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I. Il commento a Matteo V: l’etica di Alberto tra discorso sulle beatitudini e nuova legge.

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Academic year: 2021

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I. 1. Analisi del capitolo quinto della postilla Super Matthaeum

Punto di partenza della nostra indagine è il commento di Alberto al quinto capitolo del Vangelo di Matteo1, estrapolato dalla sua opera esegetica che ha per oggetto l’intero vangelo. In realtà, più che di un commento si tratta di una “postilla”, termine con cui, dalla prima metà del XIII secolo, venivano designate le glosse continue interposte fra i loci del testo, per distinguerle da quelle marginali e interlineari2. Alberto procede nell’esegesi secondo l’uso dell’epoca, operando per prima cosa la divisio textus, che consiste nello scomporre il testo nelle singole unità di senso, e poi riorganizzando le parti individuate secondo una rigorosa struttura concettuale e logica articolata in diversi livelli. Fatto questo, procede all’analisi letterale delle singole sezioni, utilizzando criticamente tutto ciò che ha a disposizione, dalle citazioni di auctoritates religiose, il più delle volte attinte dalla Glossa (padri della Chiesa, Gerolamo, Agostino, Boezio, Pietro Comestore, Crisostomo) a quelle “gentili” (Cicerone e soprattutto Aristotele), dalla Bibbia stessa a testi di carattere scientifico. Perché se uno dei suoi principi esegetici è quello di Bibliam per ipsam Bibliam explicare, per cui ad ogni occorrenza ricerca e riporta subito la concordantia adeguata con un altro passo biblico, Alberto tuttavia non si fa problemi ad attingere, qualora l’occasione lo richieda, alle fonti più disparate del suo sapere universale. Disquisizioni scientifiche, astronomiche, mediche entrano così

1 Super Matthaeum, ed. B. Schmidt (Monasterii Westfalorum in Aedibus Aschendorff 1987), in

Alberti Magni Operum Omnium, Tomus XXI, Pars I, Capitulum V, pp. 101-169;

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nell’esegesi albertina, accanto a citazioni bibliche e teologiche. Ma quello di Alberto è tutt’altro che un accumulo acritico di nozioni: la maggior parte dei riferimenti infatti, si rivela giustificata dal contesto, e non mancano i casi di riserve critiche espressamente formulate. Che quella di Alberto sia un’esegesi caratterizzata da un certo razionalismo disputatorio, si vede anche dalla quantità di quaestiunculae, quaestiones e digressioni che continuamente fioriscono lungo lo sviluppo lineare del commento, rendendolo mosso e articolato: in esse si risponde a diverse esigenze: teoriche, quando è richiesto un chiarimento concettuale; esegetiche, quando passi biblici diversi sembrano in contraddizione; e poi morali, pastorali, filosofiche, scientifiche.

Detto questo, il commento al quinto capitolo del vangelo di Matteo risulta di particolare interesse per noi perché dà modo all’autore di toccare diverse questioni di filosofia morale.

Dapprima esporremo nelle linee generali il contenuto del capitolo per poi dedicarci in seguito all’individuazione e all’approfondimento dei vari nuclei tematici che da esso emergono, anche tramite il confronto con altre opere dello stesso autore.

Come già sottolineato, Alberto procede all’analisi del testo smembrandolo nei singoli elementi e riorganizzandoli in una struttura articolata per punti. Il criterio seguito è innanzitutto quello dell’esposizione letterale, la quale poi però offre all’autore occasione per diversi approfondimenti e sviluppo di questioni.

Prima preoccupazione di Alberto nell’affrontare il commento a questo quinto capitolo è quella di esporne la struttura generale e di collocarlo contestualmente rispetto alla più ampia architettura dell’intero vangelo. Pertanto, nel capitolo in questione, Alberto individua l’incipit di quella che lui definisce informatio ad vitae

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sanctitatem, prima parte (capitoli V-X) di una più ampia instructio et illuminatio pertinens ad informationem regenerandorum completata nei capitoli seguenti (dal X al XXVI) dall’informatio ministrorum; i capitoli finali del vangelo sarebbero infine dedicati ai sacramenti, attraverso i quali, per opera di Cristo, tutto il resto ottiene finalmente la sua compiutezza3.

Questa prima parte va quindi a sua volta suddivisa in traditio (o informatio) e probatio. Quest’ultima avrà inizio solo più avanti nel capitolo VIII, mentre nella prima si distingue ulteriormente una instructio e una commendatio. L’instructio è proprio ciò che occupa per intero questo quinto capitolo, per concludersi poi poco prima della fine del settimo. Essa consiste di due sezioni, delle quali la prima contiene l’esposizione delle beatitudini, viste come fini ai quali tendere (tamquam fines), mentre nella seconda, che ha inizio al versetto 17, trova posto l’instructio vera e propria4.

Il cuore della prima parte del capitolo quinto di Matteo è quindi costituito dai “discorsi sulle beatitudini” (sermones beatitudinum), che occupano dal versetto 3 al versetto 12. Alberto lo affronta dopo l’analisi dei due versetti iniziali, in merito ai quali discute del contesto occasionale che fa da sfondo al discorso di Gesù5.

Tutte le otto beatitudini presentano una medesima tripla articolazione: lode della beatitudine, ciò in cui consiste il merito della beatitudine, infine il premio corrispondente6. Ma a questo punto, prima di passarle in rassegna una per una, Alberto trova qui opportuno introdurre una parentesi teorica sulla distinzione tra virtus, felicitas e beatitudo.

3 SM, Schmidt, 101, rr. 1-19 4 SM, Schmidt, 101, rr. 19-36 5 SM, Schmidt, 101(r.50)-103(r.16) 6 SM, Schmidt, 103, rr. 17-21

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La virtus è definita come ille habitus che in unoquoque genere operum voluntariorum et rationabilium bonorum facit attingere optimum. È implicito qui il riferimento alla definizione aristotelica. Risulta inoltre fortemente sottolineata la connessione della virtù con volontà e ragione: essa ha a che fare esclusivamente con ciò la cui attuazione dipende dalla nostra volontà (operabilia per nos voluntaria) e che è da considerarsi in sé un bene secondo ragione (in his rationabiliter bona). Si distinguono poi quattro generi di virtù (temperantia, fortitudo, iustitia, prudentia) in relazione ai quattro principali ambiti di azione, per cui ogni singola virtù è il raggiungimento dell’optimum in un determinato ambito7.

La felicitas, che è più perfetta della virtus, consiste invece in un actus sive operatio, qui fit secundum perfectam animi virtutem. E un animo perfetto può derivare soltanto da una prolungata consuetudine alla virtù che lo abbia liberato dalle disposizioni contrarie alla virtù stessa, tenendo ben presente che qui per virtù si intende l’habitus comprensivo di tutte le singole virtù e non una sola di esse. Tuttavia, il possesso di tutte le virtù è condizione solo necessaria ma non sufficiente per l’esercizio di quell’attività in cui consiste la felicità, la quale esige inoltre il concorso dei beni esteriori. La felicità è dunque l’operare proprio di un animo reso perfetto dal possesso della virtù e di tutti gli strumenti, vale a dire buone condizioni fisiche e una certa quantità di beni esteriori, necessari a mantenerla, e diretto alla realizzazione del massimo Bene ottenibile durante la vita terrena, che è quello comune della res publica. Perché se può ritenersi divinum il governo di se stessi e delle proprie facoltà secondo ciò che è bene per il singolo individuo, e divinius il governo della città secondo quanto per essa è bene, tuttavia ancora più divino

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(divinissimum) si deve considerare il governo dei popoli secondo il loro bene, ossia il governo dello Stato. Un tale agire può attuarsi tramite la prudenza, virtù completa che origina da un animo del tutto perfetto8. Una tale perfezione rimane quindi la condizione primaria della felicità. Secondo quanto detto, si avranno di conseguenza, a scalare, diversi gradi di felicità, minori a seconda dell’entità del difetto che determina la recessione da quella condizione ideale: dal livello di poco inferiore di colui cui mancano i beni della fortuna, si passa perciò a quello ancora minore di colui che è impedito nell’agire dalle condizioni di salute, per finire con l’infelicità massima di colui cui difetta la virtù9.

