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132 PARTE SECONDA ANALISI DELLO STATO DI FATTO E PROGETTO DI RECUPERO, RESTAURO E RIFUNZIONALIZZAZIONE

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PARTE SECONDA

ANALISI DELLO STATO DI FATTO E

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CAPITOLO 4

IL RESTAURO E IL RECUPERO DEL PATRIMONIO EDILIZIO

L’Italia è un Paese in cui, ad oggi, si riscontra una sovrabbondanza di edifici in rapporto alla popolazione e alle attività, produttive e non, presenti e operanti sul territorio. I processi storico – sociali che hanno portato all’abbandono di una parte dei fabbricati sono molteplici, così come le tipologie edilizie interessate da questo fenomeno.

La storia urbanistica ed edilizia del territorio italiano inizia con gli Etruschi e continua con i Romani e per oltre due millenni ha segnato e modellato il nostro panorama. Ciascuna fase storica ha, come nodo focale, il sistema di potere (sia questo economico, politico, religioso o militare) che ne caratterizza e ne plasma l’assetto sociale e la conseguente distribuzione della popolazione.

Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente venne meno quell’organizzazione sociale che aveva condotto all’accentramento della popolazione nelle grandi città dell’Impero e nelle cittadine; l’avanzata dei “barbari” provocò, contestualmente, una sostanziale rivoluzione urbana che portò all’inizio dell’età dei castelli. Nel periodo che va dal V all’VIII secolo d.C. sorsero in Italia, come in tutto il resto di quello che fu l’Impero Romano d’Occidente, una moltitudine di castelli e fortezze, sviluppatisi intorno alle torri d’avvistamento erette dai “barbari invasori” per proteggere e controllare le loro nuove conquiste.

Durante questi secoli, anche il nostro territorio fu caratterizzato da un progressivo e continuo abbandono delle città, con un graduale allineamento al nuovo potere e alla nuova struttura sociale presente; l’assenza di un potere forte, come era stato quello imperiale, rappresentò, appunto, la causa prima della nascita e del successivo sviluppo dei castelli e dei borghi che sorgevano nelle loro immediate vicinanze.

A queste strutture militari si andarono ad affiancare altri luoghi di potere intorno ai quali parimenti sorgevano, via via, piccoli centri abitati: le chiese ed i conventi. In tutta Europa la capillare diffusione delle chiese e delle pievi rurali andò ad influenzare notevolmente l’urbanizzazione del territorio.

Quanto appena descritto è solo uno dei fenomeni che hanno plasmato la nostra terra nel corso dei secoli ed hanno fatto sì che alcuni edifici venissero abbandonati, altri costruiti o riedificati in funzione dell’economia e della struttura di potere.

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In virtù di questa rilevanza del patrimonio edilizio esistente, fin dall’Ottocento si è operato, a livello sia nazionale sia internazionale, per garantirne il rispetto e la tutela.

4.1 La storia del restauro

4.1.1 Le origini del restauro

Risulta difficile una trattazione storico-critica del restauro e della storia del restauro. Nei tempi antichi, ovvero nell’Età Classica, in un certo senso vi era già la necessità di restaurare elementi architettonici o beni artistici di epoca precedente, ma nella cultura di allora il restauro era considerato un atto di completamento di opere non terminate, oppure una ricostruzione con utilizzo di forme più grandiose o seguendo i dettami del gusto o delle nuove esigenze funzionali1. Gli esempi sono innumerevoli e spaziano dal campo militare a quello religioso, da quello urbanistico a quello privato, senza dimenticare quello artistico-culturale.

La ragione di una simile visione del “restauro” dipendeva anche dal fatto che nella Roma classica la costruzione e, per ovvia concatenazione, la ricostruzione, così come il fare arte in senso lato, non erano considerate attività nobili e nobilitative, bensì di mera spettanza degli schiavi, i quali ne divenivano semplici esecutori al servizio della classe dominante2. Ciò, ovviamente, è da intendersi relativamente all’effettiva esecuzione materiale dei lavori, mentre, come sappiamo, la progettazione architettonica era una pratica non disdegnata dagli imperatori.

Al restauro si affiancavano, inoltre, la conservazione e la manutenzione del patrimonio edilizio e culturale con lo scopo di conservare la memoria e celebrare il potere imperiale; attività che, sebbene ritenute marginali, apportarono il maggior contributo nella definizione del restauro moderno.

