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CAPITOLO III

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Academic year: 2021

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CAPITOLO III

UN VENTO DI MINACCIA SOFFIA ALLE PORTE DELL’IMPERO DI MEZZO

Essere o non essere? Questo è il dilemma degli uiguri, se essere o meno un popolo. Costoro si sentono tale ma Pechino lamenta il fatto che si trovino su una terra che dice essere cinese. Intanto essi percepiscono l’affermazione di sovranità della Cina come fosse privazione del diritto di sentirsi a casa. Per loro lo Xinjiang è solo la terra degli uiguri e rivendicarne l’indipendenza è una libertà che non fa torto alla storia. Tutto ciò che per gli uiguri è coraggio, per Pechino è pericoloso irredentismo e perciò va placato. Se per i primi la violenza è rimasta l’ultima carta da giocare per provare a estorcere dal destino una ricompensa che per secoli gli ha negato, per i cinesi è solo il sintomo di un male che per non rivelarsi letale deve essere curato. Quella che il capitolo racconta è una storia di popoli vicini ma che non riescono a fissare un appuntamento per incontrarsi e che continuano a cantare in un coro le cui voci non sono mai in sintonia. Ogni tanto si distingue il suono di una voce da baritoni e poi si spegne tra la maggioranza delle voci da soprano. L’impegno sarà di provare a lavorare lontano da facili banalizzazioni che assegnano il posto di vittima o di oppressore. Non è un giudizio che a noi compete. Pertanto la trama storica che qui si riporta offrirà una doppia lente di lettura, uigura o cinese, per leggere i fatti che si sono verificati negli anni Novanta. Che si sia trattato di insurrezione o di diritto alla libertà, in entrambi i casi la Cina, dal centro alla periferia, ne fu la protagonista.

III.I Gli Ataliq Ghazi1, guerrieri innocui della periferia Qing

L’Impero Qing viaggiò senza particolari turbolenze fino alla metà dell’Ottocento. Per un secolo lo Xinjiang rimase infatti una regione inoffensiva per la monarchia che poté regnare in un clima generale di stabilità. I tumulti che si ebbero non misero mai in discussione il potere degli imperatori cinesi, che regnarono così fino al 1911/12. Ciò nonostante, tali episodi di rivolta hanno assunto un valore particolare nella storia uigura, quello di essere considerati volano del movimento indipendentista attivo ancora ai giorni nostri. Tuttavia, autorevoli studi2, nel fare chiarezza sulla storia nazionale dello Xinjiang, hanno trovato opportuno sfatare una serie di falsi miti che la riguarderebbero. Il primo consiste nella considerazione che il fattore religioso abbia giocato un

1 Significa guerrieri che combattono la guerra santa contro il Dar al-Harb, ovvero contro la “Terra degli infedeli”. 2 K. Hedong, Holy War in China: The Muslim Rebellion and the State in Chinese Central Asia, 1864-1877, Stanford University Press, 2004.

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ruolo decisivo e assolutamente aggregante nelle rivolte della “periferia cinese” tra Settecento e Ottocento. Detto in altri termini, che esse siano state l’appendice pratica dell’ideologia islamica del jihadismo contro gli infedeli. Obiezioni a questa tesi potrebbero essere sollevate pensando alla vicenda di Ya’qub Beg (o Yakub Beg)3. Egli si presentò, infatti, come un guerriero della crociata contro gli infedeli cinesi (Khitay)4, diede vita a uno Stato islamico ispirato alla shar’iah5 e fortemente militarizzato, grazie al dispiegamento di pattuglie di qadi ra’is6, pronte a punire i trasgressori della legge7. Tuttavia, Beg non fu un combattente per la libertà ma prima di tutto (o solo) un emiro Khoqandi che impose il suo potere sulla popolazione che viveva nel bacino del fiume Tarim8. Il suo attaccamento al potere, oltre che la disabitudine dei suoi sudditi a un Islam rigido come quello che egli impose, furono del resto il suo tallone d’Achille, al punto che lo Xinjiang anelò di tornare sotto i sovrani Qing9. Un’altra necessaria correzione riguarda l’idea che in epoca mancese la miccia fu sempre incendiata dagli uiguri per primi10. Un episodio che si cita spesso come precedente del nazionalismo degli anni Novanta è quello legato alla figura di Jahangir.

3 Alla sua figura si è già accennato nel primo capitolo. Bellew e Shaw raccontano varie curiosità sul suo conto, descrivendolo come un emiro mondano e dissoluto che amava trascorrere il tempo dividendosi tra i suoi tre harem e le duecento, tra mogli e concubine di varia provenienza, che li affollavano. In 1) H. W. Bellew, Kashmir and Kashghar: A

Narrative of the Journey of the Embassy to Kashghar in 1873-74, Londra, Trubner, 1875. 2) R. Shaw, Visits to high Tartary, Yarkand and Kashgar, Londra, John Murray, 1871.

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Nel turco antico la parola era usata per riferirsi alla dinastia Liao che governò nel nord della Cina tra il 907 e il 1119. Nelle lingue di derivazione turca è rimasto di uso comune per designare i cinesi han i quali, tuttavia, lo ritengono una confidenza troppo dispregiativa.

5 Letteralmente “via che conduce all’acqua”. E’ formata da Corano e Sunna (quest’ultima è l’insieme degli hadith, ovvero detti e comportamenti del profeta Maometto) ed è una delle quattro fonti del diritto islamico (fiqh). Le altre sono il Qiyas (ossia il “ragionamento per analogia”) e l’Ijma’(ovvero il “consenso della comunità espresso attraverso gli ulema”).

6 I qadi, insieme ai muftì, formano la classe degli ulama (o ulema, che significa “colui che sa”). Mentre i primi sono giudici veri e propri avendo un ruolo esecutivo, i secondi sono meglio definibili come giureconsulti, ovvero sono esperti di diritto islamico con compiti consultivi di formulazione e parere (espresso attraverso i fatawa, cioè pareri non vincolanti) in conformità con la legge islamica. Nell’Impero Ottomano si trattava di una classe sociale molto potente che teneva il controllo anche dell’istruzione, essendo essi stessi insegnanti nelle maggiori madrase di Istanbul. Esentati dal pagamento delle tasse, gli ulama gestivano anche il patrimonio del waqf che sempre più divenne un affare ereditario molto redditizio. Cfr. B. Lewis, La Sublime Porta. Istanbul e la civiltà ottomana, Torino, Lindau, 2007.

7 La gestione fiscale- amministrativa, invece, fu affidata a dei funzionari chiamati hakims.

8 Citazione da J. A. Millward, Eurasian Crossroads: A History of Xinjiang, New York, Columbia University Press, 2007, p. 117.

9 Probabilmente incise anche il fatto che non fosse ritenuto un bravo “principe”. Sotto di lui, infatti, lo Xinjiang visse anni di grave difficoltà economica dovuta a una serie di inavvedute misure che egli prese, come ad esempio la chiusura delle miniere di giada e la decisione di porre fine al commercio di tè cinese. Per la descrizione del suo emirato si è seguita la puntuale descrizione fatta da J. A. Millward, ivi, pp.118-23.

10 Non fu così, per esempio, durante le rivolte del 1864. Nello Xinjiang si ribellarono gli Hui del Gansu e dello Shaanxi che ivi possedevano fattorie e piccole attività o servivano nell’esercito imperiale. I fatti andarono così: cominciò a circolare la voce che l’imperatore Tongzhi avesse ordinato di uccidere tutti i Tungani che vivevano nella regione come misura preventiva. Perciò le città a nord e a ovest di Urumqi si ribellarono. Gli uiguri intervennero successivamente, solidarizzando con i musulmani minacciati. A poco a poco il controllo delle masse popolari in rivolta passò nelle loro mani, tranne nella parte orientale, a maggioranza hui. Furono questi gli avvenimenti che crearono quel vacuum di potere in cui l’emirato di Beg poté prosperare.

