• Non ci sono risultati.

Necessità e male morale

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Necessità e male morale"

Copied!
46
0
0

Testo completo

(1)

Necessità e male morale

Leibniz, come già detto, considera il male metafisico la radice comune del male, quindi come l'unico tipo di male necessario; a causa della sua limitazione essenziale la creatura non può sapere tutto, ma può errare di per sé. Per quanto il male fisico e il male morale non siano necessari, sono tuttavia possibili in virtù delle verità eterne, la cui portata abbraccia tutte le possibilità. Perciò anche nell'eventualità di un mondo migliore non avrebbe senso che Dio ne creasse uno infinitamente perfetto, perché infinitamente perfetto è solo Lui. Qualunque altro mondo Dio avesse originato sarebbe stato non conveniente, avrebbe cioè implicato non una contraddizione logica, bensì un'assurdità morale. In questo senso si può dire che il male metafisico è voluto da Dio, ma sarebbe falso affermare che l'Onnipotente voglia male morale e male fisico. Da qui Leibniz avanza l'ipotesi che non si dia una predestinazione assoluta alla dannazione, ma che spesso Dio voglia il male fisico come pena dovuta alla colpa e spesso anche come mezzo idoneo ad un fine, il quale a sua volta può essere sia quello di impedire un male maggiore, sia quello di ottenere un bene superiore1.

(2)

Quello permesso dalla volontà di Dio per Leibniz è, propriamente, il male morale o peccato, in quanto il male metafisico è nell'essenza delle creature (ricordando che secondo Leibniz le essenze sono anteriori alla volontà di Dio), e il male fisico (o pena) è la conseguenza necessaria del male morale. Ma a questo male morale, nonostante esso sia spesso usato come mezzo per ottenere un bene o per impedire un male ancora maggiore, ciò non basta per essere considerato «un oggetto degno della volontà divina, o un oggetto legittimo di una volontà creata: occorre infatti che non sia ammesso o p e r m e s s o , se non in quanto è considerato conseguenza di un dovere indispensabile»2. Leibniz però va oltre: Dio non permette

propriamente il peccato se non nel senso che non toglie all'uomo la libertà di peccare, e il peccato non è l'oggetto della volontà permissiva di Dio, perché l'oggetto di questa volontà non è ciò che sarà permesso, ma il permesso stesso. Trova così conferma la regola che vieta di permettere un male morale per ottenere un bene fisico; ma, in rapporto a Dio, niente è dubbio, niente potrebbe essere opposto alla regola del meglio. È in questo senso che Dio permette il peccato, poiché, se non perseguisse il risultato migliore a partire dalla tendenza al bene dei suoi vari attributi e non optasse per ciò che è realmente e assolutamente il meglio, egli non onorerebbe i propri doveri verso se 2 G.W. v. Leibniz, Saggi di Teodicea, cit., Parte prima, p.173.

(3)

stesso, o meglio verso la sua saggezza, la sua bontà e la sua perfezione, nonostante il male di colpa sia automaticamente incluso a causa della «suprema necessità delle verità eterne. Dal che bisogna concludere che Dio vuole tutto il bene in sé a n t e c e d e n t e m e n t e, che vuole il meglio c o n s e g u e n t e m e n t e come fine, che talvolta vuole l'indifferente e il male fisico come mezzo, ma che non vuole permettere il male morale se non a titolo di sine qua non, o di necessità ipotetica, che lo lega al meglio»3. Per questo si può

concludere che la volontà divina, che ha per oggetto il peccato, è da considerarsi permissiva. La scelta del migliore poteva anche non essere compiuta da Dio se si analizza il problema da un punto di vista metafisico, ma non poteva non essere compiuta da un punto di vista morale. Metafisicamente, poiché ogni possibile ha un grado di realtà relativo al suo grado di perfezione, la scelta non consisterebbe in altro che nella individuazione dei possibili più perfetti, il che avrebbe troppo poco di un atto libero. Ma dal punto di vista morale la scelta si ispira al piano divino del migliore, e in questo caso non è il grado di realtà dei possibili che conta, bensì la convenienza di questi possibili ad esistere per formare quel mondo che è nei piani della mente divina. Così si spiega come Dio abbia potuto scegliere, tra le essenze, quelle la cui esistenza è propria di Giuda o di Adamo. Difatti nessuno può dire se tra 3 G.W. v. Leibniz, Saggi di Teodicea, cit., Parte prima, pp. 174.

(4)

i possibili non realizzati ce ne fossero alcuni più perfetti di quello che rappresentava la natura di Giuda; l'unica cosa certa è che il traditore di Cristo è esistito, ed è esistito per decreto divino, il decreto del meglio. A sua volta questo meglio è riferito al mondo e all'ordine in cui Giuda venne chiamato ad avere la sua parte e la sua funzione poiché, se non avesse tradito Gesù, questi non sarebbe morto in croce e non sarebbe risorto. Se si vuole radicalizzare il discorso, non sarebbe esistito il Cristianesimo senza la diserzione dell'Iscariota. La libertà di Giuda, secondo Leibniz, consiste nel fatto che egli non sa se peccherà o no, e quindi tutto ciò che egli deve fare è di non voler peccare. Nella mente divina la nozione di Giuda implica l'azione di tradire, ma Giuda ne è inconsapevole, e quindi egli non è necessitato a farlo. Questo neppure in considerazione del fatto che il tradimento è nella sua essenza, è da tutti i tempi nella sua natura prima di esistere. L'azione di Giuda esplica la natura che è in lui, la sua finalità immanente si attua nel tradimento del Cristo e si inserisce in un ordine preveduto da Dio. Tutto si spiega quindi in rapporto all'economia del mondo, all'armonia universale che Dio ha voluto: le diverse dissonanze sono volute da Lui, ma non sono causate dalla necessità assoluta, e la volontà che le vuole è la volontà permissiva, la più grande bontà di Dio in quanto Egli, «che può tutto ciò che è possibile, non permette il peccato se non perché è

(5)

assolutamente impossibile per chicchessia fare meglio»4. In questo

senso Leibniz può sostenere che Dio, in fatto di bontà, è migliore degli uomini e che non perde nulla della sua libertà, conservando nel mondo l'ordine regolato dall'eternità; inoltre in questo modo nessuna delle sostanze individuali, la cui esistenza si svolge in quell'ordine, perde la propria libertà.

La causa prossima del male morale, afferma Leibniz, è il libero arbitrio delle creature, come lo è conseguentemente del male di pena, anche se Leibniz non può fare a meno di aggiungere che «l'imperfezione originaria delle creature, che si trova rappresentata nelle idee eterne, ne è la causa prima e più lontana»5. Questa

conclusione viene esplicitata a partire dalla Genesi, nella quale si afferma che «Dio creò l'uomo a sua immagine»6; lo fece retto, ma

anche libero. Sarà l'uomo che poi farà un cattivo uso di questa autonomia, nonostante un certo grado di libertà sia rimasto anche dopo la caduta. Difatti, sempre rifacendosi alle Sacre Scritture, Leibniz sostiene che «Egli abbandonò l'uomo alla discrezione del suo proprio consiglio, dandogli questi precetti e questi comandamenti: se vuoi, potrai osservare i comandamenti, ed essi ti salveranno […] L'uomo caduto e non rigenerato si trova sotto il dominio del peccato e di 4 G.W. v. Leibniz, Saggi di Teodicea, cit., Parte seconda, p. 305.

5 G.W. v. Leibniz, Saggi di Teodicea, cit., Parte terza, pp. 419-420. 6 La Sacra Bibbia, cit., Genesi, 1,27.

(6)

Satana, perché così vuole: è schiavo volontario per la sua perversa concupiscenza. È così che il libero arbitrio e il servo arbitrio sono una stessa cosa»7. L'uomo quindi si è abbandonato alle proprie passioni e

alla ricerca dell'immediato piacere che trova nel male, questa è stata la sua colpa maggiore. È necessario rilevare che qui Leibniz non tiene in debito conto la causa prima, anche se lontana, del male morale. Da un punto di vista metafisico il problema dei rapporti tra la libertà dell'uomo, che è anche e soprattutto libertà di peccare, e la sua originaria limitazione e costitutiva imperfezione, sebbene al limite del suo essere, richiedeva un approfondimento che l'autore della Teodicea non ha compiuto, forse perché già soddisfatto per aver trovato una spiegazione legittima nell'ipotesi dell'armonia prestabilita e nella sua visione ottimistica dell'universo. Dopotutto questo è anche il limite oltre il quale è difficile che vada la ragione umana nella soluzione del problema. Leibniz cerca di ritorcere le difficoltà contro gli argomenti dei suoi critici e lascia a loro il compito di provare il contrario; la concezione di fondo attraverso la quale Leibniz si fa forte nella disputa con gli avversari è la seguente: per dimostrare in maniera del tutto convincente che se Dio permette il male non è saggio e buono, si dovrebbe dimostrare che il male avrebbe potuto essere evitato senza perdere qualche bene maggiore, e ciò risulta (per ora) praticamente 7 G.W. v. Leibniz, Saggi di Teodicea, cit., Parte terza, pp. 410-411.