Con la caduta dell’Impero Romano e per tutto il periodo medievale il Restauro si rivolse esclusivamente al culto divino, rispecchiando nell’opera architettonica ed artistica il processo di temporalizzazione della Chiesa cristiana. In questa nuova ottica, stante l’esigenza di “cristianizzazione” di elementi esistenti e già emblema del potere

1 G.G.A

MOROSO, Materiali e tecniche nel Restauro, Dario Flaccovio Editore, Palermo, 1996, p. 13.

2

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politico, militare o religioso del passato3, vi fu un capillare fenomeno di trasformazione e riadattamento di edifici classici secondo il nuovo potere religioso: il Colosseo4 (in età più tarda), il Pantheon5, le Terme di Caracalla6, il Tempio della Concordia nella Valle dei Templi di Agrigento7 (tutti, lo si noti, aventi destinazioni d’uso assai diverse tra loro) furono convertiti in edifici di culto; il Teatro di Marcello divenne, nel corso del Medioevo, un castello fortificato e così via.

Il disprezzo per il mondo pagano e per i poteri precedenti culminava nello sfruttamento del materiale da edifici e monumenti per la costruzione di nuovi organismi architettonici. La spoliazione dei monumenti antichi, avviatasi in età romana, nel Medioevo esso assunse proporzioni preoccupanti.

Successivamente, con l’emanazione della bolla “Cum albam nostrem urbem” di Pio II, fu rivolto più rispetto alla cultura e alle testimonianze storiche dell’arte e del potere del passato. Questo documento è considerato dagli studiosi il primo approccio moderno alla tutela dei monumenti8.

I Papi, che in epoca medievale furono responsabili della demolizione degli edifici preesistenti e non cristiani, rivestirono il ruolo opposto di sostenitori della conservazione dei simboli della Roma Imperiale. Questa inversione di tendenza trovò ragion d’essere in una nuova visione dei monumenti della Roma antica; essi non erano più visti come simbolo ed emblema del potere sotto il quale erano stati eretti, ma venivano considerati a testimonianza dell’ingegno umano dato da Dio. A questa nuova interpretazione, in chiave tutta cristiana, dell’architettura del passato è da attribuire il merito della conservazione di importanti testimonianze dell’età classica.

A conferma di questo nuovo atteggiamento da parte dei Pontefici, in età rinascimentale Papa Leone X nominò Raffaello “Commissario delle Antichità di Roma” e, in una lettera a lui indirizzata, espresse il rammarico per le demolizioni dei monumenti della Roma Antica perpetrate dai Barbari e favorite dai suoi predecessori9.

Per un approccio moderno, più strutturato e dotato di criteri scientifici ben definiti si dovrà attendere la fine del XVIII secolo, che, con l’Illuminismo e le

3

Ivi, pp. 14-15.

4

P.COLAGROSSI, L’Anfiteatro Flavio nei suoi venti secoli di storia, Libreria editrice fiorentina, Firenze, 1913, p.172ss. 5 A MOROSO,1996, p.25 6 Ivi, p.19. 7G.D

I GIOVANNI, Agrigento, la valle dei templi, il museo nazionale: itinerario archeologico, Palermo, 1984.

8 R.L

UCIANI, Il Restauro, storia, teorie, tecniche, protagonisti, Frat. Palombi editori, 1988.

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Rivoluzioni Industriale e Francese, sconvolse il pensiero, la politica, la cultura e l’economia europea e del mondo intero.

4.1.2 Il restauro moderno

Con la scoperta dei resti di Ercolano nel 171110 e di Pompei nel 174811 si accese un nuovo interesse per l’architettura del passato, tanto che per tutto il XVIII secolo fu fervente l’attività di ricerca di nuovi reperti affiancata al dibattito su ciò che queste nuove scoperte avrebbero potuto significare in ambito architettonico.

Il processo di spoliazione di opere d’arte e antiche costruzioni non ebbe fine, ma perdurò fino al XIX secolo quando, finalmente, si videro gli albori del restauro moderno.

