – parole inventate da Letizia l’inven- trice –, si mescola è inutile precisarlo con altre altalene la maggior parte delle quali, per non dire tutte, trova in Letizia non solo la scopritrice ingegnosa ma anche la più fervente sostenitrice. Altale- na fra la devozione bigotta, per esempio, e una franca spigliata ten- denza al libero pensiero, quando non addirittura all’ateismo; fra il conservatorismo più gretto e un’alata compassione per i popoli di colore che al giorno d’oggi si stanno affrancando, e sa il Cielo le difficoltà, dal millenario servaggio; fra la ghiottoneria sfrenata, crapulona, e la più austera temperanza; fra la smania di muoversi,
CARLO COCCIOLI
14
muoversi come trottole e non importa dove, e il sedentarismo più simpaticamente poltrone. Tutto ciò con intensità, come crediamo di aver detto, e tanto per non cambiare in misura eroica: Letizia somiglia a qualche musica di Dvořák o di Beethoven o di Purcell.
Metaforicamente accompagnato da squilli di argentee trombe, quell’adorabile pezzetto di cosmo che è Letizia non fa mai nulla, mai nulla pallidamente: non sono pallide, oh paradosso, nemmeno le sue ere di trasparenza. Anche questo termine, da lei carpito e da Fabrizio messo fra virgolette, entra nel loro lessico privato; vi resta. Nelle ere di trasparenza ogni cosa deve avvenire in un modo soave, poco visibile, quasi avremmo l’audacia di affermare che non deve avvenire: parole, gesti, sentimenti, rapporti col mondo este- riore, viaggi, affetti, avversioni, tutto: perfino l’andare al cinema.
Ma la tendenza all’eroismo è talmente inseparabile dalla natura stessa di Letizia ch’ella fa della trasparenza uno stato violento: è debole, quando lo è, in maniera forte; leggiera pesantemente; ine- sistente in un modo turbinosamente esistente. E Fabrizio, lui, si diverte alla follia, e a volte si sottopone al masochistico sforzo di concepire l’orrore di un universo privo di Letizia, la Letizia ch’egli va dipingendo con un globo in mano, col globo terraqueo, fra le stelle che le fanno corona, Letizia misteriosamente diventata un impulso che fa roteare astri e pianeti, Letizia eroicamente tanto.
Perché dire «tanto» e non «tutto»? In realtà, Letizia tutto. Non solo sistema il caos, non solo sgomina la noia; possiede un altro potere, altissimo, forse il più alto: fa dimenticare. Letizia è – seb- bene probabilmente Fabrizio non se lo sia mai detto – una specie di benevola Circe: dispensa oblio. Fabrizio, perché Letizia esiste, non pensa a sé stesso, non guarda nella propria anima, non si vede nemmeno allorché, la mattina, si colloca davanti allo spec- chio per radersi. Letizia riempie tanto il mondo che nel mondo non si scorge altro che lei; nel mondo riempito di Letizia, Fabrizio non scorge nient’altro, e soprattutto non scorge sé stesso.
LE CORDE DELL’ARPA
15
È felice: lo è nella misura in cui non si vede.
Anche quando, ignudo nella sala da bagno, gli capita di getta- re uno sguardo all’immagine riflessa nello specchio, non è il suo corpo che vede, ma quello di Letizia. Se di notte, dormendo, un contatto di carne lo consola, non è carne sua quella che tocca, an- che se fisicamente è carne sua, ma è carne di Letizia: la carne di Fabrizio, come la sua anima, è Letizia.
Per cui gli anni trascorrono, ma in realtà, per Fabrizio, non tra- scorrono: non avverte il passare del tempo – e non ne soffre – chi abbia i sensi felicemente ancorati a una presenza fissa: Fabrizio indenne dall’usura del tempo perché ancorato a Letizia.
Gli anni trascorrono, trascorrono, ma senza esagerare: non ne trascorrono poi cento. Stasera Letizia sta facendosi le unghie sedu- ta su una poltroncina bassa di seta verderame nella camera per- dutamente cossue dell’albergo veneziano in cui, più o meno scon- volgendolo, vivono da tre settimane. Hanno lasciato Firenze, l’ap- partamentino bohème con troppa cacca di piccioni, due mesi fa.
