CAPITOLO 1.
INTRODUZIONE
1.1. Natura dello studio
La descrizione scientifica di una roccia coinvolge diverse osservazioni e misure a varie scale e livelli di dettaglio. In generale l’analisi mineralogica quantitativa e quella strutturale (e/o tessiturale), sono necessarie ad un geologo per comprendere la natura e l’origine delle rocce. In petrologia ignea, per esempio, un parametro strutturale come la distribuzione di taglia dei granuli è strettamente connesso alla storia di cristallizzazione della roccia (Cashman and Marsh 1988); associando la taglia dei granuli alla loro frequenza, è possibile ottenere alcune interessanti informazioni sui cristalli come la densità di nucleazione, il tasso di crescita e di nucleazione e il tempo di residenza in un magma (Marsh 1988). In altre discipline, come in sedimentologia, la taglia dei granuli è invece funzione dell’ambiente deposizionale (Pettijohn et al. 1987), mentre in paleopiezometria, la taglia dei granuli ricristallizzati è in relazione al flusso di stress avvenuto durante la deformazione (Twiss 1977; Etheridge and Wilkie 1981). In petrografia ignea, nel caso delle rocce intrusive in particolare, l’analisi mineralogica quantitativa è un parametro estremamente importante per classificarle in maniera ottimale (Streckeisen 1973); inoltre una buona discriminazione e quantificazione di alcuni parametri petrografici basilari come la composizione mineralogica, la tessitura (taglia e forma dei granuli), il fabric (ovvero la disposizione spaziale reciproca dei suoi costituenti all’interno della roccia) e la fratturazione, sono fondamentali per comprendere le proprietà fisiche e meccaniche dei materiali rocciosi (Montoto 1982; Choi 2004).
Purtroppo le acquisizioni dei dati strutturali/tessiturali e di quelli modali, oltre ad essere molto noiose e laboriose, richiedono anche tantissimo tempo, per il semplice fatto che per effettuare delle analisi statistiche è necessario collezionare una notevole quantità di misure su diversi campioni e tradizionalmente l’acquisizione di tali dati avviene manualmente. Per esempio, nello studio e nell’interpretazione delle distribuzioni di taglia dei cristalli (CSD), utili per ottenere preziose informazioni sulla cinetica di cristallizzazione, è indispensabile acquisire moltissime misure sia sulla forma che sulla taglia dei cristalli. Per collezionare questi dati, la maggior parte degli autori, preferisce disegnare i contorni dei cristalli a mano (Fabbri 1984; Petersen 1996; Higgins 2000; Berger and Roselle 2001) oppure con l’ausilio di
un “digitizing table”, cioè un dispositivo che converte il segnale analogico di una TVcamera in digitale (Simigian and Starkey 1989; Higgins 1998 e 2002; Mangan and Cashman 1996; Waters and Boudreau 1996), o su uno schermo utilizzando un drawing package (Jerram et al. 2003)e successivamente sottoporre l’immagine risultante, costituita dai contorni dei granuli, a misurazioni automatiche mediante un qualsiasi software di analisi d’immagine; altri autori invece eseguono le misure direttamente a mano su stampe di micrografie ingrandite (Mangan 1990; Nemchin et al. 2001).
Anche l’analisi modale è un parametro che si ottiene tradizionalmente contando uno dopo l’altro i punti su una sezione sottile (il cosiddetto metodo Glagolev–Chayes o del conteggio dei punti). Il problema principale di questi tipi di analisi sta nel fatto che, il più delle volte, queste operazioni non sono automatiche, ma avvengono manualmente su ciascun granulo presente nella sezione sottile della roccia, quindi richiedono tantissimo dispendio di tempo (ore se non addirittura diversi giorni); per questa ragione per ottenere informazioni sulla moda, si preferisce utilizzare l’analisi chimica della roccia totale e la relativa classificazione normativa invece di effettuare l’integrazione per punti sulla sezione sottile, oppure per avere informazioni sulla relativa tessitura (fabric e texture), utilizzare dei metodi indiretti quali l’anisotropia della suscettività magnetica, la geometria tessiturale dei raggi x, etc., invece di scontornare a mano i cristalli. Tuttavia esistono diverse circostanze in cui si desiderano delle analisi dirette sia della moda che della struttura della roccia, cercando di mantenere sempre integro il campione analizzato. Infatti i tradizionali metodi di analisi quantitativa sia chimica che modale risultano essere generalmente molto invasivi, tanto che il campione per poter essere analizzato, il più delle volte viene distrutto per estrarne le fasi mineralogiche o per ricavarne delle sezioni sottili; di conseguenza, spesso si ricorre, come in questo caso, alla analisi d’immagine digitale, come potenziale strumento per identificare e misurare in maniera automatica e rapida gli oggetti d’interesse senza dover danneggiare campione. Dobbiamo però subito precisare che la determinazione ottica mineralogica eseguita manualmente su sezioni sottili, si avvale principalmente di due potenti strumenti indispensabili per l’identificazione, che sono il microscopio da petrografia e l’occhio umano, i quali discriminano in maniera ottimale le fasi mineralogiche sulla base dell’abito cristallino, del colore, del pleocroismo, delle tracce di sfaldatura e/o frattura, del rilievo, dei colori di birifrangenza, delle geminazioni, del segno ottico o di allungamento, dell’angolo di estinzione e degli assi ottici, delle misure relative degli indici di rifrazione e di tante altre proprietà ottiche (Gay 1967), salvo casi in cui le granulometrie siano dell’ordine dei micron e quindi non sia possibile un’adeguata identificazione delle loro proprietà ottiche. Questa manuale e laboriosa
determinazione ottica genera sicuramente dei dati di alta qualità; dall’altra parte invece, le determinazioni automatiche ottenute mediante l’analisi d’immagine digitale, risultano senza dubbio più rapide, ma meno precise, in quanto la classificazione delle particelle si basa solamente sul colore (Higgins 2000); tuttavia, in diversi casi potranno dare dei dati utili e sfruttabili.
