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CAPITOLO 1 I Nativi Digitali

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Academic year: 2021

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CAPITOLO 1

I Nativi Digitali

1.1 Chi sono i Nativi Digitali? Genesi del termine e del loro “mito”

Con la rivoluzione digitale, in cui c’è stato l’indubbio trionfo della società informazionale, si è diffusa la certezza che si stesse verificando l’avvento di una nuova forma di Homo Sapiens, caratterizzata da una capacità di interagire, ibridarsi e comunicare con le nuove tecnologie da essa portate in maniera sempre più interconnessa.

Tra chi condivide questo tipo di assunto, Lévy (2001, cit. in Ferri 2011a), Longo (2003, cit. in Ferri 2011a), Moriggi e Nicoletti (2009, cit. in Ferri 2011a), Negroponte (1995, cit. in Ferri 2011a) - il quale pensa addirittura che le prossime generazioni saranno talmente “digitalizzate” che si arriverà a parlare di una modificazione “epigenetica” dei loro cervelli - e Ferri (2011a).

Secondo una copiosa letteratura, infatti, il gradino più evoluto della specie umana sarebbe rappresentato da una nuova creatura, una «specie in via di apparizione» (Ferri 2011): i Nativi Digitali.

Chi siano questi Nativi, se esistano veramente e, eventualmente, quali siano le loro particolarità sono temi di un dibattito vivacissimo che ha ormai preso piede un po’ in tutto il mondo, data la portata globale del fenomeno della tecnologizzazione.

L’autore a cui si deve l’invenzione del termine “Nativo Digitale”, destinato ad avere una grande diffusione e fortuna, è lo scrittore Mark Prensky (2001a), il quale salutò l’inizio del nuovo millennio esponendo in un suo articolo intitolato “Digital Natives, Digital Immigrants” la tesi riguardante una nuova generazione di ragazzi che si contrapponeva a quella a essa precedente (quella a cui, in sostanza, appartenevano gli adulti, ovvero gli “Immigrati Digitali”) e che vi si distingueva radicalmente per tutta una serie di caratteristiche peculiari che la rendeva in qualche modo non solo diversa, ma addirittura unica e superiore.

Il diffondersi dei media digitali e l’affermarsi di uno stile della comunicazione orientato all’interazione, alla produzione di contenuti e alla condivisione sono stati, infatti, accompagnati nel corso del dispiegarsi e della rivoluzione digitale, durante gli ultimi 17 anni, dall’affacciarsi di una nuova forma evolutiva dell’Homo sapiens: il Nativo Digitale (Prensky 2001a, p. 1).

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Nonostante il conio di tale appellativo sia stato attribuito al suddetto autore, è doveroso ricordare che, in realtà, non fu lui il primo a scoprire, se non più precisamente a (far) notare e in qualche modo a dichiarare l’esistenza di una nuova “categoria” di ragazzi che stava emergendo di pari passo e come conseguenza dell’affermarsi delle nuove tecnologie.

È possibile infatti osservare che nelle opere di Donald Tapscott e in quelle di Neil Howe e William Strauss sono presenti le descrizioni di alcune “tipologie umane”, nonché numerosi spunti che fanno pensare, in alcuni casi, a delle sorte di Nativi ante litteram, a delle loro anticipazioni.

Nei loro lavori si incorre spesso in termini come NET-Generation (Tapscott 1998), o Millennials (Howe e Strauss 2000) o Generation Y 1, i quali mostrano certamente alcuni tratti comuni con i Digital Natives propriamente detti e che, nel dibattito che si svilupperà negli anni successivi all’apparizione degli articoli di Prensky, la cui eco si fa sentire ancora oggi, costituiranno dei capisaldi di riferimento da affiancare, se non addirittura da contrapporre agli stessi Nativi, per delinearne nella maniera il più precisa possibile e, auspicabilmente, definitoria la natura, le peculiarità, le caratteristiche. Tornando a osservare in particolare il punto di vista di colui che è considerato il vero e proprio padre dei Nativi, ovvero Prensky appunto, è importante ricordare che egli definì tale categoria contestualmente al dibattito sulla trasformazione delle istituzioni educative statunitensi che si erano affermate più di dieci anni prima, affermando che

Gli studenti di oggi non sono più i soggetti per i quali il nostro sistema educativo è stato progettato e sviluppato.

Gli studenti di oggi non hanno subìto, cioè, una trasformazione incrementale come è successo in passato nel succedersi delle generazioni.

Non hanno, cioè cambiato semplicemente il loro gergo, i loro vestiti e i loro sistemi simbolici di riconoscimento appartenenza, così come i loro stili di comportamento. Si è manifestata una discontinuità radicale (Prensky 2001a, p. 1).

Inoltre, essi «hanno trascorso meno di 5000 ore della loro vita a leggere, ma oltre 10000 ore davanti ai videogiochi (per non parlare delle 20000 ore passate davanti alla tv)» (Prensky 2001a, p. 1).

I Nativi, non solo sono molto più diversi rispetto alle generazioni precedenti di coloro che sono stati i loro predecessori, né sono semplicemente cambiati i loro abiti, il loro linguaggio, le mode che seguono, come - si nota - è naturale che accada, ma

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Il termine Generazione Y apparve per la prima volta nell'agosto del 1993, in un editoriale sulla rivista Ad Age, che descriveva i teenager del momento, definendoli come separati dalla Generazione X, a loro precedente (Constantine 2010).

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manifestano qualcosa di speciale dovuto alla totale immersione, fin dalla loro nascita, nelle nuove tecnologie digitali, che vanno dai computer, ai telefoni cellulari, ai videogiochi, ai lettori musicali.

Secondo le parole dell’autore il fenomeno di fronte a cui ci si trova costituisce una sorta di “svolta epocale”, un cambiamento incontrovertibile.