Nel primi due decenni dell’Ottocento, sotto il pontificato di Pio VII, artisti come Valadier, Canova e Stern attuarono una serie di restauri seguendo i nuovi concetti di anastilosi e reintegrazione. Ne furono emblema i lavori attuati sull’Arco di Costantino e sul Colosseo, così come sull’Arco di Tito, ritenuto da molti un esempio mirabile di restauro. Nel rifacimento di quest’ultimo si optò per una sua ricostruzione secondo lo stile originario, ma si operò in modo tale da rendere riconoscibile l’intervento dalla preesistenza grazie all’impiego di materiale differente rispetto a quello originario. Inoltre, gli elementi architettonici inseriti non furono lavorati con lo stesso livello di dettaglio, ma solo abbozzati, rifiutando un’idea di copiatura e considerando le aggiunte solo come volumi.12 Questa tecnica fu comune ai tre restauri citati poc’anzi e determinò una rivoluzione notevole rispetto agli approcci del passato.

Intorno alla metà dell’Ottocento si aprì l’annosa questione della ricostruzione o del completamento degli edifici. Due personalità che incarnavano le idee degli opposti schieramenti erano Giuseppe Valadier e Viollet Le Duc: il primo era esponente della corrente che credeva nella ricostruzione secondo lo stile personale del restauratore, senza ricreare una sterile copia di ciò che non esisteva più; il secondo, invece, era convinto della necessità di una spersonalizzazione stilistica dell’architetto che andava ad intervenire sul monumento da restaurare, facendo propri lo stile ed il pensiero di

10 A.M

AIURI, Pompei ed Ercolano: fra case e abitanti, Milano, Giunti Editore, 1998.

11 A.D'A

MBROSIO, Pompei: gli scavi dal 1748 al 1860, Milano, Electa, 2002.

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coloro degli originali costruttori e progettisti. Fra il 1850 ed il 1870, l’attività di Viollet Le Duc in Francia produsse molti esempi che seguivano questa differente visione del restauro stilistico13.

Nello stesso periodo, in Inghilterra, l’architetto John Ruskin operava in maniera antitetica rispetto a quella di Le Duc, seguendo i concetti di quello che oggi viene definito “restauro romantico”. Il Ruskin negava il restauro come intervento di ricostruzione o come completamento in diverso stile, sino ad estremizzarne la negazione e portando avanti l’idea che non si dovesse in nessun caso intervenire sull’opera altrui, ma, piuttosto, ammirarne il valore della rovina, secondo il percorso delle opere della natura.14

In Italia fu la visione di Le-Duc a prevalere e nel corso della seconda metà dell’Ottocento furono realizzati molti restauri15 volti a ripristinare l’unità stilistica anche attraverso il falso architettonico e l’arbitrio del restauratore. Su quest’ultimo punto ci si discostava dall’idea di Le Duc e si giungeva ad una visione più rispettosa della personalità del restauratore e meno dell’identità dell’opera architettonica.

Nell’ultima parte dell’Ottocento, con l’attività di Camillo Boito, fu raggiunto un equilibrio fra le posizioni francesi ed inglesi (che stavano prendendo piede anche in Italia): criticando la prima per una creazione di un falso architettonico e negando l’accettazione della perdita di un monumento voluta dal Ruskin. Su tali basi, grazie all’impegno e all’influenza di Boito, si giunse, nel 1883, ad una prima “Carta del Restauro” i cui principi fondamentali erano riassunti in otto punti16:

1. Differenza di stile fra nuovo e vecchio; 2. Differenza di materiali da fabbrica; 3. Soppressione di sagome o di ornati;

4. Mostra dei vecchi pezzi rimossi, aperta accanto al monumento;

5. Incisione in ciascun pezzo rinnovato della data del restauro o di un segno convenzionale;

6. Epigrafe descrittiva incisa sul documento;

13 A titolo esemplificativo, si ricordano la ricostruzione in stile della facciata della Cattedrale di Chartres,

la ricomposizione delle Tombe Reali e altri importanti lavori di ristrutturazioni delle fortificazioni di Carcassonne e del castello di Pierrefonds.

14 C

ESCHI, 1970, p. 88.

15 San Marco a Milano, Santa Croce e Santa Maria del Fiore a Firenze. 16

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7. Descrizione e fotografie dei diversi periodi del lavoro, deposte nell’edificio o in un luogo prossimo ad esso, oppure descrizione pubblicata per le stampe; 8. Notorietà.

4.2 Le Carte del Restauro

Ufficialmente gli otto punti di Boito furono soltanto il risultato di un confronto fra studiosi e professionisti relativamente al restauro del patrimonio monumentale, tuttavia essi ebbero un ruolo decisivo nella storia della disciplina poiché posero le basi per le successive evoluzioni nel settore della conservazione delle preesistenze architettoniche.