1.2. Obiettivi e contenuti della tesi
L’obiettivo principale di questa tesi consiste nel creare, sfruttando le potenzialità di alcuni software di analisi d’immagine tipo ImageJ 1.37v, una tecnica semi–automatica, rapida, economica, non distruttiva e ad alta risoluzione in grado di poter estrarre alcune informazioni quantitative avendo come input delle immagini digitali di rocce granitoidi, acquisite a 600 dpi mediante uno scanner a colori con superficie piana.
Le informazioni quantitative che vogliamo ottenere da tali immagini riguardano principalmente la stima della moda (mettendo in evidenza anche la taglia, la frequenza, l’orientazione, il centro di gravità, etc. degli oggetti d’interesse) e la determinazione della frequenza e dell’abbondanza dei contatti intergranulari fra le diverse specie mineralogiche fondamentali per ciascun litotipo. I dati modali ricavati saranno quindi utilizzati per classificare queste rocce sulla base del diagramma QAPF di Streckeisen (1976), mentre quelli di tipo strutturale verranno sfruttati, per distinguere rapidamente due granitoidi modalmente simile. Un’analisi petrografica modale o strutturale in sezione sottile, nel nostro caso, non sarebbe rappresentativa a causa della granulometria grossolana.
Come ulteriore applicazione di questa metodologia, abbiamo esaminato le relazioni fra alcune proprietà di tipo strutturale e i comportamenti di una selezione dei granitoidi sottoposti a prove di carico fino al raggiungimento della rottura, osservando in particolare sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo, la propagazione in superficie della frattura di ciascun campione rispetto alla distribuzione dei contatti fra le fasi.
Per svolgere questo lavoro sono stati presi in considerazione diverse tipologie di rocce granitoidi, con colorazioni e strutture differenti, ma con una granulometria tale che tutte le fasi fondamentali siano distinguibili ad occhio nudo, cioè rocce faneritiche e appartenenti alle tipologie commerciali White Rock (WR), Grigio Sardo (GS), Rosa Monforte (RMf), Rosa Beta Sardegna (RBS) e Bianco Sardo (BS). Inoltre per effettuare i test di resistenza a flessione a quattro punti e acquisire le immagini, le rocce sono state tagliate a forma di lastre, lucidate
in corrispondenza di una faccia per ottenere una superficie quanto più nitida e pulita e utilizzati particolari apparecchiature meccaniche e strumenti ottico–elettronici.
L’organizzazione della tesi è il seguente: nel secondo capitolo viene definita l’importanza dell’analisi d’immagine digitale in geologia come strumento diagnostico e di misura, sottolineandone le sue principali finalità, applicazioni e le difficoltà insite nell’elaborazione dell’immagine proveniente da sezioni sottili di rocce al microscopio ottico. Nel terzo capitolo vengono descritti sinteticamente i criteri e le metodologie classiche utilizzati per la classificazione modale delle rocce ignee assieme ai relativi diagrammi, con particolare riferimento a quelle plutoniche. Il quarto capitolo dedicato ai materiali e alle strumentazioni, consiste in una descrizione tipologica e petrografica dei litotipi analizzati assieme ad una rappresentazione delle caratteristiche sia dei principali hardware e software d’acquisizione che della pressa meccanica adoperata per effettuare le prove di resistenza a flessione a quattro punti. Il quinto capitolo rappresenta invece il cuore della tesi, in quanto vengono descritte accuratamente le principali fasi dell’analisi d’immagine e in più viene esposta la metodologia sviluppata per segmentare le fasi mineralogiche fondamentali ed ottenere le informazioni quantitative modali e strutturali necessarie per questo tipo di lavoro direttamente dalle immagini digitali delle lastre di ciascun campione. Nel sesto capitolo vengono rappresentati graficamente i risultati ottenuti con tale metodologia discutendone la sua precisione e la sua accuratezza. Nel settimo capitolo viene invece esaminata l’utilità e l’applicabilità della metodologia sviluppata, allo studio delle relazioni fra i contatti intergranulari e la linea di fratturazione dei campioni testati. Infine abbiamo l’ottavo ed ultimo capitolo è dedicato alle conclusioni tratte dallo svolgimento di questo tipo di lavoro.
CAPITOLO 2.
ANALISI D’IMMAGINE IN GEOLOGIA
2.1. L’analisi d’immagine come strumento diagnostico e di misura
L’analisi d’immagine è un valido strumento diagnostico e di misura adottato da diverso tempo in molte discipline scientifiche, come la medicina, la biologia, ma raramente nelle scienze della Terra (Fortey 1995), e sfruttato per ottenere delle informazioni quantitative direttamente da una figura digitale (Russ 1992; Jähne 1997), in quanto l’occhio umano è un superbo strumento dal punto di vista qualitativo, ma non da quello quantitativo. In relazione alla risoluzione di alcuni problemi geologici, questa metodologia è in vigore solamente negli ultimi decenni e migliorata nel tempo rispetto alle sue prime applicazioni, grazie soprattutto allo sviluppo della tecnologia degli strumenti utilizzati, dall’acquisizione fino all’elaborazione delle immagini. Attualmente l’analisi d’immagine in alcuni casi, viene favorita rispetto ad altre tecniche diagnostiche e di misura sia per i bassi costi (infatti per la sua applicazione sono necessari strumenti che sono all’ordine di tutti dal punto di vista economico, tipo un personal computer, uno scanner, un hard disk portatile, un software d’analisi d’immagine tipo ImageJ 1.37v che peraltro è scaricabile gratuitamente da internet), ma soprattutto per la rapidità di acquisizione ed elaborazione dei dati e in più per il fatto che risulta essere una metodologia non distruttiva e ad alta risoluzione; addirittura alcuni autori (Pirard et al. 1999) la considerano un potentissimo strumento scientifico dello stesso calibro dei dispositivi di assorbimento atomico e di fluorescenza dei raggi X.