In altre parole, si ha a che fare con una frattura insanabile tra due diverse e quasi opposte per le antitetiche caratteristiche, generazioni, trattate alla stregua di due distinte specie.

La completa immersione in questo nuovo mondo in cui la tecnologia è onnipresente ha permesso ai Nativi di interagire in maniera quasi spontanea e naturale con tutti quegli apparecchi con cui oggi ci si trova sempre più ad avere a che fare senza che essi abbiano incontrato il benché minimo ostacolo nell’approcciarvisi, nello sfruttare appieno le possibilità che offrono.

Resta da comprendere come tutto questo sia possibile.

Secondo il punto di vista di Donald Tapscott, approfondito e articolatosi fino alla stesura, nel 2008, di Growing up digital: how the net generation is changing your World, nel nuovo millennio si è andata creando una nuova “generazione globale”, che si distinguerebbe dalle precedenti per l’essere tendenzialmente più intelligente, più tollerante e sensibile rispetto al diverso e a temi sociali e umanitari, più “veloce” e, in sostanza dunque, migliore di esse in tutta una serie di ambiti, che vanno da quello del lavoro, a quello della politica (Tapscott 2008).

Già nel 1998 Tapscott aveva affermato che i ragazzi erano talmente immersi nei bit da ritenere che tutta la tecnologia attorno a loro facesse parte in qualche modo del paesaggio naturale, perciò la conclusione a cui arriva ricalca quella a cui giungerà Prensky: il costante contatto con le tecnologie digitali determina un loro spontaneo rapportarsi con esse, il quale non si verificherà in maniera altrettanto facile e automatica per i cosiddetti Boomers, nati tra il 1946 e il 1964, o per la Generazione X venuta alla luce tra il 1965 ed il 1976 (Foot 1996, cit. in Tapscott 2008), ma si andrà verosimilmente a delineare una situazione di netto svantaggio, in sostanza, per gli Immigrati di Prensky.

Nel 2004 Wim Veen e Ben Vrakking lanciando il termine “Homo Zappiens”, vollero porre in evidenza alcune, significative e ormai già note caratteristiche delle nuove generazioni, nate e cresciute armate di telecomandi, mouse e cellulari, ma non parlarono di una vera e propria “stirpe” inquadrata sotto rigidi termini d’età, quanto piuttosto un’evoluzione della specie che, darwinianamente, si era modificata in base

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all’ambiente in cui stava crescendo, adattandosi al contesto e, spesso, trasformandolo in base alle proprie esigenze.

Quello che si ha di fronte, dunque, costituirebbe senza dubbio un gradino superiore dell’uomo “tradizionale”, irreparabilmente obsoleto come un vecchio modello di computer: l’Homo Zappiens (Veen e Vrakking 2004) è ormai arrivato.

1.2 Differenze incolmabili?

I Nativi quindi, stando alle considerazioni degli autori appena presentati, sarebbero latori di qualcosa di diverso, contrapposto, superiore rispetto a coloro che in qualche modo li hanno preceduti - genitori, insegnanti o comunque adulti in generale - non nati, come loro, immersi nella tecnologia.

Una prima serie di problemi che si palesa, quindi, si direbbe legata al descrivere e al rappresentare in maniera esauriente questa differenza, allo spiegarla e al modo in cui colmarla.

Se i Nativi, secondo Prensky, presentano come tratto distintivo essenzialmente l’essere “madrelingua” del linguaggio digitale, gli Immigrati sono coloro che, invece, non essendo nati nell’era tecnologica ma essendovi entrati in contatto solo in un secondo momento della loro vita, si trovano a dover interagire con qualcosa che, per quanto possa affascinarli, è percepito comunque come “estraneo” e “altro” da loro. Gli Immigrati infatti, non potendo fare altro che adattarsi all’ambiente in cui si trovano, che è pur sempre in continua evoluzione, incontrano più o meno ostacoli nel farlo e mantengono sempre un caratteristico tratto che li lega a quello che era l’ambiente in cui sono cresciuti, una sorta di legame con il loro passato, che può essere riscontrato, ad esempio, nella lettura di un manuale di istruzioni, anziché ricorrere al learning by doing, tipico dei Nativi.

Per Prensky è come se l’Immigrato tentasse di imparare una nuova lingua diversa dalla sua ma, come mostrano gli scienziati, una lingua appresa in età avanzata, va a collocarsi in una parte diversa del cervello, dunque le possibilità per loro di avanzare in un mondo ormai completamente tecnologico risultano drammaticamente inferiori a quelle che mostra un Nativo (Prensky 2001b).

Risulta interessante notare come tutti gli autori che affrontano questo tipo di questione - quella delle differenze intercorrenti tra Nativi e non-Nativi – e non solo Prensky non si soffermino solamente a osservare che, nonostante differenze generazionali si

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evidenzino più o meno in ogni epoca, le diversità che si stanno manifestando in quella odierna siano in qualche modo più significative delle precedenti.

Come già riscontrato da Prensky, infatti, un elemento notato da più parti è quello relativo a una svolta epocale, che coinvolge in maniera significativa e singolare due poli opposti: chi è Nativo e chi non lo è, ovvero gli appartenenti alle altre generazioni. C’è da dire che spesso i diversi autori che hanno trattato l’argomento nel corso degli anni hanno fatto ricorso a una categorizzazione, più o meno rigorosa, basata su criteri soprattutto relativi all’età, ma non tutti vi si sono affidati ciecamente, preferendo considerare anche altre varianti che potevano in qualche modo influire sul tipo di interazione che andava formandosi tra le diverse classi.

Non è sufficiente tenere in considerazione la sola discriminante dell’età per poter spiegare le differenze tra una categoria e l’altra, ma bisogna tener presente anche di altri elementi.

Per Oblinger e Oblinger

Le nostre esperienze e l'ambiente intorno a noi modellano il nostro modo di pensare, di comportarci e di agire.

Considerate il luogo di nascita.