(7)

impossibile da documentare.

Questa teoria permette di ricollegarsi al problema del male messo in rapporto al concetto di necessità formulato da Leibniz. Nella prefazione della Teodicea tale concetto viene fissato come il presupposto filosofico per una coerente interpretazione del tema riguardante il male: «Vi sono due labirinti famosi nei quali la nostra ragione si smarrisce assai di frequente: l'uno investe la grande questione del l i b e r o e del n e c e s s a r i o, con particolare riferimento alla produzione e all'origine del male; l'altro consiste nella discussione circa la natura della c o n t i n u i t à e degli indivisibili, che sembrano esserne gli elementi costitutivi, una discussione nella quale rientra anche la considerazione dell' i n f i n i t o »8. Notiamo qui

come l'origine del male sia strettamente congiunta all'idea di necessità, idea dalla cui poco chiara comprensione deriva, secondo Leibniz, quell'atteggiamento pratico-morale da lui definito come “fato maomettano” o “destino alla turca”: la tendenza cioè di adagiarsi passivamente sugli accadimenti spiacevoli e negativi della vita guidati dal ragionamento per cui, siccome sussiste un collegamento necessario tra gli eventi del mondo, ogni azione compiuta in modo autonomo e libero dagli uomini è destinata a non realizzarsi perché Dio ha stabilito che, posto lo stato presente di eventi, debba 8 G.W. v. Leibniz, Saggi di Teodicea, cit., Prefazione, p. 46.

(8)

necessariamente seguire quello futuro, indipendentemente dalla volontà umana. Quest'atteggiamento fatalistico spinge ovviamente a considerare le cose in maniera indifferente, come se nel mondo non esistessero categorie etiche fondamentali come bene e male poiché, qualsiasi azione venga iniziata, accade solo ciò che deve accadere. Tale fato maomettano si trova, benché mitigato, nel “fato stoico”, il quale, nonostante insegni a guardare al corso degli eventi con tranquillità anziché con amara rassegnazione, considera nondimeno l'ordine che presiede alla natura e alla storia come qualcosa di inevitabile, per il quale non vale la pena disperarsi. Solamente il “fato cristiano” insegna a giudicare non tanto con sopportazione o tranquillità, bensì con pacata felicità tutto ciò che accade, nella consapevolezza che i fatti di questo mondo si avvicendano sotto il segno della giustizia divina.

Nel corso degli anni Leibniz respinse vivamente le accuse di fatalismo rivoltegli, ritenendo che l'unico vero fatalismo di cui potesse essere incolpato fosse quello “maomettano”. Ma se l'autore della

Teodicea ha scelto di analizzare le diverse tipologie di fato è stato per

poterle porre metodicamente sul medesimo piano e per confrontarle, anche se questo confronto non è finalizzato ad accomunarle, bensì a mostrarne le differenze e l'inconciliabilità. Così si spiega perché l'unico

(9)

vero fatalismo per Leibniz è quello chiamato « f a t u m m a h u m e t a n u m, o destino alla turca, perché viene imputato a turchi di non evitare i pericoli e di non lasciare neppure i luoghi ammorbati dalla peste»9. Tale fatalismo è la riproposizione teorica e

pratica del sofisma della “ragion pigra” (o “sofisma pigro”), secondo il quale, poiché tutto avviene in modo assolutamente necessario, non ha senso nessuna scelta, virtù o azione, ma tutto cade nell'indifferenza. Il “fato stoico” invece, pur affermando anch'esso la necessità degli eventi, che però riconosce come provvidenza divina, non distoglie l'uomo dall'azione, ma lo invita solo a sopportare tranquillamente gli eventi stessi, in considerazione dell'inutilità di opporsi ad essi. Infine il “fato cristiano” riconosce anch'esso l'azione della provvidenza divina sulla natura e sulla storia, ma crede che tale provvidenza sia espressione della bontà e della saggezza di Dio, e quindi non si limita a sopportare gli eventi, ma li accetta con gioia e si adopera attivamente nell'ambito dell'ordine e dell'armonia del progetto divino. Dunque questo terzo tipo di fato coincide con la “vera pietà”, la quale «consiste nell'amore di Dio, ma in un amore illuminato, il cui ardore è accompagnato dal lume della ragione. Tale specie d'amore fa nascere quel piacere delle buone azioni che danno rilievo alla virtù, e, riconducendo tutto a Dio come a loro centro, trasformano l'umano in 9 G.W. v. Leibniz, Saggi di Teodicea, cit., Prefazione, p. 48.

(10)

divino»10. Anche questo atteggiamento riconosce una necessità della

provvidenza, ma non una necessità assoluta, bensì solo una determinazione certa, che non annulla la libertà di Dio e dell'uomo, anzi, la fonda: si tratta della distinzione tra necessità assoluta da una parte e necessità ipotetica e morale dall'altra, che costituisce uno degli argomenti metafisici fondamentali della Teodicea.

Sempre tenendo presente il “fato maomettano” ciò che lo distingue, oltre all'atteggiamento di rinuncia all'azione e alla virtù, è una peculiare concezione della fatalità necessaria. Esso infatti la considera come una necessità assoluta. La critica più diretta di Leibniz al sofisma della ragion pigra riguarda la confusione tra la presunta necessità assoluta degli eventi e la necessità ipotetica del rapporto causale, cioè tra necessità assoluta e determinazione del contingente. La necessità morale, che Leibniz oppone alla necessità assoluta, è connessa con la necessità ipotetica, cioè con il riconoscimento della determinazione causale dei fenomeni, e quindi della contingenza dei possibili: solo se si riconosce ciò, infatti, si può poi concepire la realizzazione di alcuni possibili come una scelta libera (ciò che Leibniz intende con la necessità morale). Dunque, la questione che si domanda se tutti i possibili esistono è cruciale, perché dalla risposta che ad essa si dà dipende appunto il concetto di una causalità immanente che nega il 10 G.W. v. Leibniz, Saggi di Teodicea, cit., Prefazione, p. 44.

(11)

contingente riconoscendo perciò solo la necessità assoluta, o il concetto di una causalità transitiva, come quella sostenuta da Leibniz, che non solo ammette, ma definisce il contingente, e riconosce la necessità ipotetica e la necessità morale. Questa precisazione è necessaria per comprendere il nesso che vi è, secondo Leibniz, tra il “fato maomettano” e il “fato stoico”. Quest'ultimo, sostiene Leibniz, è più vicino al cristianesimo che non il “fato maomettano”. Il “fato stoico” concepisce infatti la necessità degli eventi come provvidenza divina e considera quindi la sottomissione paziente ad essa come obbedienza e saggezza dell'uomo. In realtà, però, se si approfondisce questa prima benevola valutazione di Leibniz, si trova un giudizio sul “fato stoico” non meno severo di quello sul “fato maomettano” e, ciò che più importa, una valutazione di sostanziale equivalenza fra i due errori. Infatti il “fato stoico”, pur partendo da presupposti per certi aspetti opposti a quelli del “fato maomettano”, per Leibniz finisce per coincidere con esso negli esiti teoretici, e quindi per non essere troppo differente da esso nemmeno in quelli pratici. Il “fato stoico” riconosce l'onnipotenza della volontà divina, contrariamente al “fato maomettano, che la nega, e anzi sostiene l'assoluto arbitrio divino; perciò esso, nella pratica, predica la pazienza. Ma, dal punto di vista teoretico, l'onnipotenza divina coincide semplicemente con l'arbitrio assoluto

