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INDICE Introduzione Lo stress

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INDICE

Introduzione

Lo stress

Evoluzione del concetto di stress Fisiologia dello stress

Asse ipotalamo–ipofisi-surrene Sistema a feedback

Il ruolo del cortisolo

Meccanismo d’azione del cortisolo e ritmo circadiano Altre risposte allo stress

Risposta emotiva

Risposta comportamentale Risposta immunitaria Stressors e patologia

Eventi precoci e patologia Eventi recenti e patologia

Cortisolo e patologia psichiatrica Patologia psichiatrica e asse HPA Test di soppressione al desametasone Conclusioni e obiettivi

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Metodo e somministrazione Protocollo di ricerca

Strumenti

Florence Psychiatric Interview Roche Elecsys immunoassay system Partecipanti e procedure di somministrazione

Risultati

Caratteristiche demografiche del campione Livelli di cortisolo nel campione

Discussioni e conclusioni

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INTRODUZIONE

Durante il Rinascimento, l’approccio filosofico di Cartesio (1596-1650)- noto come dualismo cartesiano – affermava che mente e corpo erano entità separate e per questo motivo andavano esaminate e trattate in maniera diversa. La scienza moderna ha compiuto diversi passi per unificare ciò che Cartesio separava oltre 300 anni fa.

Nell’antichità si riteneva che l’organismo e il corpo agissero seguendo principi biologici e genetici considerando il corpo unitario e inscindibile, come un sistema chiuso, privo d’influenze esterne. Sembrava che la specificazione genetica scrivesse in maniere deterministica gli esiti delle malattie. Rotto un elemento, si rompe tutto il sistema. Una visione così deterministica, limitava la considerazione di molti aspetti della salute fisica e psichica dell’individuo.

E’ chiaro che la visione che abbiamo oggi è assai diversa. Il corpo agisce in corrispondenza della mente in un’interazione reciproca, dove elementi biologici si mescolano con quelli psicologici e ambientali.

Sebbene ci sia stato un certo cambiamento di tendenze, ancora raramente si cura l’uomo nella sua totalità, considerando la malattia nella sua unità psico-fisica. La definizione data dall’OMS (2005) ha posto l’attenzione su tale integrità definendo la salute: “Uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza dello stato di malattia e infermità”, considerando i fattori psichici e fisici come entrambi determinanti la condizione di salute del soggetto.

Riconoscere l’unità del corpo e della mente diventa particolarmente critico quando ci riferiamo ai processi psicologici di diversa natura. Molti studi, volti a riconoscere il legame tra mente e corpo, si sono concentrati sul concetto di stress e sugli effetti che gli eventi di vita stressanti hanno sulla salute e sulla qualità di vita degli individui. Infatti, in determinate condizioni la reazione di stress può perdere il suo significato funzionale di adattamento e diventare una possibile fonte di rischio per la salute somatica e mentale. Tali studi hanno sviluppato una teoria a proposito delle modificazioni psichiche e biologiche della reazione di stress, chiarendone le caratteristiche d’adattamento e applicandola più specificatamente allo studio delle reazioni dell’uomo.

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In campo psichiatrico, eventi e situazioni di stress della vita spesso precedono l’insorgere di disturbi e malattie, a volte con ruolo solo scatenante, altre con vero e proprio ruolo determinante come, ad esempio, nel Disturbo Post Traumatico da stress.

Infatti sono numerosi gli studi sulle relazioni tra diverse condizioni patologiche e gli squilibri dell’asse HPA, e sono stati riscontrati evidenti legami tra livelli anomali di glucocorticoidi e patologie molto disparate, quali depressione (keller 2006); ansia e attacchi di panico (Curtis 1978;Takahashi 2005; Yehuda 1993); deficienza dell’ipoccampo e relativa diminuzione delle capacità mnemoniche (Buckley 2005); disturbi del sonno (Buckley 2005; Backhaus 2004; Rodenbeck 2002; Blazajova 2000); sindrome da affaticamento cronico (Racciatti 2001); ipertensione (Mantero 1992); e nei disturbi alimentari ed obesità (Gluck 2004; Epel 2001; Vicennati 2001; Leal 1997).