2.2. Finalità e applicazioni dell’analisi d’immagine
Nell’ambito delle scienze della Terra, l’analisi d’immagine è stata ed è tuttora impiegata in varie discipline come la petrografia, la petrologia, la sedimentologia, la mineralogia, la geologia strutturale e tante altre, per la risoluzione di svariati problemi geologici, tra i quali quelli maggiormente riscontrati durante le analisi di sezioni sottili sono:
ü la determinazione modale dei costituenti di rocce granulari ignee e sedimentarie (Rink 1976; Allard and Sotin 1988; Ruzyla 1992; Ferm et al. 1993; Launeau et al. 1994; Starkey and Samantaray 1994; Perring et al. 2004);
ü l’analisi tessiturale in particolare la determinazione della taglia (per la costruzione delle CSD), della forma, dell’orientazione, del centro di gravità, dell’area, del perimetro e dell’aspect ratio dei granuli minerali sia in rocce ignee, sedimentarie che metamorfiche (Schäfer 1982; King 1984; Mazzullo and Kennedy 1984; Simigian and Starkey 1986 e 1989; Clark 1987; Starkey and Simigian 1987; Allard and Benn 1989; Pareschi et al. 1990; Launeau et al. 1990; Kennedy and Mazzullo 1991; Lumbreras and Serrat 1996; Cooper 1998; Francus 1998; Armienti and Tarquini 2002; Tarquini and Armienti 2003; Van den Berg et al. 2003; Barraud 2006; Buscombe 2008);
ü la determinazione dei “grain bondaries” o degli “edges”, cioè i contorni dei granuli (Canny 1986; Starkey and Samantaray 1993; Fueten 1997 e 1999; Goodchild and Fueten 1998; Bartozzi et al. 2000; Heilbronner 2000);
ü la misura della porosità sia in rocce vulcaniche che sedimentarie (Murphy et al. 1977; Ehrlich et al. 1984; Berryman and Blair 1986; Ruzyla 1986; Ehrlich et al. 1991a e 1991b ; Bouabid et al. 1992; Mowers and Budd 1996; Ringrose–Voase 1996);
ü la misura dello strain, in particolare la determinazione del rapporto degli assi e l’orientazione dell’asse maggiore dei markers di strain ellittici (Veh and Hartnady 1986; Bjørnerud and Boyer 1996) e tante altre problematiche.
2.3. Principali difficoltà insite nell’analisi d’immagine di sezioni sottili di rocce al microscopio ottico
L’obiettivo primario dell’analisi d’immagine è l’estrazione di informazioni quantitative da un’immagine digitalizzata attraverso dei software; per far questo è necessario prima di tutto riuscire a separare nella maniera più precisa possibile, gli oggetti d’interesse da quelli di non interesse o definiti anche sfondo. Tale procedimento semi– o automatico, definito segmentazione (Fabbri 1984; Allard and Been 1989; Simigian and Starkey 1989; Russ 1992), suddivide l’immagine in regioni o categorie appartenenti ad oggetti diversi o parti dello stesso oggetto.
Le difficoltà che si possono incontrare nella segmentazione di immagini digitali acquisite al microscopio ottico diventano notevoli quando l’oggetto di studio risulta essere una sezione sottile di una roccia o di un sedimento (Bouabid et al. 1992), in quanto tali difficoltà sono strettamente legate alla natura stessa dell’immagine da analizzare. Per esempio se osserviamo
una sezione sottile di una roccia ignea intrusiva a nicols paralleli (//), nell’immagine analizzata sarà praticamente impossibile distinguere i confini o la zona di contatto fra due fasi mineralogiche incolore, come quasi sempre accade per i sialici (Fueten 1997). Se la osserviamo a nicols incrociati (X), i colori d’interferenza (o di birifrangenza) dipenderanno dalla specie mineralogica, dall’orientazione dell’indicatrice ottica rispetto ai polarizzatori e dallo spessore della sezione sottile 1. Analogamente, anche nel caso di analisi a nicols X, se la roccia è isorientata, può capitare che alcuni minerali della stessa specie abbiano uguale
1 Infatti, aprendo una parentesi sulle manifestazioni fisiche delle proprietà ottiche dei minerali possiamo
osservare che quando la materia cristallina interagisce con una luce polarizzata linearmente, si generano due raggi definiti rispettivamente ordinario (O) e straordinario (E) che viaggiano in direzioni ortogonali l’uno rispetto all’altro e a velocità differenti via via che si allontanano dalla direzione dell’asse ottico. Allora a causa delle diverse velocità di propagazione dei due raggi, nei cristalli uniassici avremo due indici di rifrazione chiamati ω’ e ε’ (tre in quelli biassici rispettivamente α’, β’ e γ’) ciascuno associato ad una direzione di propagazione e l’inviluppo dei vettori che identificano tali indici di rifrazione, creano una figura geometrica che tridimensionalmente viene definita indicatrice ottica, la cui geometria dipenderà dal sistema cristallino della specie mineralogica (sarà cioè una sfera per i minerali appartenenti al sistema cubico; un ellissoide a due assi per i minerali tetragonali ed esagonali e un ellissoide a tre assi per quelli triclini, monoclini, e ortorombici). Questa indicatrice ottica e in particolare le sezioni passanti per il suo centro, sono molto utili per visualizzare le relazioni fra gli indici di rifrazione e le loro direzioni di vibrazione che