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Capitolo 1 : Imputabilità 1.1 Definizione del concetto

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Capitolo 1 : Imputabilità

1.1 Definizione del concetto

“Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. E’ imputabile chi ha la capacità di intendere e volere”( Art.85 c.p.).

L’imputabilità rappresenta la condicio sine qua non affinché l’autore di un fatto preveduto dalla legge come reato possa essere considerato un soggetto punibile.

La corretta valutazione dell’imputabilità fisica del soggetto necessita dell’esistenza di un nesso di causalità materiale tra una certa condotta e l’evento dannoso, la sua inesistenza rende inutile la valutazione giuridica del comportamento in esame e della personalità di colui che l’ha posto in essere. La presenza di tale nesso rappresenta il presupposto necessario al fine della successiva indagine inerente l’imputabilità psichica del reo, ovvero la sua capacità di intendere e di volere, di discernere il significato antigiuridico del suo comportamento; a cui non può non essere associata la prova della colpevolezza del reo, intendendo con tale termine la coscienza e volontà dell’azione. Mentre l’imputabilità del soggetto è presunta e può essere esclusa solo in presenza di determinate situazioni patologiche o fisiologiche, la sua colpevolezza (e di conseguenza la sua responsabilità penale) va sempre dimostrata e può essere diversamente fondata.

1.2 “Elemento psicologico del reato”: la colpevolezza

La colpevolezza è l’elemento di riconducibilità del crimine alla sfera psichica del suo autore, sotto forma di dolo colpa o preterintenzione, è posta su un piano diverso dall’imputabilità, potendo un soggetto aver agito con dolo ma non essere imputabile, come nel caso di un minore, o del folle che in preda ad un raptus possiede la coscienza,in quanto sveglio e cosciente, e la volontà di uccidere, ma di certo non possiede la capacità

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di comprendere il disvalore sociale delle azioni che compie e che in un momento di sanità mentale non avrebbe desiderio di realizzare3. Diventa perciò evidente come la coscienza e la volontà dell’azione siano completamente disgiunte dalla capacità di intendere e volere. I fondamenti della colpevolezza sono ben esplicitati nell’Art. 43 c.p. :

“Il delitto è doloso o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso , che è il risultato dell’azione o dell’omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione o omissione; è preterintenzionale o oltre l’intenzione quando dall’azione o dall’omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente; è colposo o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline…” ).

Bene si evincono dunque i concetti di dolo, preterintenzione e colpa. Il delitto è volontario o doloso quando colui che lo commette ha coscienza e volontà dell’azione e coscienza e volontà dell’evento che si verifica come conseguenza diretta della sua condotta, il soggetto opera in seguito all’elaborazione di un progetto che ha in sé mentalmente rappresentato, consapevole dell’illiceità del suo atto, del senso di esso, e della volontarietà dello stesso. Il delitto preterintenzionale si configura quando il soggetto ha si coscienza e volontà di mettere in atto una condotta lesiva, ma le conseguenze dannose che ne derivano sono di portata e gravità maggiore rispetto a quelle mentalmente elaborate dal suo esecutore. Infine il delitto è colposo quando nel soggetto sono presenti coscienza e volontà dell’azione ma non intenzionalità di produrre l’evento, quest’ultimo si verifica indipendentemente dalla volontà del soggetto stesso, a causa di inosservanza di leggi, regolamenti, ordini (si parlerà in questo caso di colpa specifica), o per assenza delle competenze tecniche alla messa in atto di una specifica azione (o imperizia), o per

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l’assunzione di un atteggiamento passivo nei confronti di obblighi e doveri conseguente a trascuratezza (o negligenza), o per incapacità a soppesare o prevedere le possibili conseguenze dannose del proprio comportamento (o imprudenza),( si parlerà in questi tre ultimi casi di colpa generica).

1.3 Capacità di intendere e volere

Il Codice Penale nell’Art.85, in precedenza riportato, subordina l’acquisizione di imputabilità al possesso sia della capacità di intendere che di volere; si considera l’intendere come il discernere rettamente il significato, il valore , le conseguenze fattuali, morali e giuridiche delle proprie azioni. Si tratta in sostanza del possesso delle facoltà cognitive, di comprensione e anche di previsione. La non conoscenza di una legge penale, così come riportato dall’Art.5 c.p. , è cosa ben diversa dal non intendere, non esclude perciò l’imputabilità del soggetto.

Il volere si definisce come il libero autodeterminismo in vista di uno scopo, la possibilità di optare per una condotta e di resistere agli stimoli4; con tale termine non ci si riferisce dunque all’atto di volontà concreto, ma all’idoneità del soggetto di volere quel comportamento e quelle conseguenze.