Forse per sempre, forse per un giorno, vivono ora in questo illustre albergo veneziano con molti specchi, molti tappeti lisi, molte tende rosse, molto, moltissimo oro; con vista sul Canal Grande, una cosa stupenda; con l’opaco ciaf ciaf delle gondole; come in una Suite Ita- liana di qualche compositore russo, cioè un po’ spinto, a little too much, con un tocco di malgusto, ma incantevolissimo; con un eser- cito di lacchè uno più dell’altro greve di livree e d’impertinenza, come nelle commedie di Goldoni; eccetera. Hanno lasciato Firenze due mesi fa: lo ha deciso Letizia mentre, una mattina, beveva un succo di pompelmo. «Sei d’accordo con me», ha detto con un’aria di sapienza sfiorata da un’ombra di pedanteria, «sei d’accordo con me nell’affermare che Firenze è intollerabile: meglio, imbuvable?».
«Sì», ha detto Fabrizio, con tanta più convinzione in quanto, nel fondo, non ha mai amato Firenze. «E sei d’accordo con me», ha continuato lei posando il bicchiere col succo del pompelmo, «nel
CARLO COCCIOLI
16
ritenere che la gente civilizzata può solo vivere, ab imo pectore, nei grandi hôtels?». Era un’era, quella, e pardon per l’allitterazione, in cui Letizia faceva non sempre ortodosse acrobazie con espressioni linguistiche latine e straniere: elle en raffolait, ne andava matta.
«Naturalmente!» ha detto Fabrizio, il quale, notando che il bicchie- re col succo di pompelmo era stato deposto sull’edizione bon mar- ché di un noto romanzo di Vicki Baum a proposito di un grand hôtel, ha pensato subito: O mi sbaglio o comincia un’era, l’era degli illustri alberghi. Non si sbagliava.
Il pomeriggio di quello stesso giorno, definitivamente persuasi che vivere in case o appartamenti o ville o attici o mezzanini era ed è il segno della più retrograda inciviltà, dopo avere, con molti sorrisi e qualche lacrimuccia, spedito in campagna la vecchia ser- va e il di lei figliuolo autista e cameriere, Fabrizio e Letizia, più quattordici bauli, sono andati a vivere dove, pare, la gente civiliz- zata vive: in suntuosissimi palaces.
A Genova, a Palermo, a Taormina, poi a Gardone e ad Abbazia con un salto a Montreux per provare il vero sapore dell’autentica patria degli alberghi. Con la più letiziesca volubilità – letiziesca cioè splendida in grado eroico – sono passati disinvolti, distribuen- do mance regali, da edifici modernissimi tutti cristalli e luce a te- nebrosi palazzi antichi col ritratto del proprietario nobile e deca- duto appeso sopra la testa del distinto impiegato della réception.
Il che spiega perché Letizia si stia facendo le unghie nella camera magnifica di un albergo veneziano che è primus inter pares se non primo tout court: il più caro, insomma, della città; e senza levare lo sguardo dalle unghie che va coprendo con uno strato di smalto scarlatto, un colore da cortigiana dell’Aretino, pronuncia una frase:
«Sai? Credo che…».
Non una frase, bensì un moncone di frase: Letizia si arresta. È a Fabrizio, beninteso, che sta parlando. Fabrizio è appena tornato da Firenze dove si è recato, controvoglia, a sistemare una faccenduo- la relativa al tetto dell’attico di piazza Santa Croce, che stando ai marchesi del piano di sotto, mittenti di un inferocito telegramma,
LE CORDE DELL’ARPA
17
faceva acqua, eccome! E non soltanto, a Firenze, egli ha soddisfa- centemente presenziato alla riparazione delle infelici tegole; ha in più, per ingannare la noia mortale di trovarsi lontano da Letizia – perfino Giacinta era assente: andata a ispezionare lo stato fisico dei cani dell’Alaska –, dipinto un quadro che gli sembra, non però senza qualcosa che somiglia all’inquietudine, la sua migliore «ope- ra»; e lo ha intitolato «Fabrizia sempre», Fabrizia invece di Letizia.
Qualcosa che somiglia all’inquietudine: la luce del quadro più che il quadro in sé stesso. La luce di «Fabrizia sempre» – lui non lo igno- ra – ha un sapore di minaccia. Di minaccia? Piuttosto: di fatalità.