sono perpendicolari alle direzioni di propagazione della luce attraverso il cristallo. Una qualsiasi sezione dell’indicatrice ottica è rappresentata da un’ellisse i cui semiassi maggiore e minore saranno proporzionali agli indici di rifrazione. Tale ellisse si trasforma in un cerchio quando la sezione è perpendicolare alla direzione dell’asse ottico. In considerazione di tutto ciò, quando effettuiamo un’analisi ottica a nicols X su una sezione circolare allora il minerale risulta essere, per qualsiasi orientazione rispetto alla direzione di vibrazione dei polarizzatori, sempre estinto, dal momento che i due indici di rifrazione risultano essere sempre uguali in modulo, di conseguenza il cristallo si comporta nella stessa maniera dei materiali isotropi; se invece la sezione analizzata è un’ellisse, allora si presentano delle condizioni in cui il minerale è estinto e altre dove è illuminato e colorato. Nel primo caso l’estinzione, che capita quattro volte, una ogni 90°, per una rotazione completa di 360°, si verifica quando la direzione di propagazione della luce che esce dal polarizzatore coincide esattamente con una delle direzioni di vibrazione del cristallo, cioè la luce passa nel cristallo come raggio E o raggio O per essere completamente eliminata dall’analizzatore; nel secondo caso, cioè in tutte le posizioni intermedie fra quelle di estinzione, il minerale risulta essere illuminato (con massima illuminazione a 45° rispetto la direzione di vibrazione dei polarizzatori) e colorato con dei colori definiti d’interferenza che dipendono dall’orientazione ottica, dallo spessore della sezione sottile e dalla potenza birifrattiva (o birifrangenza) ovvero la differenza in valore assoluto dei due indici di rifrazione, i quali sono strettamente legati alla sezione analizzata. Infatti quando il cristallo si trova in una posizione intermedia, la luce polarizzata che penetra al suo interno viene suddivisa in due componenti; una delle componenti si muove attraverso il cristallo come raggio O, l’altra come raggio E. Quando questi due raggi entrano nell’analizzatore, questo consentirà solo il passaggio della componente parallela alla sua direzione di polarizzazione. Dal momento che i due raggi viaggiano nel cristallo a velocità differenti, una volta usciti avranno una differenza di fase (φ) (φ = 2πd(γ’- α’)/λ) che dipende dalla differenza di velocità e dallo spessore della lamina (d) attraversata e un ritardo (δ) (δ = d(γ’- α’)) dipendente anch’esso dallo spessore della lamina (d) attraversata e dalla birifrangenza (γ’ - α’). Poiché i due raggi sono ricondotti a vibrare nello stesso piano dell’analizzatore (che inserisce un ulteriore ritardo pari a λ/2), allora daranno luogo ad una interferenza. Il ritardo finale fra i due raggi sarà quindi dato dalla somma dei due ritardi (Δ = δ + λ/2). In luce monocromatica se il ritardo (Δ) fra i due raggi è pari ad un numero intero (n = 1, 2 , 3,...) di lunghezze d’onda (λ) (cioè in generale Δ = nλ), allora avremo interferenza negativa piena cioè l’estinzione del minerale; se invece il ritardo (Δ) è pari a λ/2, 3λ/2 (cioè in generale Δ = n + λ/2), allora avremo interferenza positiva piena è quindi si avrà massima illuminazione. Dall’altra parte se utilizziamo luce bianca (o policromatica, cioè costituita da tutte le λ dello spettro visibile così come quella utilizzata da tutti i microscopi da petrografia), allora può capitare che alcune lunghezze d’onda siano in interferenza positiva piena, altre in negativa piena ed altre ancora in interferenza intermedie. L’oscuramento di una certa lunghezza d’onda comporta la sua eliminazione dallo spettro e la comparsa del colore complementare. Di conseguenza il colore finale sarà quindi dato dalla somma delle interferenze e per questo motivo i colori che si osservano sono definiti d’interferenza o della scala di Newton. A seconda della differenza di cammino che può essere di 1λ, 2λ, 3λ,…, nλ, ci sono vari ordini di interferenza e i rispettivi colori derivati vengono perciò definiti di primo, secondo, terzo ordine e così via.
orientazione dell’indicatrice ottica (cioè lo stesso colore d’interferenza) e nel caso siano adiacenti, allora anche in questa occasione non saranno otticamente distinguibili (Goodchild and Fueten 1998). Tutte queste difficoltà si possono incontrate non solo in ambito di sezioni sottili di rocce ignee, ma anche in quelle di rocce metamorfiche e sedimentarie (Murphy et al. 1977). Sulla base di queste semplici considerazioni possiamo dedurre che attualmente non esistono delle metodologie standard di analisi d’immagine per l’elaborazione delle sezioni sottili anche se ne sono state proposte alcune specifiche per la quantificazione della porosità (Ehrlich et al. 1991a), del contenuto del carbonato di calcio nel suolo (Bui and Mermut 1989), del flusso di massa di carbone (Clark and Hussey 1996), dello strain (Bjørnerud and Boyer 1996), per l’estrazione dei contorni dei granuli (Tarquini and Armienti, 2001 e 2003) etc.