Poiché nell’individuo considerato normale il comportamento è sempre l’espressione della sua personalità in toto e non di una qualche funzione psichica nello specifico, è conseguenza logica sia ritenere non valutabili separatamente la capacità di intendere da quella del volere, sia andare a considerare il quadro personologico complessivo dell’autore del reato. In relazione a quest’ultimo punto va comunque precisato che se il giudice dovesse sempre tener conto della personalità e della complessità psichica individuale, dovendo ogniqualvolta ricorrere a un’indagine preliminare sulla imputabilità del reo, si troverebbe spesso in grande difficoltà nel decretare l’applicabilità delle norme

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e la conseguente sanzionabilità del soggetto. Essendo però dovere della legge penale reprimere la criminalità e prevenire la realizzazione di altri reati, ne deriva essere compito del giudice non quello di comprendere il reo, bensì di punirlo; la funzionalità deterrente della legge deve avere valore a prescindere dalla normalità psichica o dalla preparazione culturale del singolo, al fine di garantire una condotta adeguata alle regole della vita sociale. La capacità di intendere e volere è però importante ai fini della funzione rieducativa della pena, in quanto quest’ultima finirebbe per non avere alcuna ripercussione psicologica e conseguentemente comportamentale sul soggetto che non possegga le funzioni cognitive tali da comprendere il valore intimidatorio della stessa nei confronti della messa in atto di una condotta criminosa.

1.3.1 Cause di esclusione dell’imputabilità

In virtù di quanto sopra riportato, nel soggetto adulto che ha più di 18 anni l’imputabilità è sempre presunta dal codice e quindi ne viene sempre data per scontata la sussistenza. Potrà essere necessario valutare caso per caso l’eventuale esistenza di gravi infermità tali da escludere (vizio totale) o scemare grandemente (vizio parziale di mente), la capacità di intendere o di volere del soggetto, nel momento in cui è stato commesso il reato.

Al di sotto del diciottesimo anno di età, va fatta una ulteriore distinzione: per coloro che hanno meno di 14 anni sussiste sempre la presunzione assoluta della non imputabilità, per coloro che hanno un’età compresa tra i 14 e 18 anni non sussiste né presunzione di non imputabilità né presunzione di imputabilità, essa va accertata caso per caso.

In definitiva, mentre per l’adulto le condizioni di intendere e volere possono essere messe a repentaglio da una condizione di infermità, concetto che esamineremo in maggiore dettaglio in seguito; per il minore le cause di esclusione possono essere non solo di tipo patologico ma anche fisiologico. E’ d’obbligo valutare in questo soggetto la

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cosiddetta maturità psichica, ovvero la capacità di autocontrollarsi e inibirsi al momento giusto resistendo a pulsioni istintive senza farsi condizionare da fattori emotivi, capacità che può essere fisiologicamente insufficiente compatibilmente con la giovane età, in cui non si è ancora raggiunto uno sviluppo intellettivo e un livello educativo tali da assicurare il controllo delle emozioni. Per il corretto accertamento di tale maturità/immaturità la legge impone il ricorso a indagini speciali di ordine psicologico, che tengano conto della personalità del minore, del suo grado di istruzione, della preparazione etica e spirituale, dei sentimenti, delle inclinazioni, del carattere, ma anche di fattori esterni quali le condizioni socio-ambientali e familiari nelle quali il minore è vissuto5 .

1.3.2

Concetto di infermità e sua evoluzione nel tempo

Come accennato in precedenza, il Codice Penale distingue tra il vizio parziale e totale di mente: Art.88 Vizio totale di mente - “Non è imputabile chi, nel momento in cui ha

commesso il fatto, era per infermità in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere”; Art.89 Vizio parziale di mente - “Chi nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere e volere, risponde del reato commesso; ma la pena è diminuita”. In questi articoli non è specificato che si debba trattare di un’infermità

psichica, va dunque considerata anche quel tipo di infermità fisica che condizioni le funzioni psichiche dell’intendere e del volere.

L’elaborazione di tale concetto è frutto di un’evoluzione legislativa a partenza dal diritto romano fino all’attuale Codice Rocco. Già nel diritto romano per l’appunto, in aderenza alla dottrina ippocratica, i “furiosi” e i “fatui” che si fossero resi responsabili di reati erano esenti da punizioni, la “fatuitas” era assimilabile al difetto di intelligenza; nella legislazione giustinianea compaiono accanto al termine di fatuitas, anche quelli di

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“dementia”, “insania”, “mania”, “amentia”, tutte situazioni che comportavano impunità per l’eventuale delitto. Il diritto penale germanico, in seguito, fu l’unico a considerare responsabili anche i malati di mente; successivamente all’anno 1000 tornerà in auge il principio “dell’irresponsabilità del folle”, rifacendosi al vizio di intelletto o della volontà. Nel 1810 il Codice Napoleonico stabilirà nell’Art.64 che “Non esiste né crimine né

delitto allorché l’imputato trovasi in stato di demenza al momento dell’azione, ovvero vi fu costretto da una forza alla quale non potrà resistere”. Con l’Unità viene esteso

all’Italia il Codice penale di S.M. il Re di Sardegna che a proposito dell’imputabilità stabiliva: Art.94 “Non vi è reato se l’imputato trovasi in stato di assoluta imbecillità, di

pazzia, o di morboso furore quando commise l’azione, ovvero se vi fu tratto da una forza alla quale non poté resistere”. E’ solo nel 1889 con il Codice Zanardelli che compare la

definizione di “stato di infermità mentale”, (Art.46 “Non è punibile colui che, nel

momento in cui ha commesso il fatto, era in tale stato di infermità di mente da togliergli la coscienza o la libertà dei propri atti”), ripresa ed estesa negli artt.85-89 dell’attuale

Codice penale in precedenza riportati6.

