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I primi a crollare: cronache dalle Solovki, le isole-gulag che hanno distrutto e riscoperto l uomo

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Academic year: 2022

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I primi a crollare: cronache dalle Solovki, le isole-Gulag che hanno distrutto e riscoperto l’uomo

Riccardo Arena presenterà negli spazi della Galleria Milano, in collaborazione con cheFare e

Viafarini, il suo ultimo progetto a lungo termine dal nome ‘LuDD! – Topografia della Luce’, che trova la sua prima forma in un un poema metafisico di carattere narrativo suddiviso in ventuno capitoli ispirato da una serie di ricerche condotte tra Iran, Armenia ed Etiopia.

In Russia c’era un detto: “Quello che avviene oggi alle Solovki avviene domani in tutto il Paese”.

Le Solovki sono un arcipelago di isole a ridosso del circolo polare artico, emerse nel mar Bianco dopo un lungo processo geologico che percorre due ere glaciali. Nel corso dei millenni, la

molteplicità degli eventi che hanno attraversato questi territori, ha esercitato un’influenza tale sulla storia della Russia da esser state considerate un oracolo geografico le cui vicissitudini anticipavano le future trasformazioni di un intero e sterminato Paese presagendone il destino.

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Un’isola che si è fatta santuario di culto e iniziazione, teatro di battaglie economiche e ideologiche, spettatore silenzioso dell’abiezione umana, tempio per la redenzione e calvario, testimone di distopie totalitarie e dimora mistica per l’ascesi spirituale. Col passare del tempo questa misteriosa

costellazione di isole è diventata meta di pellegrinaggio e il simbolo del “vero cuore dell’anima Russa”.

Le antichissime culture del mar Bianco raggiungevano le Solovki per compiervi riti di iniziazione, la cui intensa attività, ha lasciato innumerevoli monumenti religiosi e funerari composti da massi erratici, petroglifi, incisioni rupestri, cumuli di terra, rocce antropiche e trentacinque impressionanti labirinti, annoverati tra i più grandi del mondo, la cui funzione e periodo di costruzione sono oggetto di controverse teorie. Un vasto “santuario di pietra” mai abitato in maniera continuativa, a

testimonianza del fatto che, a detta degli archeologi, questi luoghi erano considerati dalle prime popolazioni come il punto di contatto e separazione tra la dimensione terrena e quella ultraterrena.

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Dopo esser state disabitate per secoli, tre monaci ortodossi, Savvatij, Herman e Zosima vi giungo nel 1435 alla ricerca di un luogo inaccessibile per dedicarsi in eremitaggio al loro percorso ascetico.

Dalla loro esperienza nasce una comunità monastica che nel corso di cinque secoli darà vita al centro economico, politico e spirituale più importante delle regioni del nord modificando radicalmente il paesaggio dell’arcipelago attraverso la costruzione di imponenti cattedrali, ciclopiche fortezze e opere di ingegneria estremamente avanzate, tra cui un articolato sistema di chiuse e canali per collegare i centinaia di laghi presenti sull’isola, che entra a far parte del patrimonio UNESCO nel 1992.

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A dispetto del passato, oggi nel nome delle Solovki riecheggia l’origine di uno capitoli più oscuri, drammatici e agghiaccianti della storia russa. Con la vittoria della rivoluzione bolscevica del 1917, sulle isole viene istituito un carcere per la “riabilitazione” dei dissidenti politici e prigionieri di guerra che in pochi anni subirà diverse fasi e trasformazioni fino ad assumere la sua forma definitiva nel 1923. Le campane smettono di suonare, le cupole delle cattedrali ghigliottinate, le croci e gli altari crollano, il clero schiavizzato e ucciso, e il Cremlino viene spogliato da tutti gli elementi liturgici per ospitare il centro amministrativo dello SLON (il lager a destinazione speciale delle Solovki.)

Tramite la prigionia, la tortura e la morte di più di un milione di persone, all’interno dello SLON vennero sperimentate tutte quelle normative, metodologie e pratiche di terrore psicofisico che in seguito furono organizzate nel sistema Gulag, una fitta rete di campi di lavoro coatto che dagli anni trenta si diffuse in tutto il regno sovietico contribuendo a incrementarne l’economia tramite

l’asservimento di milioni di detenuti, mascherato al paese come pratica di riabilitazione sociale. Un tentacolare sistema di coercizione massiva dominato da un regime feroce e spietato, affinato a tal punto da esser stato usato come caso studio dai nazisti per la progettazione dei propri lager.