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Egli fu un khoja asiatico che, messosi alla testa di un gruppo di kirghizi, invase la città di Kashgar incontrando l’appoggio dei musulmani locali (1826). Con il loro aiuto riuscì a espugnare anche le città di Khotan, Yarkand e molte altre della regione, salvo poi dover indietreggiare davanti alla riconquista Qing. Gli imperatori ingrandirono il contingente militare di stanza a Kashgar, boicottarono il commercio con i Khokandi11 e misero in pratica una politica di ricostruzione e reinsediamento cinese nelle città riconquistate12. Non furono dunque direttamente gli uiguri a ribellarsi ma fu sotto la regia di Jahangir e di altri invasori provenienti dall’Asia centrale che essi recitarono una parte nell’attività antimancese13. Infine, un terzo mito ha alimentato la leggenda che le agitazioni popolari fossero dirette contro i monarchi cinesi. I fatti di Ush, cittadina a ovest del bacino del Tarim, ne provano l’estraneità. Ciò che spinse il popolo alla rivolta furono, infatti, le vessazioni subite da parte degli ufficiali locali. Come quelle dell’amban14 Manchu, Sucheng. Questi, diretto a Pechino, costrinse pubblicamente duecentoquaranta uomini a portare i suoi bagagli, trasformando le vessazioni in vera e propria umiliazione (1765). La vicenda si chiuse con il massacro e la schiavizzazione di ottomila tra donne e bambini, su ordine dell’imperatore Qianlong. Quell’episodio determinò la riforma del sistema dei beg, ai quali furono tolti molti dei privilegi dei quali avevano goduto sotto l’impero15. Dunque i problemi che gli imperatori mancesi dovettero affrontare non provennero dalla “periferia”, se non di riflesso e in maniera non particolarmente pericolosa. Provennero, piuttosto, dal malgoverno che, a partire dal 1850, ne caratterizzò la gestione politica. La cattiva gestione infatti fu responsabile della grave crisi economico-finanziaria che si abbatté sull’Impero16 e che oggi viene storicamente ritenuta il fertile sottosuolo che fece fiorire le rivolte di fine Ottocento. Rivolte che, coniugando malcontento di centro e periferia, iniziarono a sgretolare la Grande Muraglia del potere imperiale. Dai Taiping alle minoranze etniche, da Taiwan a Urumqi, infatti, la Cina fu per la prima volta davvero “sotto assedio”.

11 Sulle relazioni tra questi e i Qing si veda L. Newby, The Empire and the Khanate: A Political History of Qing

Relations with Khoqand, 1760-1860, in “Brill’s Inner Asian Library”, n. 16, 2005, Leiden e Boston, MA.

12 Per le fortificazioni della città di Kashgar si utilizzò materiale preso dai vecchi quartieri musulmani della città dove, ancora oggi, il vecchio quartiere attorno alla moschea di Id Kah e quello nuovo nella parte orientale, abitato prevalentemente da cinesi Han, danno l’idea di due mondi inconciliabili. J. A. Millward, op. cit., p. 112.

13 I protagonisti furono clan afghani di Khojas e di Khoqandi della valle del Fergana intenti a ristabilire il controllo nella zona del bacino del Tarim, nell’attuale Xinjiang, territorio che i Qing avevano provincializzato come parte del loro impero. In J. A. Millward, ivi, pp.109-110. Per una conoscenza più approfondita si rimanda al lavoro di Kim Hedong,

Holy War in China…, cit.

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Alto funzionario’ mancese.

15 V. J. A. Millward, Beyond the Pass: Economy, Ethnicity and Empire in Qing Xinjiang, 1759-1864, Stanford University Press, 1998. Vedi anche Id., Eurasian Crossroads…, op. cit.

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Insomma, lo Xinjiang dei Qing alla fine del XIX secolo non era ancora maturo per diventare un’entità slacciata dal potere cinese; né era ancora pronto a diventare quel Turkestan indipendente, che per poco tempo gli uiguri, negli anni Trenta e Quaranta, riuscirono a sognare e a realizzare. Perciò la “guerra santa” che qualcuno si convinse di combattere fu spesso niente altro che il vezzo di un principe “modaiolo” che inseguì a tal punto il potere da preferirlo alla libertà del suo stesso popolo17.

III.II La meta è la strada verso se stessi

Sebbene non si possa parlare di un movimento nazionalista uiguro strutturato alla fine dell’Ottocento, tuttavia è proprio nell’ultimo periodo della dinastia Ch’ing che si verificarono le condizioni necessarie affinché le minoranze musulmane abbandonassero le vesti di “guerrieri innocui” e prendessero coscienza di essere un popolo. Israeli offre una dettagliata ricostruzione dei meccanismi secondo i quali si attivò questo cambiamento18. Fino a quando l’Impero fu in grado di proteggerli, dando loro garanzia di tutela dell’identità di essere minoranza ed essi non ebbero ostacoli, per esempio, all’esercizio della propria fede, gli uiguri, e le minoranze etniche in generale, mantennero un’immagine di basso profilo, senza entrare mai in contrasto con l’autorità centrale. Più tardi, quando l’Impero, ormai sull’orlo del tracollo, non fu più in grado di garantire loro questa protezione, essi cominciarono a sperimentare nuove forme di autotutela. Non va trascurato il seguente dettaglio. La storia di rivoluzione del Turkestan mosse i suoi primi passi da dentro il sistema, per divenire solo in un secondo tempo un movimento eterodosso. Arruolati per combattere contro i Taiping, essi stessi finirono col diventare i ribelli19. I Taiping furono il nemico numero uno della Cina imperiale di fine secolo e Israeli li paragona ai ribelli musulmani. Si trattò di militarizzati gruppi di minoranza che rappresentarono una novità assoluta nel panorama sociale cinese. Infatti ci fu un’evoluzione netta nel tipo di mobilitazione cui la Cina era abituata. Essi non furono più semplici t’uan-lien (milizie locali) o yung (mercenari) ma sfilate di intere comunità pronte a sfidare l’etnia dominante20. La tranquillità divenne una sconosciuta per l’Impero mancese Qing dal 1878. Un anno in un certo senso spartiacque poiché i Manciù non solo decisero di riprendersi lo Xinjiang, caduto nelle mani dei signori locali, ma cercarono anche di estendere il loro controllo su tutta l’Asia

17 Il riferimento è chiaramente a Ya’qub Beg, del quale si è già evidenziata la personalità eccentrica. Molto attento alle forme, egli amava ricevere gli emissari stranieri nel suo gulbagh (giardino di rose), accompagnati da assistenti rigorosamente di seta vestiti e salutati con cerimoniali presi a prestito tanto da sovrani asiatici che europei.

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R. Israeli, The Muslim Revival in 19th Century China, in “Studia Islamica”, n. 43, 1976, pp. 119-138. URL: http://www.jstor.org/stable/1595284, download 28 luglio 2016.

19 Chu Wen-djang, The Muslim Rebellions in Northwest China, 1862-78, Mouton, The Hague, 1966, pp. 15-23. 20 R. Israeli, op. cit., pp. 122-123.

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centrale. La rigidità di questo atteggiamento gli costò molto cara, dal momento che proprio sull’Asia centrale (Turkestan orientale compreso) si giocava la partita europea del Grande Gioco21. Millward fa notare la miopia di una tale politica, del tutto anacronistica, se si riflette sul fatto che non era il Turkestan l’area più turbolenta del loro impero ma semmai le città costiere cinesi sempre più in fermento22. Tuttavia, fu allo Xinjiang che i Qing parvero oltre ogni modo interessati e si votarono zelantemente alla riconquista della valle dell’Yili dalle mani della Russia. Si affidarono al trattato di San Pietroburgo23 per risistemare le carte in tavola. La regione era stata occupata dai russi nel 1871, nel nome di quella politica umanitaria che li portò a intervenire a protezione di tutti i popoli che considerava appartenere alle sue terre. Degli armeni dell’Impero Ottomano, così come delle popolazioni dell’Asia centrale.

III.III Per il khalk24 uiguro suona la sveglia nazionale. I caldi anni Novanta

Negli anni Novanta si riaprì la storia uigura per l’indipendenza. Una lunga stagione di violenza portò il brutto tempo sul governo cinese, che fu travolto da tre grandi ondate di odio e di attentati. La prima riguardò i mesi da gennaio ad aprile del 1990. Tutto ebbe inizio da una manifestazione di giovani talip25 della città di Yarkand, i quali protestarono contro la decisione di Pechino di chiudere le scuole religiose divenute troppo numerose e troppo influenti nelle regioni autonome a maggioranza musulmana. Il loro grido “Study and protect Islam” o “Down with the Kafirs”26 fu in piena armonia con la voce di migliaia di coetanei che dalla metà degli anni Ottanta avevano iniziato a manifestare contro il governo centrale27. Si trattò, in quell’occasione, non solo di studenti han ma anche musulmani. Una marcia di studenti hui nei primi giorni di maggio, infatti, era scesa nella People’s Square della capitale turkestana contro la pubblicazione, a Shanghai, di un libro dal contenuto dissacrante e poco rispettoso dell’Islam (dal titolo “Sexual Customs”/Xing Fengsu, in

21

Sul Great Game nello Xinjiang si veda L. E. Nyman, Great Britain and Chinese, Russian and Japanese Interests in

Sinkiang, 1918-1934, Esselte Studium, 1977.