(12)

della volontà divina e quindi, dal punto di vista umano, con la casualità. Infatti, secondo il “fato stoico” noi non possiamo conoscere i piani divini, anzi propriamente nemmeno ve ne sono se Dio non sceglie secondo criteri oggettivi, ma per puro arbitrio. Perciò noi possiamo e dobbiamo attribuire a Dio ogni evento, anche ciò che dal nostro punto di vista è male. A proposito di quest'ultima considerazione si deve tener conto che, per Leibniz, anche la posizione manichea ripresa da Bayle è connessa con la tesi dell'arbitrarismo divino. Questa tesi manichea della dualità dei principi, se coerentemente svolta nel contesto del monoteismo cristiano, come Leibniz vede molto chiaramente, non può non convertirsi nella semplice accusa di malvagità all'unico Dio, oppure nella tesi dell'arbitrarismo assoluto della volontà divina. La pazienza stoica consiste nell'affidarsi a un Dio padrone e tiranno, così definito non solo perché permette il male, ma perché decreta comunque per arbitrio e non per giustizia. Quindi la finalità delle scelte divine è completamente sottratta alla nostra comprensione, il che rende impossibile, o meglio insensata, la finalità dell'agire umano. In questo modo si può facilmente vedere come questa volontà onnipotente e arbitraria di Dio finisca, dal punto di vista dell'uomo, per essere molto simile alla necessità assoluta. Quindi “fato maomettano” e “fato stoico”, pur nella loro apparente e storica differenza, si equivalgono dunque nel

(13)

significato ultimo e nelle conseguenze delle loro tesi. L'unica vera alternativa è il “fato cristiano”. Dal punto di vista pratico esso si distingue dal “fato stoico” perché non insegna solo una pazienza forzata, ma consiglia: «fate il vostro dovere e siate contenti di ciò che avverrà»11. L'una cosa è inseparabile dall'altra, perché è necessario

rimettersi alla provvidenza quando si è portato a termine il proprio dovere. Questo atteggiamento consegue alla fede nel primato della bontà e della saggezza di Dio sulla Sua potenza. La fede cristiana, sondo Leibniz, non può sostenere l'arbitrarismo divino, ma la giustizia divina, perché solo così noi possiamo essere contenti di tutto ciò che accade. E questa giustizia divina non può che fondarsi sui precetti morali divulgati dagli interpreti terreni dell'Onnipotente.

La discriminante del “fato cristiano”, il primato in Dio di bontà, saggezza e giustizia sulla potenza, che lo oppone all'arbitrarismo, si accompagna alla priorità, nell'uomo religioso, della conoscenza sulla volontà. Si ritorna così alla definizione della vera pietà come unione di mente illuminata e virtù, con la prima finalizzata alla seconda, ma con la vera virtù che non può non basarsi sulla conoscenza, pena il declassamento alla pazienza stoica (non accompagnata dalla felicità, e quindi dal vero amore per Dio). Ciò che emerge da questa trattazione è che, per Leibniz, fare una teodicea è opera inerente ed essenziale alla 11 G.W. v. Leibniz, Saggi di Teodicea, cit., Prefazione, p. 48.

(14)

vera pietà: ciò significa anche che rifiutare la teodicea è un atteggiamento che non si può accordare con questa vera pietà. La concezione del filosofo tedesco è pertanto opposta a quella che, come il fideismo o il misticismo, ritiene che la vera fede sia incompatibile con il Dio dei filosofi: per Leibniz è esattamente il contrario, non nel senso che la filosofia possa fare a meno dei contenuti della rivelazione, ma nel senso che essa deve giustificarli razionalmente, cioè comprendere e dimostrare ciò che, tra le verità, è razionalmente comprensibile, e sostenere razionalmente la credibilità di ciò che invece, nella fede, è mistero. All'atteggiamento dello scetticismo e del fatalismo, che negano un senso alla realtà a causa della presenza del male, e all'atteggiamento stoico, che predica una sopportazione priva di speranza, Leibniz contrappone il “fato cristiano”, che non è ottimismo infantile e superficiale, ma ottimismo scaturito dalla speranza e dalla fiducia in Dio.

Cambiando leggermente la prospettiva si può vedere il “fato cristiano” come molto simile a quello auspicato dalla Nemesis Divina di Linné, che a sua volta tenta di collocarsi a metà strada tra una necessità divina presente nella storia e un parziale libero arbitrio degli esseri umani, il quale obbliga Dio a dispensare ricompense e punizioni già in questa nostra vita terrena. Da un lato si può facilmente notare la

(15)

fiducia che Linné ripone nel fato, il quale segue la sua strada senza dover rendere conto di niente a nessuno: «Our prayers and strivings are of no avail. Each receives what has been allotted to him at birth. He has carried it through, reached the goal of his life»12. Più avanti nel

testo, sempre per corroborare questa tesi fatalistica, Linné cita un racconto del Reverendo Collin, suo compagno di studi a Växjö: un giorno la madre del Reverendo decise di inviargli del cibo per mezzo di un servo a cavallo e, insieme a questo servo, fu incaricato anche un barcaiolo, il quale accoltellò il servo e rubò tutto il prezioso carico di cibo. La sventurata vittima però non morì e riuscì a raggiungere la città più vicina e ad avvisare lo sceriffo che, catturando il malfattore, lo condannò a morte per tentato omicidio. Un anziano ufficiale, guardando le mani del barcaiolo, rivelò che quell'uomo non sarebbe mai morto in maniera violenta. Difatti il ladro morì in prigione due giorni prima della data stabilita per l'esecuzione. Linné conclude questo racconto con un'ammonizione: «If God has delineated our fate, before it comes to pass, in our hands, we ought to commiserate the

unfortunates whose fate is as it is»13. Insomma, gli uomini possono

anche decidere per loro conto le proprie azioni, ma, volenti o nolenti, il fato avrà sempre l'ultima parola.

Dall'altro lato però il botanico svedese cerca di rendere l'uomo 12 C. V. Linné, Nemesis Divina, cit., p. 95.

(16)

consapevole del fatto che le sue cattive azioni andranno a causare una punizione decisa da Dio, essendo su questa sicura nemesi che si basa tutta la concezione giustizialista di Linné: Dio decide i castighi in base alle azioni umane, che devono quindi avere un certo grado di libertà, nonostante il fato lasci gli uomini senza via d'uscita. Con questa parabola (come lui stesso la definisce) Linné tenta di conciliare il libero arbitrio con l'inevitabilità del fato, ma l'unica novità che introduce qui è una sorta di “sdoppiamento” del libero arbitrio, come se ci fossero due livelli: il primo è quello dell'uomo, che può fare ciò che vuole della propria libertà, anche suicidarsi; Dio è invece fornito del secondo grado, il livello più alto di libero arbitrio, che gli permette di decidere, grazie alla sua saggezza, le sorti dell'umanità e dell'universo intero. «A man can hang himself, drown himself, cut his own throat, and can also choose not to do so. But if, for any reason, he is condemned to death by the supreme judge, he no longer has any choice in matter; his execution is an unavoidable necessity. A man is therefore at liberty and been condemned. Man does have freedom of choice, is able to do what he wants, and God sees and hears all; consequently, if man acts wrongly and is not brought to book, if he stands accused before God of the injury, God orders the natural course of the inevitability of fate. The judgement of God is, therefore, fate»14. Quella presentata da Linné

(17)

sembra una soluzione fin troppo “morbida” visto che viene inventato un “doppio libero arbitrio” per poter conciliare la libertà dell'uomo con l'azione di Dio, senza però cercare una giustificazione della necessità come farà Leibniz.