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È al di sopra delle mie capacità poter dare una sintesi che sia in grado di suggerire anche solo una sensazione vaga di quella che era la “vita” all’interno dello SLON e dei suoi perversi e articolati meccanismi, quindi mi limito a trascrivere alcuni estratti dalle memorie dei pochi superstiti, una sequenza di visioni di un lungo e interminabile incubo che assolvono in frammenti alla coscienza del risveglio[1]:

“Arrivavamo alle Solovki senza aver alcuna idea di cosa fossero, senza sapere che si chiamavano Isole delle Lacrime” … “Ispira un senso di orrore il silenzio mortale di 70 uomini” … “annichiliti dalla sensazione di aver toccato il fondo dell’inferno mettendo piede alle Solovki” … “Una lacerazione che arriva alla schizofrenia tra realtà e utopia, un gigantesco manicomio che riproduce la follia imperante dell’intero paese” … “In un ambiente freddo”… “venivano stipati fino a 300 uomini scalzi, seminudi e sudici.

Ammucchiati sui pancacci e sul pavimento”… “in quella stanza spaventosamente umida, i disgraziati reclusi formavano “gruppi di calore” a quattro o a sei persone” … “grovigli di corpi umani attorcigliati l’uno contro l’alto”… “L’abbiamo scosso per risvegliarlo”…

“probabilmente è rimasto soffocato: era finito in uno strato più in basso” … “Nel campo N.45 nei lavori di disboscamento i detenuti erano costretti a ingoiare gli escrementi, agli ufficiali incidevano le mostrine sulle spalle, e quelli che invocavano il nome di Dio

venivano crocifissi nudi. Nel campo N.129 i cekisti se la passavano mutilando gli uomini, spezzando loro le ossa, martoriandoli all’impossibile. Lì evidentemente lavoravano ex carnefici della Ceka di Mosca, veri malati psichici”… “Un dolore intollerabile, sordo, opprimente in tutto il corpo. I piedi sembravano di piombo. Davanti agli occhi cerchi neri, lampi di luce. Nella testa ottusa neppure un pensiero. Mi muovo come un automa, ho perso la cognizione del tempo e dello spazio. Invano cerco di raccapezzarmi: da quante ore lavoriamo? Adesso è giorno o è notte?” … “Morivano assiderati lavorando ininterrottamente nel bosco senza turni di riposo, oppure si tagliavano le mani e i piedi, o si buttavano sotto un pino mentre cadeva, o si impiccavano agli alberi”… “Allora le faccio vedere le “collane dei delinquenti” disse con uno strano sorriso. E me le mostrò. A

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entrambi i lati delle porte di ciascuna delle tre baracche vidi delle “collane” fatte di dita e di mani tagliate, infilate in uno spago” … “Per quanto dura fosse la sorte degli uomini, cento volte più gravosa e desolata era la sorte delle donne. Era inevitabile. La donna passava di mano in mano, scendeva sempre più in basso, perdendo gradualmente la sua dignità di persona umana e trasformandosi in merce viva”… “Non era solo la paura della morte, ma ribrezzo, orrore davanti all’infamia di quella morte per mano di un boia mezzo ubriaco, una morte oscura, squallida, una morte da cani” … “Il senso di impotenza di asservimento, di cattività, non abbandonava neppure per un istante l’intimo della mia coscienza e rendeva intollerabile quella paura”… “Devi dirti sulla soglia: la tua vita è finita, un po’ troppo presto, ma non ci puoi far nulla” … “Non ho più beni. I miei cari sono morti per me e io per loro”… “Rimangono a me cari e importanti soltanto il mio spirito e la mia coscienza”… “Vincerà solo chi avrà rinunziato a tutto. Ma come trasformare il corpo in pietra?”

“Qui finisce il potere dei Soviet e inizia il potere delle Solovki!” veniva gridato ai nuovi detenuti sbarcati sull’isola dopo il viaggio dal porto di Kem.