22 J. A. Millward, Eurasian Crossroads…, cit., cap.IV.

23 Prima di questo trattato il diplomatico mancese Chong-hou aveva firmato l’accordo di Livadia (1879). Dati i numerosi privilegi che esso accordava alla Russia (che poteva aprire sette consolati tra Xinjiang e Mongolia, commerciare liberamente in queste regioni senza dover pagare tasse alla Cina e che avrebbe potuto restituire solo una parte dell’Yili) il compromesso, troppo umiliante, non era mai stato ratificato. Condizioni più favorevoli furono invece pattuite a San Pietroburgo nel 1881. Alla Russia vennero cedute solo porzioni occidentali di territorio cinese che non facevano parte dell’Impero prima della firma del trattato. Nonostante tutto, ancora oggi per la Cina si tratta di uno dei “trattati ineguali” a cui fu costretta dalle potenze occidentali, responsabile della perdita di 70000km2 di territorio, ceduto di fatto ai russi. Cfr. S. C. M., Paine, Imperial Rivals: China, Russia and their Disputed Frontier, New York, Armonk, 1996.

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“Popolo”.

25 “Studenti delle scuole musulmane”. 26 “Miscredenti”.

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cinese), ottenendone il ritiro dalle stampe. Nel 1989 non esistette più distanza tra Urumqi e piazza Tienanmen e nemmeno più differenza tra han e minoranze cinesi; e infatti furono han i giovani che gridarono in piazza “Drove out the han” e “Oppose han migration in Xinjiang”, a favore della democrazia28. Alcuni mesi dopo le marce pacifiche lasciarono il posto a una lunga scia di sangue che tinse di rosso le strade dello Xinjiang. Il 5 aprile, ad Atko, nella contea di Baren, Zeydin Yusuf, alla guida del “Partito islamico del Turkestan orientale”, fu la mente29 degli attacchi simultanei contro polizia e funzionari cinesi. La politica del CCP sulle minoranze etniche, dal controllo delle nascite allo sfruttamento delle risorse e ai test nucleari, fu il capo d’imputazione per il governo di Pechino. Dillon conferma che fu Yusuf Zeydin a tenere le fila dell’organizzazione. Canale di reclutamento indiscusso furono le moschee, che svolsero un ruolo significativo anche nella propaganda. Nei cortili furono istallati megafoni e registratori per cassette che elogiavano le virtù del jihad30 e furono celebrati riti di iniziazione con gli adepti che, mentre piantavano coltelli a terra, venivano fatti giurare sul Corano che avrebbero condotto la guerra santa contro gli infedeli; e tali furono considerati anche gli stessi musulmani sospettati di collaborare con il CCP. Il Partito islamico si componeva, inoltre, di una sezione giovanile chiamata degli Yisilan gansidui (Islamic Dare to die Corps), addestrati a combattimenti corpo a corpo e a lanciare granate a mano. Per reprimere la rivolta occorse una collaborazione a più livelli; regionale, con i Corpi della controrivoluzione di Kashgar31; nelle contee e nelle prefetture, con le Squadre di difesa specializzate nella repressione delle insurrezioni32; e a livello centrale, con lo schieramento di mille regolari del PLA e di una Forza armata di polizia popolare (la People’s Armed Police o PAP) a presidio del confine con Kashgar. Tutto dietro la regia dell’Ufficio di Sicurezza Pubblica33. Da

28 J. Millward, Violent Separatism in Xinjiang: A Critical Assessment, in “Policy Studies 6”, Washington, East-West Center, 2004, pp.8-10;14.

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Secondo McNeal la mente fu Abdul Kasim del Movimento per un Turkestan libero. V. D. L. McNeal, China’s

Relations with Central Asian States and Problems with Terrorism, consultabile al seguente URL:

www.au.af.mil/au/awc/awcgate/crs/rl31213.pdf.

30 Letteralmente “sforzo”(sulla via di Dio), sia a livello spirituale che politico. Dalla stessa radice viene la parola ijtihad usata per indicare l’impegno intellettuale, l’elaborazione dottrinale. Questa è sostanzialmente rimasta immutata dal X secolo, provocandone un irrigidimento detto “chiusura della porta dell’ijtihad”. M. Campanini, I Sunniti. La tradizione

religiosa maggioritaria dell’Islam, Bologna, Il Mulino, 2008.

31 In cinese Pingxi Baren xiang fangemibg wuzhuang baoluan zhihuibu. 32 Le fangbao zhihuibu.

33 M. Dillon, op.cit, cap.6. L’autore elenca una serie di attacchi o di intimidazioni, come quelle ai danni dei venditori ambulanti di yogurt o di tabacco che ebbero la loro mercanzia distrutta; o ai danni delle donne, minacciate di ritrovarsi con i capelli tagliati all’uscita dai negozi; o come il rapimento dei militari del Reggimento di difesa di Akto, messo in atto mentre questi erano diretti a Baren per trattare con i funzionari locali. Trascinati fuori dalla Landcruiser sulla quale viaggiavano, furono picchiati e presi in ostaggio. O ancora l’assalto al palazzo del municipio (sempre della città di Baren) e la presa in ostaggio dei poliziotti che, mandati ad arrestare Yusuf Zeydin, vennero costretti a consegnare armi e ricetrasmittenti e a spogliarsi delle uniformi.

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Baren l’effetto domino fu immediato. A catena si ribellarono le città di Tacheng e Bole, fino alla capitale, Urumqi. Ormai lo Xinjiang si era messo in movimento.

Il periodo fra il febbraio 1992 ed il giugno 1995 furono anni di svolta nella strategia del terrore. Si passò infatti da attacchi a obiettivi simbolo del PCC a obiettivi civili come mercati, hotels, autobus34. Furono autobus quelli fatti esplodere a Urumqi il 5 febbraio del 1992 (lo 01-16715 sulla tratta della 52ª strada e lo 01-16786 sulla 30ª). Stando alle dichiarazioni delle autorità cinesi, in altri punti della città erano già state piazzate bombe e sarebbero esplose, se non fosse tempestivamente intervenuto il PLA, con lo schieramento di più di 200.000 soldati. L’anno seguente le principali città dello XUAR, da Yining a Kashgar, furono colpite dalle bombe uigure35. Ci fu una prima esplosione al palazzo governativo dell’agricoltura a Kashgar36, poi attacchi in altre cinque città, accompagnati dalla distribuzione di volantini incitanti alla fine della migrazione Han nello Xinjiang, dalla combutta tra un gruppo di kazaki e la polizia (nella regione di Ili); i primi gridavano che li si lasciasse liberi di entrare nella CIS37 russa. Ci fu anche un tentativo di uccisione ai danni della persona del presidente del Congresso Popolare dello Xinjiang, Niyaz38. Infine, bombe già piazzate al cinema Qunzhong e sul balcone di un blocco di edifici che affacciavano sulla Wenhua Road non esplosero. Esplose, invece, quella piazzata al Seman Hotel di Kashgar. L’edificio brillò ma fortunatamente senza feriti39. L’episodio convinse la Cina che il nemico non era più solo all’interno ma che organizzazioni di emigrati uiguri ne curavano la regia.

Il 7 luglio 1995 due imam40 della moschea Baytulla di Khotan furono rimossi dai loro posti per aver discusso di temi di attualità politica durante i loro sermoni e sostituiti con un imam scelto dalle autorità cinesi, Kayum. Questi tuttavia diventò presto un personaggio altrettanto scomodo. Le sue prediche avanguardiste sui diritti delle donne gli costarono l’arresto con l’accusa di aver sollevato un argomento tabu per la Cina. La solidarietà mostrata all’imam per la vicenda in cui era rimasto coinvolto fu talmente grande che si riuscì a organizzare un sit-in di protesta davanti alla moschea.

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J. Millward, Violent Separatism in Xinjiang…, cit., p.15.

35 Dillon, citando da fonti uigure quali l’Eastern Turkistan Dispatch, Vol. 1, n. 4, 1993, p-4 e Vol. 1, n. 5, pp.1-3, riporta di attacchi terroristici anche nella regione delle Altishahr e della proclamazione della legge marziale a Kashgar, in M. Dillon, op. cit., p.67

36 Più precisamente, secondo Millward si trattava di una azienda che vendeva attrezzi agricoli, la Nongji.

37 Comunità degli Stati Indipendenti sorta sulle ceneri della vecchia URSS con l’accordo di Belaveža (Bielorussia) e inizialmente formata da undici delle quindici ex repubbliche sovietiche, diventate otto dopo l’uscita della Georgia nel 2008 (per via della questione dell’Ossezia del sud), dell’Ucraina nel 2014 (per l’invasione russa della Crimea) e del Turkmenistan già nel 2005.

38 “Der Spiegel”, n. 13, 1993.

39 Notizia riportata da J. Millward, Violent Separatism in Xinjiang…,cit., p.15. 40 Significa “colui che sta davanti” e che quindi guida la preghiera.