Infine la beatitudo, la più perfetta delle tre, in quanto non ammette in sé difetto, cosa che invece, come si è appena visto, può facilmente accadere nel caso della virtù e della felicità . Essa è status perfectionis piuttosto che actus vel operatio, è status omnium bonorum congregatione perfectus. E se tanti sono i bona che concorrono alla sua realizzazione, uno solo è il fine cui vanno indirizzati, cioè quell’optimum che è Dio stesso. Di conseguenza la beatitudo, che altro non è che il quiescere in Dio, sarà anch’essa unica, nonostante al suo interno se ne possano distinguere diverse specie in relazione ai diversi generi di optima. Si aggiunge inoltre che, sebbene la beatitudo sia propriamente lo stato di perfezione oltre il quale non si può ulteriormente procedere, tuttavia, di riflesso, si definiscono beati anche coloro i quali,

8 «Sic expedito animo toto in se et organice sive instrumentaliter deservientibus secundum

divinissimum bonum vitae erit actus felicitatis. Est enim divinum quidem gubernare seipsum in bono hominis, divinius autem est, quod est gubernare civitatem secundum bonum civitatis, divinissimum autem est, quod est gubernatio gentis secundum bonum gentis, quod est res publica. Hoc autem fit per per actum prudentiae, prout exit ab animo omnino modo dicto perfecto», SM, Schmidt, 104, rr. 12-21. Alberto, come vedremo nel secondo capitolo, mutua questa disposizione gerarchica dal primo libro dell’Etica Nicomachea, per farne uno dei principi cardine della sua etica; grazie al saggio di Kempshall The Common Good in Late Medieval Political Thought, vedremo anche come la dichiarata priorità del bene comune su quello individuale non eviti di sollevare diverse problematiche.

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pur non essendo ancora perfetti, tuttavia si adoperano per diventarlo; ed è proprio in quest’ultimo senso che nel capitolo in questione si fa uso della parola “beati” 10.

Questa la distinzione che fa Alberto, nella quale emerge chiaramente il suo debito verso Aristotele, specialmente per quanto riguarda: la definizione di virtus, felicitas, beatitudo rispettivamente come habitus, actus, status; il ruolo di volontà e ragione in relazione alla virtù; la considerazione dei beni esteriori per la felicità; la questione se la perfezione necessiti di tutte le virtù o se invece l’una è indipendente dall’altra; la dialettica tra potenza e atto, moto e quiete. Approfondiremo più avanti la questione.

Dopo questa parentesi introduttiva, il commento procede con l’analisi delle otto beatitudini (Mt 5, 3-12) nella loro già precedentemente segnalata struttura tripartita. Le riassumiamo brevemente

La prima è quella dei “poveri in spirito” (pauperes in spiritu). Oggetto della lode sono coloro che riconoscono di non bastare a se stessi, anche se dotati di tutti quei beni terreni e materiali che il mondo rende loro disponibili. Solo in Dio infatti si può raggiungere quella sicurezza che invano si ricercherebbe altrove. La povertà indica quindi qui un’insufficienza11. A seconda poi di come si intende il termine spiritus, la locuzione pauperes in spiritu può assumere due sfumature diverse. Alberto fa ricorso alla teoria della causalità aristotelica: se si considera infatti spiritus in un’accezione fisica, ossia come espressione di quell’animosità sanguigna che caratterizza gli audaci, gli insolenti, i superbi e gli arroganti, e quindi come causa materiale, allora pauperes in spiritu saranno coloro che se ne ritengono privi, vale a

10 SM, Schmidt, 104, rr. 38-69 11 SM, Schmidt, 104(r. 75)-105(r. 8)

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dire gli umili12; se invece con spiritus si intende il dator vitae, principio e causa della vita stessa, e quindi come causa efficiente, formale e finale, pauperes in questo caso sono coloro che lo Spirito, secondo questa triplice causalità, rende insufficienti a loro stessi nonostante tutto ciò che interiormente ed esteriormente possiedono13. Ad essi è riservata nel futuro la congrua ricompensa, il regnum caelorum, che sta a significare una stabile e definitiva sicurezza in Dio stesso14.

La seconda beatitudine contiene l’elogio della mitezza. Di essa si distinguono diversi gradi, per chiarire i quali Alberto introduce una similitudine utilizzando l’immagine aristotelica della mano che entra a contatto con corpi diversi per forma e consistenza: come un angolo acuto e duro ferisce la mano che lo scontra, così il non-mite reagisce a chi lo provoca; simile ad una superficie resistente è invece il non-mite di primo grado, il quale, nonostante non risponda a sua volta all’offesa subita, tuttavia oppone una certa resistenza a chi gli vuol nuocere; il mite di secondo grado è paragonato ad un corpo morbido e flessibile ma non liquido, che docilmente cede al contatto ma tuttavia non si lascia penetrare; infine, il mite di terzo grado, che è il mite vero e proprio, è colui che, come un corpo liquido, non ferisce né oppone alcun tipo di resistenza, ma con benevolenza e atto di sottomissione si arrende all’offesa, anche se questa mette a repentaglio la sua vita e tutto ciò che possiede, inspirando così anche nell’aggressore gli stessi benevoli sentimenti15. Ricompensa adeguata per costoro sarà la terra secondo la triplice accezione che riporta la Glossa16.

Nella terza, beati sono detti coloro piangono. Anche qui si individuano diversi gradi di luctus: quello del peccatore che piange per il male commesso, e questo non è 12 SM, Schmidt, 105, rr. 9-46 13 SM, Schmidt, 105(r.47)-106(r.4) 14 SM, Schmidt, 106, rr. 14-66 15 SM, Schmidt, 106(r.67)-107(r.40) 16 Ibid., Schmidt, 107(r.68)-108(r.23)

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degno di lode; quello di colui che lamenta la condizione di esilio lontano dalla patria celeste e soffre di fronte alla corruzione del mondo; quello infine di colui al quale il ricordo di un’interiore dolcezza rende amaro non solo ogni male ma anche qualsiasi piacere terreno e si sente pertanto in esilio per tutta la durata della sua vita17.

Quarta beatitudine è quella di coloro che «hanno fame e sete di giustizia» (esuriunt et sitiunt iustitiam). Alberto prima di tutto approfondisce il concetto di giustizia facendo riferimento al quinto capitolo dell’Etica Nicomachea. In base a questo, distingue perciò tra una giustizia speciale, che consiste nell’equa – vale a dire proporzionata al merito di ciascuno – distribuzione di vantaggi e svantaggi e nella regolamentazione degli scambi, e una giustizia generale, detta così in due sensi, o perché concerne la generalità del singolo uomo o quella della giustizia stessa. Nel primo caso si parla di giustizia generale a proposito dell’ordine di tutto ciò che, interiormente e esteriormente, costituisce l’individuo giusto, ossia la corretta disposizione gerarchica delle sue facoltà e il loro corretto uso. Nel secondo caso, invece, per giustizia generale si intende il rispetto di ciò che è stabilito per legge18. Definita dunque la giustizia, si distingue ulteriormente tra i diversi modi in cui si può operare in conformità ad essa, in base ai quali si determina inoltre il grado qualitativo l’azione stessa: al livello più basso troviamo pertanto il facere iustitiam per timore della punizione e quindi non con vera e retta intenzione; quando invece quest’ultima è presente, allora soltanto si opera correttamente secondo giustizia (iustitiam iustitiae modo facere); ad un livello ancora superiore sta però il desiderio di giustizia, in particolare della giustizia stabilita dalla legge divina, il quale nelle azioni giuste trova il suo appagamento; infine si ha proprio la quarta beatitudine, esurire et sitire

17 SM, Schmidt, 108, rr.24-64 18 SM, Schmidt, 109, rr. 1-41

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iustitiam, per la quale non si trova pace se non nell’operare il bene, perché di esso, come di ciò da cui dipende il proprio sostentamento, si arriva ad avere un bisogno estremo19. Emerge già qui il ruolo centrale dell’intenzione per quanto riguarda la qualità morale dell’agire. Come vedremo, questo è uno dei punti cardine della concezione etica di Alberto. In base ad esso infatti verrà più avanti spiegata la distinzione fondamentale tra vecchia e nuova legge e tra antico e nuovo popolo.

Oggetto della quinta beatitudine è la misericordia. Anche di essa se ne distinguono diversi gradi, per cui, partendo dal basso, si ha: il far proprie per compassione le disgrazie altrui – il che non è sufficiente perché si possa parlare di beatitudine; la misericordia che è toccata dall’infelicità sia dei buoni che dei malvagi; infine, sul gradino più alto, la misericordia che qualsiasi miseria, in sé e negli altri, sente come propria e cerca di porre rimedio a tutti quei difetti, propri e altrui, che allontanano da Dio20.