L’utilizzo del termine “infermità” da parte del legislatore non è casuale ma del tutto intenzionale, al fine di inglobare in esso non questa o quella malattia, ma il più vasto insieme di cause patologiche che possano avere conseguenze sulla capacità dell’intendere e del volere al momento del fatto, condizione questa di interesse giuridico al di là per l’appunto delle varie classificazioni nosografiche di competenza puramente medica. Si evince dunque che la stretta correlazione tra infermità di mente e causa patologica in grado di alterare i processi intellettivi o volitivi, con esclusione o grande diminuzione delle capacità a fondamento dell’imputabilità, consente di ritenere ininfluenti ai fini della punibilità del reo qualsiasi altra anomalia non dipendente da infermità e relativa alla sfera del carattere e del sentimento. Tali cause patologiche inglobano le psicosi più gravi per

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ciò che riguarda il vizio totale di mente, a differenza delle oligofrenie che a seconda del grado possono essere compatibili anche con l’imputabilità piena, così come le nevrosi che possono indurre ad una riduzione delle capacità intellettive e volitive ma mai alla loro perdita completa7; le insufficienze mentali gravi e medie vengono annoverate nell’ampio quadro delle infermità configuranti il vizio di mente totale o parziale, così come le “reazioni abnormi” qualora siano caratterizzate da frattura evidente rispetto alla normale condotta di vita del soggetto e da compromissione dello stato di coscienza, amnesia retrograda, disturbi dispercettivi, idee prevalenti o deliranti non indotte da sostanze alcoliche o psicoattive. Nello specifico tali reazioni non rientrano nel semplice status di stati emotivi e passionali che, ai sensi della’Art.90 c.p., non escludono né diminuiscono l’imputabilità, ma trattasi di vero e proprio squilibrio mentale tale da obnubilare e attenuare la coscienza e da paralizzare in toto e notevolmente i freni inibitori e , con essi, la volontà ( Cassazione 6/12/72 ).

E’ infine di relativamente recente acquisizione, in seguito a pronuncia n° 9163 del 25 gennaio 2005 delle Sezioni Unite, cosiddetta “Sentenza Raso”, che anche i disturbi di personalità costituiscano infermità penalmente rilevante : possono costituire causa di esclusione o limitazione dell’imputabilità anche anomalie del carattere di tipo non patologico, a condizione però, “che il giudice ne accerti la gravità e l’intensità, tali da

scemare grandemente o escludere la capacità di intendere e volere, e il nesso eziologico con la specifica azione criminosa”. In tale sentenza si traccia dunque la distinzione

definitiva tra malattia mentale intesa come stato patologico transitorio e infermità come permanenza di tale stato, tale che possono essere annoverati tra i malati di mente anche i soggetti affetti da psicopatie e nevrosi o altre psicopatologie, a condizione che si manifestino con intensità tale da connotare una vera e propria malattia mentale.

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1.4 Accertamento di imputabilità e pericolosità sociale

Appurato il concetto universalmente riconosciuto secondo cui non è punibile qualsiasi soggetto in cui vengano meno i fondamenti dell’imputabilità, il metodo attraverso il quale si esplica tale giudizio non appare uniformemente validato, ma segmentato in tre diversi modelli che risentono dell’influenza culturale dei Paesi in cui sono stati elaborati e adottati :

- Metodo puramente psicopatologico o biologico puro, secondo il quale non sono imputabili i soggetti affetti da determinate malattie mentali, senza valutare quanto la malattia incida sulla capacità di intendere e volere; tale metodo adottato dal codice penale norvegese è stato spesso criticato per l’automatica assimilazione tra malattia mentale e incapacità di intendere e volere;

- Metodo puramente normativo o puramente psicologico, interessa solo la eventuale incapacità di intendere e di volere, indipendentemente dall’accertamento di una malattia di mente, risulta pochissimo diffuso poiché risulta pericoloso valutare la capacità di autodeterminarsi del tutto astrattamente indipendentemente da qualsivoglia riscontro empirico e clinico. L’ultimo riferimento a questo tipo di modello è probabilmente il sistema penale francese prima della riforma del 1994. - Metodo psicopatologico-normativo o biologico-psicologico o misto, consiste nel

diagnosticare l'esistenza di un disturbo mentale e nel valutare quindi l'incidenza di questo sulla capacità di intendere o di volere. E’ il modello adottato in Italia e nella maggior parte dei Paesi Europei, che configura l’imputabilità "come una costruzione

a due piani, il cui primo livello è relativo al substrato patologico (infermità), mentre il secondo livello è relativo alla eventuale conseguente incapacità di intendere o di volere. La valutazione della imputabilità prende quindi in considerazione, nel contempo, un aspetto psicologico e obiettivo (la descrizione del substrato

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psicopatologico), ed un aspetto normativo (la valutazione della capacità di intendere e di volere al momento del reato"8.

Nell’accertamento dell’imputabilità è dunque di grande importanza il ruolo del perito che una volta formulata la diagnosi, dovrà valutare se quello stato patologico sia tale da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere e volere, fornendo al giudice validi elementi per la formulazione di una sentenza che egli elaborerà tenendo conto o meno della perizia dell’esperto, la quale non potrà disattendere nel suo contenuto finale, non potendo arrogarsi un sapere che non possiede.