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La folla però trovò la polizia in assetto da guerra, pronta a disperderla41. Dillon offre un resoconto degli eventi scaglionati per periodo e città nelle quali si verificarono. Il primo riguarda la sollevazione in sei città della regione del fiume Yili (Ili nella dizione russa)42 nell’aprile del 1995. A Zhaosu e Gongliu tremila dimostranti circondarono i palazzi del governo e rubarono armi e macchine della polizia. Da Bole e Ghulja il governo si vide costretto a mandare rinforzi militari. Prima dell’assalto, c’era stato uno sciopero generale di più di centomila lavoratori scesi in piazza per chiedere che la regione di Ghulja passasse al Kazakistan43. Eventi simili successero a Nilka e Qapqal, con dimostrazioni davanti agli uffici pubblici e scioperi durante i quali furono tagliate le forniture di acqua, gas ed elettricità. Anche qui si chiese la fine del governo comunista nello Xinjiang e uno stato che fosse indipendente. Lo stesso giorno fu organizzato uno sciopero anche nella città di Tekes. Ventimila soldati del 33° e del 41° reggimento furono sbarcati da aerei e treni con l’ordine preciso di schiacciare le rivolte. In un clima da guerra, con altoparlanti che dai carri armati intimavano la resa, l’esercito cinese represse l’insurrezione44.

La terza ondata terroristica, dall’ aprile 1996 all’aprile 1997, fu la più significativa45 e anche una risposta alle mosse politiche del governo di Pechino. La prima consistette in un documento pubblico del Comitato Permanente del CCP, noto come Documento No. 7, che puntava i riflettori sulle attività religiose illegali e sui finanziamenti e l’interferenza di potenze straniere negli affari dello Xinjiang. La seconda fu una politica di cooperazione militare e in materia di sicurezza tra la Cina, la Russia e alcune delle ex repubbliche sovietiche centroasiatiche, ovvero lo Shanghai Five. Il terzo sviluppo politico riguardò l’annuncio della prima delle campagne Strike Hard46 contro le attività considerate sediziose e separatiste. Di seguito se ne descrivono le caratteristiche principali con l’obiettivo di dare la dimensione di come la Cina percepisse e affrontasse l’annosa questione della sicurezza dello Xinjiang.

41 J. Millward, Violent Separatism in Xinjiang…, cit., p.15. Traendo spunto da un documento del 1999 di Amnesty International, l’autore fa notare che dell’episodio non c’è traccia alcuna nei documenti cinesi.

42

La dizione russa si giustifica alla luce del fatto che il fiume scorra dallo Xinjiang fino al Kazakistan, ex territorio sovietico.

43 Establish a Kazakh state fu uno degli slogan dei manifestanti.

44 M. Dillon, op. cit., pp. 68-71. Secondo l’autore, che cita dal giornale “Hong Kong Trend”, n. 118, 95, Liu Yusheng, capo del dipartimento Affari Esteri dello Xinjiang, negò l’accaduto.

45 Da aprile a giugno ci furono diecimila arresti ad Aksu, ottomila a Urumqi, tremila capifamiglia di Ghulja furono costretti a giurare che nessuno dei membri della propria famiglia partecipasse ad attività sovversive contro il CCP. Ancora, duemiladuecentoventi furono gli arresti a Karakash, quattrocentocinquanta a Khotan city e altri trecentosettanta nella relativa contea, duecentocinquanta a Kerye, centottanta a Guma, settanta a Niya, duecento a Lop (nello stesso periodo). I numeri sono presi da M. Dillon, op. cit., pp. 87-88, il quale cita da fonti uigure, principalmente dalle “Worlds Uyghur Network News”.

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Per quanto riguarda il Documento No. 7, rilasciato il 19 marzo del 199647, tre sono le parti che meritano una maggiore attenzione, dal momento che tra le righe è facile intuire una certa disattenzione nella tutela dei diritti umani, considerati sospendibili e meno urgenti della sicurezza e dell’ordine pubblico48. Il Preambolo riassume i principali timori di Pechino, ovvero il separatismo e le attività religiose illegali che, insieme alle infiltrazioni dei poteri esterni, possono costituire una seria minaccia per la stabilità del Paese di Mezzo49. Inoltre una riflessione va fatta sui punti 3 e 5 dello stesso, dove si affronta il tema della necessità di rafforzare le misure di sicurezza a livello generale, per tutto il Paese, e a livello regionale, con maggior riguardo per il sud dello Xinjiang, dove è concentrata la maggior parte della popolazione uigura50.

Lo Shanghai Five (26 aprile 1996) fu una sorta di assicurazione sulla vita politica dei governi di Cina, Russia e repubbliche centroasiatiche, ex satelliti dell’URSS. Dei rapporti che legano i destini politico-economici di questi stati si parlerà più avanti nel testo, nella sezione specificamente dedicata. Per il momento sarà sufficiente dire che una delle questioni che alla Cina premette di più di risolvere fu quella del controllo alla frontiera comune, essendo la sua preoccupazione principale il passaggio facile di musulmani dell'Asia centrale per andare a dare sostegno ai fratelli uiguri. L’accordo stabilì l’istallazione di un centro di monitoraggio e controllo dei flussi alla frontiera con sede a Bishkek, in Kirghizistan. Pechino incontrò la disponibilità della Russia insistendo sull’urgenza di organizzare una comune lotta all’integralismo islamico51. Inoltre i governi del Kirghizistan e del Kazakistan, sotto le pressioni di Pechino, iniziarono una vera e propria “caccia

47 Ne esiste una versione in inglese pubblicata da fonti uigure in esilio sul sito www.caccp.org/confl7doc7.html.

48 Per la disamina di tale documento si è scelta come fonte d’informazione l’articolo Post 9/11. Lotta al terrorismo e

repressione nella regione autonoma uigura dello Xinjiang del “Centro studi per la pace”, consultabile all’indirizzo

URL: http://www.studiperlapace.it/view_news_html?news_id=20060816174038

49 Il Preambolo del Documento in questione recita: «National separatism and illegal religious activity are the chief threats to the stability of Xinjiang [...] The outside national separatist organizations are joining hands and strengthening the infiltration of Xinjiang sabotage activities with each passing day. Within our national borders, illegal religious activities are widespread; sabotaging activities, [...] explosions and terrorism are occurring sporadically. Some of these activities have changed from completely hidden to semi-open activities, even to the degree of openly challenging the government's authority».

50 Il testo integrale degli articoli 3 e 5 del Documento No. 7 è riportato di seguito: «Take strong measures to prevent and fight against the infiltration and sabotaging activities of foreign religious powers. Restrict all illegal religious activities. Severely control the building of new mosques. Mosques built without permission from the government have to be handled according to registration methods of practicing sites of religion. Relocate or replace quickly people who are hesitant or support ethnic separatism. Give leadership positions in mosques and religious organizations to dependable, talented people who love the motherland. Stop illegal organizations such as underground religious schools, kung-fu schools and Koran studies meetings» (articolo 3). «Make Southern Xinjiang the focus of attention; establish a sensitive information network and strive to get information on a deep level which can serve as a covert prior alert of any trouble. Establish individual files; maintain supervision and vigilance. Legally strike against separatism, sabotaging and criminal activities of the internal and external hostile forces in a timely manner. Strengthen the management of labor camps (laogai) and prisons in Xinjiang» (articolo 5).

51 L’Islam è la seconda religione ufficiale della Federazione Russa, diffusa soprattutto nel Caucaso (tra ceceni, circassi, ingusci, karachay e altre popolazioni del Daghestan, nel nord della regione) e nell’area del Volga (tra tartari e baschiri).

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allo uiguro” con l’obiettivo di stanarlo nei partiti politici o nelle redazioni giornalistiche; insomma, dovunque ci fosse traccia della sua presenza nel tessuto sociale. Nel 1999 il Kazakistan consegnò alle autorità cinesi, su ripetute richieste cinesi, tre rifugiati uiguri52. Dal 2001 ne fa parte anche l’Uzbekistan e l’associazione ha assunto il nuovo nome di “Shanghai Cooperation Organization” (SCO), una versione aggiornata della struttura regionale del primo “Gruppo dei cinque”, ripensata dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre. Nel proclama istitutivo si legge «raise the Shanghai Five to a higher level and build a regional organization of multilateral cooperation covering various fields». Pechino si unì così alla lotta globale contro il terrorismo di matrice islamica ma per molti esperti la creazione di questo nuovo soggetto politico fu soltanto una acuta mossa strategica per aumentare la propria influenza economica e geopolitica in Asia centrale.

Nel 1996 la regione di Aksu53, a metà strada tra Urumqi e Kashgar, fu una delle più travolte dalla furia nazionalista, espressa perlopiù da uomini mascherati e coperti, armati di pistole, pugnali, fucili ed esplosivi. Si registrarono numerose rapine, uccisioni di traditori della causa indipendentista54, assalti alla polizia, la quale rilasciò dichiarazioni nelle quali asseriva di aver sentito i ribelli gridare che i soldi rubati durante le scorrerie servissero a finanziare il jihad55.