Sesta beatitudine è quella della munditia cordis, la quale, per essere perfetta, deve implicare tre elementi: la purgatio ab oculis cordis dei residui del peccato, vale a dire quei pensieri e desideri impuri che, per memoria e consuetudine al peccato, continuano a sorgere anche involontariamente; la liberatio cordis dal peso del corpo, la cui intrinseca imperfezione aggrava l’anima – e qui ritroviamo il motivo della svalutazione del corpo a prigione dell’anima di matrice platonica, trasmesso al medioevo latino dall’influenza neoplatonica e dalla tradizione agostiniana, e rimasto finora predominante ; l’illuminatio cordis tramite la luce che deriva da Dio, la quale può agire in tre modi: come grazia, come rivelazione interiore, come teofania. Alberto sottolinea qui il fatto che per “cuore” o “occhio del cuore”, nel caso

19 SM, Schmidt, 109, rr. 42-60 20 SM, Schmidt, 110(r.43)-111(r.6)

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dell’anima razionale umana si deve intendere l’intelletto, secondo quanto afferma anche Aristotele nel primo libro dell’Etica: come il cuore è “occhio” del corpo, così l’intelletto lo è dell’anima. I “puri di cuore” riceveranno in premio la possibilità di avere di Dio finalmente una visione completa, cosa impossibile in questa vita21.

La settima beatitudine contiene l’elogio dei pacifici. Ma “pace” si può intendere in diversi modi: come riconciliazione con Dio in seguito all’espiazione dei propri peccati; come tranquillità di coscienza e assenza di sconvolgimento interiore dovuto alle tentazioni; come pieno accordo di ragione e volontà, quando cioè la seconda si adegua docilmente a quanto dalla prima è stato determinato. Vi è infine pace perfetta quando anima e corpo collaborano in piena armonia per poter godere di Dio nel maggior grado possibile concesso in questa vita. E’ quindi in quest’ultima accezione che va intesa la pace come beatitudine22.

L’ottava e ultima beatitudine riguarda i perseguitati a causa della giustizia. A proposito della giustizia, si ribadisce qui il suo carattere comune, per il quale racchiude in sé la fede e tutti gli altri beni23. Tale caratteristica risulterà fondamentale, lo vedremo, anche nel commento all’Etica aristotelica.

Questo in sintesi il contenuto dell’analisi delle singole beatitudini. Come risulta evidente anche dalla sintesi che ne abbiamo riportato, forte è l’influsso di Aristotele, che Alberto dimostra di avere presente come riferimento costante, sia rifacendosi a lui esplicitamente, sia utilizzandone implicitamente concetti e metodi argomentativi.

A questo punto Alberto dispone e ordina la beatitudini secondo uno schema concettuale, in accordo con la comune prassi scolastica che, nell’affrontare un testo, di qualsiasi tipo esso sia, lo scompone in unità di senso che poi va a riorganizzare, se

21 SM, Schmidt, 111(r.57)-114(r.6) 22 SM, Schmidt, 114, rr. 7-56 23 SM, Schmidt, 115, rr. 52-56

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possibile, secondo un criterio puramente razionale. Partendo quindi dal fatto che ogni beatitudine è stato di perfezione che indirizza all’ottimo (status in genere optimi ad optimum ordinantis) distingue tra quelle che agiscono positivamente ad bonum, e quelle che invece hanno un’azione negativa contra malum. Nel primo caso bisogna ulteriormente considerare se il bene verso cui indirizza la beatitudine sia soggetto a mutamento (commutabile) oppure no (incommutabile). Un bene commutabile è in sé stesso imperfetto e contagia della stessa imperfezione chi vi confida: a un simile bene dirige la povertà di spirito. Un bene incommutabile può essere tale o secondo l’azione – e allora è il caso di coloro che hanno fame e sete di giustizia – o secondo la contemplazione, della quale può essere a sua volta preso in considerazione l’oggetto – e qui si ha la munditia cordis – oppure l’effetto finale – come nel caso dei pacifici che ambiscono alla pace perfetta. Nel secondo caso invece, quello delle beatitudini contra malum, o si tratta di male di colpa – e qui l’optimus è indicato da coloro che piangono – oppure di un male di pena, il quale a sua volta può essere in altro – ed è il caso della misericordia – o in se stessi, e quindi contrariare la natura – mitezza – o la grazia – coloro che subiscono persecuzioni24.

Il commento prosegue quindi rivolgendosi ai versetti (11 e 12) immediatamente successivi – beati estis, cum maledixerint vobis et persecuti vos fuerint, et dixerint omne malum adversum vos mentientes propter me; gaudete et exsultate, quoniam merces vestra copiosa est in caelis; sic enim persecuti sunt prophetas, qui fuerunt ante vos – che Alberto intende come prolungamento e specificazione dell’ottava beatitudine. In essi infatti si precisano i tre modi in cui avviene la persecuzione, ossia verbalmente, con azioni, con false accuse, e la causa –

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Dio – per cui essa avviene, che è proprio ciò che la rende una beatitudine. Segue la ricompensa promessa, costituita dalla gioia, che investe tutte le facoltà dall’anima umana – affettive, razionali, corporali –, per avere finalmente ottenuto nel regno dei cieli tutto ciò di cui si aveva bisogno. Tutto questo, infine, è confermato anche dall’esempio dei profeti25.

Al versetto 13 inizia dunque l’ultima parte dedicata alle beatitudini: Gesù si rivolge direttamente agli apostoli per mettere in luce come tutto quanto è stato appena detto su questi stati di somma perfezione riguardi proprio loro in modo particolare26, e lo fa attraverso quattro similitudini.

La prima è quella del sale: Vos estis sal terrae. Quod si sal evanuerit, in quo salietur? (Mt 5, 13). Seguendo la propria inclinazione letteralistica e iper-realistica, Alberto cerca di penetrare il senso di questa similitudine attraverso una digressione scientifica sulla natura del sale e delle sue proprietà fisiche, facendo anche questa volta esplicito richiamo a un’opera aristotelica, i Meteorologica, da lui stesso già commentati. Del sale si sottolinea l’origine terrestre tramite calore, da cui deriva il suo carattere amaro e secco, nonché la sua capacità di insaporire il cibo. Sono tali sue proprietà che lo rendono adatto a questa similitudine morale, per cui, come il sale secca l’umido che è causa di putrefazione, così coloro ad esso sono paragonati devono far “seccare” ogni attaccamento terreno, che è fonte del vizio, e ogni malvagio umore corporeo che induce alla concupiscenza carnale, e come il sale dà gusto agli alimenti, così essi devono rendere “gustoso” e piacevole l’agire secondo virtù. Come inoltre il sale, pur essendo esso stesso amaro, toglie l’amaro, così i

25 SM, Schmidt, 116(r. 39)-117(r.50) 26 SM, Schmidt, 101, rr. 40-42

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seguaci di Cristo sono in grado di addolcire le altrui sofferenze27. Segue quindi una disquisizione su ciò che comporterebbe la perdita da parte del sale di simili proprietà28.

Nella seconda similitudine gli apostoli sono detti lux mundi (Mt 5, 14). Tale luce deve essere intesa come la vera sapienza che proviene dalla fede che ci illumina nella conoscenza di Dio. Da questa prima e originaria luce, che è conoscenza della sapienza divina, deriva poi quella che ci permette di conoscere il mondo attraverso le scienze29. Si vede qui come il razionalismo di Alberto non escluda ma anzi abbia il suo fondamento nella realtà divina, la quale è causa non solo delle cose che sono ma anche dell’intelligenza stessa grazie alla quale siamo in grado di conoscerle. Tale conoscenza derivata non può quindi prescindere dalla conoscenza per fede della sua Causa Prima, che è Dio.

Terza similitudine è quella della civitas (Non potest civitas abscondi supra montem posita), cui devono essere paragonati i dottori della Chiesa, in quanto essi ne costituiscono l’unità, in quanto la Chiesa si conforma ad un’unica dottrina, nonché la difesa, nel loro essere autorità di riferimento per la salvaguardia della dottrina nella sua verità e rifugio per i semplici30. Un’altra metafora sarebbe poi implicita nel monte, che, nella sua elevatezza, starebbe a indicare il massimo raggiungibile dall’intelletto nell’attività pratica così come nella speculazione. Una tale posizione inoltre sarebbe indice di un’evidenza chiara a tutti31.