E Fabrizio ha fatto il viaggio di ritorno con quella tela sotto, per così dire, il braccio. Contento e molto di tornare a Venezia non per- ché Venezia fosse Venezia ma perché a Venezia c’era lei, Letizia, che lo aspettava. Durante le poche ore del percorso in treno, ha deciso di proporre a Letizia di andare a trascorrere qualche setti- mana in Grecia: per festeggiare «Fabrizia sempre» – ammettendo che un tale capolavoro fosse il caso di festeggiarlo – e a causa di un sogno. Miserevolmente solo nell’appartamentino bohème dal- le tegole già messe in condizione di sfidare e temporali e secoli, egli ha insistentemente sognato uno stesso mare: rinserrato fra due coste dirute, azzurro più della più azzurra pietra dura, sovra- stato da un cielo rutilante, infiammato. La Grecia, no? Hm, hm, la Grecia, ma con una presenza che andava al di là delle caratteri- stiche di un paesaggio determinato: col soffio profondo, viscerale, di un desiderio uguale in intensità alla fiamma brillante di quel cielo. Un desiderio, ma quale? si è domandato, inquieto, Fabrizio;
e credeva di essere ormai desto mentre in realtà continuava a dormire. Un desiderio, quale? – e il non poter rispondere era una pena, e poi finalmente un nome, o meglio il titolo del suo quadro,
«Fabrizia sempre» –, lo ha investito soverchiandolo: come un ago che gli trafiggesse il cuore. Si è accorto – com’è stato brutto! – che il desiderio del sogno – quale, quale desiderio? – era marcato dalla stessa minaccia, dalla stessa fatalità racchiusa nella luce della pit- tura: un anelito, sì, condannato.
CARLO COCCIOLI
18
Destatosi smarrito, quasi dolorante nel fisico, coi nervi irti, con la pelle eccitata, è stato tentato di telefonare subito a Venezia ma non lo ha fatto, ha maledetto Firenze e poi, più calmo, ha cercato di prendere la visione angosciante alla leggiera: Andremo in Gre- cia, si è detto, e questo è tutto. Non aveva il suo sogno, in un certo senso, il valore di un manifesto turistico? No, non lo aveva, ma lui ha voluto credere che lo avesse. Un manifesto turistico; punto e ba- sta. E «gre-cia-gre-cia-gre-cia» gli è sembrato stesse dicendogli il treno che lo trasportava verso Venezia e la camera d’albergo dove lei, Letizia, lo attendeva scoprendo o inventando cose, secondo il solito, e rendendo ammirevolmente pazzo il mondo, sistemando il caos e sgominando la noia, dispensando, Circe benevola, il suc- co dell’oblio. In breve: letiziando cielo e terra. Sceso finalmente alla tanto sospirata stazione, Fabrizio è entrato spiccando un salto, la valigetta da una parte e la tela di «Fabrizia sempre» dall’altra, in una gondola più nera della morte perché ridipinta a nuovo, al cui gondoliere ha gridato: «Presto, presto!», buttandogli in viso il nome dell’illustre albergo.
Ma, giuntovi col cuore in gola, entrato en coup de vent nella camera di lei, dopo averla abbracciata e baciata venti volte quasi non la vedesse da dieci anni, dopo averle tirato i morbidi capel- li e averle detto qualche frase confusa circa le tegole riparate e nulla affatto, per non sciupare l’effetto della sorpresa, del quadro che la stupirà, Fabrizio vede Letizia sedersi sulla poltroncina bas- sa di seta verderame, aprire il flacone del cortigianesco smalto scarlatto, prendere con la mano destra, attentissima, il pennello minuscolo; e poi, mentre un primo strato di vernice aderisce alle unghie non più pallide, al contrario in fuoco, la testa bassa, l’aria pensosa, remota, ella comincia una frase:
«Sai? Credo che…»
che lascia in sospeso, senza levare la testa, un attimo o un’eternità, e lui, in piedi presso di lei, verso di lei proteso, si sente riafferra- to, un attimo o un’eternità, dall’angoscia del sogno – il desiderio, l’anelito condannato –, e lei termina la frase con un filino di voce:
LE CORDE DELL’ARPA
19
«… che sposerò Ramón».