Uno dei problemi che si riscontrano nell’analizzare gli eventi che occorsero negli anni Novanta consiste nella discrepanza tra le fonti uigure e quelle ufficiali cinesi. Queste ultime sottostimano spesso il numero dei morti, dei feriti ma spesso anche degli arresti56 che, al contrario, altre volte sono ingigantiti per non far passare il messaggio che la Cina non avesse il controllo della situazione. Altre volte omettono fatti citati in altre fonti, anche straniere, oppure ne forniscono notizie poco dettagliate. Questa struttura disomogenea del materiale informativo, rintracciabile anche all’interno delle stesse notizie cinesi, ha provocato una difficoltà accessoria, ovvero l’impossibilità oggettiva di poter individuare con esattezza il grado di repressione che fu messa in atto nello Xinjiang. Altra

52

Si trattò di una chiara violazione della regola del non refoulement prevista dall’articolo 33, par. 1, della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati del 1951. La garanzia impone l’obbligo ai firmatari di non estradare un rifugiato (o un richiedente asilo che non abbia ancora ottenuto tale status) verso uno Stato nel quale possa correre il rischio di essere perseguitato (o discriminato) per motivi di razza, di religione, di nazionalità, di origini etniche o di opinioni politiche. La ratio prevalente è quella di tutelare i diritti umani fondamentali, come ha ribadito anche l’Alto Commissario dell’UNHCR con riguardo all’estradando (v. UNHCR, Executive Committee Conclusion n. 17, XXXI (1980).

Il testo della Convenzione è reperibile all’indirizzo URL: http://www.unhcr.it/wp-content/uploads/2016/01/Convenzione_Ginevra_1951.pdf.

53 Da qui parte la più importante rete di collegamento stradale tra l’est e l’ovest della Cina.

54 Dillon cita il caso del mullah Aronghan Haji della moschea Id Gah di Kashgar, accusato di collaborare con il CCP. Fu colpito di primo mattino da alcuni uomini armati di mannaia mentre si dirigeva alla moschea per pregare, in compagnia del figlio, il quale guidava la bicicletta sulla quale viaggiavano. Uno degli assalitori si chiamava Nurmamat, uno uiguro di Awat, educato in una madrasa clandestina fin dall’età di cinque anni e già noto alla giustizia per vari reati minori, in M. Dillon, China’s Muslim…, cit., p. 87.

55 M. Dillon, ivi, p.70.

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caratteristica peculiare dei documenti cinesi consiste nella particolarità del punto di vista dal quale vengono descritti gli eventi. Piuttosto che parlare di attività separatiste, infatti le carte cinesi preferiscono parlare di criminalità e il manifesto della campagna “Strike Hard” del 1996 ne è la dimostrazione. Qui gli uiguri sono presentati alla stregua di criminali comuni implicati in attività illegali quali il traffico di droga, la prostituzione, il commercio di materiale pornografico, quello di armi ed esplosivi; insomma soprattutto ladri e assassini piuttosto che separatisti57. Tuttavia dal 1996 qualcosa mosse il punto focale della prospettiva cinese e ciò che ne risultò fu un disegno diverso della situazione che fino a quel momento la Cina aveva raccontato. Alla fine di quell’anno si tenne, infatti, un incontro del CCP sia a livello provinciale, nello Xinjiang, sia a livello nazionale. La dichiarazione finale asseriva la necessità di concentrare l’azione repressiva sul terrorismo separatista, responsabile di ritardare la modernizzazione della provincia. Tuttavia, nonostante la pubblica presa di coscienza dell’esistenza di forze che spingevano per l’indipendenza, la Cina parve tenerci a ribadire di avere la situazione in pugno, affermando che quest’attività era circoscritta a un «extremely small number of ethnic separatists»58. Seguendo il resoconto di Dillon, di seguito vengono riportate due testimonianze sulle rivolte di Yining del 1997, che figurano tra gli accadimenti più controversi nel reportage fatto dalle fonti d’informazione. Quella di Parhat Niyaz, rifugiato negli Stati Uniti, offrirà una lente uigura di osservazione, mentre quella di Xu Yuqi il racconto di chi stava dall’altra parte della barricata. Entrambe consentono di toccare con mano la divergenza di cui poc’anzi si è parlato59. Il primo sostiene che a scatenare la rabbia dei separatisti di Gulja/Yining fosse stato un blitz della polizia che aveva portato a numerosi arresti tra il primo e il quattro febbraio. Tra i manifestanti egli annoverava i nomi di una bambina di otto anni che chiedeva semplicemente che il padre venisse rilasciato dalla polizia e quello di una donna incinta che chiedeva la stessa cosa per il marito. Entrambe uccise. Trentamila soldati schierati, un rapporto impressionante di 4:1 per ogni abitante uiguro; il 90% delle famiglie uigure con almeno un familiare in prigione. Nella parte finale dell’intervista rilasciata all’Eastern Turkestan Information Centre60 Niyaz lancia il grido strozzato di chi si sente vittima, dicendo « […]No one is allowed to question what happened, nor to tell outsiders the true story, nor to visit relatives who had been imprisoned in the Yining massacre. People arrested are still held in prison camps, waiting for further instruction from Beijing [...]». Di tutt’altro tono sono le parole di Yuqi, il quale parlava di un

57

Una esauriente presentazione del manifesto succitato si trova in M. Dillon, op.cit., cap.9. 58 “BBC Monitoring online”, 2/1996 (FE 2206).

59 M. Dillon, op. cit., cap. 9.

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piano ben organizzato almeno dal 1995, sotto la direzione di Payzulla, leader del Partito islamico di Allah del Turkestan orientale. Una relazione diversa da altre fonti cinesi che, invece, avevano definito l’accaduto come il «capriccio di una combriccola di drogati, ladri, insomma spazzatura sociale»61. L’inasprimento delle misure repressive con molta probabilità fu dovuto a un cambio di strategia di lotta nelle file uigure. Se fino a quel momento il terrorismo sembrò restare confinato alle mura di casa (se si esclude qualche episodio di violenza registrato a Pechino -che tuttavia il governo centrale ha negato62- il principale palcoscenico dal quale i fatti furono mandati in scena fu lo Xinjiang, dove dalla primavera di quell’anno ci si stava organizzando per una guerra diversa, più invadente e pericolosa, che potesse contare su una solida trama internazionale). La Cina dovette essersene già resa conto se, come traspare dalle parole di Niyaz, mise in guardia il presidente kazako Nazarbayev, dato che Yining si trova a soli 70 km dal Kazakistan. Altri disordini scoppiarono a febbraio di quell’anno ad Almaty, in occasione delle celebrazioni in memoria di Deng Xiaoping, sotto la direzione del gruppo Partito Uiguro per la Liberazione. A marzo sette bombe seminarono il terrore su un autobus nel centro di Pechino63; ad aprile mille persone che provarono a far scappare alcuni ribelli arrestati durante gli scontri di febbraio di Yining vennero bloccati dalla polizia e alcuni uccisi. Poi a ottobre, anche se non si tratta di notizie confermate, ci furono assalti ai funzionari di governo e Pechino fu messa in stato di allerta. Tutto ciò accadeva nel pieno della prima delle campagne “Strike Hard” inaugurate da Pechino l’anno precedente.

III.IV. “The Great iron wall”. La “Controriforma”di Pechino.

L’ultima delle politiche cinesi che ebbero un certo rilievo nel provocare l’escalation di terrore degli anni Novanta furono le campagne “Strike Hard o Yanda”64. La prima fu avviata alla fine di aprile del 1996 (come si è già detto) con l’obiettivo esplicito di reprimere le attività criminali («strike severely at serious criminal offences») ma sotto la veste ufficiale si nascose una lotta alle organizzazioni politiche e separatiste di Mongolia Interna, Tibet e Xinjiang, da dove proveniva il

61

Per quest’altra versione cinese si veda J. Millward, Violent Separatism…, cit., il quale, per maggiori dettagli, rimanda a J. Dautcher, Reading out of Print: Popular Culture and Protest on China’s Western Frontier, in T. Weston and L. Jensen (eds.), China Beyond the Headlines, New York, Rowman&Littlefield, 2000.

62 Per esempio, una esplosione su un autobus nel centro della città nel marzo del 1997.

63 McNeal e Dumbaugh ne attribuiscono la responsabilità al gruppo dei “Wolves of Lop Nor”. In D. McNeal, K. D,

China’s Relations with Central Asian States and Problems with Terrorism, Washington D.C, Congressional Research

Service, 2002. Il leader dell’organizzazione separatista URFET, Mukhlisi, pare sia l’unica altra fonte da cui si può trarre prova dell’esistenza di tale gruppo, che egli definì, quando intervistato, “Tigri di Lop Nor”. Su queste ultime J. Millward rimanda alla consultazione di P. Saint-Exupery, Ouighours: un combat perdu d’avance?, in “Politique Internationale”, n. 75, 1997, pp. 415-23.