La concezione filosofica dell'idea di necessità infatti va, secondo il filosofo di Lipsia, adeguatamente compresa non solo per evitare l'inoperosità maomettana e il fatalismo stoico, ma, soprattutto, per contrastare le tesi neomanichee e scettiche riaffermate da Bayle, per le quali si fa discendere dalla necessità di tutte le cose, e quindi dalla necessaria presenza del male nel mondo, l'esistenza dei due principi del Bene e del Male, oppure, dalla medesima necessità, si conclude che Dio, pur prevedendo le azioni malvagie grazie alla sua prescienza, è necessitato a permetterle contravvenendo alla sua onnipotenza. Ecco perché Leibniz sostiene che «è importante distinguere i differenti gradi di necessità» poiché «alcuni non si accontentano di servirsi del pretesto della necessità per provare che la virtù e il vizio di per sé non sono né bene né male, ma hanno anche l'ardire di fare la divinità complice dei loro disordini […] e Bayle, che un po' si riconosce in questa straordinaria opinione, se n'è servito per rimettere in piedi l'abbandonato dogma dei due princìpi o dei due dei, l'uno buono e l'altro cattivo, come se tale dogma rispondesse meglio alle difficoltà

(18)

sull'origine del male»15. Da queste posizioni si può comprendere la

rilevanza che, nella polemica antibayliana di Leibniz, acquista il nesso tra il concetto di necessità e il problema del male. Il parlare di gradi della necessità è infatti connesso con lo stare in mezzo della necessità ipotetica e morale tra la necessità assoluta e l'arbitrio assoluto. Questa espressione è però piuttosto discutibile innanzitutto perché, secondo Leibniz, la casualità e l'arbitrio sono ipotesi inconsistenti, illusioni ed errori, e dunque la necessità ipotetica e morale non è affatto una via di mezzo tra due alternative (necessità assoluta e arbitrio), ma è piuttosto l'unica alternativa alla necessità vera e propria (e quindi non un grado di essa). Tuttavia, se l'autore della Teodicea usa questa immagine è soprattutto perché egli è interessato, oltre che a mostrare un tipo di ordine che non si opponga alla contingenza e alla libertà, anche a sostenere che tale ordine è altrettanto determinato e certo che quello necessario. Questo secondo aspetto, più che il primo, è ciò che, agli occhi di Leibniz, accomuna il labirinto della predestinazione e il labirinto del continuo.

Sempre nella Prefazione della Teodicea Leibniz, presentando il piano dell'opera, prova a conciliare intervento divino, necessità e libertà: «Faremo vedere come la n e c e s s i t à a s s o l u t a, che viene chiamata anche logica e metafisica e qualche volta geometrica, 15 G.W. v. Leibniz, Saggi di Teodicea, cit., Prefazione, pp. 52-53.

(19)

l'unica in effetti a dover essere temuta, non si trovi mai nelle azioni libere. E come in tal modo la libertà non solo sia immune dalla costrizione, ma anche dalla vera necessità. Faremo vedere che Dio stesso, pur scegliendo sempre il meglio, non agisce secondo una necessità assoluta, e che le leggi della natura prescritte da Dio e fondate sulla convenienza stanno a metà tra le verità geometriche, assolutamente necessarie, e i decreti arbitrari: cosa che né Bayle né gli altri filosofi moderni hanno ben capito. Faremo anche vedere come vi sia un certo grado di indifferenza nella libertà perché non può esservi necessità assoluta per l'uno o per l'altro partito, ma come, tuttavia, non ci sia mai un'indifferenza di perfetto equilibrio. Mostreremo inoltre che nelle azioni libere v'è una spontaneità perfetta, al di là di quanto fin qui pensato. Faremo infine osservare che la necessità ipotetica e la necessità morale, che pure sono presenti nelle azioni libere, non danno luogo ad alcun inconveniente, e che la r a g i o n e p i g r a è un vero sofisma»16.

Per restare alla considerazione del semplice contingente pare utile osservare che la necessità ipotetica preserva la contingenza dell'evento individuale, ma non quella della connessione totale degli eventi. In altre parole, in un ordine determinato secondo la necessità ipotetica la contingenza dell'evento individuale viene salvata, ma 16 G.W. v. Leibniz, Saggi di Teodicea, cit., Prefazione, pp. 56-57.

(20)

all'interno di una totalità di connessioni che potrebbe essere a sua volta necessaria: in questo caso anche la contingenza dell'evento individuale sarebbe illusoria, in quanto vanificata dalla necessità del tutto. Questa obiezione è tuttavia superata dalla tesi del primato della necessità morale sulla necessità ipotetica e a fondamento di essa. Tra necessità ipotetica e necessità morale vi è infatti una differenza concettuale: «Ciò che avviene per una necessità ipotetica, avviene in seguito al presupposto che questo, o quello, sia stato previsto o deciso o fatto antecedentemente; e la necessità morale, per parte sua, comporta un obbligo di ragione, che non manca mai di aver efficacia sul saggio»17.

La necessità ipotetica, dunque, è una regola di determinazione, mentre la necessità morale è una regola di scelta, e se la prima opera secondo il principio di ragione, la seconda o è questo principio stesso o, se si vuole, lo fonda. Leibniz dunque riconosce costantemente un primato alla necessità morale su quella ipotetica e fonda e condiziona la validità di quest'ultima sulla prima. È questo, tra l'altro, il motivo per cui egli preferisce parlare di necessità ipotetica, e non di necessità fisica. La necessità morale dunque «deriva dalla libera scelta della saggezza in rapporto alle cause finali»18; essa è scelta assolutamente libera del

meglio da parte di Dio, che porta all'esistenza una delle serie determinate possibili, cioè uno dei mondi possibili. Per questo motivo la 17 G.W. v. Leibniz, Saggi di Teodicea, cit., Parte terza, p. 393.

(21)

connessione determinata del mondo esistente, pur non potendo essere mutata (nemmeno da Dio), una volta che egli ne abbia decretato l'esistenza, è contingente, anche nella sua totalità: Dio, infatti, avrebbe potuto non sceglierla; avrebbe potuto scegliere e fare ciò che non era il meglio sia nel senso di scegliere un altro mondo possibile, sia nel senso di non sceglierne nessuno. Solo la sua bontà e la sua saggezza, espressioni della sua sovrana libertà, lo hanno condotto alla scelta del meglio.

La contingenza della totalità dell'esistente, che è presupposto della contingenza dell'evento individuale, pur nella necessità della connessione tra gli eventi, è dunque garantita dalla libertà della scelta divina e dalla trascendenza di Dio, cioè dalla sua estraneità e originarietà rispetto alla serie delle cause. La contingenza del tutto non è che l'aspetto complementare della trascendenza di Dio e il rapporto tra le due è la creazione, la quale si protrae e si rinnova continuamente nella provvidenza divina. La necessità ipotetica, fondata sulla necessità morale, permette quindi di pensare la determinazione del contingente. «Ora, la verità che comporta che io domani scriverò [..] non è affatto necessaria. Ma, supposto che Dio la preveda, è necessario che accada»19. In queste righe si può leggere un riepilogo delle posizioni

leibniziane sulla questione: negazione della necessità assoluta («[..] 19 G.W. v. Leibniz, Saggi di Teodicea, cit., Parte prima, p. 227.

(22)

non è affatto necessaria [..]»); affermazione della necessità morale («[..] supposto che Dio la preveda [..]»), su cui è fondata la necessità ipotetica («[..] è necessario che accada»). Eppure proprio la situazione qui indicata come esempio («[..] che io domani scriverò [..]») è tra quelle per le quali non è sufficiente comprendere il rapporto tra predeterminazione e contingenza, poiché fa riferimento ad un atto volontario come lo scrivere e riguarda quindi il campo della libertà. Tra i contingenti ve ne sono infatti alcuni, gli esseri intelligenti e spirituali, dotati di libertà: è ad essi che si pone il problema della teodicea, e in riferimento al loro problema tutto ciò che si è detto finora è un presupposto necessario, ma pur sempre un presupposto.

Il male morale raggiunge un'importanza significativa perché è fonte di mali fisici e Dio, per natura obbligato a produrre la maggior quantità di bene possibile (e fornito dei mezzi per farlo), non può avere in sé difetti, colpe o peccati: quando permette il peccato questi è da considerarsi come un atto di saggezza, la quale «non fa altro che mostrare a Dio il migliore impiego possibile della sua bontà; dopo di ciò, il male che accade sarà una conseguenza indispensabile del meglio. Aggiungerò qualcosa di ancora più forte: permettere il male

come Dio lo permette, è la bontà più grande»20. Alcuni avversari di

Leibniz conducono però il discorso per un'altra via, affermando che è 20 G.W. v. Leibniz, Saggi di Teodicea, cit., Parte seconda, p. 260.