Una volta segmentati gli oggetti d’interesse su un’area relativamente più grande rispetto alle loro dimensioni, come per esempio le fasi mineralogiche di sezioni sottili o di lastre di diversi campioni dello stesso litotipo, allora su tali oggetti (in particolare sull’immagine binaria) possiamo eseguire diverse misurazioni (area, perimetro, circolarità, coordinate del centroide, diametro di Feret, etc. degli oggetti d’interesse), ma una primissima applicazione, nel caso delle rocce, è quella di stimare la moda (percentuale in volume) sulla base della percentuale areale (definita come rapporto fra i pixels che cadono nell’oggetto d’interesse e quelli totali dell’immagine) delle fasi mineralogiche segmentate (Chayes 1956), e quindi riuscire ad avere, una primaria classificazione su base mineralogica senza dover eseguire altri tipi di tecniche magari più costose o meno rapide, come l’analisi chimica o la classica integrazione per punti su un numero di sezioni sottili che dipende dalle dimensioni dei granuli, dalla struttura della roccia e dall’errore a priori che vogliamo assegnare ad ogni percentuale stimata (Van der Plas and Tobi 1965). Prima di descrivere dettagliatamente le tecniche di analisi d’immagine adottate in questo tipo di lavoro per acquisire le informazioni quantitative sui parametri modali e strutturali utili soprattutto per la classificazione delle rocce ignee, soffermiamoci brevemente su quali siano gli attuali criteri di classificazione di tali rocce e le classiche metodologie per ottenere tali parametri classificativi.
CAPITOLO 3.
CLASSIFICAZIONE MODALE DELLE ROCCE IGNEE
3.1. Criteri e metodologie classiche
Generalmente in ambito scientifico, la classificazione e la nomenclatura di ogni entità vivente e non, nasce dall’esigenza dell’uomo di dare un ordine e un nome a tutto ciò che lo circonda e che la natura ha creato; sostanzialmente per riuscire a comunicare con i suoi simili in maniera sempre più rapida e sintetica, ma al tempo stesso molto precisa. Nell’ambito delle scienze geologiche la classificazione e la nomenclatura delle rocce ignee è un argomento assai delicato fin dalle prime indagini di Streckeisen (nel decennio compreso fra il 1958 e il 1967), e ancora oggi esistono diverse opinioni su quali possano essere i criteri e i metodi più adatti; tuttavia la classificazione delle rocce è molto importante perché, oltre a richiamare con un nome un oggetto o un contesto geologico, si cerca anche convenzionalmente di creare degli schemi alla nostra portata per poter inquadrare la natura in tutta la sua complessità.
Per classificare correttamente una roccia ignea è estremamente importante conoscere la sua composizione (Streckeisen 1973) assieme alla sua giacitura geologica, ossia il tipo di messa in posto e gli effetti di questa sulla struttura a vari livelli di scala (D’Amico et al. 1987). La composizione di una roccia ignea può essere espressa sia sotto l’aspetto chimico 2
2
La composizione chimica delle rocce, viene espressa come percentuale in peso degli elementi fondamentali che la costituiscono e vengono chiamati convenzionalmente elementi maggiori se la loro quantità è superiore l’1%, ed elementi minori se invece risulta essere compresa fra 0,1% e 1%. I costituenti maggiori e minori delle comuni rocce ignee, la cui somma ne rappresenta la quasi totalità, sono: O, Si, Al, Fe, Ca, Mg, Mn, K, Na, H, P e Ti; tra essi l’elemento più abbondante è l’ossigeno, il quale però non viene determinato con le classiche procedure analitiche, ma comunemente si usa esprimere l’abbondanza degli elementi maggiori e minori in forma di ossidi, molti utili specie nei calcoli petrochimici. Nelle rocce ignee sono presenti anche altri elementi, le cui quantità risultano essere estremamente basse tanto che le loro concentrazioni vengono espresse in parti per milioni (ppm); tali elementi vengono denominati elementi in traccia. Nonostante la loro piccolissima concentrazione, la distribuzione degli elementi in traccia è caratteristica nei vari tipi di rocce; per tal motivo essi sono talvolta utilizzati come traccianti dei principali processi petrogenetici e spesso anche per scopi classificativi. Le analisi chimiche sono praticamente indispensabili ai fini classificativi, qualora nel litotipo in esame sia presente del vetro (come in molte rocce vulcaniche), in quanto non presentando un chimismo ben definito ed essendo amorfo è praticamente impossibile definire quale possa essere la corrispondente fase mineralogica, o nel caso in cui le dimensioni dei singoli cristalli siano così minute da essere difficilmente determinabili per via ottica e quindi del tutto ardua la loro valutazione quantitativa. Generalmente le analisi chimiche si effettuano attraverso microsonde elettroniche o ioniche, che riescono anche a rilevare le disomogeneità composizionali all’interno di ogni singolo minerale. Sulla base del chimismo viene anche riconosciuta l’appartenenza a serie evolutive distinte (molto utili per definire anche l’ambiente geodinamico) e possono inoltre essere operati dei raffronti fra rocce che per la loro compagine ed associazione paragenetica rilevano ambienti e modi di consolidamento differenti (per esempio
che quello mineralogico 3 e i due parametri sono dipendenti l’uno dall’altro, in quanto ad ogni singolo minerale corrisponde una certa composizione chimica.
In natura la maggior parte dei minerali sono quasi sempre miscele isomorfe assai complesse e variabili sia nelle diverse condizioni chimico–fisiche di cristallizzazione che in rocce differenti; di conseguenza la corrispondenza fra un criterio di classificazione chimica e uno di classificazione mineralogica non risulta necessariamente univoca. Per questo motivo il criterio classificativo più corretto è quello basato su entrambe le conoscenze composizionali sia chimica che mineralogica. Tuttavia nel nostro caso avendo preso in considerazione delle rocce plutoniche faneritiche, si preferisce utilizzare il criterio mineralogico quantitativo (o moda), dal momento che i dati mineralogici si possono immediatamente osservare sul campione a mano e valutarne direttamente in termini semiquantitativi, rispetto all’acquisizione dei dati chimici che invece necessitano elaborazioni più complesse. Contrariamente, se avessimo avuto a che fare con rocce vulcaniche, per motivi legati prevalentemente alla minuta granulometria, la classificazione sarebbe invece avvenuta chimicamente data l’impossibilità, il più delle volte, di determinare la loro composizione mineralogica quantitativa. A questo punto la connessione fra i due criteri di classificazione è resa possibile attraverso dei particolari calcoli, definiti calcoli petrochimici 4, che facilitano e rendono più immediata la comprensione e l’interpretazione delle analisi chimiche.
rocce plutoniche e rocce vulcaniche) in relazione ai campi di temperatura e pressione, alla presenza di fasi volatili ed alla direzione ed intensità degli sforzi tettonici.