Nella quarta similitudine infine – Neque accendunt lucernam et ponunt eam sub modio, sed super candelabrum, ut luceat omnibus, qui in domo sunt (Mt 5, 15) – 27 SM, Schmidt, 117 (r.71)-118(r.68) 28 SM, Schmidt, 118(r.69)-119(r.30) 29 SM, Schmidt, 119, rr. 31-38 30 SM, Schmidt, 119(r.55)-120(r.21) 31 SM, Schmidt 120, rr. 22-50

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la lucerna accesa starebbe a simboleggiare i prelati, che risplendono per la loro conoscenza e per il loro ardente spirito di carità. Porre una tale luce sotto il moggio, ossia in un luogo oscuro e poco visibile, significherebbe rimanere in una vita resa opaca dalle tenebre del peccato e da una limitata conoscenza della dottrina. Inoltre il moggio è qualcosa che ha un determinato valore materiale, esprimibile in termini di prezzo: porre il regno di Dio al di sotto di esso rappresenterebbe mettere in vendita ciò che in sé non ha e non può avere prezzo, ma è invece disponibile a tutti gratuitamente, per grazia divina. Al contrario, il candelabro simboleggia l’eminenza della dignità ecclesiastica e i suoi sette bracci indicano i doni dello spirito santo, che sono ciò tramite cui la conoscenza dei prelati illumina, vale a dire l’individuazione dei quattro diversi significati interpretativi – storico-letterale, morale, allegorico, anagogico – e il triplice modo in cui vi si perviene: attraverso uno zelante impegno, dall’aver gustato le cose divine, tramite la rivelazione contenuta nella Parola. Una simile luce, infine, è rivolta all’universalità di coloro che abitano questo mondo, senza che nessuno ne sia escluso32. Segue a questo punto la spiegazione esplicita della metafora – Sic luceat lux vestra coram hominibus, ut videant vestra bona opera et glorificent patrem vestrum, qui in caelis est (Mt 5, 16) – nella quale si ribadisce quanto prima era implicito: la luce che gli apostoli emanano per la loro dottrina e il loro esempio deve risplendere per tutti gli uomini, e ciò soprattutto tramite un operare per il Bene che sia finalizzato non ad ottenere un qualsiasi guadagno per loro stessi, bensì esclusivamente perché il merito di ogni loro azione sia attribuito alla totalità della comunità cristiana e quindi a Dio che ne è il Padre33.

32 SM, Schmidt, 120(r.51)-121(r.48) 33 SM, Schmidt, 121(r.49)-122(r.5)

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Siamo così giunti al quel versetto 17 in cui Alberto aveva già prima34 individuato l’inizio della instructio per partes subito successiva alla trattazione sulle beatitudini. Tale sezione ha per oggetto l’adempimento della legge (impletio legis). Dopo averne delineato la struttura generale35, Alberto procede quindi con l’analisi successiva delle singole unità.

Per prima cosa Gesù si preoccupa di rimuovere ogni possibile fraintendimento: Nolite putare, quoniam veni solvere legem aut prophetas; non veni solvere sed adimplere (Mt 5, 17). Non devono infatti credere che sia sua intenzione annullare l’antica legislazione per istituirne una nuova, nonostante ciò che apparentemente le sue azioni a volte sembrano testimoniare36. Per chiarire questo punto Alberto introduce una parentesi teorica, in cui si definisce la nozione di putare e la si distingue concettualmente da altri atteggiamenti mentali quali la dubitatio, l’ambigere, l’opinio, la fides, lo scire, l’exstimatio, il conicere.

La putatio è definita come l’aderire della ragione all’inganno dei sensi o alle immagini distorte dell’immaginazione37. La dubitatio indica invece il moto indeterminato della ragione tra due alternative per il fatto che non riesce a decidersi per nessuna delle due38. Ancora diverso è l’ambigere, per il quale, come dice Boezio, si accolgono entrambe le parti di una contraddizione, dal momento che le ragioni per accettare l’una o l’altra si equivalgono e non si sa perciò a quale dare il proprio assenso39. Altra cosa ancora, l’opinio è quando ci si decide per una parte

34 SM, Schmidt, 101, rr. 33-35 35 SM, Schmidt, 122, rr. 6-33 36 SM, Schmidt, 122, rr. 34-56

37 «Putatio est haesio animi ex inductu phantasiae vel sensus deceptorii. … Putare enim est hoc quod

dictum est, et ideo rationis est ad sensus vel imaginationis signa reflexae» SM, Schmidt, 122, rr. 61-67

38 «Dubitatio autem est interminatus motus rationis inter utramque partem rationis, eo quod ad

neutram habeat rationem, et ideo quasi quaerendo interminate movetur» SM, Schmidt, 122, rr. 67-71

39 «Sed ambigere…est ambire utramque sive ambas partes contradictionis per aequivalentes rationes

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dell’alternativa perché dell’altra si ha timore a causa della debolezza delle ragioni che la sostengono40. Nella fides, con la quale si intende qui il credere della ragione e non la virtù teologale, questo timore viene meno per il fatto che le ragioni a sostegno di una delle due parti della contraddizione cominciano a essere prevalenti41. Scire invece significa conoscere la causa essenziale di qualcosa e riconoscere il legame univoco e necessario che la collega immediatamente al suo effetto42. Tutt’altra cosa rispetto a questo sono infine l’existimatio e il conicere, i quali, rispettivamente, consistono nel desumere qualcosa da molteplici indizi sensibili e nel congetturare da segni remoti qualcosa di falso, ma che per molteplici aspetti appare credibile43.

Concluso il chiarimento concettuale si sottolinea quindi che la supposizione per putatio è più fallace rispetto a quella di tutti gli altri casi, dal momento che, suscitata delle molteplici apparenze fornite dai sensi e dall’immaginazione, il suo emergere quasi sfugge al controllo razionale, per cui si può solo in un secondo momento opporvisi con la forza della volontà. Contrastare con la volontà questo primus motus infidelitatis, è questo dunque l’invito implicito nelle parole – nolite putare – di Gesù.

Il commento prosegue quindi analizzando il significato dei termini “legge” e “profeti”. Della legge, per connessione etimologica con il verbo ligare, si sottolinea il carattere vincolante che, come riporta anche Aristotele44, obbliga all’adempimento di ciò che da essa è stabilito da parte coloro che vi sono soggetti. Per prophetia

40 «Sed opinio est, quando ad unam partem rationes habentur cum formidine partis alterius. Et haec

formido contingit ex infirmitate rationum, quae ad alteram partem habentur» SM, Schmidt, 123, rr. 4-7

41 «Fides autem sive credere est, quando rationes ad unam partem incipiunt praevalere et altera pars

contradictionis quasi non timeri» SM, Schmidt, 123, rr. 7-10

42 «Scire autem causam essentialem et immediatam cognoscere et quia illius et non alterius causa est

et quod non contingit aliter se habere propter immediationem causae ad effectum» SM, Schmidt, 123, rr. 13-16

43 «existimatio proprie est, quando ex aliquibus pluribus signis sensibilium aliquid concipitur; et

conicere est ex signis remotis fallacem, sed in pluribus tenentem accipere conceptionem» SM, Schmidt, 123, rr. 18-21

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invece è da intendersi in senso lato ogni fatto o detto che preannuncia qualcosa riguardo gli eventi futuri45.

Fatte queste precisazioni si arriva alla considerazione dell’esplicita negazione, da parte di Gesù, del dissolvimento della legge, per affermarne invece l’adempimento. E ciò, secondo l’argomentazione albertina, consisterebbe in un completamento della vecchia legge tramite l’aggiunta, di cui Gesù si fa il portatore, di decisivi elementi di novità, vale a dire: un maggior rilievo dato ai minima della legge – indicativi rispetto all’interiorità del soggetto – rispetto ai maxima costituiti dai precetti veri e propri, che prescrivono o vietano determinate azioni esteriori; il prevalere grazia sui precetti; un maggior riguardo per l’intenzione del legislatore, rispetto alla considerazione di quanto stabilito dalla lettera della legge46. Emergono qui, nell’opposizione tra intenzione e azione, tra interiorità e esteriorità, tra spirito e lettera, le cifre fondamentali della concezione dell’agire morale secondo Alberto, che approfondiremo meglio con il proseguire dell’analisi.

Per spiegare ulteriormente ciò in cui consiste l’adempimento annunciato da Gesù, segue a questo punto un’ulteriore digressione sulla legge, di cui vengono distinti i cinque elementi costitutivi – moralia, iudicialia, caerimonialia, sacramentalia, promissa – ai quali la grazia di Cristo conferisce nuova compiutezza. Questa parte permette anche di comprendere la concezione albertina del diritto, in cui risalta soprattutto la distinzione fondamentale tra legge naturale e legge convenzionale.