(23)

Dio stesso a produrre tutto ciò che c'è di reale nel peccato delle creature. Tale obiezione porta a considerare il concorso fisico e il concorso morale di Dio con la creatura. Alcuni, come Durando di San Porziano21 e il cardinale Auriol22, sostenevano che il concorso fisico di

Dio con la creatura fosse soltanto generale e mediato: Dio crea le sostanze e dà loro la forza necessaria, poi, fatto ciò, le lascia libere di fare ciò che vogliono senza aiutarle nelle loro azioni, limitandosi solamente a conservarle. Ma il problema di questa dottrina, sostiene Leibniz, sta proprio nell'atto, compiuto da Dio, del conservare le creature, cosa impossibile da comprendere senza doversi riferire alle credenze comuni. Inoltre l'atto divino di conservazione non può essere generale o indeterminato poiché deve in qualche modo avere un rapporto con ciò che è conservato a seconda dello stato in cui è. Quindi, secondo il filosofo di Lipsia, «la conservazione da parte di Dio consiste in quella influenza immediata e perpetua che la dipendenza della creatura richiede. Tale dipendenza ha luogo non solo riguardo alla sostanza ma anche all'azione, e forse non la si potrebbe spiegar meglio se non dicendo, con la generalità dei teologi e dei filosofi, che è una creazione continua»23.

21 Durando di San Porziano (1270 ca.-1332 o '34) fu un teologo domenicano. Il suo pensiero, ispirato apertamente alla dottrina universale di Duns Scoto, concepiva la teologia come mera scienza pratica distinta dalla scienza vera e propria.

22 Pierre Auriol (1280-1322) fu un teologo e filosofo francescano che lavorò sullo stesso filone di pensiero di Durando di San Porziano.

(24)

Anche riguardo la colpa si può mostrare facilmente che Leibniz ne riconosce la realtà positiva, non solo perché le attribuisce come conseguenza ed effetto il male fisico, ma anche perché ne pone la causa in un atto positivo della volontà umana. Leibniz, come farà in seguito Kant, connette infatti il male morale con la razionalità dell'uomo: non però nel senso che la ragione stessa sia male, essa al contrario è un bene, ma nel senso che il male morale deriva dall'abuso che l'uomo fa della ragione. La causa del male morale è proprio la libertà dell'uomo, non in quanto è capace di determinare i suoi atti, ma in quanto talvolta sottomette i motivi razionali a quelli sensibili, perverte i primi in forza dei secondi, nella determinazione degli atti; la causa del male morale è dunque l'uomo, per la sua cattiva volontà, cioè per il cattivo uso che fa della propria libertà. Se il peccato è una privazione di una perfezione umana, cioè della ragione e del suo uso pratico come volontà libera, esso è però un atto positivo della volontà stessa, la cui iniziativa, e perciò la cui responsabilità, spetta unicamente alla libertà dell'uomo, o più precisamente della creatura ragionevole, poiché si deve considerare anche Satana. Anche per il male morale, così come per il male fisico, si pone il problema del concorso divino, e anzi nel caso del male morale tale problema è ancora più grave, poiché, se è possibile concepire che Dio abbia una responsabilità morale, diretta o

(25)

indiretta, nel male fisico e credere che ciò sia comunque per il meglio, per il male morale la responsabilità di Dio non è giustificabile: «La più grave [difficoltà] consiste nel sostenere che Dio concorre moralmente al male morale – cioè al peccato – senz'essere autore del peccato e senza neppure esserne complice». La risposta di Leibniz al problema si regge su due punti: «egli fa ciò permettendolo, giustamente, e

dirigendolo saggiamente al bene»24. Dire che Dio non vuole il peccato,

ma che semplicemente lo permette, è una distinzione sostanziale. Innanzitutto ciò significa che il peccato non è mai, per Dio, un mezzo per raggiungere un fine, ma solo una conditio sine qua non compresa nella scelta del migliore dei mondi possibili. In secondo luogo ciò significa che a Dio non può essere imputato il male morale, in quanto questo è un atto positivo della volontà, mentre permettere significa essere in grado di farlo, ma non schierarsi né dalla parte della volontà né dalla parte della negazione di questa volontà. Questa distinzione tra volere e permettere è importante, ma non sufficiente a scagionare Dio dalla responsabilità morale e giuridica dell'esistenza del peccato, poiché si permette solo ciò che si può impedire (e Dio può certo impedire il peccato grazie alla sua onnipotenza), quindi sarebbe ancora legittima l'accusa a Dio di essere responsabile del peccato, perché, pur potendolo, non l'ha impedito. Né d'altra parte, come si è detto, può 24 G.W. v. Leibniz, Saggi di Teodicea, cit., Parte terza, p. 422.

(26)

scagionare dalla responsabilità il fatto che il peccato possa essere talvolta un mezzo per un bene: anche se il peccato può rivelarsi come mezzo per un bene maggiore, esso non può però mai essere scelto come mezzo. Sicché il permettere il peccato da parte di Dio non può essere argomento a sua difesa, se non è integrato dalla sua necessità morale di non commettere egli stesso un male, secondo un argomento giuridico sopra esposto. E Dio, avendo valutato tutti i mondi possibili e avendo visto che il migliore contiene il peccato, verrebbe meno al proprio dovere morale se scegliesse di creare, piuttosto che questo mondo, un mondo senza peccato, ma peggiore.

Parecchi anni più tardi Kant concorderà con Leibniz riguardo l'origine metafisica del male, poiché la giustificazione tanto della santità quanto della bontà del creatore, in definitiva, poggia sull'individuazione di un carattere peculiare degli esseri creati rispetto al quale neanche gli esseri umani sono estranei: la loro limitazione essenziale e necessaria. É quindi in ragione di tale imperfezione che gli uomini sono deboli di fronte ai propri istinti e incerti nella valutazione di concetti etici fondamentali come giusto e sbagliato. In questo senso le risposte kantiane alle obiezioni tradizionali contro i predicati morali di Dio esprimono la tendenza a ricondurre male fisico e male morale a una più originaria privazione dell'essere creato. Come spiega distesamente

(27)

Maria Antonietta Pranteda ne Il legno storto, la lettura delle Lezioni

sulla filosofia della religione25 (probabilmente risalenti al semestre invernale 1783-1784) attesta come Kant riaffermi la tesi dell'indipendenza del bene già proposta da Leibniz quale fondamento della teodicea, e adotti lo stesso tipo di prove per relativizzare le conseguenze che la constatazione del negativo ha per quella tesi. La domanda dalla quale Kant parte si può riassumere utilizzando la formulazione presente nel De consolatione philosophiae di Boezio Si

deus est, unde malum? E una simile questione può venire esposta

solamente nell'ambito della teologia positiva, nella quale viene ammessa l'esistenza di Dio come creatore del mondo provvisto degli attributi della sapienza e della bontà. Sulla base di questa premessa l'esistenza del male risulta inesplicabile, così che la risposta all'interrogativo boeziano si configura prevalentemente come una giustificazione che, contro ogni possibile obiezione, sia in grado di dimostrare la conformità tra la saggezza del creatore e la perfezione della sua opera. Sempre nelle Lezioni sulla filosofia della religione Kant afferma che il concetto di Dio chiamato qui in causa non è dimostrato dogmaticamente, ma lo è a partire da un principio morale: Dio deve essere considerato come un'ipotesi necessaria delle nostre azioni pratiche secondo leggi della moralità. Noi quindi presupponiamo 25 I. Kant, Lezioni di filosofia della religione, tr. it. a c. di C. Esposito, Napoli, Bibliopolis, 1988.

(28)

l'esistenza dell'essere supremo e gli attribuiamo caratteri morali nella teologia morale senza ancorare questa argomentazione a una certezza dogmatica e senza affidarci alla rassicurazione di una fede religiosa radicata nel sentimento. Si perviene poi al concetto morale di Dio definendolo come “sommo bene”: Dio conosce la sincerità delle intenzioni nascoste degli uomini e regge il mondo sulla base di questa conoscenza, distribuendo la felicità secondo il merito. L'ipotesi di Dio è quindi richiesta dall'universalità dell'idea di felicità con cui ogni singola volontà deve concordare, l'essere supremo è colui che vuole questa felicità universale ma la concede solo nella misura in cui un determinato soggetto se ne sia reso degno. La condizione formale di questa dignità è la concordanza delle azioni degli esseri razionali con gli scopi universali della creazione. É solo in questa prospettiva che Kant introduce i tre predicati morali di Dio, santità, bontà e giustizia. Essi possono venire attribuiti in maniera non arbitraria solo in quanto sono deducibili dall'idea di volontà divina, la quale è coerente con la rappresentazione della volontà di ogni essere razionale.