64 Yanda è un acronimo che sta per yanli daji yanzhong xingshi fanzui huodong e che vuol dire “campagna per la repressione dei crimini”.

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possibile contagio dei “tre mali” (separatismo, appunto, terrorismo ed estremismo) da cui la Cina si sentiva minacciata. Per quanto riguarda il caso specifico dello Xinjiang, la data decisiva per l’avviamento della campagna antiseparatista fu un incontro che avvenne tra l’8 e il 12 luglio di quell’anno. Il risultato cui si giunse fu l’identificazione di aree precise nelle quali la repressione avrebbe dovuto essere messa in atto, ovvero la prefettura di Korla (della quale fanno parte le contee di Karashahar, Lopnor e Korla città) e quelle di Khotan e Kashghar; inoltre si stabilì che entro dieci giorni si sarebbe deciso chi degli arrestati avrebbe dovuto essere condannato a morte. Il meeting fu molto importante poiché per la prima volta la Cina prendeva atto dei legami internazionali della rete terroristica uigura. Il Segretario del CCP per lo Xinjiang, Wang Lequan, infatti, in quell’occasione aveva parlato di «politica di occidentalizzazione e disintegrazione contro la Cina»65. Ogni anno, fino al 2004, si ripeterono campagne simili, regolate da una direttiva governativa che sanciva il principio del liang ge jiben, noto come “principio delle due basi”. Si trattava di un brocardo regolatore del diritto processuale, in virtù del quale i tribunali erano autorizzati a procedere se in possesso dei seguenti due strumenti: una verità e una prova basilari; due basi, appunto. Dal 1996 al 2004 ci furono dunque almeno altre nove campagne, ciascuna denominata in relazione allo scopo che ufficialmente si diceva di perseguire e qui di seguito elencate:

⁕1997: Rectification of social Order ⁕1998 People’s War

⁕1999 Le campagne furono due, la Special 100 Days Strike Hard Fight e la General Campaign against Terrorism

⁕2000 Focused Rectification of Religious Places Campaign ⁕2001 Strike Hard

⁕2002 High Pressure Strike Hard (fu quella lanciata dopo gli attentati DI New York del 2001) ⁕2003 100 Days Strike Hard

⁕2004 High Pressure Strike Hard( senza un limite temporale di estensione)

Dal 1996 la Cina si era resa conto di quanto la religione stesse iniziando a giocare un ruolo da protagonista nelle manifestazioni e negli attentati che dalla fine degli anni Ottanta avevano paralizzato la politica dello Xinjiang. La prova dell’acquisizione di questa nuova consapevolezza fu

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un documento in tredici articoli rilasciato proprio in quell’anno dalle autorità locali dello XUAR. Vi si stabiliva che nessun libro sull’Islam o periodico portavoce delle istanze delle province sospette sarebbe stato dato alle stampe senza un preventivo controllo da parte del Dipartimento di propaganda del CCP, sia che questi materiali fossero destinati al consumo privato sia che invece fossero destinati alla pubblicazione. Ci fu una stretta severa anche sulle mashrap uigure (generalmente scuole di musica prettamente maschili), che più o meno dal 1994 avevano cominciato a radicalizzarsi, attirando molti giovani alla religione (Islam), come metodo per eliminare la piaga sociale della droga e dell’alcol che affliggeva il corpo sociale dello Xinjiang. Da tempo le scuole islamiche erano sotto l’occhio delle autorità cinesi. Per smantellare questa fittissima rete che era diventata un vero e proprio movimento clandestino, esse si convinsero che bisognasse partire dal basso; iniziando cioè col negare le autorizzazioni ai tornei di calcio, usuali momenti di aggregazione dei giovani frequentatori, ritenuti dalla Cina un pericoloso canale di infiltrazione di idee estremiste. Questa e altre misure, come la confisca di porte da calcio e la loro rimozione da tutti i campi sportivi della città di Yining (la più colpita), furono prese nel 1995, in aggiunta al divieto di praticare tale sport.66. Dall’anno seguente proprio le scuole, le madaris 67 e le moschee divennero il bersaglio preferito delle autorità, in quanto sospettate di essere i principali focolai di diffusione del virus indipendentista. Si agì sui programmi, cercando di instillare nei giovani studenti il valore marxista dell’amore patrio; si sospesero le attività di arti marziali, la waqf68 fu vietata e ai talip fu consentito di pregare solo in luoghi autorizzati dal governo. Braccia di punta della struttura controrivoluzionaria cinese furono i Corpi di produzione e costruzione dello Xinjiang69 poiché, come disse la tv di Urumqi e come riportò uno dei principali giornali della provincia, lo “Xinjiang Ribao”, erano da considerarsi una forza fedele. Queste forze speciali, insieme al corpo paramilitare dei PAP70, ebbero pertanto il compito di preservare la stabilità della “regione” e di presidiarne i

66 J. A. Millward, Violent Separatism…, cit., p. 17.

67 Università di scienze religiose in cui s’insegnano il diritto, la lingua araba, la teologia islamica, il Corano e le tradizioni.

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Consiste nell’elemosina legale (cioè parte delle tasse vengono devolute al finanziamento delle organizzazioni religiose). Essa è uno dei cinque pilastri dell’Islam (‘ibadat, letteralmente “obblighi di culto”); gli altri quattro sono: l’haji (ossia il pellegrinaggio alla Mecca), l’unicità di Dio (o tawhid, riassunta nella formula la ilah illa Allah wa

Muhammad rasùl Allah, ovvero “Non c’è altro Dio all’infuori di Allah e Maometto è il suo Profeta”), il digiuno nel

mese di Ramadan e la preghiera (salat) cinque volte al giorno. Essi costituiscono il “giusto comportamento” che dà accesso al Paradiso, come racconta la leggenda di un uomo che, chiedendo al Profeta se bastasse osservare queste pratiche per ottenere la ricompensa celeste, ottenne come risposta che fosse sufficiente. Da qui nasce la considerazione che l’Islam sia una religione ortoprassi, piuttosto che dogmatica, in M. Campanini, op. cit. Cfr. anche Kaouther Jouaber-Snoussi, La finanza islamica, Un modello finanziario alternativo e complementare, Milano, O/O, 2013, capitoli iniziali e A. Saitta, Dalla Granada mora alla Granada cattolica, Bari, Cacucci Editore, 2006.

69 Cfr. par. I. II, Il grande Giallo maoista, nel testo. 70 Del PAP si è già parlato; per esempio a p. 41 del testo.

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confini71. Stanare i sospetti diventò un assillo costante del Partito comunista tanto da estendere la caccia tra le sue stesse fila72. Il Dipartimento del Lavoro del Fronte Unito del partito organizzò un corso di tre settimane per gli imam con l’obiettivo di indottrinarli sulla struttura del sistema giuridico-legale cinese, affinché avessero chiara la politica del Partito Comunista sugli affari religiosi. Tra le letture propinate ci furono i “Selected Works” di Deng Xiaoping, libri sulla Costituzione e sull’ateismo. Inoltre furono limitati i pellegrinaggi alla Mecca e si perquisirono o ammonirono tutti quelli che tornavano vestendo la moda araba o che si fossero lasciati crescere i baffi73. Per esempio, già nel 1995, in occasione delle celebrazioni per la ricorrenza della nascita della PRC e come alternativa al pellegrinaggio, furono organizzati dei tour di studio e di visita guidata a Pechino. Furono mandati in onda solo programmi tivù che elogiavano figure mitizzate del CCP, di regola persone che avevano sventato organizzazioni e scuole terroristiche, e fu vietata la costruzione di nuove moschee. Il compito di ripulire il partito dai separatisti fu affidato alla Commissione Disciplina e Ispezione, incaricata di punire chi fosse stato sorpreso a partecipare ad attività religiose o chi fosse trovato in possesso di materiale di incitamento all’indipendenza (compresi audio e video, che cominciavano a essere sempre più usati come mezzo di propaganda). Si cominciò a pensare che il problema era stato quella politica del Fronte unito tanto cara a Mao Zhedong74. L’effetto collaterale di integrare i leader religiosi e le minoranze all’interno della Chinese People’s Political Consultative Conference, infatti, aveva alimentato le organizzazioni separatiste, plasmate dalle mani di quegli stessi che poterono sfruttare la loro posizione privilegiata per muoversi inosservati sotto gli occhi del CCP75.

In conclusione, dall’era degli ultimi imperatori Qing fino a quella maoista, Pechino usò perlopiù la politica del bastone per cercare di mantenere il controllo sullo XUAR. Fu Deng Xiaoping a inaugurare la nuova strategia del “do ut des”: se la Cina voleva ottenere qualcosa dallo Xinjiang, allora doveva essere disposta a cedere qualcosa in cambio. Non fu tuttavia per uno slancio di

71 La notizia è stata tratta da M. Dillon, op. cit., pp.85-89. Per la tv e il periodico l’autore rimanda alla “BBC Monitoring”, rispettivamente FE 2067 del 9 maggio 1996, FE 2639 del 15 giugno 1996 e FE 2642, n. 7, 1996.