Al 1931 risale la prima importante Carta del restauro detta “Carta di Atene”. Il documento fu prodotto al termine di un Congresso sul tema de “La Conservazione dei monumenti d’arte e di storia”, avente scopo di arrivare all’unificazione delle posizioni dei diversi Paesi sul tema della conservazione architettonica.

La Carta, che si proponeva di ottenere l’unificazione del modus operandi nella pratica del restauro, fu promossa dall’architetto italiano Gustavo Giovannoni, che, facendosi legittimo continuatore delle posizioni di Boito, ne ottenne la condivisione a livello internazionale. Con la “Carta di Atene” si riconobbe la necessità di una stretta collaborazione tra gli Stati per la conservazione dei monumenti17.

Un punto fondamentale raggiunto dall’Assemblea ed espresso nella Carta fu l’istituzione di manutenzioni regolari, volte a circoscrivere gli interventi di restauro ai soli casi di necessità, garantendo il rispetto dell’opera d’arte di interesse storico-artistico. Ad esempio, sul tema delle rovine si preferì optare per la conservazione scrupolosa, senza ricostruzione alcuna; era ammessa però l’anastilosi18 a condizione che i materiali e gli elementi nuovi, inseriti sulla preesistenza, fossero chiaramente riconoscibili nella loro giacitura originaria

Altri punti contenuti nella “Carta di Atene” erano: la necessità di effettuare studi e ricerche sulle patologie di degrado e i materiali del restauro; l’utilizzo giudizioso dei

17

Si noti tuttavia che l’oggetto delle disquisizioni erano il restauro e la conservazione dei beni architettonici, senza alcun accenno ad un’estensione a pitture o al paesaggio e all’ambiente.

18 Anastilosi, Def.: “In archeologia, ricostruzione di antichi edifici, specialmente dell’antichità classica,

ottenuta mediante la ricomposizione, con i pezzi originali, delle antiche strutture.” Da Treccani.it – Vocabolario on line.

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materiali moderni, con particolare attenzione al calcestruzzo armato19 e alla dissimulazione degli elementi di rinforzo; il rispetto del carattere e della fisionomia delle città e delle prospettive pittoresche.

Nello stesso anno in cui fu redatta la “Carta di Atene”, il Consiglio superiore per le antichità e belle arti emanò le delle norme per il restauro dei monumenti, contenute in un testo denominato “Carta del restauro italiana” che può essere considerata la prima direttiva ufficiale dello Stato italiano in materia di restauro. In essa si affermano principi analoghi a quelli della Carta di Atene20, con il valore aggiunto della posizione espressa in quegli anni da Gustavo Giovannoni, definita come esempio “restauro scientifico”. Il Giovannoni, principale promotore del Congresso di Atene, riteneva che fosse necessario sfruttare tutte le più moderne tecnologie per poter addivenire ad interventi scientifici di restauro21.

Nel 1964 fu la volta del Congresso internazionale degli architetti e tecnici dei monumenti, in occasione del quale fu emanata la c.d. “Carta di Venezia”. In questo testo è specificato innanzitutto, che la nozione di monumento deve essere applicata sia all’opera d’arte, sia all’ambiente urbano e al paesaggio ove essi costituiscano “testimonianza di una civiltà particolare”22. A seguire, si precisa che la conservazione ed il restauro debbano avvalersi di tutte le tecniche volte allo studio e alla salvaguardia del patrimonio monumentale23 e si raccomanda di estendere la tutela “tanto all’opera d’arte che alla testimonianza storica”24.

Nell’articolo 9 della Carta si legge una delle asserzioni più famose nell’ambito della conservazione dei ben architettonici: “Il restauro deve fermarsi dove ha inizio l’ipotesi”; nel medesimo articolo si afferma anche che il restauro “sarà sempre preceduto e accompagnato da uno studio archeologico e storico del monumento”.

Anche in questo documento è presente il riconoscimento dell’importante ruolo delle operazioni di manutenzione e si conferma l’indirizzo, già presente nelle precedenti Carte, di ricorrere al restauro solo in casi eccezionali. Sono altresì contenute le ulteriori

19 Nei primi trent’anni del Novecento furono condotti i restauri del palazzo di Cnosso da parte di Evans e

furono condotti i lavori di restauro all’acropoli di Atene e in particolare al Partenone. La discutibile ricostruzione di elementi in calcestruzzo armato sulle rovine minoiche, così come i criticabili lavori di Atene, avranno sicuramente influito nella decisione di precisare una richiesta di attenzione nei confronti degli interventi con calcestruzzo, o altri materiali moderni, sui reperti archeologici.