Le Solovki sembravano determinare un confine tra due dimensioni distinte e inconciliabili: alle spalle si chiudeva la porta di una realtà conosciuta, un mondo basato su rapporti, relazioni e criteri

familiari; e davanti al volto, si dischiudeva un regno dominato da forze oscure e selvagge, una realtà inconcepibile, organizzata secondo una logica efferata e arbitraria, regolata da leggi ignote fino a quel momento.

Al lager venivano condannati tutti quei soggetti sospettati di compiere “attività

controrivoluzionaria”contro il regime, la cui forbice di applicazione si apriva potenzialmente e indiscriminatamente a ogni individuo: politici, scienziati, operai, criminali, artisti, intellettuali, soldati, sacerdoti, medici e ingegneri, una volta fagocitati nel “tritacarne”, accedevano a un

paradigma sconosciuto, in cui i concetti appresi durante la propria esperienza si scoprivano inutili e inapplicabili. La fame, la tortura, l’abuso e l’umiliazione, erano pratiche impiegate allo scopo di

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mortificare ogni valore e qualità personale che caratterizzava ciascun individuo nella società dell’”altro”mondo, ormai lontana e inaccessibile. Dalle testimonianze si intuisce chiaramente che, giorno dopo giorno, le persone venivano livellate a una massa umana indistinta che andava ad alimentare una fiumana disarticolata fisicamente, psicologicamente e spiritualmente, declassata al comune denominatore meccanico di istinto e sopravvivenza.

Ma nelle stesse memorie affiorano dei lumi che prendevano a risplendere nella oleosa e disperata oscurità dell’abisso, la cui iridescenza rifulgeva con ancor più vigore con l’addensarsi delle tenebre.

L’impatto emotivo che mi ha provocato la documentazione di questo sistema votato a far “a provare disgusto per tutto ciò che avesse il minimo rapporto con la parola vita”[2], è stato di pari intensità con la scoperta di questi rari casi di umanità “sopravvissute” all’annichilimento.

Dopo il primo periodo di “quarantena morale”, la maggior parte delle persone private dai loro contesti sociali, ambienti affettivi e strumenti culturali, si confrontavano con una parte di se stessi sconosciuta, un abitante segreto in grado di compiere azioni spietate e degradate mosse dall’impulso di conservazione; ma al contempo vi era una minoranza che dimostrava un’incrollabile volontà e resistenza, persone i cui valori morali rimanevano indenni alle contingenze, se non addirittura elevati dalla sventura, sopravvivendo al loro corpo e alla loro stessa vita. Ed è stata fonte di

riflessione riconoscere che molti tra questi individui erano monaci e figure spirituali, le cui esistenze si consumavano silenziose nella buia notte polare.

Nonostante la mancanza di sostentamento, l’umiliazione reiterata e la sradicazione dal loro ambiente protettivo e da ogni segno di contraddistinzione, questi martiri continuavano a praticare culti

clandestini tramutando i nodi degli alberi in icone contemplative, i massi erratici in altari, i boschi di abeti rossi in santuari e le muschiose radure in cattedrali per celebrare il culto, e tramite questo, non farsi scalfire nel profondo per essere di sostegno e conforto a tutti i disgraziati.

Mi riesce difficile non provare un “grande brivido” dall’incontro con queste testimonianze che

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costellano solitarie le memorie del lager, una vertigine per rimpicciolimento davanti alla grandezza di certe esistenze. Queste esperienze di centratura granitica, suscitano in me la sensazione di trovarmi di fronte alla conseguenza di un processo di costruzione votato all’elevazione di se stessi attraverso un percorso culturale fondativo. Il risultato di una edificazione interiore che non è

conseguibile tramite un’articolazione di sofisticate riflessioni, di conquiste materiali e intellettuali, o da uno status conferito rispetto alla scala di valori sociali di una determinata epoca. Tale processo di nobilitazione personale per sua natura non può essere dichiarato, teorizzato o elargito, ma

esclusivamente messo alla prova.

La tribolazione delle Solovki sembra materializzare geograficamente una prova inimmaginabile e sovrannaturale, che sottraendo i detenuti da tutto quello che precedentemente determinava la propria apparenza nel mondo, li obbligava al raffronto con l’immagine reale di sé stessi. L’isola delle lacrime sperimenta i principi del loro essere e il grado di resistenza delle qualità fondamentali costruite attraverso il lavoro compiuto prima di varcarne il confine.

