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Capitolo III°

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Academic year: 2021

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Capitolo III°

Gli anni della collaborazione con Ugo Pirro

La storia della collaborazione tra Petri e Pirro affonda le sue radici negli anni Cinquanta, trascorsi per entrambi al fianco dei “maestri” del cinema italiano del dopoguerra1, maestri dai quali apprendere non solo un mestiere ma una visione del mondo e una sensibilità utili per tutte le esperienze a venire. Pirro stesso racconta, e in più di un’occasione2,

1Nel capitolo precedente ho ripercorso la storia delle collaborazioni di Elio Petri soprattutto negli

anni del suo lungo apprendistato e, ovviamente, ho posto l’accento sulla più intensa tra queste collaborazioni, quella con Peppe De Santis. Maestro, quest’ultimo, anche del giovane Pirro, che affiancò inoltre Carlo Lizzani (Achtung!Banditi!,1951), Domenico Paolella (Canzoni di tutta

Italia,1955), Gluaco Pellegrini (L’amore più bello, 1958), Raffaello Matarazzo ( Cerasella,1960).

2 Ugo Pirro ha affiancato alla sua attività di sceneggiatore un altrettanto significativa attività di

scrittore. Tra i numerosi romanzi da lui scritti, ce ne sono due in particolare, di carattere autobiografico, che ripercorrono la storia del cinema italiano tra gli anni Cinquanta e Settanta

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quegli anni faticosi per il cinema italiano e per i giovani autori, i cui esordi erano spesso casuali e le cui speranze di veder realizzato un proprio soggetto spesso disattese: “Una censura occulta e spietata esercitata al di fuori di ogni legge determinava spesso le scelte dei produttori. Ma non potevo vivere di sole opzioni e non tutti i soggetti che scrivevo trovavano un produttore ben disposto: arrotondavo allora facendo “il negro”di registi e di sceneggiatori affermati. Scrivevo copioni senza firmarli e senza contratto che mi aiutavano a vivere,

soprattutto imparavo a scrivere per il cinema3”.

Pochi soldi in tasca e due grandi passioni, il cinema e la politica, vissute con intensità e coerenza proprio in quegli anni difficili per l’uno e per l’altra4: Pirro parte da molto lontano per raccontare la storia dell’amicizia tra due uomini di cinema vicini per formazione e per come scenario attraversato da un giovane aspirante giornalista destinato a divenire sceneggiatore di successo: Soltanto un nome nei titoli di testa rievoca, sul filo della memoria personale, i “felici anni Sessanta del cinema italiano”, carichi, allo stesso tempo, di possibilità e contraddizioni; “Il cinema della nostra vita” è invece il testo dedicato al sodalizio artistico e personale con Elio Petri, dai primissimi incontri per le vie di Roma e alla “corte” di De Santis fino all’intensa collaborazione degli anni 1967-1973.

3 Ugo Pirro, Il cinema della nostra vita, Lindau, Torino, 2001, pag 16-17.

4 Abbiamo già avuto modo di osservare cosa avesse significato per il cinema italiano l’ascesa al

potere della DC in termini di interventi censori e di politica dei produttori. È senza dubbio vero che il “consumo” di cinema conosce proprio in questi anni un momento di grande fortuna, come spiega Federica Villa: “L’organizzazione industriale della produzione, ottenuta attraverso

l’elaborazione di standard stilistici e narrativi facilmente riproducibili, ha come fine quello di strutturare e unificare il pubblico. Offrendo un prodotto “medio”, trasversale e facilmente accessibile a tutte le classi sociali, l’industria cinematografica contribuisce a creare un pubblico allargato e omogeneo” (Federica Villa, Il narratore essenziale della commedia cinematografica italiana degli anni Cinquanta,Edizioni ETS,1999).

Ma è altrettanto vero che, nello stesso periodo, qualsiasi iniziativa che si allontana dal modello dominante e di largo “consumo” viene regolarmente osteggiata.

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interessi e il cui nuovo incontro nel 1965 dà l’avvio ad una delle collaborazioni più importanti per la storia del cinema italiano di quegli anni.

Il contesto storico.

Nell’avvicinarsi al cinema di Elio Petri e, in particolare, alla seconda fase così detta “della maturità artistica”, nonché della collaborazione con Pirro, non si può prescindere dal delineare un seppur generico profilo storico del periodo, necessario a comprendere i temi e i motivi di quel cinema, tanto profondamente radicato nel contesto quanto teso all’elaborazione di un messaggio che va ampiamente aldilà del contesto stesso e che risulta attuale tutt’oggi.

Il punto di partenza di tale sintesi storica e, come vedremo in seguito, denominatore comune del cinema di Petri, è l’analisi delle profonde trasformazioni messe in atto, nella società italiana, a tutti i livelli, dal “miracolo economico” degli anni 1958-19635. La modernizzazione cambiò il volto di un Paese fino a pochi anni addietro essenzialmente agricolo, rendendolo competitivo a livello internazionale e

5 L’espressione “miracolo economico” rimanda all’insieme delle trasformazioni economiche e

sociali realizzate in Italia in seguito all’espansione e all’integrazione economica in Europa, alla fine del tradizionale protezionismo e al rinnovamento del sistema produttivo, alla disponibilità di nuove fonti di energia, alla trasformazione dell’industria dell’acciaio ma anche al basso costo del lavoro causato dagli alti livelli di disoccupazione dei primi anni Cinquanta che permise alle imprese italiane una forte competitività sui mercati internazionali.

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modificandone profondamente le strutture interne6. Il rapido sviluppo del sistema economico nazionale ebbe come conseguenza una vera e propria “rivoluzione dei consumi”: la prosperità materiale del Paese permise alla maggior parte delle famiglie italiane una vera e propria corsa al benessere che, coniugata ad una crescita orientata all’esportazione, “comportò un’enfasi sui beni di consumo privati,

spesso su quelli di lusso, senza un corrispettivo sviluppo dei beni pubblici”7.

L’automobile, gli elettrodomestici e la televisione erano i simboli di tale benessere: in particolare, quest’ultima divenne lo strumento attraverso il quale la Democrazia Cristiana costruiva il consenso alle politiche governative e diffondeva i valori consumistici del miracolo economico.

Uno sviluppo così repentino in un paese ricco di ritardi e contraddizioni di vecchia data non poté non generare (ed ereditare) una serie di “distorsioni”: il “boom” aggravò il dualismo della struttura produttiva

6Due sono le direttrici lungo le quali si realizza una così rapida trasformazione dell’assetto

economico del paese: lo spostamento della forza lavoro dal settore agricolo a quello industriale e il passaggio ad un’economia legata alle dinamiche dei mercati europei dove le esportazioni divengono prevalenti.

7 Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1989, pag

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industriale8 e i profondi squilibri tra Nord e Sud9, creando le premesse della crisi che di lì a poco avrebbe provocato l’inversione di marcia di quella crescita economica. Le profonde differenze esistenti tra Nord e Sud Italia provocarono una massiccia emigrazione degli operai meridionali verso le fabbriche del Nord, nelle quali “molti fattori

oggettivi lasciavano prevedere una ripresa dell’iniziativa operaia10”. Il 1962 è l’anno dei rinnovi contrattuali, che si apre fin da subito in maniera conflittuale, con due grandi scioperi alla Lancia e alla Michelin, a Torino11. Si ripetono nei mesi cortei interni alle fabbriche, forme di blocco della produzione, ma anche manifestazioni nelle strade e nelle piazze torinesi; poi le lotte contrattuali si estendono a tutte le fabbriche metalmeccaniche della città: è lo sciopero dei centomila, il 13 giugno. Ma la svolta si dà quando anche la Fiat, dopo anni di

8 “Da una parte vi erano i settori dinamici, ben lungi da essere formati solamente da grandi

imprese, con alta produttività e tecnologia avanzata. Dall’altra rimanevano i settori tradizionali dell’economia, con grande intensità di lavoro e con una bassa produttività, che assorbivano manodopera e rappresentavano una sorta di enorme coda della cometa economica italiana”. ( Paul

Ginsborg, op. cit.,pag. 292)

9 “Tutti i settori dell’economia in rapida espansione erano situati, con pochissime eccezioni, nel

nord ovest e in alcune aree centrali e nord orientali del paese. Lì, tradizionalmente, erano concentrati i capitali e le capacità professionale della nazione e lì prosperarono in modo senza precedenti le industrie esportatrici, grandi o piccole che fossero” ( Ibidem, pag.292)

10 Paul Ginsborg, op.cit.,pag 340

I fattori oggettivi di cui parla Ginsborg sono essenzialmente tre: la fiducia in se stessi che gli operai ritrovarono grazie alla situazione di piena occupazione; la reazione ai nuovi sistemi di organizzazione del lavoro, meccanico e ripetitivo, altamente alienante, e le richieste di modifiche per i ritmi di lavoro e per il salario; l’insoddisfazione degli operai meridionali che si tradusse in attiva partecipazione alle proteste di fabbrica.