20 Ciò non stupisce visto che proprio questa carta si prefiggeva l’obiettivo di portare i vari Stati ad

adottare misure tese alla salvaguardia del patrimonio monumentale.

21 Art. 9 della Carta. 22 “Carta di Venezia”, art. 1. 23 “Carta di Venezia”, art. 2. 24

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raccomandazioni, ormai consolidate, come quella di poter impiegare materiali moderni, di documentare il lavoro, di escludere le ricostruzioni fatta eccezione per l’anastilosi; si specifica, infine, che gli elementi aggiunti devono essere riconoscibili e, cosa importante, che deve essere rispettato il contributo delle varie epoche (si nega quindi ogni restauro volto alla ricerca di un’unità stilistica del monumento)

4.3 La tutela monumentale e del paesaggio nel quadro normativo italiano

Negli ultimi anni dell’Ottocento, la crescente attenzione verso la tutela del patrimonio artistico del nuovo Stato italiano trovò sfogo nell’attività di studiosi ed architetti, i quali cercarono di rendere nota e condivisa la problematica della conservazione del patrimonio storico-architettonico-culturale italiano.

Solo nel 1902, su pressioni dell’Architetto Camillo Boito, fu promulgata una prima legge nazionale di tutela: trattasi della legge 12 giugno 1902, n. 185 (legge Nasi), che istitutiva il “Catalogo unico dei monumenti e delle opere di interesse storico, artistico e archeologico di proprietà statale”, poi modificata nella legge 20 giugno 1909, n. 364 (legge Rosadi-Rava).

A tale testo normativo, nonché al suo regolamento attuativo tutt’ora vigente, si devono i principi fondanti della moderna disciplina italiana sulla tutela dei beni culturali, in particolare ove:

- sancisce l’inalienabilità del patrimonio culturale statale e di enti pubblici e privati25;

- esprime la possibilità da parte della pubblica amministrazione di sottoporre a vincoli di tutela opere di proprietà privata di “importante interesse”26; attraverso tale misura, lo Stato si pone in condizione di poter esprimere un controllo diretto del bene riguardo ad ogni possibilità di gestione dello stesso;

- permette alla pubblica amministrazione l’esproprio per acquisizione nel sistema monumentale o museale pubblico;

- afferma il diritto di prelazione dello Stato sui beni tutelati; - promuove la pratica della ricerca archeologica;

25 Facendo riferimento a beni di “interesse storico, archeologico o artistico”. 26

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- delinea un’organizzazione, a livello centrale e periferico, per la tutela dei beni culturali27.

Il mantenimento della memoria storica è il fine ultimo che questa legge si propone, riconoscendo nello Stato l’organismo che deve farsi garante della protezione e della diffusione delle conoscenze acquisite.

Nell’art. 13 della legge n. 185/1902 si legge: “Nei Comuni, nei quali esistono monumenti soggetti alle disposizioni della presente legge, potranno essere prescritte, per i casi di nuove costruzioni, ricostruzioni ed alzamenti di edifici, le distanze e misure necessarie allo scopo che le nuove opere non danneggino la prospettiva o la luce richiesta dalla natura dei monumenti stessi”. Questo fu il primo caso al mondo in cui una legge sulla tutela dei beni storico-culturali si ampliava fino ad un embrionale accenno di tutela ambientale e paesaggistica. Si dovranno aspettare quasi trent’anni28 prima di un recepimento di questo aspetto a livello internazionale. In Italia, invece, con il D.d.l. n. 204 del 1922 il Ministro Benedetto Croce pose le basi per la tutela delle “maggiori bellezze naturali”, dimostrando nuovamente la grande modernità della normativa italiana in materia.

La più importante riforma del Novecento sui beni culturali in Italia fu la cosiddetta “legge Bottai” del 193929, con la quale si affrontavano i problemi della riorganizzazione periferica, con la ridistribuzione delle Soprintendenze sulla base di specializzazioni (Soprintendenze alle antichità, ai monumenti, alle gallerie) e rinsaldando l’autorità dell’amministrazione centrale. La legge tutelava le “cose di interesse storico, artistico, archeologico” e, insieme alla legge 29 giugno 1939, n. 1497 (in materia di tutela delle “bellezze naturali”), andò a costituire un importante e moderno quadro normativo nel settore della conservazione dei patrimoni architettonico-monumentale e paesistico.