La descrizione della reazione fisiologica in particolare e di quella comportamentale, immunitaria ed emotiva, hanno fornito una chiave di lettura necessaria, ma non esaustiva, per inquadrare il ruolo che gli eventi di vita stressanti hanno sull’organismo e sulle sue capacità di resistenza. Una chiave di lettura per la comprensione globale del costrutto di stress prevede una valutazione che non può tralasciare concetti come quello di vulnerabilità individuale, struttura genetica, sostegno sociale.

EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI STRESS

La parola stress, così comune nel nostro linguaggio quotidiano, si riferisce a un concetto vasto e complesso e può assumere significati diversi secondo il contesto culturale e storico in cui viene impiegata. Il termine è in uso nella lingua inglese da molti secoli, ma il suo significato è variato con il procedere del tempo.

Nel XVII secolo il significato corrente era quello di difficoltà, avversità o afflizione; successivamente (XVIII e XIX secolo), è divenuto quello di forza, spinta, tensione (Hazon 1971), applicati sia a un oggetto che a un organismo, e infine, in tempi recenti ha acquisito il

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significato di «stato di tensione dell’organismo, in cui vengono attivate difese per far fronte ad una situazione di minaccia» (Trombini 1982).

Per avere una visione globale della definizione di stress, diventa necessario considerare l’evoluzione di tale concetto passando attraverso le varie teorizzazioni che si sono succedute nel corso degli anni.

Al di là delle applicazioni in fisica e ingegneria, il primo uso scientifico del termine in biologia è dovuto al fisiologo Walter B. Cannon. Egli definì lo stress come qualsiasi meccanismo in grado di alterare i processi omeostatici di un organismo vivente; coniò il termine “homeostasis” per descrivere il mantenimento entro un certo limite di alcune variabili fisiologiche come il glucosio e la temperatura corporea. (Cannon 1929a 1939). Cannon estende poi questo concetto e vi include anche le minacce psicosociali. Agli inizi del ‘900, Cannon condusse una serie di esperimenti volti a individuare il ruolo del sistema simpatico – adrenomidollare in risposta a stimoli emozionali, quali paura e rabbia e descrisse per la prima volta le variazioni acute della secrezione della ghiandola surrenale associata a quella che ha chiamato reazione di lotta o fuga, “fight or flight”. Tale reazione sarebbe pertanto un sistema finalizzato e unitario in grado di fornire un adattamento dinamico a determinati stimoli stressanti (interni ed esterni) e capace di garantire la sopravvivenza dell’individuo e della specie.

Cannon aveva messo in evidenza come un incremento della secrezione di adrenalina e noradrenalina da parte della porzione midollare delle ghiandole surrenali, avesse una funzione indispensabile anche negli animali, nel predisporre l’organismo a comportamenti di attacco e di fuga. Tale reazione si accompagna infatti all’aumento della pressione sanguigna, all’incremento della frequenza cardiaca, alla vasocostrizione periferica, alla dilatazione pupillare, alla riduzione della salivazione, all’incremento della funzionalità respiratoria, all’aumento della sudorazione, ecc (Cannon, 1929).

Cannon diede al termine stress il significato essenzialmente di stimolo ed introdusse il concetto di “livello critico di stress”, inteso come massimo livello di stimolazione sopportabile dai meccanismi di compenso fisiologici (Cannon, 1935; 1963). Cominciò con lui l’interesse per il momento di passaggio tra lo stimolo e la risposta somato-comportamentale che l’organismo mette in atto, come risposta adattiva, per mantenere la sua integrità.