11 “(…)il sindacato avanzò la richiesta di una riduzione dell’orario di lavoro da 44 a 40 ore

settimanali, distribuite su cinque giorni anziché sei. La piattaforma sindacale prevedeva anche una diminuzione delle differenze salariali, l’abolizione del premio di collaborazione e maggiore libertà per i sindacalisti all’interno delle fabbriche.” (P. Ginsborg, op.cit. pag 341.)

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immobilismo, decide di partecipare: sono settemila il 22 giugno e sessantamila il giorno dopo gli operai Fiat che aderiscono alla protesta, che culmina, il 7 luglio, negli scontri di Piazza Statuto. Causa di questa nuova mobilitazione fu la notizia che Uil e Sida ( il sindacato “giallo” padronale) avevano raggiunto un accordo separato con la direzione della Fiat, firmando un contratto che concedeva alcuni aumenti salariali ma senza determinare miglioramenti delle condizioni lavorative. La situazione della piazza, sede della Uil, ben presto peggiorò e si scatenarono scontri tra dimostranti e polizia che si protrassero per tre giorni: quelle giornate fungono da spartiacque tra i tranquilli anni della ricostruzione e le lotte dell’operaio massa e, insieme alle giornate di Genova12, possono essere considerate il preludio dell’autunno caldo del ‘69.

Tale rapido excursus nella storia italiana degli anni a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta ci permette di comprendere meglio la situazione sociale e politica in atto negli anni successivi, ovvero quelli in cui Pirro

12 Il 30 giugno del 1960 si svolsero manifestazioni di protesta contro la decisione del MSI di tenere

nel capoluogo ligure, medaglia d’oro per la partecipazione alla resistenza, il quinto congresso del partito. Pochi mesi prima, nella primavera, il Movimento Sociale Italiano e il partito monarchico avevano concesso il loro appoggio al nuovo governo Tambroni che aveva in questo modo ottenuto la maggioranza in parlamento. Quando, da Genova, gli scontri violenti si spostarono in molte altre città italiane, Tambroni, incapace di dominare la situazione, fu costretto a dimettersi. Al suo posto ritornò presidente del consiglio Fanfani e venne affidato il compito di ristabilire l’ordine al ministro Scelba.

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e Petri si trovarono a collaborare, e dalla quale trassero inevitabile ispirazione.

1967-1973

“Dal 1968 in avanti l’inerzia dei vertici fu sostituita dall’attività della base. Quello che seguì fu un periodo di straordinario fermento sociale, la più grande stagione di azione collettiva nella storia della Repubblica”.13

Nel giro di pochi anni l’Italia modificò profondamente le strutture sulle quali si era retta sino a quel momento e, sulla scia di un movimento mondiale di rinnovamento, portò avanti quella che fu, in primo luogo, una vera e propria rivoluzione culturale: proprio quei valori che il miracolo economico aveva contribuito ad affermare divennero oggetto della critica più severa e, contro l’individualismo auspicato da una società per molti versi retrograda nonostante le conquiste tecnologiche, i primi ad affermare con forza la necessità di un’azione collettiva di lotta all’ingiustizia sociale furono gli studenti.

Le cause dell’esplosione della protesta che, in pochi mesi, si diffuse in tutte le università italiane vanno rintracciate nelle riforme scolastiche degli anni ’60: ad una relativa liberalizzazione dell’accesso al sistema universitario non corrisposero un adeguamento e un rinnovamento

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delle strutture e dei programmi, all’aumento delle tasse non corrispose alcuna forma di sostegno per gli studenti lavoratori. L’università era concepita come il microcosmo nel quale si replicavano le dinamiche in atto nella società: la distinzione tra studenti di primo e secondo livello preconizzava la divisione gerarchica di una società capitalista e tradizionalista. Per lo stesso motivo fu messa in discussione anche la famiglia, istituzione anch’essa rigidamente strutturata e fondata sulle differenze esistenti tra i suoi membri, ripiegata su stessa e sui propri particolari bisogni materiali: “Circa il rapporto tra famiglia e società,

il movimento criticava fortemente la chiusura su se stessa della moderna famiglia, il suo estraniarsi di fronte alla società, la sua sfiducia verso il mondo esterno, i suoi valori basati soprattutto sul rafforzamento materiale della famiglia stessa14

Tra l’autunno del ’67 e la primavera del ’68 gli studenti si mobilitarono ovunque in Italia: le occupazioni si susseguirono nelle città sedi universitarie, articolandosi in sit-in di protesta e scontri con la polizia, cortei e assemblee nelle quali si cercava di mettere in pratica il principio della democrazia diretta e partecipata, creando uno spazio di

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sperimentazione nel quale simbolicamente rovesciare ogni autoritarismo, ogni burocratismo delle istituzioni.

Ben presto, la tendenza di tali proteste fu quella di spostarsi all’esterno: la peculiarità principale del movimento studentesco italiano furono gli intensi rapporti (a partire dal ’69) con il movimento operaio, che veniva identificato come un alleato naturale. Gli studenti, soprattutto quelli membri dei tanti “gruppi rivoluzionari”15 che sorsero all’epoca, collegavano le loro rivendicazioni anti-autoritarie con “la rivoluzione delle classi lavoratrici”, cercando nelle grandi fabbriche i propri alleati. La ripresa dell’iniziativa operaia negli anni 1968-69 rispose ad un ulteriore peggioramento delle condizioni di lavoro all’interno delle fabbriche. La ristrutturazione seguita alla crisi del 1964-65 aveva portato ad una maggiore meccanizzazione e ad un crescente aumento dei ritmi di lavoro: l’applicazione rigida della catena di montaggio fordista e l’introduzione dei principi del taylorismo16 produssero

15 “Nel momento in cui gli studenti abbandonarono le università(…) il movimento perse il suo

carattere spontaneo e libertario. Si cercava, adesso,di porre le basi per un nuovo partito rivoluzionario che potesse strappare al Pci il consenso della classe operaia.(…)Nell’autunno del ’68 nacque così la Nuova Sinistra Italiana, una sinistra che in realtà non era affatto nuova, ma vecchia almeno come la rivoluzione russa. Il leninismo divenne il modello di organizzazione dominante per quasi tutti i nuovi gruppi, e le discordie che avevano caratterizzato cinquant’anni di comunismo internazionale vennero adesso riproposte in Italia su scala ridotta.” ( Paul Ginsborg, op. cit.,pag

423)

16Taylor fu un ingegnere americano che, attraverso l'osservazione dei processi industriali, formulò

il primo principio sulla razionalizzazione del lavoro di fabbrica. Questo principio si basava sull'osservazione sistematica dei movimenti degli operai e nella rilevazione cronometrica dei tempi impiegati per svolgere le loro mansioni con lo scopo di fissare le leggi che stabilissero il modo migliore di lavorare. Il taylorismo implica la suddivisione del lavoro: ogni operazione viene fatta da

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all’interno della fabbrica stessa una trasformazione del soggetto operaio che, sempre più spesso si caratterizza per essere una propaggine stessa della macchina, e il cui lavoro diviene ripetitivo, costante e senza interruzioni. Inoltre, l’introduzione del cottimo ebbe come conseguenza l’acuirsi delle differenze tra i lavoratori e un aumento della sorveglianza della direzione aziendale sui dipendenti. Questi ultimi si sentivano sempre meno rappresentati dalla politica rinunciataria del partito e, sostenuti dagli studenti attivi nei gruppi rivoluzionari, decisero di organizzarsi autonomamente per portare avanti una protesta le cui richieste erano decisamente più sovversive rispetto a quelle dei sindacati.17

Ad un potere fortemente verticalizzato come quello della fabbrica si contrappose un altro potere più allargato e duro, capace di suscitare tensioni, generare conflitti in forme e misure del tutto inedite. In questo

un singolo operaio e deve essere preceduta da altre operazioni preliminari eseguite da altri operai. La conseguenza di questo principio è che il lavoro dell'operaio perde ogni residuo legame con quello dell'artigianato e si fa totalmente ripetitivo e meccanico, mentre acquista sempre maggiore rilievo la figura dell'operatore tecnico-scientifico capace di rendere più efficiente il ciclo produttivo.