72

Il “Xinjiang Daily” stimava che il 25% del personale governativo della provincia fosse musulmano e che nelle aree rurali tale cifra arrivasse quasi al 40%. Dopo la stretta repressiva, stando al resoconto delle autorità cinesi, pare che la cifra fosse stata portata al 7%.

73 Nell’intervista a Niyaz (riportata nel paragrafo precedente) egli disse che portare i baffi era diventato sinonimo di coinvolgimento nell’attività separatista.

74 Se ne è già discusso nel par. I.II, Il grande Giallo maoista, nel testo.

75 Sempre in M. Dillon, op. cit., si trovano riferimenti a quanto è stato narrato. In particolare, si suggerisce la lettura delle pp. 91-92, dove si riporta di un articolo apparso sul n. 7 ottobre 1996 della rivista “ Xinjiang Ribao”, in relazione alle conseguenze e agli effetti della campagna antiseparatista. Un aspetto non trascurabile è che il CCP veicolasse, attraverso la televisione, l’idea che nella lotta ai terroristi potesse godere non solo del sostegno della maggior parte degli uiguri ma anche delle repubbliche centroasiatiche, avvicinate alla Cina dal sapiente lavoro diplomatico del presidente Jiang Zemin (di cui si discuterà anche nei prossimi capitoli).

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amorevolezza verso la sua più vasta provincia che la Cina si avvicinò allo Xinjiang ma fu, piuttosto, come sottolineato da Harris, un acuto occhio politico a muoverla in questa direzione. Per Pechino divenne vitale evitare che le vicine repubbliche centroasiatiche tornassero a gravitare nell’orbita sovietica o che fossero avvinte dal fascino delle teorie panturaniche76; perciò decise di dare il via a quella modernizzazione a lungo ritardata in modo tale che, stimolando il progresso economico, avrebbe aumentato lo standard di vita della popolazione locale. Procedendo secondo questo schema, il “Gigante Giallo” sperava di assicurare stabilità a quella turbolenta periferia che, per le sconfinate risorse che possiede, è un terreno di conquista irrinunciabile per un Paese emergente come la Cina. Tuttavia, proprio a Deng si addossava parte delle colpe nel revivalismo terroristico degli anni Novanta, scia incontenibile di quella politica di allentamento del controllo sulle minoranze, e sulle loro attività religiose in particolare, che aveva consentito il passaggio di consegne della bandiera indipendentista dal popolo (protagonista negli anni Sessanta-Settanta) ai terroristi. Perciò, il braccio militare non fu mai veramente ritratto dallo Xinjiang. Se da un lato, dunque, la provincia si vedeva riconosciuti gli stessi diritti delle regioni costiere nel condurre politiche commerciali, dall’altro Pechino non abbassava la guardia. Nella prima metà del 1992 (data di avvio degli accordi economico-commerciali tra Cina ed ex Repubbliche sovietiche) lo Xinjiang aveva raggiunto la cifra di 239 milioni di $ di esportazioni, con una crescita complessiva del 55% rispetto agli anni precedenti, e di 84.8 milioni di $ di importazioni, con un totale di crescita del 120%77. Per lo sviluppo di quel mercato di confine la Cina puntò tutto proprio sullo Xinjiang, del quale sottolineò a più riprese la naturale compatibilità economica con i vicini centroasiatici. Tuttavia, aveva fatto i suoi conti da sola. L’uscita di scena dell’Unione sovietica aveva già dato impulso alla riaccensione delle spinte indipendentiste, contagiando anche il Turkestan orientale, la cui macchina nazionalistica era tornata presto a mettersi in moto. La risposta cinese a quell’insolente “regione” fu allora la vecchia scena di un film già visto, dove l’ingrediente della “politica della porta aperta” verso i mercati stranieri andava ben bilanciato con il giro di vite repressivo sulle minoranze musulmane, se non si volevano rovinare gli affari economici che la Cina aveva già pronti sul tavolo.

76

L. Craig Harris, Xinjiang, Central Asia and the Implications for China’s Policy in the Islamic World, in “The China Quarterly”, n. 133, 1993, pp. 111-129, URL: htttp://www.jstor.org/stable/654241.

77 L. Craig Harris, ibidem. I numeri che l’autrice riporta derivano da statistiche cinesi. Per la Cina fu possibile raggiungere tali cifre grazie al successo della politica commerciale di confine.

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III.V Le organizzazioni nazionalistiche uigure

Dal 1955 lo Xinjiang è una provincia autonoma, con un governatore uiguro; da allora, nessun passo in avanti è stato compiuto e chi de facto ha il vero potere in mano è il segretario regionale del PCC, dal 1994 il cinese han, Lequan. Dei falliti esperimenti degli anni Trenta e Quaranta rimaneva soltanto un revanscismo trasognato che anelava a sganciarsi dalle mani del “conquistatore”. “Il movimento non ha scelta, poiché l’opposizione pacifica è negata”, affermò, quando intervistato, il leader storico del movimento ETIM, Hasan Mahsum78. Sentirsi con le spalle al muro fece nascere il desiderio di guardare in faccia il proprio “padrone” e dirgli, senza timore, che se la violenza era la sola alternativa per provare a essere liberi, allora gli uiguri non si sarebbero tirati indietro. Da quei sogni traditi nacquero gruppi armati di nazionalisti che finirono col creare una capillare rete terroristica, sempre più legata alla vasta rete internazionale del terrore. Di ogni evento si possono rintracciare le cause che lo hanno determinato e i fattori che lo hanno favorito. Pertanto, pare opportuno procedere con un lavoro eziologico sul terrorismo cinese anche in questa trattazione, affinché si abbiano più chiare le logiche che ne hanno guidato “teoria e prassi”79.

Come si diventa radicali?

Nel “decennio delle riforme” guidato da Deng Xiaoping la Cina aprì la sua porta al mondo esterno, guardando con un certo interesse soprattutto ai Paesi islamici. Acquisire quei partner commerciali avrebbe significato poter concludere vantaggiosi accordi economici, per esempio in campo energetico. Ma come poteva attirarli se non convincendoli della tolleranza che il governo usava nei confronti delle minoranze musulmane? Per questo motivo ogni anno la Cina invita i governi di quei Paesi a visitare la numerosa comunità hui che ospita; e non solo. Infatti lascia operare senza grossi impedimenti le numerose organizzazioni islamiche non governative80 e consente anche ai giovani musulmani di frequentare le università cinesi. Tuttavia, si sa che lo scambio è da sempre occasione di incontro e aprirsi a esso vuol dire dover mettere in conto il rischio della trasmissione di idee, pensieri, visioni della vita. E’ esattamente quello che è successo in Cina. Tutte queste persone fisiche o giuridiche cui è stato consentito di operare e risiedere nel Paese sono da tempo ritenute

78 China Muslim group planned terror , in “The NY Times”, 31 agosto 2002.

79 Nell’esposizione si è deciso di seguire l’accurata indagine di Rohan Gunaratna (ed.) in R. Gunaratna, A. Acharya, W. Pengxin, Ethnic Identity and National Conflict in China, New York, Palgrave Macmillan, 2010, cap.4.

80 Tra le più attive spicca la Tabhligi Jamaat, un gruppo di missionari votati alla diffusione dell’Islam nel mondo, usata tra gli altri da Al Qaeda come mezzo di indottrinamento. D. Gladney, Ethnoreligious Resurgence in a Northwestern Sufi

Community, in China off Center: Mapping the Margins of the Middle Kingdom, in S. D. Blume and L. JENSEN (eds.),

University of Hawaii Press, 2002, pp.123-124. Vedi anche Id., Dislocating China,University of Chicago Press, 2004, p. 317.

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coinvolte nello sviluppo delle madaris, considerate ambienti prolifici per la diffusione del radicalismo di matrice islamica.

Lo “scambio” economico-culturale non è sicuramente il solo fattore che gioca a favore del fondamentalismo. Un altro, e non di poco conto, è l’Hajj( in cinese chaojin). Il pellegrinaggio alla Mecca deve essere autorizzato dal governo, che rilascia la necessaria autorizzazione attraverso l’Associazione Islamica di Cina, tra le cui competenze rientrano anche il processo di selezione dei fedeli fortunati, scelti valutandone condizioni psico-fisiche e orientamento politico, oltre che il controllo del numero delle partenze verso la città santa. Tuttavia, anche se sembra sia diventato molto più facile che in passato ottenere il rilascio del passaporto, la fetta di musulmani cinesi che visitano la Mecca resta comunque ancora molto sottile81 rispetto alla media degli altri Paesi islamici la cui popolazione ogni anno va in pellegrinaggio alla Kaaba82.