La legge Bottai inquadra e introduce tutti i principali concetti-chiave in materia di tutela del patrimonio, ossia:

- la procedura del vincolo sui beni privati riconosciuti come di pubblico interesse, attraverso l'atto della notifica;

- le disposizioni per la conservazione, l'integrità e sicurezza dei beni;

27 Si ha un primo accenno relativo alle odierne Soprintendenze.

28 Con le conclusioni della Conferenza di Atene, di cui abbiamo già trattato. 29

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- la “pubblica godibilità ”, nei termini di ammissione alla visita da parte del pubblico, sia per i beni statali, sia per quelli privati coperti da riconoscimento del pubblico interesse;

- l’eventuale appartenenza delle opere d’arte contemporanee al patrimonio artistico dello Stato, purché gli autori non siano viventi o l’esecuzione di queste risalga ad almeno cinquant’anni prima.

I concetti e i termini base dell'odierna disciplina conservativa e di tutela, sono quindi acquisiti nella riforma Bottai.

I beni tutelati dalla normativa in commento30 sono: - cose immobili con cospicui caratteri di bellezza naturale; - ville, giardini e parchi di non comune bellezza;

- complessi di cose immobili con valore estetico e tradizionale; - bellezze panoramiche e loro punti di osservazione.

Pochi anni dopo, nel 1942, si aggiunse la prima legge di “pianificazione urbanistica e territoriale”31.

Nell’art. 9, commi I e II, della Costituzione Repubblicana si legge: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”; con una simile dichiarazione si è sancito il preciso compito dello Stato di assumere un ruolo di promozione volto allo sviluppo e all’elevazione culturale della collettività, nel cui quadro s’inserisce, come componente primaria, la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico.

Nonostante ciò, la neo-Repubblica italiana si interessò molto meno del previsto dei problemi della tutela del patrimonio storico artistico e delle bellezze paesaggistiche; dopo l’emanazione di due leggi piuttosto blande32 si arrivò, nel 196433, all’istituzione di una “Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione delle cose d’interesse storico, archeologico, artistico e del paesaggio”. Un’ulteriore testimonianza della scarsa

30

A cui si deve anche l’introduzione di un apposito strumento di regolamentazione territoriale: il P.T.P., Piano Territoriale Paesistico.

31 Legge 17 agosto 1942, n. 1150. 32

Legge 31 agosto 1945, n. 660, in modifica alla legge 2 febbraio 1939, n. 374, sulla consegna obbligatoria degli stampati e alla Legge 21 dicembre 1961, n.1552, sul restauro sul restauro che specifica dettagli burocratici relativi a restauri di importo superiore ai 20 milioni di lire, facendo domunque riferimento alle disposizioni della 1089..

33

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attenzione rispetto alle tematiche in oggetto si ricava dalla tardiva nascita di un vero e proprio Ministero per i beni culturali e ambientali, che avvenne solo nel 1975.

In età contemporanea l’innovazione normativa più rilevante è costituita dal Testo Unico dei Beni Culturali e Ambientali del 1999, che raccoglie, armonizza ed uniforma la disomogenea normativa sino a quel momento vigente in materia di tutela del patrimonio. Tale normativa è composta da due titoli, che concernono rispettivamente i beni culturali (artt. 1-137) e i beni ambientali (artt. 138-166). Nella sostanza, essa va a sovrapporsi alla legge Bottai del 1939, assorbendone norme e definizioni e integrandola ampiamente con apposite disposizioni di raccordo.

La vicenda complessiva delle riforme del settore dei beni culturali (a partire dal 1975 e sino al 2007) mostra un percorso frammentato, con ripetute innovazioni di vertice dell’apparato pubblico, modifiche e ripensamenti, acuiti dalla ormai decennale ambiguità nella distribuzione di competenze tra Stato e Regioni. Le maggiori correzioni realizzate sul versante dei beni culturali (a parte l’eliminazione dell’istituto del silenzio-assenso in materia di “verifica” dell’interesse culturale dei beni di appartenenza pubblica) concernono la riscrittura delle disposizioni in materia di “valorizzazione” dei beni culturali, il cui tratto distintivo è oggi costituito, dopo una lunga serie di lavori e discussioni, dal c.d. Federalismo demaniale.