Moralia dunque sono quei precetti validi assolutamente e universalmente, a prescindere cioè da qualsiasi contingenza storica particolare, perché presenti ad ogni

45 SM, Schmidt, 123, rr. 51-78 46 SM, Schmidt, 124, rr. 36-40

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uomo per il solo fatto di essere dotato di ragione. Tali sono per esempio i dieci comandamenti47. Con Cristo questo diritto naturale universale riceve esplicito riconoscimento. Iudicialia si dicono invece le regole in base alle quali giudicano gli uomini, che sono decise di comune accordo in considerazione della pubblica utilità e della salvaguardia della stabilità e della pace della comunità civile. Per la loro origine storica, esse hanno una natura contingente, cioè variano a seconda del tempo e del luogo, del popolo di cui sono espressione48. Il loro adempimento da parte di Cristo consiste nel mitigarne l’intrinseca rigidità che le caratterizza in quanto scritte, per cui, una volta che sono state formulate, difficilmente possono essere perfettamente adeguate all’infinità sempre nuova dei casi che la realtà presenta. Con caerimonialia si intendono tutti quegli usi e cerimoniali che hanno un significato simbolico e che fanno parte della tradizione storica di un popolo49. Sacramentalia sono dette quelle cose che simboleggiano la grazia dei sacramenti, ma non la conferiscono50. Promissiones infine sono formulazioni in cui si fa uso di immagini terrene per indicare qualcosa riguardo al futuro51.

Nel versetto successivo (Mt 5, 18), l’amen proferito da Gesù (Amen quippe dico vobis) va a confermare e ribadire la verità e quindi l’affidabilità di quanto appena annunciato, ossia che nulla della vecchia legge verrà modificato52.

47 «Moralia autem sunt, quae sunt de per se expetendis vel per se vitandis imperata, quae ubique et

semper sunt tenenda, quae ratio naturalis dictat homini, etiam si nulla lex ea imperasset in scripto, sicut decem praecepta, quae scripta sunt in tabulis, Exod. XX (2-17)» SM, Schmidt, 124, rr. 72-75

48 «Iudicialia sunt, per quae iudicantur homines secundum communicationes contractuum vel

damnorum vel utilitatum et tenentur in civilitate et pace … Et haec variabantur pro diversitate locorum, temporum et personarum» SM, Schmidt, 124, rr. 79-88

49 «In lege autem caerimonialia dicuntur, quorum nulla utilitas secundum se est ad mores, nulla ad

iudicia civilitatum, sed totus usus et utilitas eorum est in significando aliquid, non in sacramentis quidem, sed circa mores hominum» SM, Schmidt, 125, rr. 7-12

50 «Sacramentalia sunt significantia gratiam sacramentalem, quam nostra sacramenta causant, et non

conferentia eam» SM, Schmidt, 125, rr. 16-22

51 «Promissiones sunt, quae futura promittebant sub figura terrenorum» SM, Schmidt, 125, rr. 23-24 52 SM, Schmidt, 125(r.72)-126(r.1)

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L’immagine seguente rende più forte ancora questa conferma – Donec transeat caelum et terra, iota unum aut unus apex non preteribit a lege, donec omnia fiant (Mt 5,18) –: quelli che tra i corpi creati sono in assoluto i più stabili, vale a dire i corpi celesti, nella costanza del loro moto regolare sono pur sempre tuttavia più mobili della legge. Il riferimento evangelico ai transiti celesti offre ad Alberto lo spunto per una breve parentesi sull’innovatio mundi, articolata in cinque punti secondo altrettante questioni: 1) se (an) il mondo debba costantemente rinnovarsi – e questo è necessario, in conformità al mutamento di chi lo abita53; 2)e3) per mezzo di cosa (quo) questa innovazione debba avvenire, domanda che si sdoppia in a quo e ad quem – e ciò avviene attraverso l’azione del fuoco, il quale non per sé, ma in quanto informato da una superiore natura, agisce sulle anime e sul mondo ripulendoli dal peccato e rimuovendo le disposizioni contrarie all’innovazione54; 4) se tutto intero (utrum totus) venga rinnovato o solo in parte – e si risponde che, nonostante siano soggette all’azione purificatrice solo quelle parti corrotte dal peccato, l’innovazione tuttavia riguarda il mondo nella sua totalità, dal momento che l’eliminazione delle qualità cattive comporta di per sé un mutamento della sostanza stessa55; 5) in che modo (qualiter), infine, avvenga il rinnovamento – e questo avviene tramite la separazione delle ignobiles qualitates dalla sostanza e l’assunzione al loro posto di qualità nobili56.

Nel prosieguo del commento, proprio l’analisi del termine iota fornisce ad Alberto l’occasione per esplicitare cosa si debba intendere per quei minima della legge ai quali, secondo quanto detto poco sopra, la nuova prospettiva introdotta da

53 SM, Schmidt, 126, rr. 9-29 54 SM, Schmidt, 126, rr. 30-72 55 SM, Schmidt, 126(r.73)-127(r.31) 56 SM, Schmidt, 127, rr. 32-47

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Cristo dovrebbe concedere maggiore importanza. Lo iota può essere infatti interpretato o come la decima lettera dell’alfabeto greco – e allora per la sua posizione starebbe a simboleggiare i dieci comandamenti del decalogo – o come i segni che, nella lingua ebraica scritta, posti sopra o sotto le lettere, stanno a indicare i suoni vocalici. In quest’ultimo caso si tratterebbe quindi di una metafora, volta a rappresentare quelle minima particula che ogni precetto comprende implicitamente in quanto concomitanti rispetto all’azione sulla quale esso si pronuncia. Per esempio, particula nel caso di un omicidio sarebbero prima di tutto l’ira che ne è la causa, poi le minacce, gli insulti, le percosse che lo precedono, infine le ripercussioni sull’anima di chi lo ha commesso. Tali minima possono sembrare piccola cosa rispetto all’azione che è oggetto del precetto, tuttavia essi sono in realtà molto più difficili da osservare dal momento che, riguardando vizi radicati nella natura umana, implicano uno sforzo notevole nell’andare contro l’istinto naturale, cosa che invece non accade nel caso dei comandamenti principali, i quali al contrario prescrivono azioni verso cui la volontà umana inclina naturalmente. I primi pertanto, per essere rispettati, richiedono un animo perfetto nella virtù nonché il sostegno della grazia, mentre per rispettare i secondi è sufficiente un adesione puramente esteriore. È per questo che, in considerazione della fatica che costa il loro rispetto, i minima sono, se trasgrediti, causa di una colpa modesta, mentre l’adempiervi è invece fonte del massimo merito. Il dare il nuovo giusto rilievo ai minima avrà poi come diretta conseguenza l’adempimento dei magna e dei maxima, che sono i comandamenti fondamentali57.

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Il versetto 19 mostra in che modo (qualiter), nei confronti di chi (in quibus) e con che conseguenze per chi lo fa (quo merito) la legge può essere infranta o al contrario adempiuta58. Nel primo caso – Qui ergo solverit unum de mandatis istis minimis et docuerit sic homines, minimus vocabitur in regno caelorum –, chi non rispetta la legge anche e soprattutto in quei minima cui si faceva prima riferimento, e in più insegna agli altri, con l’esempio o a parole, a fare altrettanto, questo avrà una ricompensa minima, e sarà chiamato “minimo” da coloro che nel regno dei cieli si trovano con il massimo merito derivante dall’aver osservato la legge in tutte le sue parti, minima compresi59. Al contrario – qui autem fecerit et docuerit, hic magnus vocabitur in regno caelorum – chi adempie totalmente alla legge e con il suo agire è di esempio e insegnamento agli altri, riceverà il congruo premio per una così grande virtù60.

Nel versetto 20 l’invito ad adempiere la legge anche nei suoi minima è ulteriormente rafforzato dal confronto con coloro che sono noti per avere un’adesione alla legge del tutto esteriore e formale, vale a dire gli scribi e i farisei. Per costoro infatti la legge è vincolante esclusivamente rispetto alle azioni, senza perciò che l’animo ne sia coinvolto – per usare l’efficace e eloquente metafora di Alberto, essi ritengono quod lex cohiberet manum, non animum. Pensando in questo modo, si preoccupano quindi maggiormente delle apparenze e del rispetto delle tradizioni piuttosto che cercare di comprendere la vera intenzione che costituisce lo spirito di ogni diritto scritto, e in cui maggiormente si esplica la legge divina. Per questo essi, e coloro che si comportano allo stesso modo, non avanzano fino a quello stato di perfezione che implica il rivolgersi interiormente al controllo delle passioni

58 SM, Schmidt, 128, rr. 61-63 59 SM, Schmidt, 128(r.64)-129(r.44) 60 SM, Schmidt, 129, rr. 55-71

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dell’animo, atteggiamento secondo il quale soltanto si ha diritto a un posto nel regno dei cieli61.