Essendo il sistema penale italiano, un sistema sanzionatorio cosiddetto del “doppio binario”, oltre all’accertamento dell’imputabilità cui seguirà la detenzione, verrà al contempo accertato la pericolosità sociale del soggetto responsabile, cui conseguirà invece l’applicazione di misure di sicurezza.

Per pericolosità sociale si intende l’elevata probabilità che lo stesso soggetto anche se non imputabile, quindi non punibile, commetta nel futuro altri reati, costituendo dunque una minaccia per la sicurezza della collettività. La pericolosità sociale va sempre dimostrata e mai presunta, essendo venuto meno il presupposto basato sull’art.318 del vecchio codice di procedura penale, secondo il quale esistesse necessariamente una correlazione tra essa e la malattia mentale; i criteri necessari per una sua corretta valutazione sono elencati dall’Art.133 c.p.: “Gravità del reato: valutazione agli effetti

della pena. Nell’esercizio del potere discrezionale indicato nell’articolo precedente, il giudice deve tenere conto della gravità del reato, desunta:

1) dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell’azione;

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3) dalla intensità del dolo o dal grado della colpa.

Il giudice deve tener conto, altresì, della capacità a delinquere del colpevole, desunta:

1) dai motivi a delinquere e dal carattere del reo;

2) dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato;

3) dalla condotta contemporanea o susseguente al reato;

4) delle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo”.

Accertata la sussistenza della pericolosità sociale in un soggetto prosciolto per vizio totale di mente, ne sarà predisposto il ricovero in un ospedale psichiatrico; in soggetto imputabile ma con vizio parziale di mente verrà emessa una pena di detenzione che dovrà essere scontata e in seguito alla quale si dovrà effettuare un riesame della pericolosità e fissare quindi l’eventuale misura di sicurezza. Tali misure potranno essere rinnovate sino alla morte del condannato se persiste la condizione di pericolosità e revocate se essa viene a cessare.

Chiariti i concetti della giurisprudenza classica, volgeremo la nostra attenzione sul nuovo rapporto di collaborazione che si sta delineando in questi ultimi anni tra la giustizia penale e le nuove acquisizioni scientifiche. Tali conoscenze hanno consentito di identificare un nuovo parametro di riferimento per la valutazione dell’uomo criminale, rappresentato dallo studio della morfologia e biologia dell’encefalo e di polimorfismi genetici potenzialmente predisponenti alla messa in atto di comportamenti violenti, da affiancare alle sempre fondamentali e storiche valutazioni della personalità dell’autore del reato e del suo ambiente di vita e di crescita.

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Capitolo 2 : Aggressiveness’ brain-imaging

2.1 Circuito neurale dell’aggressività

Il termine aggressività riunisce in sé una serie di comportamenti il cui fine ultimo è il danneggiamento di terzi; tali comportamenti evolutisi come adattamento socio-ambientale allo scopo di affrontare la concorrenza, difendersi e ottenere risorse, possono avere conseguenze distruttive quando espressi al di fuori di tale contesto.

L’aggressività, tradizionalmente intesa come comportamento che infligge danno fisico a altri individui, si esprime comunemente ogni qual volta esistano interessi conflittuali, è considerata patologica qualora divenga un modus operandi persistente, esagerato e espressamente fuori luogo.

Nella specie umana sono stati identificati 2 sottotipi di aggressività :

1- “controlled-instrumental subtype”, 2- “reactive-impulsive subtype”;

mentre l’aggressività reattiva è considerata più impulsiva (solitamente associata a rabbia), l’aggressività strumentale è considerata più intenzionale e mirata9

.

Il sottotipo impulsivo può causare risposte aggressive improvvise, accresciute, durature o inappropriate e probabilmente rappresenta la causa della maggior parte dei problemi sociali associati con l’aggressività; tuttavia incidenti di alto profilo ( genocidi, assassinii di massa) potrebbero essere radicati in meccanismi più strumentali dell’aggressività. Tali meccanismi riscontrati abitualmente nel sottotipo controllato, si pensa siano regolati dai centri corticali superiori e meno dipendenti da ipotalamo e sistema limbico che sembrano mediare l’impulsività aggressiva. La strutturazione precisa del circuito neurale

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che controlla l’aggressività non è di semplice caratterizzazione in quanto tale circuito sembra coinvolto nella regolazione anche di altri comportamenti sociali. E’ perciò stato suggerito che i comportamenti aggressivi costituiscano le proprietà emergenti di una rete di interconnessioni neurali che include l’area mediale pre-ottica (MPOA), setto laterale (LAS), ipotalamo anteriore (AHA), ipotalamo ventromediale (VMH), sostanza grigia periacqueduttale (PAG), amigdala mediale (MEA) e nuclei della base della stria terminale (BNST)10. Figura 1. Circuito dell’aggressività in primati non umani. L'aggressività è tipicamente evocata da segnali vocali o visivi. Attivazione del MEA si è pensato provocare l'attivazione del BNST e AHA, che a sua volta attiva la PAG. In generale, l'OFC sembra essere importante per l'interpretazione dei segnali sociali, e ingressi inibitori della OFC potrebbe inibire aggressione riducendo reattività nell’ amigdala. Le frecce spesse rappresentano gli ingressi e le uscite da e verso il cervello; frecce sottili rappresentano collegamenti all'interno del cervello; linee tratteggiate rappresentano le connessioni inibitorie.