3 La determinazione della composizione mineralogica, consiste nell’identificare il tipo, il numero di fasi
mineralogiche presenti i e loro rapporti sia quantitativi (ossia l’abbondanza percentuale in volume, definita anche moda o modo) che geometrici (ossia la forma, la dimensione o taglia dei granuli minerali e la loro disposizione reciproca nella roccia). Per procedere a queste ricerche la petrografia si avvale di diversi metodi di indagine mineralogica; il più comune è la microscopia ottica, effettuata prevalentemente per trasparenza su sezioni sottili ricavate da porzioni più interne della roccia, in quanto non a stretto contatto con gli agenti esogeni responsabili delle principali alterazioni chimico–fisiche (weathering), analizzandone l’originale struttura e composizione al momento della sua messa un posto; altre metodologie utilizzate sono per esempio la diffrattometria a raggi x, le analisi termiche e la spettroscopia a raggi infrarossi.
4 Fra questi calcoli il più comunemente usato è quello che, partendo dalle percentuali in peso degli ossidi offerte
dalle analisi chimiche, attraverso una procedura di calcolo rigorosamente fissata e obbligata, costruisce alcuni minerali anidri teorici (contrassegnati da sigle, come, Q per il quarzo, or per l’ortoclasio, lc per la leucite ect.) con composizione semplice, ideale e con il massimo contenuto in SiO2 consentito dalla composizione della
roccia. Questo sistema convenzionale di rappresentazione delle analisi chimiche delle rocce ignee, genera in definitiva una composizione mineralogica virtuale dove i suoi costituenti mineralogici normativi sono espressi in percentuali in peso, e tale associazione mineralogica teorica (indipendente dalla composizione mineralogica quantitativa o moda) viene definita norma CIPW dal nome delle iniziali dei quattro petrografi americani che l’hanno proposta agli inizi del ‘900: C. W. Cross, J. P. Iddings, L. V. Pirsson e H. S. Washington. L’esame di una norma CIPW fornisce utili informazione sulla natura della roccia, come la misura del suo grado di saturazione in SiO2 e in Al2O3 e della sua alcalinità. I diversi gradi di saturazione in silice ed in allumina
rifletteranno nella roccia differenti associazioni mineralogiche reali. Oltre alla norma CIPW, esistono tantissimi altri calcoli petrochimici che possono essere effettuati partendo dalle analisi chimiche, come per esempio la norma equivalente di Niggli (petrografo svizzero di lingua tedesca) che ormai risulta essere in disuso non tanto perché concettualmente inferiore, ma per l’assoluto prevalere della letteratura anglosassone su quella germanica, a partire dal dopoguerra; e i calcoli petrochimici di Eskola (1915) e di Thompson (1957) molto efficaci, ma
Tradizionalmente, la moda di una roccia viene determinata direttamente su alcune sezioni sottili, contando le differenti fasi cristalline mediante l’ausilio di un particolare accessorio del microscopio petrografico definito tavolino integratore. Tale metodologia (divenuta oggi praticamente obsoleta), basata sull’integrazione per punti, si ottiene spostando la sezione con suddetto accessorio in direzione N-S ed E-O secondo intervalli prefissati; si realizza in questa maniera una griglia nella quale ogni punto contiene un’informazione relativa alla specie mineralogica presente nel campione. Il numero totale di punti misurato su ogni fase viene assunto come proporzionale alla sua abbondanza relativa (Chayes 1956). Dobbiamo però tener conto che la fettina di roccia rappresenta solamente una sezione planare del campione; se pertanto nel litotipo si osservano orientazioni mineralogiche o addirittura superfici di foliazione, il dato planimetrico non è più corrispondente a quello volumetrico, di conseguenza dobbiamo ricorrere al taglio e all’analisi di più sezioni variamente orientate rispetto alla struttura della roccia. In ogni modo se la roccia è isotropa, come può facilmente capitare se ignea, l’integrazione della sezione può essere considerata come rappresentativa della moda del campione (Chayes 1956). Come tutte le metodologie, al fine di poter valutare l’attendibilità delle misure nell’esecuzione delle analisi modali, è necessario tener conto delle dimensioni (granulometria) delle fasi mineralogiche presenti. Tali dimensioni comportano una scelta preliminare del numero totale di punti da determinare, il quale deve essere fissato in base al grado di incertezza che si vuole attribuire ai valori finali. Questa incertezza viene espressa come deviazione standard (σ) rispetto al contenuto stimato della fase mineralogica. Se si vuole stimare l’abbondanza delle varie specie mineralogiche in un intervallo di confidenza del 95% rispetto al valore reale (2σ), allora si può utilizzare l’abaco della figura di Van der Plas e Tobi (1965) (Fig. 1.), per ricavare il valore di 2σ di ogni stima effettuata (P), sulla base del numero totale dei punti contati (n).