17“Il modello delle agitazioni che avrebbero avuto luogo nei mesi seguenti fu quello della Pirelli di

Milano, dove erano appena stati assunti 2000 nuovi operai. Il contratto nazionale dei lavoratori della gomma era scaduto il 31 dicembre 1967. I sindacati di fabbrica, dopo aver proclamato tre giorni di sciopero in appoggio alla piattaforma rivendicativa, nel febbraio del ’68 accettarono aumenti salariali molto modesti lasciando praticamente cadere la richiesta di migliori condizioni di lavoro. Il risultato fu che nel giugno del ’69 un gruppo di operai e impiegati della Pirelli, assieme ad alcuni membri di Avanguardia Operaia, organizzarono il Comitato Unitario di Base (CUB) per continuare la lotta a livello di fabbrica”.

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quadro i gruppi di estrema sinistra, i cosiddetti gruppi extraparlamentari, finirono col porsi in una posizione frontalmente avversa a quella di CGIL, CISL e UIL, e spesso le incomprensioni causate da quella enorme passione politica sfociarono in veri e propri disordini. Le rappresentanze sindacali a molti sembrarono obsolete e le Commissioni Interne, che bene avevano svolto il loro compito negli anni '50, finirono con l'essere sostituite dalle riunioni di reparto, dalle assemblee, spesso improvvisate, che infiammavano quasi tutti nelle fabbriche, elemento questo nel quale è facile riconoscere la diretta influenza del movimento studentesco.

Di fronte ad una sostanziale perdita di consensi, i sindacati decisero di modificare le proprie strategie di lotta, conquistando una parziale autonomia rispetto ai partiti e mettendo da parte la cautela che ne aveva caratterizzato la politica fino a quel momento: “L’autunno caldo,

malgrado la sua successiva notorietà, non fu un nuovo passo avanti nel processo rivoluzionario dell’anno precedente, ma piuttosto segnò la riaffermazione della leadership sindacale all’interno delle fabbriche18”.

È importante sottolineare che, per quanto i rivoluzionari avessero ottenuto ampi consensi da parte soprattutto dei giovani operai, il

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sindacato, e il partito, continuavano ad essere il punto di riferimento della maggior parte dei lavoratori : i gruppi rivoluzionari dovettero fare i conti da una parte con tale tradizionale “fedeltà” e dall’altra con la ben più pericolosa indifferenza di buona parte della classe lavoratrice. Gli anni a seguire furono di sostanziale consolidamento delle conquiste ottenute dagli operai: la più importante delle quali fu quella di aver sviluppato la consapevolezza della loro capacità di intervenire, se uniti, per cambiare le proprie condizioni di vita, per protestare e per manifestare il proprio diritto al lavoro e al tempo libero, all’istruzione e all’uguaglianza sociale.

“Gli operai si misero a studiare per ottenere qualifiche più elevate, ma chiesero anche l’istituzione di un maggior numero di corsi, spesso su argomenti dichiaratamente politici. Professori di scuola media e delle università, quadri sindacali e operai, si ritrovarono assieme in un ambizioso tentativo di realizzare una piccola rivoluzione culturale. Alla fine del 1973, dunque, era chiaro che le spinte contro culturali del 1968-69 non erano affatto estinte, e che pur di fronte alla recessione economica il movimento operaio era più solidale attivo che mai19”.

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Elio Petri e il “Comitato di cineasti contro la repressione”

Tali e tanti sconvolgimenti - ai quali seguì una stagione particolarmente buia per la storia italiana, quella del terrorismo e della tensione - non poterono non influenzare il cinema di Petri. Fu in quegli anni che il suo discorso si fece più apertamente politico, i suoi film più direttamente collegati alla cronaca, all'attualità: insieme a Pirro, scrisse i soggetti dei lungometraggi che, per primi, hanno affrontato argomenti fino a quel momento tabù20 ed elesse a protagonisti del suo cinema quelli che erano diventati, proprio in quegli anni e per la prima volta in modo tanto inequivocabile, i protagonisti della storia del Paese21. Seguendo le tappe di un percorso assimilato in tanti anni di apprendistato al fianco di Beppe De Santis, i due realizzarono spesso vere e proprie inchieste preparatorie, girando metri di pellicola per documentare il fervore di un

20Mino Argentieri scrive a proposito di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto: “[è] il

primo film italiano schietto e franco su un'istituzione sino ad allora cinematograficamente insindacabile, pena altrimenti il rischio di incappare in uno dei tanti reati di vilipendio, inventati dal fascismo per ledere i più elementari diritti alla critica”. (Mino Argentieri, “I grotteschi di Elio Petri”,

in Lino Micciché( a cura di), Il cinema del riflusso. Film e cineasti degli anni '70, Marsilio editore, Venezia, 1997,pag. 174.)

21A questo proposito, riporto un commento su La classe operaia va in paradiso di Lino Micciché,

che, per quanto in più di un occasione abbia rimarcato il suo giudizio negativo nei confronti del regista, ne ha sempre riconosciuto l'intraprendenza e il coraggio nell'affrontare temi complessi e scomodi: “Nel cinema italiano che pure si colloca tradizionalmente a sinistra, la classe operaia è la

grande assente. Dopo l'intensa ventata neorealistica, quando sovente fu rappresentata come “popolo” e l'analisi di classe fu quasi sempre sostituita dalla sintesi populista, essa sparì dagli schermi, confusa nel bozzettismo strapaesano, nella commedia dialettale, nell'ideologia dei “poveri ma belli”:non soggetto ma oggetto di spettacolo(...) La classe operaia va in paradiso è dunque, praticamente,il primo film di grosso respiro che porta sugli schermi gli operai, visti nell'ambito della conflittualità di classe: la fabbrica. Inedito assoluto nel cinema italiano e non soltanto italiano”.

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periodo tanto denso di eventi e per raccogliere materiale utile da tradurre in racconto attendibile: “Riprese furono effettuate ovunque per

documentare gli interventi repressivi, gli scontri, le manifestazioni di protesta. Elio girò centinaia di metri di pellicola in gran parte andati perduti. Spesso il nostro intento di documentare dal vivo quanto accadeva, il comportamento dei poliziotti e dei manifestanti, fu ostacolato dagli stessi militanti di questo o di quel gruppo. Vi fu chi ci impedì di entrare nelle loro sedi con la cinepresa, non bastava, cioè, essere politicamente dalla loro parte per essere ben accetti. C'era in molti di loro una drammatizzazione esasperata della loro vita, come se il fascismo fosse alle porte e non potessero fidarsi di nessuno22”.

Tale testimonianza a proposito delle riunioni dei militanti dei gruppi rivoluzionari e degli scontri tra questi ultimi e la polizia nel periodo immediatamente successivo all'attentato di piazza Fontana23,è utile per comprendere lo stato di vera e propria “allerta” vigente in quegli anni.