Se sei nato nel sud, si potrebbe avere un accento del sud, se cresciuto in Canada, si dovrebbe parlare in modo diverso.

Gusti per il cibo e vestiti potrebbero differire, come le abitudini sarebbero e il modo in cui ci si esprime. Noi siamo tutti i prodotti del nostro ambiente e la tecnologia è un elemento sempre più importante di questo ambiente ⦋…⦌ (Oblinger e Oblinger 2005, p. 2.8,2.9).

Con queste parole i due autori ricordano, a dispetto di quanto fanno altri studiosi come ad esempio Tapscott (1998), Howe e Strauss (2000) e lo stesso Prensky (2001a, 2001b), che è difficile e fuorviante fare eccessive generalizzazioni ed è necessario tener conto delle numerose variabili in gioco, prima di lasciarsi ammaliare dal fascino di una troppo banale “categorizzazione”(Oblinger e Oblinger 2005).

Detto ciò, si afferma che esistono fondamentalmente quattro “classi”, cioè i Maturi, i Baby Boomers, la Generazione X e la Net-Generation.

Il primo gruppo, nato tra il 1900 e il 1946, è descritto come la “Greatest Generation”, ha come caratteristica quella del comando e del controllo e quella del sacrificio personale. Ama il rispetto per l’autorità, la famiglia, il coinvolgimento nella comunità, mentre ripudia la tecnologia, odia lo spreco e, parallelamente, l’eccessivo consumismo.

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Essi rappresentano la “Me Generation” (Land 1991, cit. in Oblinger e Oblinger 2005), ottimista e stacanovista, a cui piacciono l’etica del lavoro, la responsabilità, l’attitudine al “ce la posso fare”, mentre detestano la “svolta dei 50” e la pigrizia.

Della Generazione X (1965-1982), o generazione della “chiave con serratura”, sarebbero proprie l’indipendenza e lo scetticismo, amerebbero la libertà, la capacità di multitasking, l’equilibrio casa-lavoro, mentre odiano la burocrazia e la pubblicità esagerata.

Malgrado ciò e al di là di quanto possano risultare suggestive le schematizzazioni, soprattutto per chi intenda studiare un fenomeno che si potrebbe definire antropologico, gli autori ammoniscono, come si è detto, che non è possibile ridurre l’intero fenomeno a una questione di età: le categorie sopraelencate devono servire solo come indicazioni.

Sebbene tali tendenze, infatti, siano descritte in termini generazionali, essa può essere meno importante dell’esposizione alla tecnologia, tanto è vero che, data la sua pervasività nelle professioni e nelle vite quotidiane, la maggior parte degli individui, gradualmente, sta assumendo alcune caratteristiche della Net-Gen, nonostante non ne faccia parte “anagraficamente”.

Il fattore di differenziazione può non essere tanto, dunque, l’appartenenza a una generazione piuttosto che a un'altra rispetto a un altro individuo, ma può essere invece, verosimilmente, più relativo all’esperienza.

La Net Generation2 di cui parla Tapscott con meno pignoleria rispetto alla rilevanza di variabili ambientali, raccoglie coloro che sono nati tra il 1977 e il 1997 ed è chiamata anche Generazione Y o dei Millennials3.

Essa risulta particolarmente importante per l’autore perché è la prima a essere stata avvolta e “inondata” completamente dai bit e quella che si contrappone maggiormente a quella dei Boomers.

Questa differenza abissale che intercorre tra essi è espressione del fatto che questi ultimi avevano trascorso la maggior parte della loro vita a contatto con il “vecchio medium” televisivo e lo avevano utilizzato, peraltro, in maniera essenzialmente diversa rispetto ai Net-Geners, costituendo un mezzo di trasmissione di fronte al quale

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Accanto a loro esiste per Tapscott anche la Next Generation, di cui fanno parte i nati dal 1998 fino ad oggi.

Questa, chiamata anche Generazione Z, potrebbe corrispondere, come fascia d’età, ai Nativi di Prensky ma, come si è detto, è soprattutto alla Net-Gen che si presta attenzione, proprio per il fatto che per l’autore la “svolta epocale” si verifica prima di quanto non accada per Prensky.

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Tale appellativo venne usato per la prima volta da Howe e Strauss nel 1991 nell’opera Generations: The History of America's Future, 1584 to 2069.

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entravano in contatto in maniera passiva, unilaterale, unicamente ricettiva (Foot 1996, cit. in Tapscott 2008).

Il tempo che i Net-Gen passano di fronte alla TV è infatti non solo sicuramente diminuito (Stoler 1984, cit. in Tapscott 2008), ma anche il modo in cui la guardano è diverso (e migliore); i Net-Geners sono in grado di filtrare, scegliere, selezionare le informazioni e i messaggi, e tutto questo avviene in maniera del tutto naturale, spontaneamente.

Neil Howe e William Strauss si occupano principalmente di spiegare l’evolversi della storia (nordamericana) attraverso l’analisi di categorie umane storicamente esistite, esistenti o che esisteranno, tramite la loro osservazione, descrizione e catalogazione. I termini “Millennials” e “Generazione Y”, tra i quali Tapscott non opera nessuna distinzione, si riferiscono in realtà a due entità ben distinte: il secondo di questi è stato coniato direttamente dai membri stessi della generazione, la quale voleva differenziarsi dalla precedente Generazione X (Howe e Strauss 1991, 2000).

Ma le due “classi” appena citate non sono le sole a cui i due autori dedicano attenzione, né sono poste casualmente all’interno della loro opera.

Esse, insieme ad altre, costituiscono infatti snodi fondamentali affrontati nel lungo ragionamento esposto all’interno di uno dei loro lavori principali, Generations: The History of America's Future, 1584 to 2069 (1991), attraverso il quale si viene a delineare una sorta di percorso che descrive in maniera verosimilmente scientifica le specificità delle generazioni che si susseguono nel corso della storia.