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Pochi anni più tardi Hans Selye applicò il concetto di stress alla medicina aprendo la strada a tutto il filone di ricerca sull’argomento. Scoprì che le reazioni fisiologiche studiate da Cannon non erano le uniche manifestazioni che si verificano in un organismo in difficoltà, ma costituivano una concatenazione di eventi omeostatici e cambiamenti fisiologici al fine di mantenere l’omeostasi corporea, di cui la reazione d'allarme non è che il primo passo. Quando egli era ancora studente presso l’Università di Praga osservò che il docente, prospettando il quadro clinico dei pazienti, tralasciava sintomi aspecifici presenti nella maggioranza delle malattie quali febbre, malessere generale, disturbi della cenestesi, perdita dell’appetito, dolori muscolari e articolari, astenia, diminuzione della libido, perdita dell’interesse e della concentrazione. Tali sintomi, presenti nella fase iniziale di quasi tutte le patologie, erano ritenuti, sino ad allora, troppo generici ed aspecifici per essere presi in considerazione. Nel soffermarsi proprio su questi sintomi invece Selye aveva focalizzato la sua attenzione su quella che definirà meglio in seguito come “sindrome di malattia primitiva”.

Dieci anni più tardi Selye lavorava ad un progetto di ricerca sugli ormoni sessuali a Montreal. A tal fine iniettava estratti di ovaie e di placenta ad alcuni ratti e soluzione fisiologica ai controlli e notò in essi, sempre la stessa reazione biologica: ingrossamento della corteccia delle ghiandole surrenali, riduzione di volume del timo, della milza e dei linfonodi, ulcere gastriche e duodenali. Selye attribuì queste alterazioni ad un’attivazione aspecifica dell’asse ipofisario-surrenalico, ma non fu immediatamente chiara alla sua mente l’importanza di quest’ultima osservazione scientifica.

Solo qualche tempo dopo cominciò a nascere in lui dapprima l’idea, poi la convinzione, che vi fosse un nesso logico fra le due osservazioni, quella di Praga e quella di Montreal, perché entrambe erano l’espressione di una reazione sistemica “globale ed aspecifica”. Selye si chiese se le due risposte non fossero l’espressione di un’unica reazione polisistemica. Si veniva così delineando olisticamente una sindrome: un insieme di sintomi che ammette un’eziologia multipla ed una patogenesi unica. Su quella linea Selye sviluppò l’idea che in ogni malattia ai sintomi iniziali, generali ed aspecifici, di natura neurovegetativa (osservazione di Praga), faccia seguito una reazione ormonale dell’asse ipofisario – surrenalico con conseguente risposta della corteccia surrenale, dei linfonodi e della mucosa gastrica e duodenale (osservazione di Montreal). Questa associazione tra le due osservazioni, così distanziate tra loro nel tempo e nello spazio, segnò la nascita della “Sindrome Generale di Adattamento” (SGA).

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Il concetto fondamentale consiste nell'evidenziare qualcosa che avviene generalmente, in modo aspecifico, indipendentemente dalla natura dello stimolo. Da questo punto di vista, la teoria della Sindrome Generale di Adattamento di Selye fu estremamente innovativa: con il suo carattere aspecifico venne messa in luce l'esistenza di un meccanismo che elude la tradizionale visione che un effetto, una risposta biologica, sia sempre riconducibile ad una sola causa. Tradizionalmente infatti si era portati a ritenere che la risposta dell'organismo fosse specifica al tipo di richiesta: ad esempio la sudorazione come reazione al caldo, il brivido come risposta al freddo e così via. Selye, invece, sottolinea l’aspecificità della risposta, in una sindrome generale che ha la funzione di favorire l'adattamento dell'organismo ad uno stimolo stressante, indipendentemente dalla sua natura.

Proseguendo nelle sue ricerche, Selye giunse alla conclusione che la sindrome generale di malattia era provocata dalle più svariate cause. Anche il lavoro pesante, la fatica, l’eccesso di caldo o di freddo, i traumi, le emorragie, gli stessi interventi chirurgici e persino alcuni farmaci potevano indurre sempre la stessa reazione corporea.