22 Ugo Pirro, Il cinema della nostra vita,Lindau, Torino,2001, pag.80.

23“Il 12 dicembre 1969 una bomba esplose alla Banca Nazionale dell'Agricoltura, in Piazza

Fontana , a Milano, provocando sedici morti e ottantotto feriti.(...) La polizia e il ministro degli Interni annunciarono immediatamente, con una fretta non giustificata, che i responsabili erano da ricercare tra gli anarchici”(Paul Ginsborg, op. cit.,pag. 541). Pinelli e Valpreda furono considerati i

principali responsabili del massacro e per questo arrestati: il primo, dopo tre giorni di interrogatori, morì cadendo dalla finestra della questura e il secondo rimase in carcere per tre anni, fino al processo, e prosciolto da ogni accusa solo nel 1985. Tutti gli anarchici accusati di essere coinvolti nella strage furono puntualmente assolti. Ben presto si fece largo una seconda ipotesi, ben più allarmante: “ Le prove che la polizia aveva deciso di ignorare portavano non agli anarchici,bensì ad

un gruppo neofascista del Veneto facente capo a Franco Freda e Giovanni Ventura. Ciò che a questo punto destava maggiore preoccupazione era lo stretto legame che Giovanni Ventura aveva con Guido Giannettini,colonnello del Sid (Servizio infirmazioni della Difesa)”(Paul Ginsborg, op. cit.,pag. 541).

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Petri, all'epoca, aveva già affrontato, inIndagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, il discorso circa i metodi coercitivi della polizia

e gli abusi ai danni degli studenti protestatari, ma l'attentato alla Banca Nazionale dell'Agricoltura contribuì ad acuire ulteriormente la tensione e la paura trai militanti comunisti e anarchici. Fu al fine di realizzare una documentazione filmata della repressione in atto che Petri ebbe l'idea di costituire il “Comitato di cineasti contro la repressione”:

“Il 12 dicembre vi furono gli attentati di Milano e Roma: questi avvenimenti sono una grande chiave per comprendere tutto ciò che è accaduto in Itali a dopo questa data. All'indomani del 12 molti di noi si erano resi conto che ci si trovava in un momento cruciale della storia del Paese. Con questo tipo di provocazione, questa strategia della tensione, si era creata la possibilità di un ritorno della destra italiana.(...)Per reagire avevamo fondato un comitato di cineasti contro la repressione, che raggruppava sia quelli dell'ANAC che quelli dell'AACI. Questo costituì il primo gesto unitario dopo due anni di scissione: sotto lo stesso organismo si riunirono di nuovo molti cineasti italiani, da Visconti a Bellocchio, ovvero tutte le generazioni presenti e attive in quel momento. Il comitato produsse immediatamente Documenti su Giuseppe Pinelli e, benché noi

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volessimo girare altri film, questa fu l'unica realizzazione fatta in queste condizioni. Il film fu terminato qualche mese dopo, credo nell'estate del '70. Ci dividemmo in cinque gruppi di lavoro. I soli che riuscirono a portare a termine il progetto furono quello di Nelo Risi e il mio.(...)La parte girata da Nelo Risi concerne esclusivamente Pinelli. È un'inchiesta autentica sulla sua figura, condotta con l'aiuto di chi lo ha conosciuto, di chi era presente in commissariato durante la sua detenzione. Al contrario ciò che ho girato io illustra le spiegazioni date dalla polizia per giustificare la sua morte, il “suicidio”. Parto da scoperte molto semplici: tentiamo di ricostruire le versioni fornite dalla polizia. Per il film ne abbiamo prese in considerazione solamente tre perché le altre erano più infantili, e abbiamo tentato di vedere se, materialmente, queste ipotesi della polizia potevano essere verificate. Per questa ricerca della verità abbiamo preso una piccola stanza come quella del commissario Calabresi, vi abbiamo messo i quattro poliziotti che, secondo le indicazioni della polizia, si trovavano lì al momento in cui Pinelli si è gettato dalla finestra: abbiamo scoperto che era materialmente impossibile che un uomo potesse gettarsi dalla finestra in presenza di quattro poliziotti. Non abbiamo però detto che Pinelli era stato gettato giù24”.Contemporaneamente 24 Alfredo Rossi, Elio Petri, La Nuova Italia, Firenze, 1979,pag. 70

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alle riprese per questo documento sulla vicenda dell'anarchico Pinelli, e sempre per conto del "Comitato cineasti contro la repressione", Petri e Pirro, insieme all'operatore Gigi Kuiviller, condussero un'inchiesta sulle agitazioni operaie in corso in una fabbrica di apparecchi telefonici, la Fatme: fuori dai cancelli, i militanti di Potere Operaio incitavano i lavoratori ad organizzare cortei all'interno dei reparti, proponendo forme di lotta nuove in aperta polemica con le rappresentanze sindacali. Con la macchina a mano sotto braccio - così racconta Pirro – i tre si ritrovavano ogni mattina davanti a quella fabbrica sull'Anagnina per documentarne le proteste: “La nostra

intenzione era di riprendere quanto accadeva, farne un documento da diffondere nei circoli operai, nelle assemblee che si svolgevano nelle scuole e ovunque, come già avevamo fatto con La morte di Giuseppe

Pinelli, nello stesso tempo verificando da vicino alcune nostre ipotesi

di lavoro. La lotta operaia, cioè, diventava soggetto cinematografico e nello stesso tempo il cinema diventava il suo strumento25”.

La partecipazione diretta, l'esigenza di approfondire, di documentarsi e documentare, il progetto di fare del cinema uno strumento delle lotte sociali e, viceversa, di tradurre tali lotte in un “racconto” filmico che fosse tutt'altro che documentario sono le prime tappe di un percorso di

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scrittura che Petri e Pirro intrapresero insieme: nelle fasi successive, il soggetto del film diventa rappresentazione allegorica del contesto di riferimento, la storia diviene “racconto” mediante l'adozione di moduli narrativi perlopiù riconducibili al genere poliziesco – il percorso, nei film di Petri, è sempre quello dell'indagine, sia essa un'indagine tout court oppure un più generico ricercare nell'interiorità – e di procedimenti espressivi attraverso il quali il regista dichiara esplicitamente la sua presenza nel film.

A ciascuno il suo

Avendo già posto l'accento sullo stretto legame intercorrente tra i film di Petri e la cronaca di quegli anni, vediamo nelle righe successive in che modo l'autore sviluppa le tematiche a lui care proponendo un'analisi trasversale dei film frutto della sua collaborazione con Ugo Pirro: poiché lo stesso Petri concepisce come una sorta di trilogia i film realizzati dal 1969 al 1973, ovvero Indagine su un cittadino al di sopra

di ogni sospetto (1970), La classe operaia va in paradiso (1971) e La proprietà non è più un furto (1973), ci occuperemo a parte di A ciascuno il suo, film considerato, come abbiamo già avuto modo di

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regista. A questo proposito, Alfredo Rossi spiega che: “A ciascuno il suo rappresenta una fase ancora tradizionale di elaborazione dei dati

sociologici e politici della realtà italiana(...)Il film è un importante film politico,come si diceva allora, film civile, film d'autore, ovvero film in cui il tema è la politica stessa e non piuttosto il Politico come complesso nodo enigmatico, non metafisico, che lega il cittadino al gioco del desiderio politico26”.

Ovvero, se il tema centrale della futura produzione artistica del regista – eccezion fatta per Un tranquillo posto di campagna, che riprende il discorso circa l'incapacità, per l'artista come per l'intellettuale, di integrarsi in una società nella quale il suo lavoro ha valore solo in quanto merce e che, di conseguenza, perde la sua creatività – è quello del rapporto tra l'individuo e il potere, nelle sue diverse forme, nel film tratto dall'omonimo romanzo di Sciascia il potere della mafia in Sicilia – e i suoi rapporti con gli esponenti politici locali e non – non viene ancora rappresentato come oggetto di un desiderio malato ma lo sfondo sul quale si innesta la vicenda di un personaggio, il professor Laurana, la cui incapacità di comprendere la realtà – soprattutto quella delle dinamiche mafiose attive nel suo territorio – assurge a tema privilegiato: il film riflette, essenzialmente, sul ruolo dell'intellettuale,

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“ruolo astratto e castrato27”, in una civiltà industriale e consumistica

che non riconosce più alcun valore al suo lavoro e al suo impegno, svuotato, di conseguenza, di qualsiasi reale utilità; descrive la crisi delle ideologie come dramma di chi aveva creduto nella possibilità di rinnovare profondamente la società italiana e si è trovato di fronte ad una società che si trasforma senza rinnovarsi.