In particolare, studi in esseri viventi non umani indicano per ciò che concerne l’aggressività reattiva, che si tratti di una risposta a circostanze minatorie di tipo graduale, essa rimane “congelata” se la minaccia è lontana e si esplica quando l’elemento minaccioso è molto vicino e la fuga non possibile. Tali studi mostrano come questa risposta sia mediata da un sistema che si estende dall’area amigdaloidea mediale verso il basso, attraverso la stria terminale dell’ipotalamo mediale e da qui alla metà dorsale della sostanza grigia periacqueduttale (PAG); questo sistema amigdala-ipotalamo-PAG si pensa capace di mediare l’aggressività reattiva, inclusa quella frustrazione-indotta negli

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uomini. L’aggressività reattiva non è di per sé una risposta inappropriata all’esposizione minacciosa, ma può diventarlo e configurarsi come disadattativa a causa di un’ alterazione del sistema-minaccia basale (amigdala-ipotalamo-PAG) e/o di un’alterata regolazione frontale (responsabile dell’inibizione dell’attività dell’amigdala).

Per quanto riguarda l’aggressività strumentale si pensa si tratti di una forma di risposta motoria diretta, non diversa da altre risposte motorie, e in quanto tale sia mediata dalla corteccia motoria e dal caudato; non si sottrae però all’attività regolativa frontale. Infatti, mentre la selezione di una risposta motoria è, in condizioni normali, in funzione di una serie di costi e benefici associati alle varie opzioni di scelta disponibili e, di conseguenza, per la maggior parte degli individui i benefici di una risposta antisociale non sono sufficientemente grandi in relazione a un’alternativa prosociale e/o i suoi costi sono ritenuti eccessivi (es. rischio di perdita della libertà) per renderla desiderabile; in presenza di una disfunzione della corteccia frontale, ad esempio una rappresentazione disfunzionale dei costi dell’agire, il comportamento antisociale viene preferito a un’alternativa prosociale al fine del raggiungimento dello scopo, configurando il quadro di un’aggressività strumentale disadattativa11

.

Alla luce di quanto esposto diventa chiaro come esplorare le basi neurali dell'aggressività rimanda alla ricerca di circuiti emozionali, che si è visto condividere le stesse strutture anatomiche ed evolutive; l’impulsività, l’aggressività affettiva e violenta potrebbero essere il prodotto di una insufficiente regolazione delle emozioni, frutto di un complesso circuito neurale che consta di tre regioni chiave:

- Corteccia prefrontale ( orbitofrontale e ventromediale); - Amigdala;

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Figura 2. Regioni chiave del circuito di regolazione emozionale.

A) OFC in vere e VFC in rosso; B) Corteccia prefrontale dorsolaterale; C) Amigdala; D) ACC.

Ognuna di queste strutture interconnesse gioca un ruolo nei diversi aspetti di regolazione emozionale, l’anormalità di una o più di esse e/o delle loro connessioni è associata a fallimento della regolazione stessa e a una incrementata propensione verso atteggiamenti aggressivi e violenti.

La corteccia frontale ventromediale e orbitofrontale si pensa aiutino a inibire l’assunzione di decisioni sociali inappropriate e di comportamento aggressivo, nell’uomo la stimolazione della corteccia prefrontale conduce a inibizione della rabbia e aggressività, mentre vedremo che lesioni neurodegenerative, traumatiche o neoplastiche di questa struttura facilitano l’espressione di disinibizione comportamentale e aggressività. La modulazione esercitata dalla corteccia frontale rende dunque gli uomini capaci di sopprimere reazioni inappropriate, come la violenza fisica, in risposta a

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provocazioni ambientali. In particolare, la OFC mediale è considerata la porzione “limbica” della corteccia associativa frontale ed è strettamente connessa con l’amigdala e il sistema limbico, si pensa giocare un ruolo nei processi integrativi motivazionali e emozionali. La OFC riceve informazioni sensoriali altamente processate concernenti l’esperienza ambientale della persona e gioca un ruolo significativo nella percezione di segnali sociali, come espressioni facciali non positive, facendo parte di un circuito neurale che influenza l’abilità di un individuo a regolare emozioni negative. Pazienti in cui tale corteccia sia danneggiata tendono ad avere scarso controllo degli impulsi, esplosioni aggressive, lascivia verbale e una mancanza di sensibilità interpersonale che potrebbe accrescere la probabilità di azioni al limite della legalità12. La VMC sembra coinvolta nella perdita di giudizio sulla base della valenza emozionale degli stimoli, studi relativamente recenti hanno dimostrato che pazienti con lesione ventromediale a esordio precoce provano disinteresse verso le conseguenze future delle loro azioni, incapacità a modificare comportamenti rischiosi e a prendere decisioni in tempo reale e risposta autonomica difettiva in presenza di imprevisti o prospettive negativi13.