Secondo Kant, quindi, il concetto di Dio non rappresenta un'assunzione arbitraria ma si regge sul presupposto, conforme alla ragion pratica, dell'idea di un sommo bene. Si può tuttavia osservare come in queste Lezioni la consistenza delle premesse per una

(29)

possibile teodicea risulti ancora precaria: la legittimazione dell'ipotesi teologica riposa sulla definizione della volontà razionale che si prefigge il bene e che ha come fine la concordanza delle azioni compiute con la perfezione del creato. La realizzazione da parte dell'uomo del fine morale porta con sé un'esigenza di felicità universale che solo Dio può garantire secondo le leggi della giustizia retributiva. Ma, sebbene Kant privilegi, rispetto alle categorie metafisiche, la nozione di “fine” in quanto carattere dell'agire morale, l'ammissione di un Dio che soddisfi l'aspirazione alla felicità degli esseri ragionevoli risulta ancora ipotetica. Per completare la propria ricerca Kant deve quindi affrontare direttamente il rapporto tra teologia classica e criticismo, spiegando in che senso possiamo ammettere l'esistenza di un Dio creatore e attribuirgli predicati morali senza con questo violare i limiti riconosciuti all'intelletto discorsivo e senza ricorrere alla via esclusivamente ipotetica.

L'esposizione della teodicea viene collocata da Kant nella sezione dedicata ai predicati morali di Dio e preceduta da un'interpretazione della teologia classica nella quale trovano posto tanto la confutazione delle prove tradizionali dell'esistenza dell'essere supremo quanto la giustificazione di un concetto di teologia compatibile con il criticismo. Mentre la prima Critica ha mostrato quali vantaggi la

(30)

ragione può trarre dalla consapevolezza di tutti i suoi limiti, le Lezioni partono proprio da questa presa di coscienza per delineare il campo entro cui un discorso teologico può rivelarsi legittimo e utile. La teologia rappresenta in generale il sistema sul quale la nostra conoscenza si basa per comprendere Dio e questa cognizione, secondo Kant, non è del tutto impossibile una volta che la critica abbia ristretto l'ambito del sapere universalmente valido. E questa riflessione, che indaga fino a che punto la nostra ragione possa avanzare in questa conoscenza di Dio, è per Kant una delle più degne, in quanto soddisfa un interesse pratico: la teologia non può renderci più sapienti perché non ha valore speculativo, ma può renderci migliori e retti se ammettiamo l'idea di Dio come complemento della moralità. Così intesa la conoscenza teologica non serve né a spiegarci i fenomeni della natura, né a a descrivere in termini positivi la causa prima del mondo: la sua utilità si manifesta secondo Kant nel fatto che essa può fornire un'idea dell'essere supremo che conferisce «supporto e saldezza ad ogni principio morale»26.

Una tale affermazione, però, porta con sé non poche problematiche: i princìpi morali non si fondano sulla sola ragione? La funzione che Kant ascrive a Dio in questo ambito non entra in contraddizione con il principio dell'obbligatorietà dell'azione? Sembra 26 I. Kant, Lezioni di filosofia della religione, cit., p. 102.

(31)

chiaro che l'uomo non deve agire per rendersi gradito a Dio, ma perché una rappresentazione pura e a priori della legge morale lo obbliga a compiere il bene incondizionatamente. Difatti Kant non manifesta alcuna propensione verso una morale teologica, per lui la connessione tra teologia ed etica consiste piuttosto nel fatto che nella teologia morale si pensa a Dio in base a concetti ricavati dalla moralità: «La teologia morale è […] qualcosa di totalmente diverso dalla morale teologica, vale a dire da quella morale in cui il concetto dell'obbligazione presuppone il concetto di Dio […] La morale non deve essere fondata sulla teologia, bensì deve avere in se stessa il principio, il fondamento della nostra buona condotta»27. Se l'idea di divinità è

ricavata per via morale essa deve possedere una validità intrinseca che non contrasti con la struttura della nostra ragione. L'analisi e la critica della teologia trascendentale mostrano la loro utilità nel mettere in luce come nella conoscenza di Dio si debba prescindere dai dati forniti dall'esperienza. Noi non possiamo predicare qualcosa di Dio rimanendo nel dominio della sensibilità e, se la teologia speculativa non risulta di aiuto né nella conoscenza della natura né nella morale, nel suo uso negativo essa «possiede tuttavia il vantaggio di sgombrare e purificare i nostri concetti da tutto ciò che noi, in quanto uomini sensibili, possiamo attribuire a Dio»28. In questo modo la teologia

27 I. Kant, Lezioni di filosofia della religione, cit., p. 113. 28 I. Kant, Lezioni di filosofia della religione, cit., p. 114.

(32)

trascendentale non offre altro che il concetto minimo di Dio, ammesso come ipotesi necessaria dalla moralità ma contraddistinto per via negativa dal fatto di essere pensato senza caratteri sensibili.

Passando al problema della libertà umana e della responsabilità divina, la giustificazione di Dio di fronte all'obiezione del male morale compiuto dall'uomo presuppone, secondo Kant, che si dimostri come la responsabilità delle azioni dell'uomo sia effettivamente ascrivibile a lui soltanto. Quando il filosofo di Königsberg affronta il tema della creazione dell'uomo come essere capace di compiere il male, non si sottrae al compito che l'impostazione apologetica gli prescrive. Ma ciò non comporta che la sua dimostrazione prenda sul serio, anche solo per ipotesi, che Dio possa essere ritenuto responsabile di azioni compiute dagli esseri umani. Kant affronta immediatamente la questione parlando di una eventuale responsabilità divina nell'aver posto nell'uomo una tendenza a compiere il male, ma non di un concorso diretto nella deliberazione di un atto malvagio. A questo riguardo l'individuazione di una netta discontinuità tra azione divina e azione umana permette a Kant di evitare un equivoco frequente quando si parla di origine del male, ossia l'equivoco che confonde il principio razionale di un'azione malvagia con la tendenza naturale a commettere azioni di questo genere. L'obiezione che la ragione muove

(33)

contro l'opera della creazione, a partire dall'esistenza del male sulla terra, attengono alle perfezioni morali della divinità. Il problema non può essere irrilevante per Kant che lo situa proprio nella sfera della teologia morale, la quale rappresenta il solo campo in cui il concetto di Dio, in quanto pratico, è necessario. Difatti le obiezioni basate sull'esistenza del male mettono in dubbio quelle qualità, vale a dire la santità, la bontà e la giustizia divine, che devono essere possedute dall'essere che regge il mondo secondo ragione e moralità. Conseguentemente, tutto ciò che è contenuto nella rappresentazione di un essere siffatto viene conosciuto sulla base di concetti della ragione pratica. Così la santità è predicabile di Dio in quanto egli è legislatore; su questa base non si può ascrivere al sommo legislatore nessuna condiscendenza verso tutto ciò che è vizio. Si attribuisce poi la bontà a Dio in quanto egli è il reggitore del mondo che si compiace della felicità e del benessere delle creature. Infine gli si riconosce la giustizia in quanto Egli è giudice: poiché nella distribuzione della felicità la bontà deve mantenere la proporzione con il merito, la giustizia viene a consistere nella limitazione della bontà del reggitore del mondo per mezzo della santità della legge. La giustizia ha quindi una funzione restrittiva per Kant, perché dispensa la felicità proprio nella misura in cui un soggetto se ne rende degno attraverso la propria condotta. A

(34)

queste tre perfezioni morali corrispondono, in maniera analogica, i tre interrogativi su cui si articola la questione intorno all'origine del male. Kant si domanda anzitutto da dove deriva il male (Böse) se Dio è santo; secondariamente, da dove deriva il male fisico (Uebel) se Dio è buono e desidera che gli uomini siano felici? Infine, posto che Dio sia giusto, da dove deriva la distribuzione diseguale del male e del bene nel mondo, che peraltro non si accorda per niente con la moralità?