Nel 1967, e per la prima volta, Ugo Pirro ed Elio Petri iniziano a lavorare insieme ad un soggetto che affronta tematiche più strettamente legate all'attualità del Paese perché mossi, come lo stesso Pirro racconta, da una sensazione di rabbia mista ad impotenza alla quale era necessario dare voce: “Per esprimere quello che eravamo in quegli

anni, quali interpretazioni dare della società in cui agivamo come cittadini e cineasti, avevamo bisogno di un testo che fosse spia della complessità e dell'oscurità politica di quel momento. Eravamo pieni come due uova di rabbia e insieme di una frustrante sensazione di impotenza politica, di disagio, ci sentivamo ostili a quanto avveniva ed in polemica con chi era idealmente più vicino a noi28”.

27Aldo Tassone, Parla il cinema italiano Vol. II, Il Formichiere, Milano, 1979-80, pag.246. 28Ugo Pirro, Il cinema della nostra vita, Torino, Lindau, 2001, pag.36.

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Il romanzo di Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, pubblicato l'anno precedente, suscitò un profondo interesse nei due autori proprio per il fatto di aver saputo affrontare con acume e lucidità argomenti altrimenti occultati:

“ Il clima politico dell'Italia meridionale vi era dipinto con chiarezza, le forze in gioco, Chiesa e DC, chiamate per nome. Il ruolo dell'intellettuale vi era delineato con estrema intelligenza ed ironia (...) Mi attirava poi anche il fatto allora abbastanza nuovo che l'assassino, proprio perché all'interno della classe dirigente, finisce per essere il vincitore, che era il rovesciamento di uno dei tabù del codice Hays. Ma soprattutto era una verità29”.

Forse nel tentativo di dare forma alla frustrazione che i due autori percepivano come intellettuali coinvolti da sempre in politica e, sicuramente, per assecondare quell'inclinazione a scandagliare l'animo umano alla quale Petri si manterrà sempre fedele, la rilettura cinematografica del romanzo di Sciascia in parte se ne discosta, ponendo particolare accento sull'incompetenza – politica e sessuale - del personaggio Laurana e mantenendo sullo sfondo il contesto mafioso nel quale si inserisce la sua indagine personale, drammaticamente inutile.

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In primo luogo, egli è, come abbiamo già notato, assolutamente avulso dal contesto nel quale agisce e del quale, comunque, assimila e riproduce le dinamiche: unicamente dedito agli studi e alla cultura, intraprende l'indagine sull'assassinio avvenuto in paese per la sola curiosità intellettuale di decifrare un enigma; senza immaginare ciò che tutti “sanno”, confida le proprie scoperte a chi è partecipe di quel delitto, Luisa, tristemente provocante per lui che ha degli evidenti complessi sessuali; per lei, per avere modo di starle accanto, prosegue le sue ricerche senza mai rivolgersi alla polizia, dimostrando di essere a sua volta “mafioso”, poiché diffidente nei confronti dell'autorità pubblica. Il riferimento alla frustrazione sessuale del professore, insieme a quello circa il suo passato coinvolgimento in politica (“..è

stato comunista, è un tipo che non si capisce, come professore niente da dire..io lo definirei un antisociale...come risulta chiaro dalle informazioni dell'ufficio politico..30”)sono spunti che Petri sviluppa autonomamente rispetto al romanzo31: questi elementi, se messi insieme, disegnano il ritratto di un personaggio in crisi: “la crisi,

30Sono le parole attraverso le quali, nel film, uno dei poliziotti descrive Laurana.

31Nel romanzo, Laurana non è stato ma è un intellettuale comunista: Petri ne ha invece

estremizzato la posizione come segno della crisi che vive; per lo stesso motivo, il regista indulge sulle frustrazioni sessuali e sull'impotenza del protagonista, delle quali non vi è traccia nel romanzo.

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appunto, dell'intellettuale di sinistra che si è visto sfuggire, ad un certo punto, le ragioni del proprio impegno32”.

La maggior parte delle critiche a carico di questo film, sottolineano come Petri, pur restando abbastanza fedele, nella successione dei fatti, al romanzo da cui è tratto e dallo spirito critico che lo anima, non abbia saputo riprodurre la Sicilia descritta da Sciascia – lo stesso romanziere dichiarò che il film avrebbe potuto essere girato anche in Puglia - e si sia limitato ad una rappresentazione schematica, stereotipata, di caratteri e personaggi33. Ma è fondamentale sottolineare, a questo proposito, accogliendo il consiglio di Sandro Zambetti, che Petri non è siciliano: certo l'osservazione può sembrare banale ma è utile perché ci aiuta a capire l'inevitabile differenza di approccio rispetto a quella dello scrittore agrigentino. Zambetti dice che, se Sciascia assume “una

posizione tutta siciliana,alla principe di Salina per intendersi, dove il giudizio sulla situazione è preciso e drastico, ma venato di

32Sandro Zambetti, A ciascuno il suo. Il regista, in “Cineforum”, n.65, 1967.

33Paolo Valmarana, ad esempio, commenta in questo modo il film: “Maggiormente dispiace che

alla base di questo notevolissimo e singolare talento cinematografico manchi, in A ciascuno il suo una necessaria decantazione della materia; vi sia, anzi, una certa superficialità nell'impostare la storia, certo nel tirarne le conclusive fila (...)La scelta di questo terreno dovrebbe sconsigliare le eccessive semplificazioni, gli schematismi, le polemiche più facili”.(Paolo Valmarana, A ciascuno il suo, in “Rivista del cinematografo”,n. 3, 1967.)

Allo stesso modo, il recensore di “Cinema nuovo”sostiene: “L'eccessivo credito che Petri concede

alle “debolezze” di Laurana, l'alone di mistero e di malinconia del quale circonda la squallida figura di Luisa e, per contro, il duro schematismo, di specie moralistica, al quale è improntata quella dell'avvocato Rosello dicono eloquentemente quanto la lettura del regista sia stata esterna e convenzionale col solo risultato di volgere una spietata radiografia in un'avventura d'amore e di morte”. (A.F., A ciascuno il suo, in “Cinema nuovo”, n.186, 1967.)

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rassegnazione, fino a sconfinare nell'amara contemplazione di un mondo che sta scomparendo e di cui il giudicante si sente parte integrante non meno dei giudicati34”, al contrario Petri osserva l'isola

da una posizione distaccata che gli permette di allargare lo sguardo e assumere una prospettiva più ampia sulla situazione siciliana “come

proiezione di quella nazionale35”: ecco che, da tale punto di vista,

prosegue Zambetti, “la mafia (…) diventa uno strumento puramente

tecnico, una specie di “Anonima omicidi” a pagamento che presta saltuariamente i suoi servizi al potere politico ed economico(...) Come tale, si allinea agli altri strumenti – dai mezzi di informazione ai posti di sottogoverno, dagli istituti bancari alla burocrazia – utilizzati da quel potere36”.

Ma non c'è solo questo nel film. La mafia di cui Petri parla non è solo lo strumento materiale attraverso il quale il sistema garantisce la sua sopravvivenza ma è soprattutto un atteggiamento, un modo di vivere, una struttura antropologica diffusa ovunque in Italia, la cui pervicace persistenza ha condizionato – e condiziona – la storia del nostro paese :

“(...) è la diffidenza nei confronti dell'autorità altrui, che ha, come

34Sandro Zambetti, A ciascuno il suo. Il regista, in “Cineforum”, n.65, 1967. 35Sandro Zambetti, op.cit., 1967.

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conseguenza per i suoi membri, il fatto di rendersi giustizia da soli e di aiutarsi: è la massoneria, è la famiglia37”.