Si è arrivati a questo punto a quella parte in cui viene reso esplicito che cosa significhi, in particolare, adempiere alla legge nel modo corretto. E questo avviene riprendendo uno per uno i singoli comandamenti che la costituiscono. Per quelli che non compaiono nelle sezioni, individuate seguendo un rigoroso criterio logico, in cui sono suddivisi i versetti successivi, Alberto fornisce prontamente una giustificazione razionale ad hoc, come nel caso dei comandamenti che riguardano il desiderio delle cose altrui62, o quello che proibisce il nuocere al prossimo nei beni che gli sono stati concessi dalla sorte (cioè il furto)63, o quello ancora che prescrive di onorare i genitori64, o infine quelli che riguardano direttamente Dio, cioè il primo, sull’unicità, e il terzo, sul rispetto del sabato65.

La prima parte dunque di questa sezione in cui vengono passati in rassegna i diversi comandamenti, ha per oggetto i precetti che possono essere definiti moralia, quelli cioè che, come già precisato, derivano da quei principi universali e assoluti che costituiscono il diritto naturale presente ad ogni essere razionale. Il primo ad essere considerato è, ai versetti 21 e 22, quello che riguarda l’omicidio: audistis, quia dictum est ab antiquis: Non occides… (Mt 5, 21). L’analisi della parola antiquis dà qui ad Alberto lo spunto per tratteggiare la distinzione tra vecchio e nuovo popolo, il primo definito carnalis e remotus a principio, mentre il secondo sarebbe propinquum ad principium. Infatti il comandamento che proibisce l’omicidio poteva essere ben inteso anche dagli antiqui, dal momento che tale azione rientra in quelle che la natura 61 SM, Schmidt, 129(r.79)-130(r.26) 62 SM, Schmidt, 130, rr. 50-69 63 SM, Schmidt, 130(r.77)-131(r.21) 64 SM, Schmidt, 131, rr. 22-28 65 SM, Schmidt, 131, rr. 29-43

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umana di per sé aborrisce66. Ma ora che l’avvento di Cristo – Ego autem dico vobis… (Mt 5, 22) – ha aperto la nuova dimensione della grazia, rendendo così “nuovi”, cioè più vicini al principio, ossia Dio, gli uomini che l’hanno ricevuta, l’adempimento di questo precetto implica il saper leggere dietro la forma letterale l’intenzione del legislatore, che, in questo caso, consiste nella realizzazione all’interno della res publica della pace perfetta. Quest’ultima è ben diversa dalla pace puramente esteriore che si ottiene con la minaccia di pene e punizioni. Diversamente da questa infatti, la pace come beatitudine implica l’interiorizzazione della legge da parte di coloro che vi sono soggetti, in modo che, citando Paolo Rm 2, 14, ipsi sibi sint lex, cioè in grado di comportarsi secondo la legge divina anche se non ci fosse nessuna legge scritta ad esprimerla67. Ma Paolo non è l’unico ad essere citato a questo proposito: Alberto fa qui riferimento anche all’epieikes del quinto libro dell’Etica Nicomachea: chi interiorizza la legge, ossia fa propria l’intenzione del legislatore che vi è sottesa, è come il superiustus aristotelico68. Torneremo su questo parallelo per approfondirlo nella seconda parte di questo lavoro.

L’interiorizzazione della legge dunque consiste concretamente nell’operare un controllo sui moti della propria anima al fine di orientarli al bene e fare in modo così che non sorga neppure la tentazione di commettere l’atto proibito dalla legge naturale. Nel caso dell’omicidio, primo passo verso questo obiettivo è la rimozione del sentimento d’ira. Di essa Alberto, seguendo il testo evangelico – …omnis, qui irascitur fratri suo, reus erit iudicio. Qui autem dixerit fratri suo racha, reus erit concilio. Qui autem dixerit fatue, reus erit gehennae ignis (Mt 5, 22) –, individua tre gradi, in corrispondenza dei quali sono previste tre diverse pene di crescente

66 SM, Schmidt, 131(r.76)-132(r.11) 67 SM, Schmidt, 132, rr. 19-48 68 SM, Schmidt, 132, rr. 48-54

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gravità69. Nell’analizzare il primo, è opportuno prima di tutto dedicare uno spazio alla definizione della passione dell’ira.

L’ira è già stata definita poco sopra70 passio e commotio animi, termini che indicano il suo sorgere nell’individuo indipendentemente dalla sua volontà. Ora il concetto viene esplicitato: nell’ira intesa in senso generale, si possono distinguere due momenti, l’ira in quanto propassio, e l’ira in quanto passio vera e propria. Con il primo termine si intende l’improvviso moto dell’animo che sorge senza che vi si possa operare alcun controllo, per cui può capitare anche agli uomini di solida virtù. Per esso perciò, proprio in considerazione del suo carattere del tutto involontario, non è prevista alcuna pena. L’ira in quanto passio, invece, è un moto deliberatus, che implica cioè il consensus da parte della volontà a mettere in esecuzione quanto il primo istinto suggerisce71. Il concorso della volontà è ciò che la rende in una certa misura volontaria, e quindi passibile di punizione.

Fatte queste precisazioni, si passa quindi a considerarne la causa. L’ira infatti può sorgere per zelum, cioè nel constatare il vizio e il suo essere di ostacolo al realizzarsi della giustizia divina, oppure per vitium, e questa è l’ira cui si faceva riferimento prima, quella per cui si trama deliberatamente per nuocere al proprio e simile e che merita perciò di essere punita. Alla prima invece, se moderata, può essere riconosciuta una funzione positiva come stimolo alla correzione fraterna72.

Per riassumere dunque, il primo grado d’ira consiste nella deliberata commotio animi cum consensu in nocumentum fratris. Per essa la punizione prevista è l’essere sottoposti a giudizio, pena relativamente lieve se si considera che il processo può

69 SM, Schmidt, 132(r.75)-133(r.8) 70 SM, Schmidt, 132, rr. 72-75 71 SM, Schmidt, 133, rr. 12-30 72 SM, Schmidt, 133(r.31)-134(r.2)

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concludersi sia con la condanna che con l’assoluzione, e anche se in questo caso è implicita la condanna, essa tuttavia rimane verbale73.

Il secondo grado comporta invece che la commotio sorta internamente all’animo sia espressa verbalmente con manifestazioni evidenti dirette a colui che ne è l’oggetto, senza però arrivare ad un vero e proprio insulto a suo riguardo. La pena corrispondente in questo caso è l’essere condotti al cospetto dell’assemblea, che è il contesto in cui la punizione viene definita e quantificata in merito alla colpa74.

Il terzo grado infine aggiunge ai due precedenti la calunnia con la quale si investe il prossimo in piena volontà di nuocergli. La pena commisurata a tale colpa l’essere arsi dal fuoco dell’inferno, giusto contrappasso per coloro che si sono resi colpevoli di peccato mortale perché preda delle fiamme dell’ira75.

Solo quando si sia debellata la passione dell’ira, ostacolo a qualsiasi benevolenza nei confronti del prossimo, si può procedere con il secondo passo verso l’interiorizzazione della legge, che è la riconciliazione con il fratello (termine con cui ci indica ogni appartenente alla specie umana). Ad essa invitano espressamente i versetti 23 e 24, dove tra l’altro si mette in evidenza il fatto che l’odio fraterno è di ostacolo anche al rapporto con Dio stesso: solo dopo aver ristabilito la pace infatti, la propria offerta è resa accettabile a Dio: …vade prius reconciliare fratri tuo et tunc veniens offers munus tuum (Mt 5, 24)76.