In tale opera Howe e Strauss concentrano innanzitutto la loro attenzione sull'impatto di quelli che vengono definiti momenti sociali, cioè eventi critici che comprendono sia crisi secolari, sia i conseguenti risvegli spirituali.

In un momento sociale, la cui durata corrisponde circa a un decennio, gli individui possono imbattersi in alcuni avvenimenti storici che modificheranno radicalmente l’ambiente sociale che li circonda e in cui vivono.

Nello specifico, si hanno crisi secolari quando la società si concentra sul riordino del mondo esterno, delle istituzioni e del comportamento pubblico, mentre i risvegli spirituali, invece, si verificano nel momento in cui la società intende cambiare il mondo interiore di valori e comportamenti privati.

Durante i momenti sociali le generazioni considerate dagli autori come dominanti stanno entrando nella prima età adulta e in quella subito seguente, mentre le generazioni descritte come recessive stanno entrando nella gioventù e nella mezza età.

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Per Howe e Strauss tali etichette devono essere associate a quattro classi generazionali, e cioè quella Idealista, quella Reattiva, quella Civica e quella Adattiva4. Esse, della durata media di circa 22 anni ciascuna, seguendo un ordine fisso, ricorrerebbero nella storia e, una volta che si sia completato il ciclo previsto dal loro susseguirsi, dopo circa 90 anni, si avrebbe l’inizio di uno nuovo, in una sorta di catena infinita di corsi e ricorsi.

Guardando più nel dettaglio, Howe e Strauss descrivono la classe Idealista, come incline a crescere i giovani assecondandoli dopo un periodo di crisi che abbia determinato un risveglio spirituale.

Durante tali periodi si coltivano principi moralistici e si ha la sensazione che gli anziani, che ispirano rispetto, possano guidare gli altri ed evitare successive crisi.

La classe Reattiva cresce i ragazzi in maniera iperprotettiva e, nel corso di un risveglio spirituale, è criticata dai più anziani.

Spesso è composta da adulti alienati che, specie nel corso di una crisi, vengono facilmente persuasi da leader pragmatici di mezza età.

La classe Civica cresce i giovani in maniera sempre più protettiva dopo un risveglio spirituale e, maturando durante una crisi secolare, sostiene un’immagine eroica, anche attraverso la costruzione di solide istituzioni, distinguendosi così in maniera netta da quella Adattiva la quale, durante tali periodi, si occupa dei ragazzi in maniera addirittura soffocante e si forma essa stessa astenendosi dai rischi.

Gli adulti sono conformisti e i leader prodotti sono considerati “arbitri”, eternamente indecisi e incapaci di prendere vere decisioni. Da anziani hanno influenza, ma ispirano poco rispetto.

Detto questo, Howe e Strauss individuano, nel (e per il) 1991, le seguenti categorie:

1) Gi, ovvero gli anziani, nati tra il 1901 ed il 1924

2) Silent, che costituiscono agli adulti di “mezza età”, nati a cavallo tra 1925 e 1942

3) Boomers, odierni adulti, nati tra il 1943 ed il 1960 4) 13er, i giovani, nati 1961-1981

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Nella loro opera The Fourth Turning: An American Prophecy del 1997, i due autori ampliano gli studi condotti precedentemente modificando anche la terminologia che avevano adottato, pur mantenendo ampiamente le caratteristiche già attribuite alle varie categorie: coloro che fanno parte degli Idealisti diventano Profeti, mentre i Reattivi sono ora Nomadi.

La classe Civica è modificata in quella degli Eroi, quella Adattiva si trasforma in quella degli artisti (Howe e Strauss 1997).

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Tali categorie segnano il passare delle generazioni precedenti, che sono quella Missionaria (nata tra il 1860 e il 1882) e quella dei Lost (che va dal 1883 al 1900). Gli autori prevedono l'emergere di una nuova generazione, quella dei Millennials, cioè quella dei nati tra il 1982 ed il 2003, che corrisponderà alla tipologia civica (o eroica)5. Nel definire questa “dinastia”, gli autori ritengono che essi siano nettamente in contrasto con quelli nati prima e dopo di loro, soprattutto a causa dell'attenzione ricevuta da parte dei media e di come siano stati influenzati politicamente (Howe e Strauss 2000).

Rispetto ai loro predecessori sarebbero innanzitutto più ricchi, più educati, più ottimisti e più orientati al lavoro di squadra.

Sembrano seguire più facilmente le regole e accettare l'autorità rispetto a quanto non abbiano fatto i loro genitori alla loro età, i quali vengono superati, naturalmente, anche nell’uso che fanno della tecnologia.

Gli autori affermano che questa generazione risulta essere di maggiori dimensioni rispetto a quella dei Boomers, poiché questi ultimi hanno deciso di aspettare ad aver figli (di conseguenza la Generazione X risulta essere molto più piccola), ma questo non rappresenta certamente l’unico punto di divergenza.

Alla luce di tutto ciò, nel concreto, emerge infatti un altro un nodo fondamentale da sciogliere, ovvero individuare in che cosa consistano le nuove, strabilianti capacità attribuite ai Nativi.

1.3 Identikit del Nativo, caratteristiche e tratti peculiari

Andando ad analizzare le caratteristiche specifiche dipinte da ogni autore che ha trattato il fenomeno dei Nativi, si può notare che tra di esse esiste una certa ricorrenza: se a Prensky si deve il più canonico degli “elenchi” che le riassume, tra cui si trovano la naturale predisposizione alla ricezione di informazioni in maniera veloce e al multitasking6, la predilezione per l’aspetto grafico più che per il testo, quella per un tipo di accesso “casuale” - ovvero di tipo ipertestuale - a un qualsiasi tipo di informazione, la volontà di raggiungere gratificazioni immediate rispetto a quelle “a lungo termine”, l’approccio “giocoso” piuttosto che “serio” verso ogni tipo di attività, un rendimento più

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Vedi nota 3.