Assecondando le sue inclinazioni psicanalitiche, e anticipando un approccio che sarà sviluppato a pieno nei film successivi, Petri proietta nell'individuo le divisioni che appartengono alla società nella quale vive e le contraddizioni che la lacerano: “ Ero interessato anche dalla

possibilità di dare della Sicilia un'impressione di Sud che fosse generalizzabile: questo Sud lo si può ritrovare anche in Brasile; c'è una nozione di Sud anche nel nostro corpo38”.

Dunque, il Sud come concetto generalizzabile, come modus vivendi, come mentalità. Probabilmente per questo motivo, i personaggi di Petri appaiono come rappresentazioni schematiche dei protagonisti sciasciani, maschere dalle psicologie poco approfondite: le caratteristiche più propriamente siciliane lasciano il posto ad una rappresentazione allegorica dei mali che in generale appartengono a tutti gli esseri umani e delle dinamiche che questi ultimi riproducono nell'instaurare qualsiasi tipo di relazione (vedi la famiglia). Come poi sottolinea Cardone a questo proposito - e sarà osservazione da tenere presente soprattutto nell'avvicinarsi ai personaggi dei film successivi,

37Jean Gili, Elio Petri, Faculté des Lettres et Sciences Humaines, Nice, 1974, pag.56. 38Jean Gili, op.cit., pag 56.

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nei quali questo processo si fa più chiaramente evidente – tale predilezione per “i tipi estremi”, tale “distruzione del personaggio

psicologicamente definito”, è funzionale a creare l'effetto di

straniamento: “al suo posto si trova la maschera che cristallizzando

una serie di comportamenti in un singolo segno, risulta immediatamente straniante39”.

La trilogia del potere

Dopo la parentesi di Un tranquillo posto di campagna (1968), Pirro e Petri tornano a lavorare insieme, questa volta per realizzare quella che lo stesso Petri, come abbiamo già accennato, concepisce – pur non pianificandola come tale - come una vera e propria “trilogia sul potere”, nelle sue diverse declinazioni. Nell'intervista che il regista rilascia all'amico Jean Gili nel 1974, a proposito de La proprietà non è

più un furto, Petri conviene col critico francese che il film sia

essenzialmente una prosecuzione del discorso cominciato con Indagine e con La classe operaia va in paradiso: “ In un certo senso – dichiara -

ciascun film è la descrizione di un “huis-clos40”. Indagine su un 39Lucia Cardone, Elio Petri, un regista scomodo, Il Campo, 1999, pag.35.

40Il testo del''intervista alla quale faccio riferimento in queste righe è in francese. Nel riportare la

citazione in italiano ho voluto mantenere tale espressione intatta perché, a mio parere, in questo modo, risulta più evidente il riferimento all'opera di Sartre, al mondo “a porte chiuse”che descrive nel dramma omonimo, dominato dall'orrore per la condizione stessa di esistere, inferno senza

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cittadino al di sopra di ogni sospetto, è il potere politico, la prigione

del potere, l'inferno del potere, con la dissociazione e la malattia che esso provoca. Poi, La classe operaia va in paradiso è l'inferno della produzione, e dunque la dissociazione e la malattia provocate dalla produzione. Infine, c'è l'inferno del denaro (...),l'inferno della proprietà41”.

Inferno quest'ultimo per il quale non esiste via di fuga: se nei primi due film oggetto di questa analisi, Petri dimostra di credere ancora nella seppur labile possibilità per l'individuo di intervenire sui sistemi economico e politico per cambiarli42 – in Indagine e ne La classe

operaia il finale onirico lascia spazio anche a questa interpretazione –

nel terzo, il pessimismo si fa totale e irrimediabile poiché il senso della proprietà è, in primo luogo, istintivo, connaturato all'essere umano, appartiene alla sua formazione socio-psicologica e come tale non esiste la possibilità di modificarlo43.

scampo la cui unica via d'uscita consiste nel lucido farsi carico del proprio agire, cioè della capacità di accogliere una responsabilità e un impegno etici e politici non più garantiti per l'uomo contemporaneo da alcuna certezza.

41Jean Gili, op.cit., pag .85

42“Sur le pouvoir economique, on peut faire un certain raisonnement; on peut tenter de readapter

la prodution. De meme pour le pouvoir politique: ce sont des chambres que l'on peut ouvrir pour y faire entrer un vent nouveau, des chambres que l'on peut mettre en rapport entre elle et en rapport avec d'autres chambres. Je suis pessimiste sur la possiblité de faire de ces enfers quelque chose de different mais je comprend que l'on puisse nourrir un project a l'egard de ces chambres fermées”.(Elio Petri in Jean Gili, op. cit., pag .83)

43Come avviene nei bambini “la prima cosa che essi esprimono è la volontà di

appropriazione,dicono immediatamente “no” e “è mio”, il rifiuto e l'appropriazione per poter appurare su qualche cosa la propria identità. Hanno bisogno di prove costanti della loro esistenza”.

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Ma procediamo con ordine. Analizziamo, in prima istanza, i temi ricorrenti nei tre film in questione: il Potere, nella sua triplice declinazione di potere politico, potere economico e possesso; l'impotenza sessuale, segno dell'immaturità dell'individuo di fronte a quel potere, castrante e alienante e infine, la malattia del potere: la nevrosi di cui Petri ha raccontato primi film si trasforma in vera e propria patologia schizoide, scissione interiore prodotta dall'insopportabile incapacità di relazionarsi con un potere totalizzante e onnicomprensivo.

Il Potere.

“ Abitavo a Vigna Clara e una sera, in auto, tornavo a casa verso l'ora di cena. Sulla strada che da piazzale Milvio porta a piazza dei Giochi Delfici si procedeva a passo d'uomo. All'improvviso una macchina che mi precedeva fece un brusco scarto per infilarsi nella carreggiata di sinistra, in quel momento vuota, per guadagnare qualche metro di strada a danno di quanti avanzavano ordinatamente. Alla guida c'era un uomo di età indefinibile e una donna, suppongo, giovane. Non so cosa mi spinse a pensare che quell'uomo fosse un poliziotto “al di sopra della legge”a tal punto di essere ansioso di esibire quel suo

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potere di trasgressione alla compagna di viaggio sia pure in una circostanza così insignificante44”.

Ritroveremo questa stessa scena, dalla quale Pirro ha tratto ispirazione, proprio nel film per il quale, di lì a poco, tornò a lavorare insieme all'amico Petri: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto amplifica e approfondisce quello spunto iniziale, quella riflessione circa gli abusi commessi quotidianamente da chi detiene il potere, da chi è chiamato a far rispettare quelle leggi che, a sua volta, non rispetta, per trarne vantaggio o per il semplice gusto di dimostrare la propria insindacabilità, il proprio privilegio.

In un momento di gravi tensioni politiche e sociali per la storia del Paese, Petri sceglie di porre l'accento su quello che definisce uno dei difetti “ più storicamente ripugnanti dell'Italia45”, ovvero il rapporto –

persecutorio, gerarchico, iniquo – tra il cittadino e lo stato:

“Decisi, ad un certo punto, di fare un film sulla prepotenza delle forze di polizia che a quel tempo era particolarmente proterva ( si pensi ad Avola), e sul meccanismo che garantisce l'immunità agli uomini che servono il potere46”.

44Ugo Pirro, Il cinema della nostra vita, Torino, Lindau, 2001, pag. 51.

45Elio Petri in Aldo Tassone, Parla il cinema italiano vol.II,Il formichiere, Milano, 1979-80, pag.250. 46Elio Petri in Aldo Tassone, op. cit.,Il formichiere, Milano, 1979-80, pag.250.

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Se dei metodi coercitivi della polizia e delle oscure, kafkiane, dinamiche nelle quali il cittadino è inconsapevolmente involuto, Petri aveva già raccontato nell'acclamatissimo film d'esordio alla regia,

L'assassino (1961), con Indagine egli sperimenta un approccio

profondamente differente al tema in questione: in primo luogo il film è una “radiografia dall'interno47” del rapporto che si stabilisce tra chi

gestisce il potere e il cittadino, con particolare attenzione a sottolineare quale forza distruttrice il potere eserciti soprattutto su chi lo possiede; in secondo luogo, tale rapporto viene espresso mediante un discorso non più “pirandelliano”, alienante, ma oggettivo, “brechtiano”: ovvero un ruolo diverso per lo spettatore non più psicologicamente ed emotivamente coinvolto nella vicenda raccontata ma criticamente distante e lucidamente attento.