In particolare esiste una relazione che lega la misura dell’errore assoluto in percentuale (δ) commessa con tale metodo, con il numero totale dei punti contati (n); tale relazione è la seguente (Walker et al. 2004):
δ = 2,0235 √P(100–P)/n, dove
δ = errore assoluto in percentuale;
P = percentuale dei punti della fase d’interesse; n = numero totale dei punti contati.
Da tale relazione si può anche notare che l’errore totale diventa sempre più piccolo via via che aumenta il numero di punti contati (n). L’influenza delle dimensioni medie dei cristalli
sull’incertezza della misura (valore del 2σ) è legata al fatto che l’abaco della figura si basa sull’assunzione che ogni punto della griglia fornisca un’informazione indipendente; di conseguenza il salto tra un punto e l’altro deve essere maggiore della più grande dimensione media della fase che si vuole misurare (cioè due punti della griglia adiacenti non devono cadere mai nello stesso cristallo). Da qui ne consegue che la superficie totale della roccia da esaminare è in qualche modo proporzionale alla granulometria del campione.
Fig. 1. Carta di Van der Plas e Tobi per giudicare la realtà dei risultati nel conteggio dei punti.
Attualmente come già accennato nell’introduzione, esistono delle moderne tecniche di trattamento di immagini che consentono di determinare la moda con elevata accuratezza, elaborando semi– o automaticamente le immagini di rocce precedentemente acquisite. Questo tipo di determinazione modale effettuata su immagini digitali elaborate con particolari software di analisi d’immagine digitale, sarà maggiormente sviluppata nei capitoli successivi, in quanto risulta essere uno degli argomenti principali trattati in questo lavoro.
3.2. I principali diagrammi di classificazione modale delle rocce ignee
Senza entrare nel cuore dell’argomento, andiamo a vedere quali sono i principali diagrammi di classificazione modale utilizzati per le rocce ignee in particolare per quelle plutoniche. La classificazione primaria delle rocce plutoniche, rifacendosi alla convenzione IUGS (International Union Geological Sciences, 1973), si basa sostanzialmente sulle proporzioni relative in volume (moda) dei seguenti gruppi di fasi mineralogiche (Le Maitre 1989):
Q = quarzo o altri polimorfi della SiO2 (tridimite, cristobalite, etc.) ;
A = feldspati alcalini come ortoclasio, microclino, pertite, anortoclasio, sanidino e albite An0-An5;
P = plagioclasi An5–An100 e scapolite;
F = feldspatoidi o foidi come leucite, nefelina, kalsilite, pseudoleucite, sodalite, noseana, haüyna, cancrinite, analcime, etc;
M = mafici come mica, anfibolo, pirosseno, olivina, minerali opachi, minerali accessori (zircone, apatite, sfene, etc.), epidoto, allanite, granato, melilite, monticellite, carbonati primari, etc.
Dal punto di vista modale i gruppi Q, A, P e F rappresentano i minerali felsici (o sialici), mentre il gruppo M rappresenta quelli mafici. La quantità di questi ultimi consente di stimare un parametro definito indice di colore (IC), che permette la suddivisione delle rocce magmatiche in due classi: le rocce ultrafemiche o ultramafiche (con IC > 90%) e le rocce non ultrafemiche (con IC < 90%); mentre si definiscono femiche o mafiche se IC è maggiore del 50%. La suddivisione delle rocce non ultrafemiche avviene utilizzando il doppio diagramma triangolare QAPF (Streckeisen 1967), con piccole modifiche rispetto a quello originale (Streckeisen 1976 e 1978), e la rappresentazione dei quattro parametri in un piano (ricalcolati in maniera tale che la loro somma sia uguale a 100), è possibile dal momento che i due gruppi Q e F si escludono a vicenda per incompatibilità di coesistenza paragenetica. Questo doppio diagramma triangolare si suddivide in tre fasce sulla base dei rapporti di saturazione in SiO2 nella roccia: la prima rappresenta le rocce sovrassature (Q>20%) che cadono nel triangolo APQ, la seconda le sottosature (F>10%) nel triangolo APF e la terza le sature (Q<20% e F<10%) situate sulla linea o fascia AP. Queste linee orizzontali, che delimitano i diversi gradi di saturazione in SiO2, intersecano altri limiti, a valori predefiniti (10, 35, 65 e 90), basati sul rapporto P/(A+P)*100, creando così un reticolato con vari campi, ciascuno dei quali rappresenta una famiglia di rocce. Tale sistema di classificazione viene utilizzato sia per rocce
intrusive (Streckeisen 1976) (Fig. 2.) ovvero caratterizzate da strutture olocristalline (in cui la composizione mineralogica riflette molto da vicino quella chimica) e da granulometrie tali da rendere facile la valutazione quantitativa delle fasi costituenti, che per rocce vulcaniche (Streckeisen 1978) (Fig. 3.) solamente nel caso in cui sia possibile ottenere una composizione modale attendibile. Ovviamente le nomenclatura delle rocce intrusive e dei corrispondenti effusivi saranno diverse. Il privilegio dei minerali sialici rispetto a quelli femici per i criteri classificativi è in relazione al fatto che la maggior parte delle rocce plutoniche sono sialiche o intermedie e anche perché le variazioni dei minerali sialici risultano essere più significative e utilizzabili rispetto a quelle dei femici (D’Amico et al. 1987). Tuttavia anche se i minerali femici non intervengono nella nomenclatura delle rocce non ultrafemiche, sono comunque importanti indicatori petrologici e possono essere quindi aggiunti al nome–base come una specificazione aggiuntiva (p.es. granito a biotite) (D’Argenio et al. 1994).
Fig. 2. Classificazione e nomenclatura delle rocce plutoniche secondo la moda dei minerali del diagramma QAFP (Streckeisen 1976). Questo diagramma non può essere utilizzato per rocce con un contenuto di minerali femici, M, maggiore del 90%.