La definizione di queste forme del male è determinata dal fatto che il concetto di Dio che occorre qui difendere dalle accuse della ragione è ricavato esclusivamente per via morale. L'articolazione qui proposta è quindi coerente con le tre perfezioni che devono essere possedute da un essere che possa rendere di fatto partecipe della felicità chi è degno di essa. Per tale motivo, se si confrontano quelle domande con la definizione di male elaborata da Leibniz, si riscontra una concordanza solo parziale. Nella Teodicea il filosofo di Lipsia riconduce il male morale e il male fisico alla totalità del bene metafisico, in quanto essi esprimono una limitazione essenziale degli esseri ragionevoli: nel primo caso sotto il punto di vista della sensibilità, nel secondo in quello della debolezza della volontà e dell'equivocità del giudizio morale. A prima vista Kant riproduce soltanto la definizione leibniziana del male fisico, ma, se si considera il problema in maniera

(35)

più approfondita, nel suo argomentare emergono tracce non insignificanti della dottrina della causa metafisica dell'imperfezione delle creature. Le osservazioni contro santità, bontà e giustizia aprono la strada ad una serie di contraddizioni che potrebbero intaccare il rapporto morale-religione nei termini in cui Kant lo ha impostato. Ognuna di queste istanze viene presentata come un dubbio avanzato dalla ragione contro ciò a cui proprio la ragione ci conduce nel suo uso pratico (cioè contro il concetto di Dio visto come un legislatore santo). Un conflitto dello stesso genere sorge se il bene e il male nel mondo non sono distribuiti conformemente alla moralità. Di conseguenza la teodicea costituisce, nel contesto delle Lezioni, la modalità argomentativa necessaria alla confutazione dell'ipotesi di «una contraddizione tra il corso della natura e la moralità»29.

Come si comprende da scritti quali l'Idea per una storia

universale dal punto di vista cosmopolitico e l'Inizio congetturale della storia degli uomini, Kant, nella sua ricerca, quando parla dell'uomo lo

considera non come essere singolo, ma come l'intero genere umano, ponendosi in aperto contrasto con Moses Mendelssohn (1729-1786): «La ragione, in una creatura, è la facoltà di estendere le regole e gli scopi all'uso di tutte le sue forze molto oltre l'istinto naturale, e non conosce limiti ai suoi progetti. Essa non opera istintivamente, ma ha 29 I. Kant, Lezioni di filosofia della religione, cit., p. 107.

(36)

bisogno di tentativi, di esercizio e di istruzione per progredire a poco a poco da un grado di conoscenza all'altro. Perciò ogni uomo avrebbe la necessità di vivere un tempo smisuratamente lungo per apprendere come dovrebbe fare un uso completo delle sue disposizioni naturali; oppure, se la natura gli ha concesso solo una breve durata della vita (come di fatti è accaduto), essa ha bisogno di una serie forse interminabile di generazioni, di cui l'una trasmetta all'altra il proprio illuminismo, per far maturare infine i suoi germi nel nostro genere sino a quel grado di sviluppo che sia perfettamente adeguato al suo scopo. E questo punto del tempo, almeno nell'idea dell'uomo, dev'essere la meta dei suoi sforzi»30. La valutazione delle attitudini di questa specie

poggia quindi sulla considerazione della sua storia, del suo avanzare nel tempo da una condizione iniziale di rozzezza verso una crescente perfezione. L'origine del male non coincide con la creazione dell'uomo, ma deriva dalla maniera in cui questi usa liberamente le sue capacità. Chiamando in causa la libertà Kant individua all'origine delle azioni con cui gli uomini fanno uso delle proprie capacità la possibilità di rendersi indipendenti dalle circostanze naturali. Se quindi la volontà può dare inizio ad atti che non sono determinati da cause fisiche e se da ciò discende che neanche Dio può concorrere alla deliberazione di questo genere di atti, bisognerà chiarire da dove provenga la disposizione ad 30 I. Kant, Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, cit., p. 31.

(37)

usare le proprie capacità in maniera cattiva. Ci si può chiedere cioè perché gli uomini facciano un determinato uso della propria libertà piuttosto che un altro. Dio infatti ha creato l'uomo libero, e il primo utilizzo di questa libertà è stato decretato dalla ragione poiché essa «cominciò presto a risvegliarsi e, attraverso la comparazione di ciò che aveva assaporato con ciò che un altro senso da quello a cui era legato l'istinto, ossia il senso della vista, gli rappresentava come simile ad esso, cercò di estendere la sua conoscenza sui nutrimenti oltre i confini dell'istinto […] Perciò, anche quando fosse stato solo un frutto, il cui aspetto, per la somiglianza ad altri commestibili che erano già stati provati, avesse incitato all'esperimento; e se a tal fine fosse magari venuto anche l'esempio di un animale, la cui natura era adatta a tale nutrimento quanto esso era invece dannoso all'uomo, così che in quest'ultimo c'era un istinto naturale che vi si opponeva: ebbene, già questo poté dare alla ragione la prima occasione di raggirare la voce della natura e, nonostante l'opposizione di questa, di fare il primo tentativo di libera scelta»31. Quindi, nonostante Dio abbia creato l'uomo

libero, l'esercizio di questa libertà si afferma gradatamente quanto più l'uomo si allontana dall'animalità (condizione nella quale non può esistere la libertà) per impadronirsi dell'uso formale della ragione. Il male quindi non era un mezzo per il bene, ma sorse in seguito alla 31 I. Kant, Inizio congetturale della storia degli uomini, cit., pp. 105-106.

(38)

creazione come conseguenza collaterale, in quanto l'uomo dovette lottare con i propri limiti e con i propri istinti animali. Il vero mezzo per raggiungere il bene è nella ragione per Kant. Ed è proprio l'ammissione dell'esistenza di limiti riconosciuti come condizione che contrasta l'insediamento della ragione a confermare l'adesione di Kant alla tesi leibniziana del male metafisico come principio del male morale.

Negli uomini il male si fonda sull'elemento istintuale non perché l'animalità sia cattiva in sé ma perché essa entra in conflitto con l'elemento razionale, indirizzato invece verso scopi universalmente validi. L'affermazione secondo cui il male è nella libertà non significa quindi che essa costituisce il principio del male ma che è la condizione sotto cui la ragione adulta soccombe alle inclinazioni. Per questo motivo Kant può affermare allo stesso tempo che nella libertà c'è solo il male e che l'origine di esso è anteriore alla libertà stessa: tanto l'origine quanto l'uso della libertà sono qui intesi secondo l'ordine del tempo e non della sola ragione. Se l'uomo non fosse stato creato come un essere imperfetto e limitato, se in lui non fosse stata presente una prepotente animalità, il male probabilmente non sarebbe sorto perché la disposizione al bene non avrebbe conosciuto ostacoli al suo sviluppo. E tuttavia è la libertà che conduce al male, in quanto solo essa può lasciar attecchire le inclinazioni contrarie al perfezionamento

(39)

della specie; l'animalità di per sé è infatti incapace di rappresentare fini universali, essa costituisce la condizione originaria del comportamento cattivo solo perché caratterizza la limitazione essenziale della creatura. L'uso cattivo della libertà è quindi determinato dalla privazione nativa dell'uomo.

Al momento della creazione l'uomo ha ricevuto capacità e talenti il cui sviluppo è dovuto interamente alla sua attività. La disposizione al bene che Dio ha posto nella natura si realizza nel tempo e ad opera degli uomini, attraverso avanzamenti e passi falsi, là dove questi ultimi non sono mezzi per il raggiungimento del bene, ma ostacoli sul percorso della sua realizzazione. Come si può leggere in una nota dell'Inizio congetturale della storia degli uomini le difficoltà che l'uomo incontra nel suo sviluppo sono legate al «conflitto tra l'aspirazione dell'umanità alla sua destinazione morale da un lato e l'immodificabile obbedienza alla legge posta nella sua natura per lo stato selvaggio e animale dall'altro [...] Un altro esempio che comprova la verità della tesi che la natura ha posto in noi due disposizioni per due differenti fini, ossia la disposizione dell'umanità come genere animale e della medesima come genere morale, è il detto di Ippocrate ars longa, vita

brevis. Da una mente che vi sia portata, una volta che abbia raggiunto

(40)

conoscenze acquisite, scienze ed arti potrebbero essere condotte assai più lontano di quanto possano fare intere generazioni di sapienti, se solo sopravvivesse, dotata della medesima forza giovanile dello spirito, per il tempo concesso a tutte quelle generazioni. Ma la natura ha fatto la sua scelta riguardo alla durata della vita umana da un altro punto di vista che non quello della promozione delle scienze. Infatti quando la mente più fortunata sta sul punto di fare le più grandi scoperte che essa possa sperare dalla sua abilità e dalla sua esperienza, arriva la vecchiaia; diventa ottusa, e deve lasciare ad una successiva generazione (che inizia di nuovo dall'ABC e deve ancora incamminarsi su quel tratto che già era stato sorpassato) il compito di portare avanti di un altro piccolo tratto il progresso della cultura. Il cammino del genere umano nel raggiungimento della sua intera destinazione appare perciò continuamente interrotto, e in pericolo costante di ricadere nell'antica selvatichezza»32. Coerentemente con la

tesi secondo cui il male non è un principio indipendente voluto da Dio prima dei tempi e della creazione, Kant adotta un tipo di rappresentazione in cui l'origine del male corrisponde all'inizio della storia dell'uomo sulla terra. Da questo punto di vista è proprio la storia dell'umanità a fornire la testimonianza del male commesso dall'uomo come fenomeno che rientra nella lotta della ragione con la natura e, in 32 I. Kant, Inizio congetturale della storia degli uomini, cit., pp. 110-111.