Il “Dottore” di Indagine – sadico con i deboli, prepotente con i sottoposti e untuoso con i potenti - rappresentante di quel potere biecamente repressivo e autoritario che, negli anni caldi della lotta studentesca e delle rivendicazioni operaie, legittima sé stesso e la sua violenza assimilando i giovani contestatori ai criminali ordinari ("Sotto

ogni sovversivo può nascondersi un criminale, sotto ogni criminale

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può nascondersi un sovversivo. [...] Noi siamo a guardia della Legge, che vogliamo immutabile, scolpita nel tempo. Il popolo è minorenne, la città malata. Ad altri il compito di educare, a noi quello di reprimere! La repressione è il nostro vaccino. Repressione e civiltà!48"), commette

un crimine e, a dimostrazione della sua insospettabilità in quanto rappresentante dello Stato, dissemina indizi ovunque: egli cerca, in questo modo, di dimostrare, a sé stesso e agli altri, il teorema

“dell'impossibilità della colpa degli uomini della legge49”; egli cerca la

propria (impossibile) rovina per dimostrare più cose al tempo stesso:

“che è inattaccabile e insospettabile, che è colpevole e non perseguibile, che è degno di castigo e onnipotente; dunque, che è dentro e fuori la legge che egli rappresenta e usa come arma micidiale anche contro se stesso50”. Il poliziotto di rango, dal forte accento

meridionale, caricatura odiosa dello stereotipo dell'investigatore cinematografico, si accorge di aver fatto strada ma, contemporaneamente, di trovarsi stretto in una morsa: esercita in modo repressivo la sua autorità, consapevole della propria intoccabile posizione, pur non sentendosi e non essendo il potere. Da qui, deriva quel senso di impotenza che Petri esemplifica attraverso la sfera

48Queste sono le parole che il commissario pronuncia ai colleghi in occasione del discorso per il suo

inediamento a capo della sezione politica della polizia.

49Maurizio Grande, Eros e politica, Protagon, Editori Toscani, 1995, pag.76. 50Maurizio Grande, Eros e politica, Protagon, Editori Toscani, 1995, pag.70.

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sessuale: l'uomo represso e il poliziotto repressivo convivono scissi in un solo corpo, l'impotenza dell'uno diventa l'onnipotenza dell'altro. Se il primo dei tre film, descrive il potere politico e la vertigine autoritaria di chi lo gestisce, i due successivi descrivono il potere economico e la condizione di sudditanza di chi lo subisce.

Una volta posto l'accento sulla corruzione e sull'arrogante protervia dello Stato e dei suoi organi di controllo, come non riflettere sulle conseguenze che ha sull'individuo un sistema economico nel quale la corsa alla produttività, la logica del profitto e il consumismo assurgono a valori fondamentali? Ecco il tema centrale de La classe operaia va in

paradiso.

L'operaio Massa vive per lavorare: irrimediabilmente preso nella spirale produzione-consumo-guadagno, è diventato uno “stakanovista impenitente”, incapace di concepire la sua vita al di là del lavoro. Egli è il campione della produttività sui ritmi del quale i cronotecnici, in fabbrica, calcolano i tempi degli altri operai, che lo considerano un nemico, un crumiro: “Questo modello di operaio integrato, che ha

assunto i tempi del cottimo come unica legge esistenziale ed i quattro soldi guadagnati in più come l'unica aspirazione possibile, è naturalmente giunto al massimo grado dell'alienazione: non soltanto

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ha un rapporto di aperta ostilità con i compagni, non soltanto vegeta nelle poche ore di tempo libero, imbambolato davanti alla luce azzurrina del televisore e inseguendo i fantasmi della catena di montaggio, non soltanto vive interamente condizionato dai meccanismi riflessi dell'infernale vita di fabbrica, ma non riesce neppure più ad avere rapporti con la propria donna, una parrucchiera dalla psicologia e dai sogni piccolo borghesi51”.

Lulù rappresenta l'operaio non specializzato che si affaccia sulla scena italiana in concomitanza con lo sviluppo industriale e il presunto miracolo economico, afflitto dalla malattia mentale del cottimo, completamente alienato e automatizzato anche negli affetti.

Delle tante critiche che i film di Petri hanno spesso dovuto subire, quelle rivolte a La classe operaia sono state senza dubbio le più violente; inoltre, stupisce il fatto che siano venute un po' da tutte le parti: tanto i gruppi rivoluzionari – e la critica che ad essi faceva riferimento – quanto i sindacati e il partito comunista hanno, a suo tempo, duramente polemizzato a proposito della rappresentazione che di loro si dà nel film - “ Se i “gruppettari”, una volta provocato il

conflitto, sembrano disinteressarsi delle conseguenze, i sindacalisti, una volta ricompostolo, sembrano disinteressarsi del fatto che in

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sostanza tutto continua come prima e che, alla catena di montaggio, milioni di vite sopravvivono morendo poco a poco.52”- considerato

dagli uni “reazionario” e dagli altri “rivoluzionario”: se lo stesso Volonté polemizzò più volte, durante le riprese, circa le posizioni troppo estreme rispetto a quelle del Pci, dall'altra parte ci fu addirittura chi, in occasione del Festival di Porretta Terme del 1971, propose di dare al rogo le pizze di un film “reazionario e fascista”53.

Certo, il ritratto che Petri delinea della forze politiche coinvolte nella protesta operaia di quegli anni non è marginale o ininfluente nel film ma è comunque secondario rispetto all'intento politico principale: non è un film su una presa di coscienza rivoluzionaria – Lulù aderisce alla protesta non perché mosso da una qualsivoglia solidarietà di classe ma per proteggere il suo posto di lavoro messo in crisi dalla piccola ferita alla mano - ma sull'incapacità, indotta dal sistema e dai valori che impone, di pensare la propria vita al di fuori del lavoro; sul rapporto tra tempo lavorativo e tempo esistenziale, immolato quest'ultimo sull'altare della produttività e irrimediabilmente perduto.

Petri aveva già affrontato questo argomento nel film considerato dai più il suo capolavoro, I giorni contati: “ Sia Lulù Massa che Cesare

52Lino Micciché, Cinema italiano degli anni '70, Marsilio, Venezia, 1980, pag. 104. 53Vedi nota n.50 nel primo capitolo.

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Conversi, il primo per effetto della lotta di classe in Italia nel '68-'70, il secondo più letterariamente, per scelta, per “gesto sublime”, si trovano a dover contare di nuovo il loro tempo, ad imparare a contare il tempo. Il licenziamento di Lulù e il “non voglio più lavorare” di Cesare, pur filosoficamente distanti si incontrano nel punto del viaggio che devono fare per reinventare il loro tempo alienato, per ripensarlo in termini differenti dalla sua capitalizzazione54”.

La conclusione è amara in entrambi i casi: tanto l'anziano “stagnaro” quanto il giovane operaio realizzano ben presto che è impossibile tornare indietro e recuperare una vita completamente dedicata al lavoro. Per quanto entrambi abbiano potuto percepire per un momento, e con lucidità, l'assurdità del proprio sacrificio – e nel caso di Lulù, è l'anziano Militina, reso pazzo dalla vita in fabbrica, a stimolare la sua presa di coscienza – non possono far altro che riprendere a lavorare: hanno molto tempo ma non sanno più come usarlo; hanno pochi soldi e le esigenze di una famiglia da mantenere.

Come ne La classe operaia, anche ne La proprietà non è più un furto, è l'appropriazione personale il punto di partenza di qualsiasi ulteriore e più generica riflessione: se l'operaio Massa lavora a ritmi concitatissimi e altamente alienanti per il solo scopo di potersi permettere quelli che

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sono i simboli del “benessere borghese”, nel film che chiude la trilogia, Petri parla di proprietari e ladri, rappresentati come due facce della stessa medaglia, allo stesso modo necessari al mantenimento dell'ordine sociale. Ecco, sul finale del film, l'elogio funebre del ladro Albertone: “Rubava insomma da 43 anni benché eccellesse anche

nell'arte drammatica....Sissignori, avrebbe potuto vivere recitando l'onestà ma preferì essere uomo del suo tempo servendo la società ingrata”.