Non va trascurato, da ultimo, il dato relativo alla diffusione di internet, mezzo al quale sempre più spesso i gruppi terroristici affidano la propaganda e il reclutamento di nuovi adepti83. Il frequente uso dei media è la chiara dimostrazione che non sia impossibile aggirare i controlli cinesi sui mezzi di informazione. In particolare, due sarebbero i canali logistici attraverso i quali il terrore mediatico riesce, nonostante tutto, a scorrere: Hong Kong e la provincia di Guangdong. Da qui le idee estremiste filtrerebbero più o meno facilmente nell’apparentemente impermeabile tessuto sociale cinese.

Fin qui abbiamo parlato di musulmani cinesi come se si trattasse di un’unica comunità sociale. In realtà, in Cina non esistono musulmani e basta. Esistono gli hui ed esistono gli uiguri. L’unica caratteristica che accomuna le due espressioni dell’Islam è l’Islam stesso, la condivisione della stessa religione. Per il resto i primi hanno tratti somatici sinici e sono i musulmani cinesi, i secondi sono turchi e costituiscono una delle minoranze etniche del variegato panorama cinese, che ha la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento giusto84. Gli hui possono fare il pellegrinaggio alla Mecca, vengono impiegati come intermediari nelle relazioni che Pechino sta sempre più

81 http://www.uhrp.org/articles/589/1/Majority-of-Chinas-Muslims-Still-Cannot-Make-it-to-Mecca-/index.html, Uyghur Human Rights Project (Uyghur American Association, 2007).

82 E’il centro della geografia islamica; verso di essa deve essere rivolta la preghiera (salat) del fedele. Consiste in un cubo di pietra (Ka’b in arabo vuol dire cubo) che sorge al centro della Sacra Moschea della Mecca, protetto da un tessuto di broccato in seta nera, con incisioni in oro che riproducono le sure coraniche (il kiswa). Durante il pellegrinaggio i fedeli devono deambulare attorno a essa compiendo sette giri completi (si consideri che ha due lati di 12 metri e due di 10, per un'altezza di 13/15 metri). Per i sufi, espressione maggioritaria dell’Islam cinese, essa è il simbolo dell’Essenza divina.

83 China under the microscope of the Salafia al-Jihadia,15 agosto2007

84 Si allude, com’è ovvio, alla posizione strategica dello Xinjiang, rotta energetica vitale per il cammino del progresso economico cinese.

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frequentemente intrattenendo con i Paesi islamici, l’Asia centrale e i Paesi ASEAN85. Gli uiguri no. In una parola, gli hui sono integrati, pur se non sono mancati episodi di rivolta che li hanno visti opporsi al governo cinese, per gli uiguri l’integrazione è una condizione ancora lontana. A ragione si può quindi affermare che finora la rabbia di entrambi si è sempre sfogata per canali diversi86. E’ chiaro che Pechino gioca bene gli assi che ha nella manica. Creare e alimentare questa divisione può fare comodo poiché laddove manca un comune sentimento di appartenenza, le rivendicazioni restano solo flebili sogni. Tuttavia, Pechino stessa pare proprio non rendersi conto che ogni repressione abbia la sua parte di responsabilità e che l’esclusione sociale sia pericolosa nella misura in cui si porta dietro un forte senso di riscatto. Perciò per la nascita delle cellule terroristiche uigure ha accusato spesso le potenze straniere, una strategia non estranea alla politica del PCC87. Che queste ultime siano legate agli uiguri ha un fondo di verità. In testa alla lista dei Paesi che ospitano il World Uighur Congress88, emblema della diaspora uigura, spicca la Germania. Qualunque sia l’intento che abbia spinto Berlino, come quello di sostenere la politica di Ankara in Oriente (che vuole mettere sotto l’ombrello della sua protezione gli stati falliti, Xinjiang compreso), che la comunità emigréé di uiguri abbia potuto, o possa contare su un solido sostegno in Europa, questo ormai non necessita di ulteriori prove. Non sono fuori dal circuito di tutele nemmeno gli Stati Uniti; Rebiya Kadeer89, per esempio, è cittadina americana e gli americani figurano tra i principali finanziatori del WUC, insieme a Svezia90, Norvegia e Germania. Tuttavia, gli USA non si metterebbero contro la Cina, se non con il rischio di veder implodere la propria economia, che da questa dipende in maniera considerevole. Per tutti gli attori internazionali comunque il terrorismo resta una piaga che provoca dolore. Russia compresa, che per questo motivo è ben disposta a cercare una soluzione con la Cina, dal momento che i terroristi uiguri sono fraternamente legati al terrorismo ceceno di casa. Spinti da queste valutazioni politiche a Shanghai, nel 2001, si cercò di lavorare per trovare una cura. Unirsi per sconfiggere il terrorismo però non bastò e ciascuno preferì lavarsi i panni sporchi a casa sua. Così Bush rimase alle prese con i talebani; Putin continuò a fronteggiare il pericolo ceceno; Zemin non tolse gli occhi dagli uiguri. Se lo avesse fatto, il rischio che si creasse uno Xinjiang indipendente, sarebbe stato troppo grosso; perché se questa eventualità

85 Sta per “Association of South-East Asian Nations”. Si tratta di un’organizzazione fondata nel 1967 da Filippine, Indonesia, Malesia, Singapore e Thailandia con lo scopo di promuovere la cooperazione e l'assistenza reciproca fra i Paesi del Sud- Est asiatico. Dal 1984 al 1999 vi hanno aderito anche Brunei, Vietnam, Birmania, Laos e Cambogia. 86 Per esempio i primi a ribellarsi nel 1864 nel sud Xinjiang furono gli hui. Si veda il par. Gli Ataliq Ghazi , guerrieri

innocui della periferia Qing, nel testo.

87

L. Craig Harris, op. cit., p. 118.

88 Una delle organizzazioni politiche uigure accusate di svolgere attività terroristica di cui si parlerà più avanti. 89Attivista uigura la cui vita viene raccontata nella scheda biografica allegata al presente testo.

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si concretizzasse, la Cina dovrebbe scendere dal carro della vittoria e pure da quello della ricchezza, che da questa provincia dipende oltre modo.

Liberate il Turkestan orientale: ETIM e i militanti uiguri. Una rete del terrore?

Chi combatte pensa di farlo nel giusto, per avere ciò che gli viene negato. Ai separatisti uiguri piace presentarsi come guerrieri della libertà. «Non abbiamo alternative», ha detto Mahsum91. E’ il grido di chi non vede altre possibilità per dire ai cinesi che anche gli uiguri esistono e sono un popolo.Il profilo del terrorismo di matrice uigura nello Xinjiang si ricava da un documento della Pubblica Sicurezza cinese del 2002, che elenca quattro gruppi principali, ovvero ETIM, ETLO, WUYC ed ETIC92. Di ciascuno viene fornita una scheda informativa, tenendo conto dell’evoluzione che il terrorismo ha subito, soprattutto dopo l’11 settembre 2001. Da quella data il fenomeno terroristico cominciò a legarsi all’anello dei “fratelli del jihad globale”, con una trasformazione che riguardò anzitutto la strategia d’attacco e gli obiettivi colpiti. Con una frequenza maggiore che nel passato, anche nello Xinjiang ci si mosse sfruttando la pericolosità degli attacchi suicidi contro i cosiddetti soft targets. Laddove ci sono civili, nei mercati, nelle stazioni, sugli autobus, lì la morte può creare più dolore. Le autorità cinesi sono convinte che il terrorismo jihadista mediorientale abbia cambiato la natura del terrorismo di casa. Addestrati in Pakistan, legati ad Al-Qaeda, molti partiti per andare a combattere in Siria, anche i terroristi uiguri hanno infatti iniziato a colpire fuori dalla Cina93. Kunming, 5 Km dallo Xinjiang, snodo del traffico di droga del noto Triangolo d’oro94. Uno dei simboli della suddetta evoluzione del terrore. Nemmeno per gli uiguri pare esserci più religione, corrotti da un gioco di potere al quale non hanno saputo rifiutarsi di giocare.

91Leader di ETIM.

92 East Turkistan‘s Terrorist Forces Cannot Get Away With Impunity, disponibile ai seguenti URL:

http://english.peopledaily.comcn/200201/21eng20020121_89078.shtml e www. china-un.ch/eng/23949.html. 93

http://www.stratfor.com/analysis/china_evolution_etim.

94 Laos, Cambogia, Myanmar. Cfr. F. Parasecoli, Il Triangolo d’oro: da regno della droga a crocevia politico […]

attraverso cui le province più interne della Repubblica Popolare penetrano i mercati del Sud-Est asiatico, in “Limes”,

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