Dopo l’exclusio irae e la reconciliatio, il terzo e ultimo passo consiste nel perfectum amicitiae consensum, ossia nell’arrivare a stringere con il prossimo un autentico legame di amicizia. Un tale invito sarebbe implicito nei versetti 25 e 26:

73 SM, Schmidt, 134, rr. 3-15 e 132, rr. 85-87 74 SM, Schmidt, 134, rr. 16-49

75 SM, Schmidt, 134(r.69)-135(r.16) 76 SM, Schmidt, 135(r.24)-137(r.45)

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Esto consentiens adversario tuo… E questo deve avvenire al più presto – cito – mentre si è ancora in vita – dum es in via cum eo –, la quale nessuno sa quando avrà fine. Perché se non si arriva al consensus nel tempo debito, allora si verrà giudicati – tradat te iudici – quindi condannati ad essere separati da Dio, dal consorzio degli eletti e da ogni bene – et iudex tradat te ministro – e infine puniti con la reclusione nell’inferno – et in carcere mittaris. Il soggiorno in questo carcere durerà a lungo, finché cioè la pena non sarà scontata del tutto – donec reddas novissimum quadrantem. Il novissimus quadrans qui starebbe a simboleggiare, secondo la Glossa, il più basso dei quattro elementi naturali, la terra, ossia la materia, la quale è causa nell’uomo di ogni imperfezione e quindi di ogni peccato. È questa materialità costitutiva che bisogna consumare fino all’ultimo nei tormenti dell’inferno, nel caso non si sia riusciti a liberarsene già durante la vita grazie all’amore di Dio e del prossimo. Ma Alberto aggiunge un’interpretazione alternativa: i quattro quadrantes rappresenterebbero i quattro gradi del peccato, tre dei quali sono stati chiariti poco sopra: il primo è costituito dalla commotio animi propria dell’ira, nel secondo questa è espressa in manifestazioni esteriori, nel terzo si arriva infierire con insulti e ingiurie. Il quarto consisterebbe nel tradurre in azione il proposito di nuocere. Si ha quindi, in un crescendo di gravità, la concezione del peccato accompagnata dal desiderio dell’illecito, il provare piacere nel desiderare qualcosa di proibito, l’acconsentire al desiderio illecito e, infine, il compiere l’azione corrispondente nel caso se ne abbia la possibilità77.

Il secondo comandamento ad essere preso in considerazione nei versetti subito successivi (27-32) è la proibizione dell’adulterio. Anche questo è un precetto che fa

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parte dei cosiddetti moralia ma, a differenza del precedente, che ha a cuore la sicurezza del singolo individuo, il fine che si ha di mira qui è piuttosto il bene della specie78. Questo comandamento riguarda infatti ciò che comporta la rottura del legittimo vincolo matrimoniale, cioè l’adulterio e il ripudio. La proibizione del primo occupa i versetti 27-30, mentre alla trattazione del secondo sono riservati i versetti 31 e 3279.

Come per il comandamento precedente, prima di tutto è riportato il precetto così come è stato ricevuto dall’antico popolo carnale: Audistis quia dictum est antiquis: Non moechaberis (Mt 5, 27)80. Segue quindi l’affermazione del nuovo ordine stabilito tramite Cristo – Ego autem dico vobis… (Mt 5, 28)– e ciò che comporta l’adempimento del medesimo precetto nella nuova dimensione della grazia. Prima cosa, come abbiamo visto sopra, è la rimozione della passione, che, in questo caso, è la concupiscenza. Anche di questa se ne individuano diversi gradi81.

Al primo grado è soggetto qualsiasi individuo – omnis –, senza distinzione di dignità, condizione sociale, sesso o età, in quanto tale peccato sorge per stimolo naturale e quindi incontrollabile. Tale stimolo è suscitato in particolare dalla vista – qui viderit – di forme belle e quindi desiderabili – mulierem. Ma solo l’acconsentire ad esso – ad concupiscendum – è ciò che costituisce il vero peccato, dal momento che è atto volontario operato dalla ragione, cioè deliberato. E il consenso implica il muoversi, per quanto è possibile, verso l’ottenimento dell’oggetto del desiderio – eam. Quando è presente una tale completa volontà, poco importa poi se il proposito sia effettivamente raggiunto o meno: l’azione esterna nulla aggiunge infatti allo stato

78 SM, Schmidt, 130, rr.70-76 79 SM, Schmidt, 139, rr. 52-64 80 SM, Schmidt, 139(r.70)-140(r.42) 81 SM, Schmidt, 140, rr. 43-58

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interiore dell’anima – iam moechatus est eam in corde suo –, che è quello a cui si deve ora guardare per giudicare correttamente82.

La concupiscenza di secondo grado implica che il desiderio trattenuto nell’animo sia reso manifesto da segni evidenti. Se l’animo era simboleggiato, nel versetto precedente, dal cuore, qui metafora del suo emergere all’esterna evidenza è l’occhio, e per la precisione l’occhio destro: Quod si oculus tuus dexter… (Mt 5, 29). Alberto spiega questo particolare ricorrendo ancora una volta ad Aristotele, che nel secondo libro del De caelo et mundo affermerebbe che la destra è il luogo da dove ha origine il movimento, mentre la sinistra è ciò che è in questo è trascinata. Secondo questa prospettiva dunque, l’occhio destro sarebbe da intendersi come espressione evidente dell’animo, dal momento che nell’uomo è questo da cui ha origine ogni direttiva e movimento, mentre il sinistro sarà invece espressione del corpo, che dal primo si fa guidare. Quando dunque nel testo evangelico, al proseguire del versetto 29, si legge che l’occhio destro scandalizat te, si deve intendere per esso l’animo ormai incline al desiderio carnale nel quale è incappato su istigazione dello stimolo sensibile. Sradicare l’organo malato è a questo punto l’unica soluzione – erue eum –, il che in realtà significa che occorre distogliere l’animo dalla vista di quelle forme che lo inducono a desideri illeciti, in modo da allontanarlo dalla causa del peccato – et proice eum abs te. Questo “sacrificio” eviterà di andare incontro, in futuro, a sofferenze ben peggiori: expedit enim tibi, ut pereat unum membrorum tuorum, quam totum corpus tuum mittatur in gehennam83.

Al terzo livello troviamo infine la concupiscenza che si appresta a realizzare ciò che desidera. L’immagine utilizzata è questa volta quella della mano destra – Et

82 SM, Schmidt, 140(r.59)-142(r.28) 83 SM, Schmidt, 142(r.29)-144(r.45)

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si dextera manus tua… (Mt 5, 30) –, che, come spiegato prima, sta a indicare ciò da cui ha origine il movimento, ossia, in questo caso, la messa in pratica del proposito illecito. Principio del movimento dunque è sempre l’animo, che, di nuovo, con l’inclinare verso l’azione proibita attraverso il contatto dei corpi simboleggiato dalla mano, scandalizat, cioè sconvolge interamente l’ordine di una vita secondo virtù. Anche qui la cura consiste nell’allontanamento da quelle forme sensibili che istigano al contatto e quindi inducono in tentazione – Erue eam et proice abs te –, rendendosi così in grado di controllare gli istinti del corpo84.

Questa l’interpretazione che Alberto ha prescelto per commentare questi versetti. Prima però di proseguire, si preoccupa di fare almeno un accenno a due versioni alternative riportate nella Glossa. Nell’una, l’occhio e la mano rappresenterebbero rispettivamente la vita theoretica sive contemplativa e la vita pratica sive activa: quando la prima scandalizat, cioè viene a noia, è segno che occorre in quel momento rivolgersi alla seconda; quando invece è quest’ultima a incontrare difficoltà, è opportuno viceversa cercare ristoro e quiete nella prima. Oppure ancora, nell’altra, l’occhio sta per l’amico dottore e consigliere fidato, che bada a noi e di noi ha cura, mentre la mano sta per l’amico che cura i nostri affari e opera nel nostro interesse; da entrambi, per quanto siamo loro legati da forti vincoli di affetto, occorre separasi nel caso si trovino in loro motivi di scandalo85.

Eccoci dunque giunti ai versetti 31 e 32, dove trova posto, a completare l’adempimento del comandamento sull’adulterio, il tema del ripudio. Anche il

84 SM, Schmidt, 144(r.46)-145(r.19) 85 SM, Schmidt, 145, rr. 20-53

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ripudio infatti, come l’adulterio, è contrario al legittimo vincolo del matrimonio, dal momento che interrompe quella consuetudine di vita che è propria dei coniugi86.