Analogamente all’OFC, l’amigdala svolge un ruolo di primo piano nell’estrarre il contenuto emotivo degli stimoli ambientali e molto probabilmente nel regolare la risposta comportamentale degli individui a una sensitività negativa. Essa è ritenuta il centro di integrazione di processi neurologici superiori, quali le emozioni, coinvolta anche nei sistemi di memoria emozionale. I segnali provenienti dagli organi di senso raggiungono dapprima il talamo, poi servendosi di un circuito monosinaptico, arrivano all’amigdala; un secondo segnale viene inviato dal talamo alla neocorteccia. Questa ramificazione consente all’amigdala di rispondere agli stimoli prima della neocorteccia, in questo modo essa è capace di analizzare ogni esperienza, scandagliando ogni situazione e percezione. In presenza di informazioni connotate di pericolo/danno, l’amigdala proietta alle altre

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strutture limbiche e scattando come una sorta di grilletto neurale invia segnali di emergenza a tutte le principali parti del cervello, stimola il rilascio degli ormoni che innescano la reazione di combattimento o di fuga (adrenalina, noradrenalina, dopamina), mobilita i centri del movimento, attiva la risposta autonomica del sistema cardiovascolare, muscolare e gastroenterico. Contemporaneamente i “sistemi mnemonici” vengono analizzati per richiamare ogni informazione utile in situazioni di paura. Mentre l’ippocampo “rimembra” i fatti, l’amigdala ne giudica la valenza emozionale, quindi immagazzina lo stimolo sotto forma di ricordo. Essendo dunque, l’archivio della nostra memoria emozionale, l’amigdala confronta l’esperienza attuale con quanto accaduto nel passato e ci comanda precipitosamente di reagire a una situazione presente secondo paragoni con episodi simili, con pensieri emozioni e reazioni apprese e fissate in risposta a eventi analoghi.

La corteccia cingolata anteriore (ACC) è la sede della corteccia cerebrale ove vengono elaborati a livello inconscio i pericoli e problemi cui un soggetto è esposto durante il decorrere delle proprie esperienze. Può essere considerato come una sorta di sistema di allarme silenzioso: sembra riconoscere situazioni di inadeguatezza, di conflittualità implicita tra l’individuo e l’ambiente, qualora la risposta del soggetto sia inadeguata rispetto alle circostanze, così detta rivelazione e risoluzione conflittuale; lo scopo evoluzionistico di tale meccanismo è probabilmente quello di rendere il cervello biochimicamente preparato a imprevisti nell’immediato futuro e capace di essere reattivo nel momento in cui l’evento temuto si verifichi. Poiché l’encefalo non elabora un “pericolo specifico” chiaro e determinato, ma solo un eventuale accadimento aspecifico, questa area cerebrale sembra essere particolarmente attiva in individui sottoposti a stress o in soggetti paranoici, schizofrenici o ossessivo-compulsivi. L’ACC gioca un ruolo nella processazione degli aspetti emotivi degli stimoli dolorifici, come spiacevolezza percepita

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che accompagna danno tissutale reale o potenziale. Insieme all’OFC, pare coinvolta in altri processi emozionali e cognitivi quali: regolazione affettiva, monitoraggio degli errori, apprendimento indiretto, preservazione o inibizione della risposta, redistribuzione delle risorse attentive e aggiornamento concettuale14.

Una lesione circoscritta all’ACC si pensa provochi un deficit nella capacità di inibire risposte apprese in precedenza e nella capacità di controllare l’effetto interferenza in presenza di stimoli distraenti.

Infine, anomalie del lobo temporale sembrano determinare una disfunzione capace di scatenare reazione aggressiva a stimoli banali, la corteccia temporale ha connessioni reciproche con il complesso amigdaloideo che molto probabilmente svolgono un ruolo di collegamento tra esperienze sensoriali e emozioni. E’ noto come focus epilettici temporali possano essere responsabili di comportamenti caratterizzati da esplosioni di violenza scaricata su oggetti e persone, improvvisi, immotivati e non legati allo stato relazionale e ambientale che li precedono.

2.2 Alterazioni alla neuroimaging e disfunzione comportamentale

Il sospetto che una alterazione dell’architettura cerebrale potesse predisporre a comportamento violento e, più nello specifico, il coinvolgimento della corteccia prefrontale determinasse una rottura nel circuito di regolazione delle emozioni e quindi dell’aggressività ha trovato conferma ed è stato supportato da una serie di studi neurologici; in particolare, l’avvento di tecniche di neuroimaging ha permesso la valutazione diretta della morfologia e del funzionamento cerebrale in individui aggressivi e violenti. Proprio tali tecniche hanno però al contempo evidenziato la scarsità di comprensione delle reti neurali sottostanti i comportamenti emozionali.

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La maggior parte delle anormalità comportamentali in senso criminale suggeriscono un’associazione tra danno cerebrale coinvolgente il lobo frontale e aggressività. La disfunzione frontale sembra spiegare le azioni di soggetti coinvolti in azioni violente come conseguente incapacità a controllare l’impulsività banalmente motivata o aggressività abituale. Studi a sostegno di tale affermazione risultano molteplici. In un caso di riferimento, risalente a circa un secolo fa , è descritto il repentino cambio di personalità di un costruttore, Pinheas Gage, in seguito a un incidente sul lavoro. Gage divenne irresponsabile, irriverente e mancante di rispetto verso le convenzioni sociali; l’utilizzo di tecniche di neuroimmagine ha individuato come territori di interesse della lesione, i corticali orbitofrontale e ventromediale. Sono descritti in letterarura, casi di persone che, in seguito a rilevato danno corticale ventromediale, hanno sviluppato una sindrome sociopatica, tali soggetti sebbene non abbiano mostrato danni all’intelligenza o alle funzioni esecutive a test neurobiologici, presentano deficit marcati nello svolgimento di attività che richiedono giudizio, consapevolezza di comportamento socialmente appropriato e capacità di valutarne le conseguenze15.