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Originariamente il multitasking è stato descritto come la capacità di un computer di svolgere diversi compiti contemporaneamente (Small e Vorgan 2008).

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elevato durante la connessione, altri autori hanno sicuramente, non solo ripreso, ma anche ampliato il suo punto di vista, descrivendo minuziosamente le qualità dei Nativi. La Net-Generation o “Millennials” descritta da Oblinger e Oblinger (2005), stanti naturalmente le loro sopracitate riserve verso le categorizzazioni, è nata tra il 1982 e il 1991 e viene descritta come piena di fiducia e determinata, dedita all’attivismo pubblico, attratta dalle più recenti tecnologie e molto attaccata ai genitori. Di contro, detesta qualsiasi cosa sia lenta e la negatività.

Tapscott, invece, elogia, più pragmaticamente, le capacità di multitasking di cui i Millennials sono innatamente investiti i Nativi, dicendo che esse permettono loro, in primo luogo, di trattare il mezzo televisivo come una fonte di intrattenimento da affiancare ad altri mezzi tecnologici di diversa natura (come cellulari, computers, lettori multimediali) attraverso i quali, simultaneamente, possono comunicare, scambiarsi informazioni e svolgere tantissime altre attività.

La ricerca di informazioni, in particolare, svolge un ruolo fondamentale che serve, tra l’altro, a porre un ulteriore e significativo iato tra loro e i Boomers.

Più precisamente, le otto fondamentali caratteristiche che contraddistinguono secondo Tapscott in maniera inequivocabile questa nuova generazione sono:

1) Libertà, soprattutto di scelta, in tutto ciò che fanno, nel lavoro così come in ogni altro aspetto della loro vita, che può andare dalla semplice decisione tra più canali (televisivi ma non solo), a quella di un nuovo prodotto piuttosto che un altro.

Un altro tipo di libertà di cui si parla è quella di espressione, a cui i Net-Geners tengono in particolar modo e che manifestano in ogni circostanza, sia su blog, sia su Facebook, sia su MySpace o su altre piattaforme, con qualsiasi altro mezzo che sia a loro disposizione

2) Personalizzazione, anche attraverso la creazione di contenuti on-line

3) Collaborazione e rapporti di reciproco aiuto e informazione, che si collegherebbero anche a un nuovo tipo di democrazia

4) Capacità di “scrutamento”, ovvero “di critica”, che si tradurrebbe con un’attenta e acuta osservazione, che riguarda soprattutto i prodotti che le aziende producono in maniera mirata per accaparrarsi la sostanziosa fetta di mercato che rappresenta proprio loro, nuovi e profittevoli acquirenti, nonché detentori consapevoli di un notevole potere di mercato, destinato, peraltro, a crescere

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5) Integrità, intesa soprattutto in ambito lavorativo, ma anche al di fuori di esso 6) Ricerca continua di divertimento

7) Velocità in ogni tipo di rapporto che intrattengono, sia con i propri pari, sia con, eventualmente, superiori sul luogo di lavoro

8) Innovazione

Le sette le caratteristiche altamente rappresentative dei Millennials individuate da Howe e Strauss (2000) alla luce delle considerazioni all’interno della loro opera “storica”, sarebbero invece così riassumibili:

1) Considerati “speciali” dagli adulti7 2) Fiduciosi e ottimisti

3) Orientati al lavoro di squadra

4) Volonterosi di raggiungere un obbiettivo e responsabili 5) Molto istruiti ed educati

6) Costantemente sotto pressione8

7) Convenzionali e “orgogliosi” del loro comportamento in linea con i valori genitoriali

Se poi, secondo il punto di vista di Veen e Vrakking, l’Homo Zappiens, risulta completamente diverso e “alieno” rispetto ai suoi predecessori per aver imparato a pensare in modo non sequenziale e a gestire diverse risorse di informazioni nello stesso tempo, egli lo dimostrerebbe non solo facendo spiccare - sulla scia degli insegnamenti di Prensky (2001a, 2001b) - , le ormai note e fondamentali abilità di multitasking, la preferenza per le immagini al testo - anche e soprattutto per comunicare con i suoi simili - e la predilezione a fare esperienza sul campo anziché attraverso manuali, ma anche attraverso la volontà di essere sempre connesso, ventiquattro ore su ventiquattro e sette giorni su sette, di informarsi tramite cellulari piuttosto che attraverso giornali, di integrare il tradizionale approccio face to face anche con gli amici virtuali.

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In virtù di questo, perciò, sarebbero messi al riparo, fin da subito, da ogni possibile rischio; ciò si manifesterebbe soprattutto con il proliferare di norme di sicurezza e dispositivi approntati per i bambini (Howe e Strauss 2000).

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Questa situazione si tradurrebbe in una volontaria e consapevole spinta che si auto-impongono verso uno studio serio e in una propensione a sfruttare ogni vantaggiosa opportunità che viene loro offerta (Howe e Strauss 2000).

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Oltre a ciò, i due autori evidenziano in maniera significativa che per questa creatura Internet costituisce un vero e proprio prolungamento di se stesso: il “profiling” equivale, di conseguenza, a esprimere la propria personalità in modo creativo.

Amando la condivisione dei contenuti, ritiene, poi, i pari come punti di riferimento e spesso sostituisce con essi le compagnie reali (Veen e Vrakking 2006).

È rilevante osservare come l’ambiente naturale, l’habitat, in cui si muove l’Homo Zappiens corrisponda a quel nuovo spazio (più o meno) “privato” on-line analizzato da dana boyd che gli adolescenti stanno frequentando e sperimentando in cerca di luoghi per riunirsi; questi sono sempre più attraenti, mentre il mondo fisico diventa meno accogliente.