Albertone è un ladro ed è un attore: ma della sua vita non fa una recita, è un ladro di professione e come tale si presenta. Non è forse moralmente meno abietto di colui che ruba sul peso, evade le tasse, sfrutta il lavoro altrui indossando la maschera della rispettabilità?

Ma qualsiasi considerazione etica è, a questo punto del percorso di Petri, del tutto inutile così come vano è ribellarsi ad un sistema che alimenta e legittima la corruzione: Total, impiegato in banca e paradossalmente allergico al denaro, è un improvvisato ladro “marxista-mandrakista55” che tenta di sottrarre i simboli del potere a colui che considera l'emblema dell'avere, e non per avere a sua volta ma “per sfregiare il piacere della proprietà così assoluto nel

55Tale espressione fu scelta dagli autori a significare il residuo dissenso nei confronti della politica

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macellaio56”: ruba il suo coltello, il cappello, i gioielli, la sua

donna-oggetto nel tentativo di piegarne l'arroganza, di ridimensionare la sua insostenibile volgarità. E proprio su quest'ultimo aspetto, Petri ha voluto porre un particolare accento, definendo il film come “una cura

omeopatica contro la volgarità57”: volgare è la considerazione della

donna come strumento di piacere58; volgare è la stampa quotidiana, la sua strumentalizzazione e le sue omissioni; volgare è il macellaio, rappresentazione allegorica di chi “si sporca le mani per

arricchirsi59”.

Dunque, una volta dimostrato il teorema che la proprietà è necessariamente soggetta al furto e che, anzi, l'uno e l'altra contribuiscono in egual misura alla stabilità del sistema, Petri va oltre e conclude il discorso sul potere iniziato con Indagine con una considerazione ancor più amara e senza speranza: la proprietà è, a sua volta, un furto istituzionalizzato, “fondamento della società capitalistica e radice ultima dell'alienazione dell'uomo”. La rivolta di Total è inutile. La sua morte sancisce il ritorno all'ordine, alla quotidianità. La sua isteria anarchica non ha potuto destabilizzare le

56Ugo Pirro, Il cinema della nostra vita, Lindau, Torino, 2001, pag.100

57Elio Petri in Jean Gili, Elio Petri, Faculté des Lettres et Sciences Humaines, Nice, 1974, pag.90 58“La tendenza dell'universo borghese è di amare e disprezzare le donne, di utilizzarle come

strumento di piacere per poi considerarle moralmente come puttane” ( Elio Petri in Jean Gili, op. cit., 1974, pag.86

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solide basi di un sistema ormai profondamente metabolizzato e accettato come l'unico possibile e la cui struttura, per quanto messa in discussione, viene comunque ripristinata sul finale: l'assassinio di Total, così come il matrimonio tra Luisa Roscio e il cugino Rosello in

A ciascuno il suo, la visita dei colleghi al “dottore” di Indagine e il

ritorno degli operai alla catena di montaggio ne La classe operaia, sono simboli dell'inevitabile sopraffazione alla quale vanno incontro coloro che tentano di ribellarsi ad uno status quo irrimediabilmente cristallizzato. Se, nei primi due casi, è la morte che ne sancisce la sconfitta, negli ultimi due, l'essere reintegrati all'interno del Sistema ne provoca la totale e definitiva pazzia. A mio parere, è sul finale dei due film in questione che si fa particolarmente chiaro l'intento principale del cinema di Petri: la malattia mentale che affligge i suoi protagonisti – l'uno schizofrenico e l'altro alienato - si presenta come paradossalmente ragionevole risposta alla quotidiana follia, reazione umana di fronte alle brutture tanto ordinarie da essere considerate “normali”. Tra ciò che è normale e ciò che non lo è diventa impossibile distinguere con sicurezza. Lulù Massa riprende il suo posto in fabbrica e il “dottore” mantiene inalterato il suo ruolo “nel” potere: per Elio

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Petri, è allora che la pazzia prende davvero il sopravvento, nell'essere integrati per essere nuovamente e per sempre manipolati.

“L'uomo vive, nella sua interiorità, tra i lapilli e gli schizzi di un continuo frantumarsi del vecchio, ma chiuso dentro la corazza della normalità che le leggi della produttività continuano ad imporgli, o che continua ad imporre a se stesso. Di qui discende il suo stato di follia nella normalità. La normalità è una nozione ebraico-cristiana raccolta con intransigenza e fatta schema produttivo dallo sviluppo. Ma è fonte di malessere, di malattia, di indifferenza, d'isterismo e di schizofrenia. Nella scissione dell'atomo l'uomo ha scisso se stesso. Noi viviamo catafratti e nel desiderio incessante e crescente di liberarci dalla corazza60”.

L'impotenza e la malattia del potere.

Risulta evidente dalla citazione che chiude il paragrafo precedente quale profondo e documentato interesse Petri nutrisse per l'indagine psicanalitica: in ogni pellicola egli manifesta tale sensibilità speculativa che, caratterizzando marcatamente il suo approccio alla materia filmica, rappresenta la peculiarità propria del suo cinema politico.

Petri è fondamentalmente interessato a mettere in evidenza quanto i conflitti attivi nella società possano condizionare il singolo individuo,

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che li rielabora a livello dell'interiorità rivivendoli come intime scissioni: la nevrosi di cui tratta nei primi film si trasforma gradualmente in vera e propria patologia schizoide e i suoi personaggi diventano paranoici o alienati oggetti di un Potere senza nome.

Ho sempre tentato di far vivere, secondo un metodo esistenzialista,la

situazione di un personaggio nella quale si riflettano le sue contraddizioni interiori, la sua coscienza di essere un oggetto di fronte ai soggetti dell’autorità. Mi sono a poco a poco reso conto che a partire da una nevrosi rappresentata in termini esistenzialisti sono arrivato a descrivere puramente dei casi di schizofrenia… Nei miei primi film era la nevrosi il contenuto della normalità, poi fu la schizofrenia61

Ripercorrendo la biografia del regista romano, abbiamo sottolineato con quanta passione egli praticasse la politica, anche negli anni successivi al distacco dal Pci: per quanto riponesse, dunque, fiducia nelle lotte sociali in corso negli anni '70 e nella sana conflittualità di classe che di tali lotte era la matrice, Petri assume nel tempo una prospettiva profondamente negativa riguardo la reale possibilità di cambiare le cose. Il sistema contro il quale muove la protesta ha basi solide: ha saputo imporre un modello culturale, ha plasmato una

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mentalità, un modus vivendi in grado di condizionare ogni singola scelta dell'individuo. Il Potere senza nome di cui sopra, attraverso i propri organi di controllo, le proprie strutture economiche e i mezzi d'informazione ha reso il cittadino una specie di bambino, immaturo, irresponsabile, bisognoso di essere protetto ed indirizzato:

“Il potere ha bisogno di cittadini irresponsabili. Davanti al potere siamo tutti dei bambini, degli immaturi. Siamo tutti in condizioni di pregenitalità. A sua volta chi si arroga il diritto di amministrare il potere è anche lui un bambino perché crede in un rapporto giuridico tutto a suo favore, come i genitori. È immaturo chi crede che il rappresentante del potere sia un essere superiore e che le istituzioni politico sociali siano immutabili come fatti di natura. Ma è immaturo, anche se più perversamente, chi glielo fa credere e cioè chi detiene il potere. Per imporre un concetto così prevaricante, il rappresentante dell'autorità deve credere d'essere indispensabile, d'avere una missione da compiere, come un genitore, d'avere ragione soltanto lui. Per credere in queste idee bisogna necessariamente essere immaturi, intellettualmente e anche sessualmente62”.

Petri focalizza la sua attenzione su ciò che egli stesso, come abbiamo visto poco sopra, definisce uno “stato di follia nella normalità” : se è

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