Un lavoro rivolto verso il regno interno, intimo, gravoso e meticoloso, il cui scopo ultimo è la

liberazione dalla prigione di proiezioni e attaccamenti esterni attraverso il sacrificio di tutto ciò che per la comune coscienza è imprescindibile, primario e capitale. Un percorso che si realizza nella riconciliazione con il proprio centro nascosto ed essenziale, trasformando la propria consapevolezza in uno stato di coscienza tale da non temere più il dominio delle circostanze.

Schiacciate con la forza contro le pareti ultime dell’esistenza, la vite di queste umanità hanno dato la prova tangibile delle reali conseguenze di un lavoro più alto, la testimonianza di una cultura umana, che reintegrando la cultura con il culto, ritrova la radice originale che ne palesa i propositi più profondi: “l’insieme delle attività volte a far germogliare e crescere una pianta fino all’eventuale momento del raccolto dei loro frutti, o della loro potatura”.

Il loro esempio è una dimostrazione vivente di quando tali frutti diventano trasparenza, presenza e fosforescenza, la cui caratura si rivela attraverso la qualità della lega aurea di chi se ne fa portatore.

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Ed è attraverso la rivelazione di questi individui inviolabili che le Solovki mostrano la loro reale funzione: svelando al mondo la vera e intima forma dell’isola, spogliano il passato dei rituali

preistorici, della cultura monastica, e della realtà del lager delle loro contingenze temporali, sociali e geografiche per manifestare l’immagine originaria che le ha emanate, l’essenza simbolica che le annoda, intesse e trascende:

“La bellezza del creato è l’entrata del labirinto.

L’imprudente che vi entra,

dopo pochi passi non sarà più capace di ritrovare l’uscita.

Sfinito, senza nulla da mangiare né da bere, circondato dalle tenebre, separato dai Suoi e da tutto ciò che ama e conosce,

cammina alla cieca, senza speranza,

incapace perfino di rendersi conto se veramente cammina o se gira su se stesso. Ma questa sventura è nulla in confronto al pericolo che lo minaccia.

Se non si perde d’animo, infatti, se continua a camminare,

arriverà senza dubbio al centro del labirinto.

E qui Dio lo attende per divorarlo.

In seguito ne uscirà, ma cambiato,

trasformato,

poiché sarà stato mangiato e digerito da Dio.

Resterà allora vicino all’entrata,

per spingervi con dolcezza coloro che vi si accostano.”

Simone Weil, Waiting for God

[1] Gli estratti sono stati trascritti dalle memorie di Semën Vasil’evič Smorodin, Zajcev I.M., N.

Kiselev-Gromov, Olga Jafa, Boris Širjaev, Dmitrij Sergeevič Lichacev, Aleksandr Isaevič Solženicyn riportate nei libri di: Jurj Brodskij, Solovki. Le isole del Martirio; Anne Applebaum, Gulag; Arcipelago Gulag, Aleksandr Isaevič Solženicyn; Pavel Florenskij, Non Dimenticatemi1(2)

[2] Dmitrij Sergeevič Lichacev

Il silenzio necessario dell’artista nomade

Riccardo Arena

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Da 5 anni cheFare cura un programma di incontri sulla trasformazione culturale al festival

mantovano FattiCult (Fattidicultura). Quest’anno – dopo un incontro sui mestieri della cultura con un centinaio di ragazzi delle scuole superiori – abbiamo riunito attorno ad un tavolo tre figure

eterogenee per riflettere sul rapporto tra spazi, rigenerazione urbana e cultura: l’architetta e attivista milanese Federica Verona, l’urbanista e film-maker berlinese Lorenzo Tripodi e l’artista nomade Riccardo Arena.

Perché questa scelta? Negli ultimi anni il dibattito sul senso politico, sociale e culturale della

rigenerazione urbana si è fatto sempre più esteso ed approfondito. Secondo noi di cheFare è urgente iniziare a guardare ai grandi processi di trasformazione urbana anche con occhi diversi da quelli dell’urbanistica, della sociologia e dell’economia. Per questo ci siamo rivolti a tre sguardi differenti e trasversali che si interrogano sul senso dei luoghi e su come cambia questo senso al mutare della città.