Al versetto 31 viene dunque citato un precetto in proposito, attribuito a Mosè, che ammette il ripudio: Dictum est autem: Quicumque dimiserit uxorem suam excepta fornicationis causa, det illi libellum repudii (Mt 5, 31). Di tale norma Alberto sottolinea subito il carattere storico, non divino, perché permette qualcosa che non è da considerarsi naturale, quanto piuttosto contra rationem. Rimane quindi da chiedersi se Mosè, pur avendolo concesso, lo ritenesse o meno un peccato. Tale questione dà modo ad Alberto di affrontare un’interessante discussione. La Glossa infatti, a questo riguardo, riporta a giustificazione di Mosè il fatto che permise ciò che in sé costituisce un male solo al fine di evitarne uno peggiore, ossia l’uccisione di uno dei due coniugi. Ma Alberto confuta questa posizione sostenendo con Paolo (Rm 3, 8) che la bontà del fine non giustifica la malvagità dei mezzi utilizzati per ottenerlo. La soluzione starebbe dunque nel distinguere fra ambito privato e ambito pubblico: relativamente al primo, vale la regola generale appena detta, ossia che bisogna astenersi dal commettere il male in ogni caso, a prescindere da qualsiasi situazione; nel secondo invece bisogna considerare che i legislatori, se vogliono garantire la pace comune, non hanno altro modo per esercitare un controllo sulle diverse e discordi volontà del popolo se non quello di ordinare ciò che è bene in sé, essere indulgenti verso le debolezze più comuni e diffuse, infine tollerare e regolamentare per legge quei mali che sono inevitabili. Dove infatti sono presenti, come è il caso di ogni comunità civile, volontà molteplici, ognuna rivolta a perseguire il proprio interesse privato, è praticamente automatico che sorgano mali, e

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compito della legge deve essere quello di porvi un freno, il che comporta inevitabilmente il riconoscerli e, in parte, l’accettarli87. È quest’ultimo il caso in cui va fatto rientrare il precetto mosaico, che rispondeva evidentemente alla necessità contingente di un popolo non ancora liberato dalla duritia cordium. Tuttavia, se anche tale legge rendeva il ripudio non punibile, essa però non eliminava affatto il peccato che vi era connesso88.

Ma ora l’adempimento della legge secondo il nuovo ordine instaurato da Cristo – Ego autem dico vobis… (Mt 5, 32) – squalifica questa antica concessione: chi dunque ripudia la propria moglie – omnis, qui dimiserit –, rompendo così non tanto il legame matrimoniale – che, come vincolo stabilito per legge, è inviolabile e dura finché i coniugi rimangono in vita –, quanto rendendo impossibile quella quotidiana consuetudine che è propria della vita matrimoniale, e lo fa senza una giusta causa – excepta causa fornicationis –, sarà la causa del di lei tradimento: facit eam moechari. Allo stesso modo, commette adulterio anche colui che sposa una ripudiata89.

Terzo comandamento è quello che proibisce lo spergiuro (versetti 33-37). Anch’esso rientra nei moralia come i precedenti, ma se quelli riguardavano azioni illecite, questo invece ha per oggetto un peccato che si commette tramite le parole90.

Di nuovo, come sopra, all’inizio è riportato il precetto così come è stato ricevuto dagli antichi: Iterum audistis, quia dictum est antiquis: non peierabis… (Mt 5, 33). Per definire in che cosa consista lo spergiuro, Alberto inserisce a questo punto una lunga digressione91, articolata in dieci punti, seguendo dieci questioni guida. Di

87 SM, Schmidt, 147, rr. 47-50 88 SM, Schmidt, 146(r.5)-147(r.9) 89 SM, Schmidt, 147(r.34)-148(r.27) 90 SM, Schmidt, 130, rr. 43-49 91 SM, Schmidt, 149(r.7)-150(r.71)

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queste, le prime otto riguardano quello che è considerato l’opposto dello spergiuro, vale a dire il giuramento:

1) quid iuramentum. Ed esso è definito «invocazione di una verità immobile ad attestazione e conferma di una verità mobile, quale è quella che si ha in tutti i discorsi umani», affinché, nonostante ciò, vi si possa ugualmente fare affidamento92;

2) quae necessitas, dalla quale nasce il giuramento. E qui si richiama la natura sociale dell’uomo, per il quale la convivenza con i propri simili è esigenza naturale, ma è altresì inevitabile che i rapporti tra gli appartenenti alla comunità si regolino sulla base di contratti e patti93. Tali accordi risultano dalle volontà dei singoli contraenti, i quali naturalmente le manifestano sotto forma di determinate espressioni verbali. Le parole dunque sono indicia voluntatis, ma non solo quanto al contenuto, in quanto dalla volontà, che è detta essere quanto di più mobile, instabile, incerto e ignoratiae permixtus vi possa essere94, derivano anche la loro intrinseca inaffidabilità. Di qui la necessità che le parole e i discorsi umani siano garantiti dal riferimento a qualcosa di più stabile, che altro non può essere che la verità divina;

3) quae exiguntur ad iuramentum. Il giuramento infatti esige tre cose: il giudizio della ragione, attraverso il quale chi giura fissa i termini del contratto; la verità, che deve necessariamente essere posseduta da ciò che è

92 «iuranentum est invocatio immobilis veritatis ad testificandum et confirmandum veritatem mobilem,

quae in dicto hominis, ut melius aliquis veritati dicti hominis inniti possit», SM, Schmidt, 149, rr. 19-23

93 «homines necesse habent communicare in contractibus et pactis, quia aliter cohabitare civiliter non

possent», SM, Schmidt, 149, rr. 29-31

94 «Nihil autem mobilius et instabilius et dubitabilius et ignorantiae permixtius est quam voluntas»,

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oggetto del giuramento; infine la giustizia, che è la causa per cui si giura. A questi, individuati da san Gerolamo, Alberto aggiunge altri tre comites iuramenti: che il chiamare a testimone Dio non avvenga per cose inutili e frivole; che l’attestazione della verità di ciò che si giura avvenga attraverso la verità divina e non per altro; che si ricorra al giuramento solo in quei casi in cui lo esige la mancanza di fiducia di colui con cui si ha a che fare;

4) quod iuramentum sit licitum. E perché il giuramento sia lecito, occorre che tutte e sei le condizioni precedentemente individuate siano rispettate, pena il macchiarsi di spergiuro;

5) qualiter sit intelligendum. Poiché infatti un uomo non giura per se stesso, il giuramento deve intendersi nel modo in cui è recepito da colui per il quale è stato fatto;

6) utrum semper sit observandum. Si risponde che va tenuta fede in modo assoluto al giuramento, perché si intende per definizione che esso sia tale secondo i criteri descritti sopra. In caso contrario si tratta di spergiuro; 7) qui sint modi iurandi. Si può infatti giurare in due modi: o chiamando a

testimone la verità divina, o attraverso la minaccia della pena in cui si incorre nel caso si venga meno al patto;

8) quare a iure nominatur, e non da altro. Il giuramento deriva il suo nome da ius perché come ogni diritto nasce da un accordo o un patto, così anche il giuramento non è richiesto se non in queste medesime occasioni. Ciò che sta alla base del diritto è pertanto la stessa cosa su cui si giura. Tale connessione è posta in evidenza nella denominazione stessa.

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Esaurita in questi otto punti la trattazione sul giuramento, si può quindi passare a definire lo spergiuro:

9) quid sit periurum. Per definire in che cosa consista lo spergiuro, Alberto a questo punto ricorre a un interessante parallelo tra giuramento e virtù, da cui deriva quello tra spergiuro e vizio. Come infatti la virtù è un’unica e singola entità, un intero potenziale, per la precisione, che si realizza con il passaggio all’atto di tutte le sue parti in conformità ad un unico fine, per cui se anche una sola di esse si corrompe, la virtù decade in vizio, allo stesso modo il giuramento implica il rispetto di tutte e sei le condizioni che lo definiscono, perché, se anche una sola viene meno, si tratta allora già di spergiuro;

10) quare periurum est in prohibitione legis et non iuramentum. A giustificazione del fatto che, nella legge, alla proibizione dello spergiuro non segue coerentemente la prescrizione del giuramento, si dice che quest’ultimo è tollerato solo per indulgenza verso la debolezza tutta umana di chi altrimenti non si fiderebbe del prossimo, mentre in realtà sarebbe del tutto da evitare in quanto altamente rischioso e pericoloso. Esso infatti consiste nella congiunzione di due verità, quella divina e quella umana, e, anche se entrambe sono buone, tuttavia la seconda è instabile a causa dell’incertezza intrinseca di ogni nostra affermazione. Costituisce perciò sempre un rischio invocare la verità divina a sostegno della debole verità delle parole umane.

Quanto appena detto in questo ultimo punto è confermato dalla seconda parte del precetto, nel prosieguo del versetto 33: reddes autem domino iuramenta tua.

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