4.4 Il Federalismo Demaniale

È stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale 11 giugno 2010, n. 134, il Decreto Legislativo 20 maggio 2010, n. 85, recante “Attribuzione a comuni, province, città metropolitane e regioni di un loro patrimonio, ai sensi dell’art.19 della Legge 5 maggio 2009, n. 42”; tale provvedimento rientra in una serie di misure volte all’alienazione del patrimonio edilizio da parte dello Stato in favore degli enti locali nel cui territorio è ubicato il bene.

Ciò garantirebbe, da un lato, l’opportunità per lo Stato di non dover più accollarsi eccessivi oneri di gestione e manutenzione; dall’altro consentirebbe agli enti locali di poter mettere a frutto con maggiore attenzione e cura un bene idoneo a ricoprire un ruolo importante nel contesto territoriale ove è collocato. Il Decreto appare ancora più rilevante se applicato per la riqualificazione del patrimonio statale in totale stato di abbandono quale è, appunto, la canonica di Nicosia, oggetto del presente studio.

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Nel suddetto testo normativo si fa espresso riferimento all’articolo 19 (Patrimonio di comuni, province, città metropolitane e regioni) della legge deroga sul federalismo fiscale del 5 maggio 2009, c.d. Legge Calderoli, il cui comma I recita: “1. I decreti legislativi di cui all’articolo 2, con riguardo all’attuazione dell’articolo 119, sesto comma, della Costituzione, stabiliscono i princìpi generali per l’attribuzione a comuni, province, città metropolitane e regioni di un proprio patrimonio, nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi:

a) attribuzione a titolo non oneroso ad ogni livello di governo di distinte tipologie di beni, commisurate alle dimensioni territoriali, alle capacità finanziarie ed alle competenze e funzioni effettivamente svolte o esercitate dalle diverse regioni ed enti locali, fatta salva la determinazione da parte dello Stato di apposite liste che individuino nell’ambito delle citate tipologie i singoli beni da attribuire;

b) attribuzione dei beni immobili sulla base del criterio di territorialità;

c) ricorso alla concertazione in sede di Conferenza unificata, ai fini dell’attribuzione dei beni a comuni, province, città metropolitane e regioni;

d) individuazione delle tipologie di beni di rilevanza nazionale che non possono essere trasferiti, ivi compresi i beni appartenenti al patrimonio culturale nazionale.”

Nell’articolo appena riportato si evince la possibilità per le amministrazioni locali34 di acquisire a titolo non oneroso un bene di proprietà dello Stato e, secondo quanto stabilito dalla norma35, gli enti ai quali sono attribuiti i beni “sono tenuti a garantirne la massima valorizzazione funzionale.”36.

Affinché un bene possa essere oggetto del passaggio di proprietà appena descritto deve rientrare in una lista redatta in sede di Conferenza Unificata37 e potrà essere attribuito a “Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, secondo criteri di territorialità, adeguatezza, semplificazione, capacità finanziaria, correlazione con competenze e funzioni, nonché valorizzazione ambientale”38.

Secondo quanto stabilito dalla normativa vigente, l’ente territoriale “dovrà disporre del bene nell’interesse della collettività rappresentata ed è tenuto a favorire la

34

Si vedrà più avanti che il Decreto Legislativo andrà, per ovvi motivi, ad escludere da tale possibilità quelle pubbliche amministrazioni non virtuose i cui bilanci non rispettino adeguati parametri.

35 Art. 1 commi 1 e 2, d. lgs. 20 maggio 2010, n. 85. 36 Art. 1 comma 2, d. lgs. 20 maggio 2010, n. 85. 37

La Conferenza unificata è un organismo statale italiano, istituito dal d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281. Si compone della conferenza Stato-regioni e della conferenza Stato-città ed autonomie locali, cioè Regioni, Province, Comuni e comunità montane. Mira a favorire la cooperazione tra l’attività dello Stato e il sistema delle autonomie ed esamina le materie e i compiti di comune interesse.

38

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massima valorizzazione funzionale del bene attribuito, a vantaggio diretto o indiretto della medesima collettività territoriale rappresentata.”39. Altro criterio fondamentale che la legislazione di riferimento pretende sia tenuto in considerazione è quello del rispetto e della valorizzazione ambientale: “la valorizzazione del bene è realizzata avendo riguardo alle caratteristiche fisiche, morfologiche, ambientali, paesaggistiche, culturali e sociali dei beni trasferiti, al fine di assicurare lo sviluppo del territorio e la salvaguardia dei valori ambientali”40. È altresì richiesta, come necessaria, la stipula di un “Accordo di valorizzazione” per completare il passaggio del bene41.