Questa è la terza di una serie di brevi interviste in cui esploriamo alcuni degli aspetti toccati nei loro interventi (qui le interviste a Federica Verona e Lorenzo Tripodi).

Riccardo Arena è un artista che in oltre vent’anni di carriera ha esplorato linguaggi e strumenti diversi in lunghi progetti in Cina, Russia, Argentina, Armenia, Etiopia e Iran. Ha sviluppato un metodo di lavoro che si basa sulla raccolta e lo studio di materiali dei luoghi che forniscono poi la base di installazioni, collages, film, testi, lecture e workshop; un percorso di tessitura continua incredibilmente stratificato, contraddistinto da uno sguardo allo stesso tempo impregnato di presente e proiettato verso traiettorie di simboli.

Il tuo lavoro come artista ti ha portato in posti lontanissimi tra loro, che hai indagato con linguaggi e strumenti apparentemente molto diversi, cercando storie che li hanno attraversati o che potrebbero averlo fatto. Cosa unisce queste ricerche? Qual è il ruolo dello spazio, e quale quello dei luoghi?

Da un certo momento in poi, dopo una serie di riflessioni nate principalmente da un senso di insufficienza del mio modo di procedere nel lavoro creativo, ho cercato (per quanto possa essere apparentemente scontato) delle modalità che mi permettessero d’impiegare il mio lavoro come

“strumento” per arrivare a un maggiore arricchimento, stupore e nutrimento personale; cercando, e non sempre riuscendoci appieno, di prestare attenzione alla qualità dei processi.

Come veicolo d’indagine ho scelto quello a me più affine: il viaggio. Dal 2006 mi sono dedicato alla formulazione di esperienze in differenti Paesi del mondo caratterizzate da tempi di elaborazione dilatati, i cui contenuti si manifestano e sviluppano attraverso l’ordito di ricerche ed eventi che nascono durante il procedere e le cui formalizzazioni diventano un’eventuale conseguenza del percorso, più che l’obiettivo.

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“C’è sempre un evento scatenante che crea il viaggio, una scintilla di cui è ignota la

provenienza, un’intuizione che dà vita a una circostanza di percorsi che procede per

tentativi.”

C’è sempre un evento scatenante che crea il viaggio, una scintilla di cui è ignota la provenienza, un’intuizione che dà vita a una circostanza di percorsi che procede per tentativi. È un’impresa che si ripete, ricorsiva, che continuamente si riavvia, si mette in crisi e procede per fallimenti, ritorni, stasi e rivelazioni.

Questi percorsi hanno sempre a che fare con una ricerca e un ascolto paziente. Il materiale raccolto durante la ricerca, di qualsiasi natura sia, è esso stesso una guida che indica le successive direzioni da seguire e la sua accumulazione non imbonisce un archivio statico, ma alimenta una forma viva, dotata di forza propria, che nelle sue corrispondenze interne rivela un disegno celato. Lo scopo del viaggio quindi è il tentativo di far emergere questo disegno in latenza.

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In questo senso considero il viaggio come una riscoperta, un ritrovamento di qualcosa che era già presente. Le distanze percorse nel mondo esterno hanno sempre una reciprocità nella dimensione intima. Nel viaggio cerchiamo luoghi che sono già presenti in noi, sedimentati in una zona

dimenticata; e lo stupore provato nello scoprirli è la gratitudine della loro riscoperta.

Questa riscoperta si manifesta in circostanze che non possono essere determinate a priori e che hanno la necessità di tempi propri. Emergono spontaneamente attraverso stati d’animo, eventi e luoghi precisi in cui il confine che separa il mondo dal suo mistero si fa più sottile, trasparente e offre così la possibilità di scrutare per brevi momenti la sua “immagine” interna. Una visione che

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non ci appartiene mai veramente: possiamo solo limitarci a creare delle condizioni per accoglierla.

“Le distanze percorse nel mondo esterno hanno sempre una reciprocità nella

dimensione intima.”