E lui immediatamente diventa uno zombi: uno dall’anima vuota.
Diventa una di quelle «cose» di cui hanno appreso l’esistenza – dato e non concesso che si possa parlare di esistenza a proposi- to di entità caratterizzate dal fatto di non esistere – da Giacinta.
Fabrizio-zombi resta immoto e muto. Chi è mai Ramón? vorrebbe gridare. Vorrebbe convertirsi in un grido tale da scuotere l’uni- verso ridiventato caotico: Chi è mai Ramón, chi è mai Ramón, chi è mai Ramón, ma non riesce nemmeno a dire «chi è» e solamen- te un’eternità o un attimo dopo gli esce dalla gola un grottesco
«chiii» che risuona come una cornetta arrugginita nel silenzio at- tonito della notte che gli è caduta addosso. E del resto chi sia Ra- món lui lo sa, siamo sinceri, quantunque lo sappia appena: forse non lo hanno conosciuto qualche giorno fa, Letizia e lui, mentre in piazza San Marco, cioè in una piazza in cui non vanno mai, sta- vano prendendo un cappuccino, bevanda che non prendono mai, in un caffè in cui non avevano mai messo i piedi prima di allora?
Oh maledette coincidenze, maledette! Un quarto d’ora prima di conoscerlo, forse nemmeno un quarto d’ora prima, già seduti al maledetto tavolino del maledetto caffè di quella maledetta piazza – c’era, fra l’altro, un’umidità spaventosa –, hanno parlato, figurar- si, di capelli; lei ha detto a lui, giocando col cucchiaino: «Fabrizio, hai il sistema pilifero intellettuale», col tono di chi arriva a una scoperta gravida sommamente di conseguenze. Lui non ha capito, o ha capito poco, ma ha sorriso. Forse, nel momento di pronun- ciare l’oscura frase a proposito – può darsi – dei capelli biondi e lisci di Fabrizio, Letizia aveva già posto gli occhi, perché no? sul sistema pilifero cioè sui capelli di quell’ancora sconosciuto gio- vane Ramón, che, occupando un altro tavolino di quel maledetto caffè semideserto – c’era molto umido, ma non faceva freddo, per disgrazia –, aveva al contrario i capelli «barbari», come lui stesso
CARLO COCCIOLI
20
avrebbe dichiarato, con l’aria di scusarsene, un momento più tar- di: color catrame, tanti da poterne regalare a tutti i calvi del mon- do, compatti sulla fronte e duri più del crine: orrore e meraviglia.
Oh! Maledetti peli, maledetti.
Quella mattina in quel caffè di piazza San Marco, andato a comprare un maledetto pacchetto di sigarette – lui che quasi non fuma! –, Fabrizio ha visto, nel tornare, che Letizia scambiava qualche parola col giovane seduto al tavolo accanto; lo ha notato distrattamente e ha perfino creduto, in modo vago, che si trattasse di un Argentino; poi, quando l’Argentino ha rivelato essere un Messicano, a lui sono venute alle labbra le parole della canzonetta che dice:
La cucaracha, la cucaracha, Ya no puede caminar,
porque no tiene, porque le falta, marihuana que fumar.
«Usted habla español?» ha detto con una certa eccitazione il giovane straniero. Fabrizio ha detto: «No», senza aggiungere che l’aveva studiato in Svizzera anni prima. «Ma pero conose la can- sione de la cucaracia», ha detto il giovane che non era argentino ma messicano. «Qualche parola», ha detto Fabrizio, indifferente. E l’altro: «Ay, poberina cucaracia!».
«E perché poverina? – ha detto Letizia sommessamente. – E cucaracia non significa scarafaggio?». Rivolgendosi più a Fabrizio che a lei, il giovane ha mormorato:
«Perché quando uno è acostumbrado, abituato, a la marihua- na, y no la tiene, allora…».
Non ha terminato la frase.
Vent’anni, stando alle apparenze, e piccolo, massiccio, assai elegantemente vestito, con una lenta voce rauca che pareva uscir- gli dal ventre, Ramón – si chiamava Ramón – seduto su una seg- giola scomoda di quell’umido caffè immiserito dall’autunno guar-