4.4.1 Iter procedurale per il passaggio di proprietà di beni statali

L’attivazione del procedimento di passaggio di proprietà del bene dovrà partire direttamente dagli enti territoriali interessati. A tal fine Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni presentano alla Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e alla Filiale dell’Agenzia del Demanio competenti per territorio specifica richiesta contenente l’individuazione degli immobili oggetto di interesse, nonché l’illustrazione delle finalità e delle linee strategiche generali che si intendono perseguire con l’acquisizione del bene.

A seguito della suddetta è costituito un Tavolo Tecnico Operativo a livello regionale all’interno del quale si confronteranno i rappresentanti dell’ente richiedente il passaggio del bene, il Direttore regionale per i Beni Culturali42 e i funzionari della Soprintendenza territorialmente competenti. Tale collegio è investito del compito di valutare preliminarmente se ricorrano o meno le condizioni per procedere alla conclusione di un accordo di valorizzazione e al successivo trasferimento dei beni individuati agli Enti territoriali richiedenti.

Una volta ottenuto il via libera da parte degli organi di tutela direttamente presenti al Tavolo Tecnico, l’ente territoriale richiedente è chiamato a produrre un “programma di valorizzazione” nel quale dovranno essere forniti tutti i dettagli sulle modalità di gestione del bene oggetto della richiesta.

39 Id.

40 Art. 2 comma 5 sub e, d. lgs. 20 maggio 2010, n. 85. 41 Art. 5 comma 5, d. lgs. 20 maggio 2010, n.85. 42

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Raggiunta la convergenza di intenti fra tutti gli enti e i rappresentanti degli organi di tutela presenti al Tavolo tecnico, il passaggio del bene si perfeziona con la sottoscrizione dell’Accordo di Valorizzazione ex art. 112 comma 4, d. lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, da redigere secondo uno schema predisposto congiuntamente dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e dall’Agenzia del Demanio.

In virtù della sottoscrizione dell’Accordo di Valorizzazione verranno stipulati specifici atti pubblici per l’effettivo passaggio di proprietà del bene; tali atti saranno condizionati al pieno rispetto delle condizioni e degli impegni assunti dagli enti territoriali.

4.4.2 Programma di valorizzazione del bene

Il Programma di valorizzazione è un elaborato suddiviso in più parti.

Innanzi tutto, esso dovrà contenere una dettagliata analisi del bene oggetto della richiesta: dovrà essere descritta la cronologia dello sviluppo storico dell’edificio43; si fornirà un’analisi dimensionale44 e tecnico-strutturale del manufatto; si provvederà ad una valutazione dello stato di conservazione della struttura45, ad un inquadramento della situazione vincolistica46 e alla determinazione degli interventi di risanamento conservativo da attuare47.

A questa prima parte seguirà una descrizione dettagliata delle modalità di attuazione del programma: in particolare, ne dovranno essere esplicitati i criteri organizzativi di gestione, con sommaria esplicazione degli interventi, delle azioni e degli strumenti ai quali si prevede di ricorrere per il perseguimento degli obiettivi della valorizzazione.

43

Dovrà essere studiato, tramite saggi condotti a campione sulle strutture murarie, sui solai e sugli elementi architettonici e a attraverso una ricerca di fonti documentarie, il processo di trasformazione dell’impianto edilizio che ha portato alla conformazione attuale del bene.

44 Questa dicitura implica la necessità di un rilievo della struttura per poter stabilire con sufficiente

approssimazione l’entità dell’organismo edilizio oggetto del programma di valorizzazione; si dovranno riportare le superfici e le volumetrie.

45 Sarà necessario compiere una verifica dello stato di conservazione della struttura analizzando le

emergenze e i fenomeni di dissesto e/o degrado eventualmente presenti.

46

Elemento essenziale nel procedimento di passaggio di proprietà del bene è il chiarimento ed il perfezionamento (qualora ve ne sia la necessità) della situazione vincolistica del bene oggetto del programma di valorizzazione.

47 Per ciò che concerne gli interventi di risanamento, dovranno essere indicati solo quelli ipotizzabili in

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Da ultimo, dovranno forniti dettagli circa la sostenibilità economica del programma e i tempi di realizzazione dello stesso.

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La domanda di partecipazione e la documentazione dovranno essere inseriti in un plico, chiuso e sigillato, controfirmato sui lembi di chiusura, con l’indicazione del