Fig. 3. Classificazione e nomenclatura delle rocce vulcaniche secondo la moda dei minerali del diagramma QAFP (Streckeisen 1978).
Nel diagramma QAPF (Streckeisen 1976) dedicato alla classificazione delle rocce plutoniche, possiamo però osservare che il campo dei gabbri e quello delle dioriti, che normalmente sono più ricche in silice dei gabbri ed hanno un contenuto in minerali femici più basso, sono sovrapposti. Il parametro che maggiormente contraddistingue queste due categorie di rocce è la composizione del plagioclasio che presenta contenuti in An < 50% nelle dioriti, mentre nei gabbri risulta essere più basico di An50. Nello stesso campo rientra anche un’altra categoria di rocce definite anortositi caratterizzate invece da valori di IC molto bassi (< 10%).
Sempre in questo diagramma la famiglia delle rocce gabbriche, per la loro notevole importanza in ambito petrologico e petrogenetico, presenta una specifica nomenclatura, basata sull’abbondanza dei minerali femici presenti come l’olivina, l’ortopirosseno, il clinopirosseno e l’orneblenda. I diagrammi triangolari di classificazione per tali rocce raccomandati dalla IUGS sono tre: nel primo i femici più abbondanti sono i pirosseni e l’anfibolo (diagramma Plg – Px – Hbl), nel secondo l’orto– e il clinopirosseno (diagramma Plg – Opx – Cpx) e nel terzo i pirosseni e l’olivina (diagramma Plg – Px – Ol) (Streckeisen 1976) (Fig. 4.)
Fig. 4. Classificazione e nomenclatura delle rocce gabbroidi sulla base delle proporzioni di plagioclasio (Plg), ortopirosseno (Opx), clinopirosseno (Cpx), olivina (Ol) e orneblenda (Hbl) (Streckeisen 1976).
Per quanto riguarda invece la classificazione delle rocce ultrafemiche, in cui rientrano principalmente quelle rocce che costituiscono il Mantello superiore, i parametri fondamentali da considerare sono i minerali femici come l’olivina, l’ortopirosseno, il clinopirosseno e
l’anfibolo. I diagrammi triangolari di classificazione per tali rocce raccomandati dalla IUGS sono due: uno per rocce costituite prevalentemente da olivina, e pirosseni (diagramma Ol – Opx – Cpx) e l’altro per rocce costituite da anfibolo oltre che da olivina e pirosseni (diagramma Ol – Px – Hbl) (Streckeisen 1973 e 1976) (Fig. 5.).
Fig. 5. Classificazione e nomenclatura delle rocce ultrafemiche sulla base delle proporzioni di olivna (Ol), ortopirosseno (Opx), clinopirosseno (Cpx), pirosseno (Px) e orneblenda (Hbl) (Streckeisen 1973 e 1976).
Inoltre considerando il parametro IC, possiamo osservare che all’interno di ogni famiglia di rocce plutoniche del diagramma QAPF, si possono avere importanti variazioni petrografiche, date principalmente dall’oscillazione nella quantità dei femici, senza però modificare la natura della roccia; tale oscillazione viene sottolineata utilizzando il prefisso leuco– per indicare le variazioni a basso IC, cioè più chiare rispetto alla media del litotipo di riferimento definito anche normotipo, e il prefisso mela– per quelle ad alto IC (Fig. 6. e 7.).
Fig. 6. Limiti per l’utilizzo dei termini mela e leuco e alcuni nomi speciali applicabili alle rocce plutoniche classificate con il diagramma QAPF con Q>5% (Streckeisen 1976).
P’ = 100*P/(P+A) M’ = indice di colore
Fig. 7. Limiti per l’utilizzo dei termini mela e leuco e alcuni nomi speciali applicabili alle rocce plutoniche classificate con il diagramma QAPF con Q<5% o presenza di F (Streckeisen 1976).
P’ = 100*P/(P+A) M’ = indice di colore
An = contenuto anortitico nel plagioclasio
Sulla base dei criteri di classificazione delle rocce plutoniche, si può quindi osservare, come sia estremamente importante una volta definita la natura delle fasi mineralogiche fondamentali, riuscire a determinarne le loro abbondanze quantitative volumetriche (o moda), per poterle correttamente inserire nei diagrammi appena descritti. Nel caso delle plutoniti faneritiche e olocristalline (così come tutti i granitoidi presi in considerazione in questa tesi), le fasi mineralogiche possono essere semplicemente identificate ad occhio nudo o con l’ausilio di una lente a piccoli ingrandimenti (10x o 20x) attraverso alcune proprietà fisiche come l’abito cristallino, la durezza, la frattura, la sfaldatura, la lucentezza, il colore, etc,. In
particolare se le fasi mineralogiche fondamentali di queste rocce sono perfettamente distinguibili dall’occhio umano sul campione a mano semplicemente sulla base del colore, senza dover ricorrere ad analisi ottica in sezione sottile, allora anche il più semplice dispositivo ottico–elettronico, tipo un qualsiasi scanner a colori, sarà in grado di riproporre fedelmente l’immagine che il nostro occhio ha percepito. Su tale immagine però, anche l’occhio più esperto difficilmente riuscirà a stimare le aree delle fasi mineralogiche; di conseguenza sarà necessario uno strumento che sia all’altezza di riconoscere le fasi mineralogiche, ma al tempo stesso di quantificarle nella maniera quanto più corretta possibile. Quindi per tutte le motivazioni descritte e trattate nel capitolo precedente, è stata scelta l’analisi d’immagine come strumento diagnostico e di misura per segmentare e stimare quantitativamente le fasi mineralogiche di queste rocce granitoidi assieme ad altre misure di tipo “strutturale”.