Studi su coorti di veterani di guerra con trauma cranico hanno mostrato una tendenza associativa tra lesione frontale e comportamento antisociale o aggressivo. In particolare, Grafman ponendo a confronto due gruppi, uno di controllo e uno di veterani del Vietnam con danno cranico penetrante, e valutando sia la sede di lesione che il volume cerebrale mediante TAC standard e l’aggressività mediante una serie di test con score starndardizzati somministrati sia ai pazienti che ai loro familiari, ha valutato l’ipotesi che il normale funzionamento del lobo frontale sia critico per il mantenimento di un agire socialmente appropriato e per la modulazione di espressioni comportamentali potenzialmente aggressive e violente. I risultati indicano a sostegno di tale ipotesi che pazienti con lesione frontale ventromediale mostrano “scores scale” per aggressività e

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violenza significativamente più elevati rispetto ai controlli e a pazienti con lesioni in altre sedi. Pazienti con interessamento orbitofrontale mostrano aumentati livelli di ansietà che sono coerenti con la tendenza a impegnarsi in comportamenti più conflittuali e antisociali16. Ulteriori conferme a sostegno del binomio danno frontale-comportamento aggressivo provengono da più recenti lavori, in cui lesioni della corteccia prefrontale sono sovra rappresentate alla TAC-encefalo di pazienti aggressivi con danno cerebrale penetrante rispetto a soggetti non aggressivi con la stessa tipologia di trauma17.

Interessante al fine dell’identificazione del ruolo di un’alterata architettura corticale prefrontale nella genesi del comportamento antisociale, finanche criminale, il caso riportato in letteratura di un adulto con nuova insorgenza di pedofilia, cui è stato diagnosticato una neoplasia cerebrale orbitofrontale destra. L’utilizzo di RMI ha rilevato una neoformazione nella fossa anteriore della base cranica che dislocava il lobo frontale destro che si è ritenuto essere responsabile della perdita del controllo degli impulsi e della conseguente perdita di giudizio e di comportamento sociopatico sviluppati dal soggetto, inclusa la deficitaria regolazione cosciente dei bisogni sessuali18.

Accanto alla valutazione puramente morfologica fornita dalla tecnica tomografica e dalla risonanza magnetica strutturale, si è aggiunta negli anni recenti la possibilità di ottenere informazioni circa il funzionamento delle cellule neuronali attraverso l’osservazione delle variazioni emodinamiche legate all’attività sinaptica della popolazione neuronale. Le cellule comunicano tra loro scambiandosi informazioni in forma di potenziale d’azione, la cui generazione richiede energia, che nel cervello può essere prodotta solo dal metabolismo ossidativo del glucosio. Più una popolazione è attiva, maggiore è l’energia richiesta per sostenere l’attività sinaptica e maggiore è il flusso ematico che la regione richiede per garantire un adeguato apporto di glucosio e ossigeno. La f-RMI e la PET cercano di misurare questa attività in strutture corticali e sottocorticali, in maniera

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non invasiva. In particolare, la prima valutando la risposta emodinamica (cambiamenti nel contenuto di ossigeno del parenchima e dei capillari) correlata all’attività neuronale del cervello e del midollo spinale; la seconda valutando il destino all’interno del tessuto cerebrale di composti di interesse biologico, come il glucosio, marcati con isotopi radioattivi.

L’impiego di f-RMI in individui che non abbiano lesione organica cerebrale, ha confermato che strutture orbitofrontali e sottocorticali limbiche siano coinvolte nella autoregolazione comportamentale; la OFC ricevendo afferenze dalla corteccia sensitiva, amigdala e ippocampo e proiettando ai nuclei autonomi del tronco encefalico, gioca un ruolo significativo nella generazione di risposte autonomiche che caratterizzano una varietà di emozioni. La disfunzione di questo sistema può risultare nella enfatizzazione di decisioni che favoriscono una ricompensa immediata anziché profitto a lungo termine, segnando la perdita delle capacità del soggetto di muoversi adeguatamente in situazioni sociali. Studi f-RMI di giovani con disturbo della condotta paragonati a gruppo di controllo, in assenza di lesioni cerebrali focali o generalizzate, hanno riportato una riduzione del volume dell’amigdala e del volume corticale temporale (l’amigdala era inclusa nella regione di interesse esaminata) e una ridotta risposta amigdaloidea differenziale all’esposizioni di immagini emozionali o neutrali. L’utilizzo della medesima tecnica di indagine ha inoltre evidenziato come la scarsa capacità a gestire le emozioni, in particolare a sopprimere quelle a valenza negativa, sembra derivare da un più basso livello di attivazione della corteccia prefrontale, una maggiore attività della OFC sembrerebbe prevenire una risposta comportamentale indotta da emotività negativa, esempio una risposta rabbia indotta. Più semplicisticamente l’f-RMI ha evidenziato come l’incapacità a sopprimere e gestire emozioni negative possa dunque derivare da una disregolazione funzionale caratterizzata da un’ attività incrementata dell’amigdala e

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ridotta della OFC. E’ tale disfunzione sia prefrontale che amigdaloidea che porta a interpretare erroneamente segnali ambientali, come le espressioni facciali altrui e a reagire in maniera impulsiva e aggressiva.