(41)

questo senso, solo la storia mostra come la disposizione buona dell'umanità si affermi quanto più questa riesce a liberarsi dall'animalità: «Prima che la ragione si risvegliasse non c'era ancora nessun comando o divieto, dunque nessuna infrazione; ma non appena quella iniziò la sua opera ed entrò in lotta, pur debole com'è, contro l'animalità e contro tutta la sua forza, dovettero nascere mali e, peggio – con l'ulteriore acculturamento della ragione – , vizi che erano estranei allo stato di ignoranza e quindi d'innocenza. Il primo passo per uscire da questo stato fu dal lato morale una caduta; da quello fisico la conseguenza di questa caduta fu una quantità di mali della vita mai conosciuti, e quindi una punizione. La storia della natura comincia dunque dal bene, poiché è opera di Dio; la storia della libertà dal male, poiché è opera dell'uomo»33.

Leibniz invece, a differenza di Kant, ritiene che ci sia anche un concorso di Dio nella creazione del male morale, nonostante ciò difficilmente si concili con gli attributi divini. Per uscire da questa

impasse l'autore della Teodicea pone la responsabilità di queste scelte

non in Dio stesso, ma nella sua saggezza e nella sua ragione: «Dio, essendo sovranamente saggio, non può non osservare certe leggi e non agire secondo le regole, sia fisiche sia morali, che la sua saggezza gli ha fatto scegliere; e la stessa ragione che lo ha indotto a creare 33 I. Kant, Inizio congetturale della storia degli uomini, cit., p. 109.

(42)

l'uomo innocente, ma sul punto di cadere, lo porta a ricreare l'uomo quando cade, poiché la sua scienza fa sì che il futuro sia per lui come il presente, e che non possa ritrattare le decisioni prese»34.

Prima di passare brevemente allo scritto Sul fallimento di tutti i

tentativi filosofici in teodicea è necessaria una precisazione riguardo al corpus di opere del filosofo di Königsberg: è la stessa impostazione

teologico-metafisica delle Lezioni sulla filosofia della religione e della teodicea in particolare a segnare una differenza rispetto agli scritti kantiani di filosofia della storia, differenza che si mostra tanto nella forma espositiva quanto nella finalità dei due generi di trattazione. Innanzitutto nelle Lezioni Kant, pur delineando il quadro di un'interpretazione della storia umana in termini di progresso verso il meglio, introduce la nozione di un male morale assolutamente irriducibile alla funzione di mezzo per il bene. La definizione del male morale, secondo Kant non procede dalla ragione in quanto si pone al servizio dell'istinto ma in quanto sviluppata dall'uomo per se stessa. Il male morale si sottrae alla legge del progresso perché il suo responsabile non è l'uomo inteso come essere naturale, ma come l'essere «degno di pena che conosca la sua obbligazione al bene e tuttavia faccia il male»35. Il presupposto del male morale è la capacità

della ragione formale di rappresentare una legge contrassegnata 34 G.W. v. Leibniz, Saggi di Teodicea, cit., Parte prima, p. 176.

(43)

dall'obbligatorietà valida al di fuori del tempo storico. L'uomo, la cui ragione si sviluppa in maniera tale che egli conosca la sua obbligazione, viene qui considerato non sotto la prospettiva dell'osservazione storica, ma della sua intenzione etica. La delucidazione delle intenzioni malvagie o buone che siano non può trovar posto in una narrazione del corso della storia perché l'intenzione stessa è esterna alla temporalità.

Ben differente è però l'approccio di Kant alla narrazione di una storia universale: mentre la teodicea unisce al racconto dei primi passi dell'umanità l'indagine dell'origine del male, allo scopo di difendere Dio dall'accusa di esserne il responsabile, la filosofia della storia è libera da questa preoccupazione e si mantiene sul piano delle manifestazioni dell'opera umana. Pertanto, se la filosofia della religione deve prendere in considerazione l'origine del male morale per dimostrare che dipende dalla libertà e non dal creatore, «la storia [..] si occupa della narrazione di tali fenomeni, per quanto profondamente nascoste ne possano

essere le cause»36. La disamina che sta all'origine del male morale

riveste una funzione dichiaratamente apologetica che è assente negli scritti di filosofia della storia; la finalità della teodicea kantiana è quella di mostrare come la creazione non introduca il male nell'ordine della natura ma produca esseri che, in virtù della loro “creaturalità”, sono 36 I. Kant, Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, cit., p. 29.

(44)

limitati e provvisti di facoltà germinali perfettibili. La storia del mondo e dello sviluppo delle facoltà umane dimostra l'irresponsabilità di un Dio assolutamente santo e buono. La manifestazione della colpa non è valutata solo in quanto fenomeno ma come prodotto di una volontà del tutto indipendente da quella divina in modo che infine si possa asserire che gli istinti furono posti nell'uomo per il bene. Se l'uomo poi esagera la colpa va attribuita ad esso, non a Dio.

Come già accennato nel capitolo precedente, la figura del male morale, nello scritto Sul fallimento di tutti i tentativi filosofici in teodicea, viene dichiarata incomprensibile ed ingiustificabile se si tiene presente l'ipotesi di un Dio santo. Dal punto di vista della teodicea il male morale è scandaloso e sono inutili i tentativi di giustificare Dio di fronte ad esso. In questo testo Kant parte dall'inconciliabilità tra la santità di Dio in quanto creatore e legislatore del mondo e il male morale presente in esso. Come già fatto per il caso del male fisico Kant ci dà tre giustificazioni «contro il rimprovero rivolto alla santità della volontà divina, rimprovero che muove dal male morale che deturpa il mondo, sua opera». La prima si basa sul fatto che la saggezza divina è differente da quella umana; «che le vie dell'Altissimo non sono le nostre vie […] e che cadiamo in errore quando ciò che in questa vita è legge solo relativamente agli uomini noi lo giudichiamo in quanto tale

Riferimenti

Documenti correlati

relazionale: quello della «potenza della necessità», che rende «la libertà reale [wirkliche]» 34. Sono, quest’ultime, le caratterizzazioni logiche del concetto, che Hegel

S’è giudicata così solo la necessità, intesa secondo giurisprudenza consolidata come "pressing social need", dell'interferenza in una società democratica, per

Insegnam o alle nostre care figliuole a fare ogni cosa in compagnia della Madonna, a vivere ogni istante della loro vita alla luce della Sua m aterna

Poiché, come detto, l’energia solare è discontinua, tali centrali sono dotate anche di caldaie a combustione che entrano in funzione quando gli effetti del Sole non

noscere dal fatto che essa avviene persino in quelle forme elementari di libertà che non oltrepassano la sfera della pura ribellione interna, perchè

Essi popolano la mia memoria della loro presenza senza volto, e se potessi racchiudere in una immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è

A lui i malati saranno sempre grati perché li ha tenuti in palmo di mano, trattandoli in primo luogo come esseri umani e poi come pazienti.. Grazie di

Quelle che per tanti sono difficoltà oggettivamente insormontabili non hanno affievolito, anzi hanno reso ancora più forte il desiderio di ridare speranza alla propria terra e