Il mio interesse quindi nelle diverse storie e geografie è in realtà subordinato alla ricerca delle tensioni che muovono questi elementi da “dietro le quinte”, tensioni che hanno la capacità di unire dimensioni e tempi distanti tra loro. Nonostante ogni progetto proceda da geografie ed eventi specifici che determinano i caratteri fisiognomici della narrazione, i loro contenuti più profondi cercano di trascendere le contingenze, e spesso diventano a-temporali e a-geografici.

Per questo motivo non riesco a trovare una netta demarcazione tra i concetti di spazio, luogo, paesaggio e cultura; li vedo piuttosto come fenomeni interdipendenti che si influenzano

vicendevolmente, espressioni di organismo in trasformazione perpetua, le molteplici forme generate da una forza psico geologica che modella il territorio e le culture che vi abitano, donando loro senso e significato attraverso il movimento.

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A Mantova hai evidenziato molto chiaramente come il paesaggio sonoro della città contemporanea sia sovraffollato, e come l’esperienza di trovarsi in un ambiente privo di rumore stia divenendo sempre più rara. Come si riflette questa condizione nella tua ricerca (non solo su quella artistica)?

A Mantova una parte del mio intervento sul tema “rigenerazione degli spazi urbani” partiva da una riflessione su quell’elemento tenuto meno in considerazione nella pianificazione e riorganizzazione degli spazi urbani, ovvero la dimensione del silenzio e l’organizzazione dei suoi luoghi.

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A tal proposito avevo osservato come, a mio avviso, le chiese che costellano le città siano le uniche isole architettoniche rimaste dove il silenzio è organizzato in una maniera specifica.

Non è il silenzio delle biblioteche, imposto come una regola funzionale allo studio o quello dei parchi pubblici, che ci coinvolge nell’emotività delle stagioni, né quello delle gallerie e musei dove

potremmo addirittura imbatterci nel silenzio concettualizzato ed estetizzato delle riflessioni di Duchamp e Cage. E nemmeno il silenzio per raggiungere la reintegrazione dissolutiva attraverso il Satori nei templi orientali presenti nelle città occidentali, dove per accedere bisogna passare da tesseramenti, quote d’iscrizione e appuntamenti da incastrare settimanalmente.

“Le chiese che costellano le città sono le uniche isole architettoniche rimaste dove il silenzio è organizzato in una maniera

specifica.”

Se facciamo lo sforzo di spogliare l’architettura delle chiese da tutte le componenti liturgiche che gravano sul nostro immaginario (uno sforzo difficile, in quanto tra tutte le istituzioni religiose, il cattolicesimo sembrerebbe l’istituzione più respingente) quello che rimane è un luogo dagli spazi generosi, dai soffitti alti e sopportabili, un ambiente solitamente pulito con una penombra

carezzevole, accessibile durante la maggior parte del giorno e soprattutto gratuito, un luogo discreto dove poter sostare per brevi momenti senza dover necessariamente “fare” e in cui avere la

possibilità di non dover “essere” senza fornire giustificazioni di sorta.

In tutti questi aspetti riconosco l’unicità del silenzio delle chiese. Uno spazio di sottrazione attiva e anonima dall’incombenza del dover giustificare il nostro operato di fronte a un’entità a noi ignota, dalla sovrastimolazione percettiva dell’industria dell’immagine in cui siamo immersi e dalla

maschera sociale che gioco forza siamo costretti a indossare, così aderente che ci porta in molti casi a identificarci con essa. Tendo a credere che senza un’educazione al valore del silenzio e senza la possibilità di accesso a spazi laici dedicati a esso, non ci possa essere neanche il tempo qualitativo per assorbire, filtrare e soprattutto essere nutriti da tutti quegli stimoli percettivi, relazionali e produttivi in cui siamo costantemente coinvolti sia come parte attiva che passiva.

Per rispondere infine alla tua domanda, credo che l’importanza di momenti di quiete e silenzio attivo non siano solamente una premessa necessaria alla mia attività artistica, ma un presupposto

fondamentale a qualsiasi attività di ogni individuo. Un bene che ora più che mai dovrebbe essere considerato di prima necessità nel ripensare gli spazi urbani che abitiamo, e istituzionalizzandolo come un valore al pari di altri, avremmo forse la possibilità di alleviare quel timore che ci porta a riempire in maniera ossessiva ogni spazio del nostro quotidiano lasciato vuoto.

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