Il ricorso alla f-RMI è risultato di grande utilità anche nella comprensione del processamento delle emozioni in soggetti affetti da psicopatia, il confronto tra questo gruppo di individui e controlli sani ha mostrato una marcata riduzione dell’attività neuronale principalmente nella corteccia limbica e visiva, nel riconoscimento di espressioni negative nei primi; mentre nei secondi si è registrato un incremento di tale attività nelle stesse aree. Nei soggetti sani l’attivazione della corteccia visiva in risposta a espressioni negative è potenziata dalla modulazione a feedback dell’amigdala, perciò la ridotta piuttosto che aumentata risposta corticale visiva nei psicopatici potrebbe riflettere un malfunzionamento dell’amigdala stessa in questi ultimi19. La ridotta risposta della corteccia prefrontale e dell’amigdala in individui con tendenze psicopatiche a stimoli provocativi o durante processi di interazione tra individuo e ambiente, cosiddetto apprendimento emotivo, è in accordo con le difficoltà di tali soggetti a interiorizzare norme sociali e a correttamente interpretarle.

Oltre che nei soggetti psicotici, alterazioni simili sono state ritrovate in individui con disturbi della personalità, in questi ultimi, studi PET hanno mostrato una certa correlazione tra un più basso utilizzo del glucosio nella OFC e storia di comportamento aggressivo. Una riduzione del metabolismo glucidico in corteccia prefrontale, associata a asimmetria dell’attivita dell’amigdala, talamo e lobo temporale mediale, sempre tramite l’utilizzo della PET, è risultata anche nell’encefalo di assassini giudicati non colpevoli rispetto ai soggetti non violenti paragonati20. Deficit metabolico nel funzionamento prefrontale si è rilevato in gruppi di individui con comportamento aggressivo, violento e/o antisociale, paragonati con pazienti non aggressivi o controlli sani. Analisi regione

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specifiche hanno mostrato che coloro che erano aggressivi o violenti, avevano un’attività prefrontale significativamente più bassa in OFC, corteccia mediale anteriore, corteccia frontale mediale e/o corteccia frontale superiore.

L’impiego di tale tecnica di imaging cerebrale funzionale combinata con una misurazione quantitativa e qualitativa dell’attività cerebrale e della responsività autonomica e comportamentale, durante l’immaginazione di circostanze necessitanti il ricorso a un agire aggressivo, in volontari sani con buona capacità di elaborazione fantastica e senza una storia di disordini mentali o aggressività, sembra bene identificare il funzionamento dei lobi frontali e il potenziale coinvolgimento di aree cerebrali aggiuntive nella modulazione del comportamento aggressivo. I cambiamenti di flusso maggiori si sono avuti nell’elaborazione situazionale di aggressività non trattenuta, questi casi hanno mostrato una significativa deattivazione della OFC rispetto alle condizioni neutrali, confermando il ruolo centrale di questa porzione della corteccia prefrontale nella regolazione del comportamento sociale. L’anormale espressione di aggressività in soggetti violenti è dunque accompagnata da uno “ spegnimento” della corteccia orbitofrontale20. Riduzione del flusso ematico cerebrale si realizza anche nella VMC in presenza di scenari aggressivi, anche in questo caso con una diminuzione più marcata in presenza di aggressività non trattenuta; tale situazione è inoltre caratterizzata da un’attivazione delle aree corticali visive e limbica, della ACC e del cervelletto, molto probabilmente dovuta all’immaginazione che il soggetto ha di sé stesso di compiere attivamente un movimento mentre pianifica la propria azione di attacco21.

Infine, l’esame del lobo medio temporale, che include l’amigdala, l’ippocampo e i gangli basali, mediante PET, ha rivelato una disfunzione dello stesso in individui aggressivi e/o violenti. E’ importante notare come l’anomalia strutturale e funzionale del lobo temporale, associata a un’aumentata attività sottocorticale, sia presente nella maggior

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parte dei pazienti con storia di comportamento violento intenso, disordine esplosivo intermittente e in assassini dichiarati innocenti per ragioni di insanità.

Alla luce di quanto esposto risulta chiaro che predisposizione all’aggressività e violenza impulsiva possano derivare, in ultima analisi, da una rottura dell’equilibrio funzionale tra attività della corteccia prefrontale e attività delle strutture sottocorticali; in particolare una diminuzione del funzionamento prefrontale rispetto al sottocorticale sembra esserne la maggiore responsabile. L’interazione fra queste due aree cerebrali è mediata da una connessione serotoninergica inibitoria dalla corteccia prefrontale all’amigdala. Vedremo dunque, nel capitolo successivo, come alterazioni del metabolismo di questo messaggero neurochimico possano influenzare il funzionamento cerebrale.

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Figura

Figura 2. Regioni chiave del circuito di regolazione emozionale.

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