I profili personali che si possono trovare sui siti di social network sono identificati dall’autrice come manifestazioni pubbliche di identità, e costituiscono spazi virtuali dove i giovani sono sempre più liberi di plasmare la propria soggettività e di gestire le loro reti.

Boyd evidenzia che, benché molte delle relazioni che si instaurano in questi luoghi siano in realtà poco profonde, questo processo ha un ruolo importante nel modo in cui gli adolescenti imparano le regole della vita sociale e a far fronte a questioni inerenti allo status, al rispetto, ai pettegolezzi, e alla fiducia (boyd, cit. in Tapscott 2008).

Al di là di ciò, se Veen e Vrakking riprendono da Tapscott in particolar modo soprattutto i concetti che la comunicazione non sia più a senso unico, quello della possibilità di scelta di percorsi diversi, quello dell’importanza della comunità, e quello della “customization”, cioè della personalizzazione dei contenuti (Tapscott 2008), c’è da dire che sicuramente i due autori si distaccano notevolmente da quest’ultimo per quanto riguarda la maniera in cui si descrive questa creatura, dipinta come una sorta di cyborg o androide, anche se in realtà essa non ama la tecnologia in sé per sé come si potrebbe facilmente pensare; l’Homo Zappiens è semplicemente attratto da ciò che questa può consentirgli di fare e cioè, secondo Veen e Vrakking, praticamente tutto. Ancora, parlando di Nativi, certamente in maniera meno sensazionalistica di quanto non facciano i due autori appena citati per il loro Homo Zappiens, ma senza dubbio comunque con molto entusiasmo, Henry Jenkins individua undici “tratti peculiari” riferiti a essi, che sono:

1) Gioco, cioè la capacità di fare esperienza di ciò che ci circonda come forma di problem solving

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2) Simulazione, cioè l’abilità di interpretare e costruire modelli dinamici dei processi del mondo reale

3) Performance, ossia l’abilità di impersonare identità alternative per l’improvvisazione e la scoperta

4) Appropriazione, cioè quell’abilità che permette di campionare e di miscelare contenuti mediali e dar loro significato

5) Multitasking, che consente di scansionare l’ambiente e di prestare, di volta in volta, attenzione ai dettagli percepiti come di maggiore importanza

6) Conoscenza distribuita, che agevola l’interazione con strumenti che favoriscono il miglioramento delle facoltà mentali

7) Intelligenza collettiva9, che favorisce un confronto di opinioni diverse in vista di un obiettivo comune (Levy 1994, cit. in Jenkins 2009)

8) Giudizio, simile a quella capacità critica ravvisata da Tapscott

9) Navigazione transmedia, cioè la capacità di seguire un flusso di informazioni attraverso molte, diverse piattaforme

10) Networking, ovvero saper cercare, selezionare, lasciare informazioni

11) Negoziazione, che è «l’abilità di viaggiare attraverso differenti comunità, riconoscendo e rispettando la molteplicità di prospettive e comprendendo e seguendo norme alternative» (Jenkins 2009, p. 166)

Se, tuttavia, le caratteristiche appena elencate sono tutte fondamentali per identificare un Nativo, quella che per Jenkins, probabilmente, lo contraddistingue maggiormente è l’intelligenza collettiva, elemento legato a doppio filo con la nozione, importantissima per l’autore, di cultura partecipativa.

In relazione a quest’ultima, infatti, si sostiene che

L’inter-attività è una proprietà della tecnologia, mentre la partecipazione è una proprietà della cultura.

La cultura partecipativa sta emergendo man mano che la cultura assorbe – e reagisce – all’esplosione delle nuove tecnologie mediali che rendono possibile, per il consumatore medio, attività come l’archiviare, il commentare, l’appropriarsi e il rimettere in circolo contenuti mediali in nuovi e potenti modi ⦋…⦌ (Jenkins 2009a, trad. it. p. 69).

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Per George Pór, autore di The Quest for Cognitive Intelligence, essa consiste nella «capacità di una comunità umana di evolvere verso una capacità superiore di risolvere problemi, di pensiero e di integrazione attraverso la collaborazione e l'innovazione» (Pór 1995, cit. in Wikipedia).

È possibile individuare fra i primi autori che hanno fatto esplicito riferimento all'idea di una intelligenza collettiva in questo senso generale, H.G. Wells con il saggio World Brain, Pierre Teilhard de Chardin con il concetto di noosfera, Herbert Spencer con il trattato Principi di sociologia (Wikipedia).

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18 Inoltre

Concentrare l’attenzione sull’ampliarsi dell’accesso alle nuove tecnologie non ci porta lontano se non pensiamo anche a promuovere le competenze e le conoscenze culturali necessarie per utilizzare questi strumenti per raggiungere i nostri scopi⦋…⦌( Jenkins 2009, trad. it. p. 66).

La nuova cultura della fruizione attiva dei media nasce in risposta al diffondersi delle tecnologie digitali e alla diffusione della connettività di rete e delle pratiche del social networking che Internet consente.

È evidente quanto essa sia potente soprattutto tra le generazioni più giovani che desiderano essere “presenti e visibili” on-line e, allo stesso tempo, cooperare, essere coinvolti dagli amici nelle loro esperienze e comunicare all’interno di community, che rappresentano la rete informale di relazione tra i Nativi.

La cultura partecipativa è dunque

⦋…⦌ una cultura con barriere relativamente basse per l’espressione artistica e l’impegno civico, che dà un forte sostegno alle attività di produzione e condivisione delle creazioni digitali e prevede una qualche forma di mentorship informale, secondo la quale i partecipanti più esperti condividono conoscenza con i principianti.

All’interno di una cultura partecipativa, i soggetti sono convinti dell’importanza del loro contributo e si sentono in qualche modo connessi gli uni con gli altri ⦋…⦌(Jenkins, 2009, trad. it. pag. 53).

Essa presenta una serie di caratteristiche che Jenkins individua in:

1) Affiliazione, cioè l’essere utenti delle community on-line in maniera formale e non

2) Espressioni creative, che comprendono il produrre forme nuove di creazioni, come il sampling digitale o i mash-up

3) Problem solving collaborativo, ossia il collaborare insieme in maniera formale o meno per ottenere mete comuni e sviluppare conoscenze nuove (es. Wikipedia)

4) Circolazione, che consiste nel modellare il flusso dei media, così come avviene con il podcasting oppure con i blog

Per i Nativi Digitali i contenuti generati dal basso e quelli generati dall’alto si fondono, si contaminano, incarnando perfettamente lo spirito della cultura partecipativa e andando

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a collegarsi con quello che Jenkins, all’interno della sua teoria della convergenza, definisce come produsage (produzione e uso).

Questo consiste in un nuovo circuito di produzione e fruizione che necessita tuttavia di una nuova forma di media education, affinché si superi la barriera che le nuove tecnologie e il loro uso da parte dei Nativi stanno creando tra le diverse generazioni (Jenkins 2009).

Proseguendo, l’autore sottolinea che le tecnologie digitali, avendo incrementato la possibilità degli utenti di scegliere e, in una certa misura, controllare i media, hanno reso possibile la partecipazione e la creazione di nuovi contenuti e, successivamente, la genesi di nuovi formati mediali, come avviene su YouTube o sulle applicazioni Wiki, pertanto «⦋…⦌ ognuno sa qualcosa, nessuno sa tutto e ciò che ogni persona sa potrebbe essere sfruttato da parte del gruppo nel suo complesso ⦋…⦌» (Ferri 2011, p. 69).

I Nativi sono dunque certamente coinvolti in un progressivo processo di creazione di una “sfera pubblica digitale”, questo tuttavia presenta delle caratteristiche diverse da quella della modernità descritta da Habermas.

Abbiamo a che fare, infatti, con un tipo di sfera pubblica fondata non sulla società (Gesellschaft) di individui che compongono una comunità nazionale, ma di “sfere pubbliche” che si fondano sulla “comunità” (Gemeinschaft) e che si ancorano sul Web in base a reti di affinità.

Anche per Paolo Ferri i Nativi amano condividere e creare la conoscenza (ad esempio facendo uso di applicazioni Wiki) e, in generale, comunicare.

Egli, osservando che rispetto al passato l’utilizzo di Internet in mobilità è aumentato notevolmente, sottolinea che la diffusione di dispositivi mobili e reti wireless ha permesso a bambini e adolescenti di entrare in contatto con la Rete in maniera più autonoma e non strettamente vincolata alla presenza di tecnologie in casa, dove la presenza genitoriale poteva (e può) costituire un ostacolo alla navigazione.

Come conseguenza, in accordo con quanto appena affermato riguardo a Jenkins, il fenomeno che si sta presentando rappresenta proprio il nascere di quella che è la nuova cultura partecipativa (Jenkins 2009a): prorompente già nei primi anni di vita di un bambino, si manifesta non appena mette le mani sul suo primo “schermo interattivo” che solitamente non è quello del PC ma, sempre più spesso, si tratta di quello di un cellulare – magari quello dei genitori - o di una consolle portatile.

Basta infatti guardare un bambino giocare con Nintendo DS o con le applicazioni “game” per il cellulare, l’IPhone o l’IPad per comprendere come l’esposizione dei piccoli ai media

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digitali inizi sempre più presto e come l’uso di questi strumenti sia da loro appreso attraverso il modeling e l’imitazione dell’utilizzo che di questi strumenti fanno i loro genitori ⦋…⦌(Jenkins 2009, p. 23).

La condivisione di contenuti con i pari e l’approccio open source agli oggetti culturali che mostrano mettono in evidenza un fenomeno che ormai si potrebbe definire mainstream.

Ma ciò non basta.

Essi, indubbiamente, preferiscono il codice digitale rispetto a quello alfabetico sfruttato dagli Immigrati, prediligono un apprendimento non lineare e di tipo multitasking e che avviene con l’ausilio di giochi, nonché tramite l’esternalizzazione, piuttosto che attraverso un processo riflessivo, tipico dei Gutenberg natives10 (i “figli del libro”). Essi non si affidano all’autorialità di un testo, ma alla multicodicalità, inoltre utilizzano un learning by doing spesso inconsapevole e in qualche modo per loro scontato. L’atteggiamento con cui si rapportano ai nuovi media risulta più pragmatico e personalizzato e questo tipo di approccio si riflette naturalmente anche sulle diverse aree di esperienza sociale e comunicativa.

I Nativi adorano esplorare, connettersi, navigare.

Tuttavia limitarsi a elencare tali caratteristiche non basta.

Secondo Ferri per comprendere appieno la realtà dei giovani in questione è necessario compiere un ulteriore passo avanti, che consiste innanzitutto nell’individuare un’altra grande differenza, oltre a quella già rilevata tra Nativi e non, in considerazione dell’età, a cui si è fatta corrispondere la loro intera categoria, la quale in realtà per l’autore richiederebbe un’ulteriore suddivisione, dato che, anche all’interno di tale classe si registrano differenze, spiegabili appunto soprattutto sulla base di un simile criterio. Muovendosi da queste considerazioni Ferri individua tre tipologie differenti di Nativi Digitali, tra le quali spesso si può creare confusione e che devono perciò essere opportunamente distinte affinché si possa inquadrare in modo preciso il fenomeno:

1) Nativi Digitali Puri, la cui età è compresa tra gli 0 ed i 12 anni 2) Millennials, tra i 14 ed i 18 anni

3) Nativi Digitali Spuri, tra i 18 ed i 25 anni

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Alcuni autori definiscono come confine tra la generazione dei Nativi e quella che Ferri chiama Gutenberg natives il 1985, anno i cui si ha la diffusione su larga scala nei paesi sviluppati del PC e, insieme a questo, dei sistemi operativi ad interfaccia grafica (Ferri 2011a).

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A quest’ultimo sottogruppo corrisponderebbero gli studenti universitari che costituirebbero una categoria un po’ particolare e “ibrida”, in quanto il loro uso del Web è ancora parzialmente “analogico” e molto legato a un tipo di Web 1.0. I dati utilizzati da Ferri dicono che essi navigano tantissimo in Internet, quasi tutti utilizzando la banda larga e che usano sempre più il cellulare, prevalentemente per inviare sms, foto e video, mentre lo sfruttano ben poco per accedere alla Rete (Ferri 2011a).

Non guardano quasi più la televisione, sentono poco la radio e continuano a non leggere, né libri, né e-book, a esclusione di quelli che studiano.

Le loro caratteristiche, quindi, sono ben diverse da quelle dei Nativi Puri, gli unici, effettivamente, a essere stati immersi nella tecnologia fin dalla loro nascita e che rappresentano coloro ai quali viene diretta l’attenzione dell’autore - e, a conti fatti, anche di tutti gli altri precedenti studiosi - , costituendo, pertanto, la sola categoria a cui riferire inequivocabilmente tutte le qualità attribuite, fino ad allora, in maniera forse troppo semplicistica, all’intera classe.

1.4 Le prove sull’esistenza dei Nativi

Dopo aver fatto una carrellata dei maggiori e più noti esponenti (e difensori) della specie dei Nativi, i quali si sono impegnati a definirne le caratteristiche e le particolarità, è facile notare quanto alla fine, al di là delle differenze specifiche rilevate da ciascuno di essi riguardo a loro, si possano riscontrare alcune principali caratteristiche ricorrenti, estremamente esemplificative e da tenere in considerazione proprio come elementi imprescindibili con cui poter identificare un Digital Native.

Resta tuttavia da provare se essi, come hanno sostenuto numerosi altri autori, esistano veramente e, in tale eventualità, se tutte le affermazioni che li riguardano corrispondano alla realtà o meno.

Per supportare le tesi circa la loro effettiva esistenza, ad esempio, Prensky si basa su evidenze scientifiche, oltre che su constatazioni empiriche per le quali, non solo gli studenti del 2001 pensano ed elaborano le informazioni in modo completamente diverso dai loro predecessori, ma tipi diversi di esperienza condurrebbero alla formazione di strutture cerebrali diverse; è perciò probabile che i cervelli degli studenti siano fisicamente mutati – e migliorati - rispetto a quelli degli adulti (Prensky 2001a). Le prove addotte a supporto della suddetta tesi, secondo cui i Nativi avrebbero un cervello più “evoluto” rispetto a quello degli Immigrati, provengono dalla neurobiologia,

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dalla psicologia e dalla sociologia, nonché da studi condotti su bambini che utilizzano giochi per l’apprendimento.

In primo luogo, gli studi di neurobiologia dimostrerebbero che il cervello umano si modifica per tutto il corso della vita (Caine e Caine 1991, cit. in Prensky 2001b) ed è soggetto a un continuo “rinnovamento” e “adeguamento” che avviene in base agli stimoli provenienti dall’esterno, diversamente da quanto si riteneva fino a poco prima. Si abbandona dunque l’obsoleta idea che, invecchiando, le cellule cerebrali muoiano (Perry 2000, cit. in Prensky 2001b).

Il fenomeno di neuroplasticità appena descritto si associa a quello della malleabilità, trattata dalla psicologia sociale.

Se i modelli di pensiero individuali variano a seconda delle esperienze che si vivono e le differenze culturali possono dettare ciò che si pensa, le strategie e i processi di pensiero, tra cui il processo di ragionamento logico e il desiderio di comprendere le situazioni e gli eventi in termini lineari di causa-effetto, sono gli stessi per tutti.

La teoria della malleabilità scardinerebbe quest’ultimo assunto, affermando che l’ambiente e la cultura in cui si è immersi e in cui si cresce plasma molti dei processi di pensiero (Luria 1963, cit. in Prensky 2001b).

Gli input diversi a cui persone diverse si sottopongono determinano, quindi, una differente struttura cerebrale e differenti capacità; rispetto ai Boomers, che hanno avuto come maggior stimolo quello della TV, i Nativi hanno a che fare, inevitabilmente, con qualcosa che li costringe all’interattività, all’alta velocità, a tutti quei frequenti stimoli a cui un semplice spettatore televisivo non è sottoposto.

Le loro menti, insomma, si conformerebbero in maniera “ipertestuale” (Winn 1997, cit. in Prensky 2001b).

Detto questo, le prove sulla loro esistenza appaiono, secondo Prensky, indiscutibili e quelle sulle loro doti scientificamente documentate ma, nonostante ciò, saranno così numerosi gli attacchi relativi all’attendibilità effettiva di tali risultati11, che nel corso

dell’intero dibattito si renderà sempre più necessaria la presentazione di ulteriori e sempre più documentate ricerche per sostenere le diverse prese di posizione.

Tra le più celebri citate dai sostenitori dei Nativi figurano quella utilizzata da Jenkins all’interno del suo libro (2009), cioè quella della Fondazione McArthur, il progetto di ricerca “Digital Natives” del Berkman Centre for Internet Society di Harvard, il Project New Media Literacies (NML) della MacArthur Digital Media and Learning Initiative, il progetto MIT Comparative Media Studies Program (a cui ha contribuito lo stesso

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Jenkins), le numerose ricerche “teenager natives USA” del Pew Internet & American Life Project - in particolare la ricerca dedicata ai Millennials (Ferri 2011b), e la ricerca OCSE- PISA “New Millennium Learners”, la quale dimostra come l’uso delle tecnologie a casa (più che a scuola) migliori gli apprendimenti e renda più “brillanti” i digital kids (Pedró 2006, 2009, cit. in Ferri 2011b).

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