Nel 1936 la rivista “Nature” pubblicò il primo articolo di Hans Selye sulla sindrome aspecifica di malattia primitiva, sottolineando così un concetto fondamentale: agenti stressanti diversi provocano sempre la stessa reazione biologica (SGA).

Tale reazione è volta a superare o neutralizzare lo stressor, coinvolgendo in una reazione a catena tutti i “sistemi della vita”: il sistema neurovegetativo, endocrino, immunitario ed i sistemi metabolici. Dal punto di vista fisiologico, la SGA si presenta come una reazione di adattamento degli automatismi biologici dell’ambiente interno alla continua variabilità dell’ambiente esterno, con la mediazione della risposta emozionale.

Nello specifico, la Sindrome Generale di Adattamento descritta da Selye si articola in tre fasi fondamentali.

La prima fase s'identifica con la reazione di allarme scoperta da Cannon e denominata anche da Selye, per l'appunto, fase d'allarme. Essa e' caratterizzata dalle attivazioni del sistema neurovegetativo, di tipo adrenergico, in cui la secrezione delle principali catecolamine, adrenalina e noradrenalina, permette una rapida reazione del sistema nervoso autonomo simpatico. Adrenalina e noradrenalina, infatti, sono due ormoni secreti dalla midollare del surrene che vengono utilizzati quali mediatori intersinaptici nel sistema simpatico permettendo un'immediata risposta del nostro organismo ad uno stimolo stressante.

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Inoltre la fase d'allarme, viene suddivisa in due sottofasi: la fase dello shock, che corrisponde ad un'iniziale caduta al di sotto del livello fisiologico di funzionamento dell'organismo, e quella di controshock, che corrisponde al secondo momento, reattivo, nel quale si attiva il sistema simpatico grazie all'intervento delle catecolamine. In ogni caso, la fase di allarme e' necessariamente rapida ed immediata, ma anche labile, vista la velocita' con la quale adrenalina e noradrenalina vengono metabolizzate.

La fase successiva della Sindrome Generale di Adattamento e' chiamata da Selye fase di resistenza. Questa fase ha una durata maggiore ed è sostenuta da fenomeni endocrini in cui l'ACTH ed altri ormoni adenoipofisari, cioè della porzione anteriore dell'ipofisi, hanno una funzione fondamentale. Se, quindi, nella risposta ormonale immediata della fase d'allarme viene sollecitata la midollare del surrene, nella fase di resistenza è la parte corticale del surrene ad essere interessata, con il rilascio degli ormoni glucocorticoidi, in particolare del cortisolo. L'effetto di tali ormoni è sempre quello, come nel caso delle catecolamine, di mantenere alta l'attivazione del sistema nervoso simpatico, che predispone l'organismo alle azioni necessarie ai fini dell'adattamento. La fase della resistenza perdura tutto il tempo nel quale permane lo stimolo stressante e, secondo Selye, sarebbero proprio i fenomeni legati allo stress, ed in particolare alla fase di resistenza della Sindrome Generale di Adattamento, a contribuire a quelle manifestazioni di deterioramento. Se la fase di resistenza perdura troppo a lungo, infatti, si manifesta nell'organismo la terza fase denominata fase di esaurimento, nella quale si assiste ad un vero e proprio sfiancamento delle risorse dell'organismo, con una perdita graduale della vitalita' stessa e l'insorgenza, quindi, di malattie. Avremo in questo caso la comparsa di quelle che Selye chiama “malattie dell’adattamento” (ipertensione o diabete).

Gli effetti a lungo termine dello stress sono stati recentemente presi in considerazione in termini di carico allostatico (McEwen e Seeman 2003). L’allostasi è il mantenimento della stabilità nel corpo, attraverso il cambiamento fisiologico. Si tratta di un equivalente a lungo termine dell’omeostasi. I componenti della risposta di stress contribuiscono al mantenimento di questa stabilità. Tuttavia lo stress prolungato o ripetuto porta al carico allostatico, cioè all’accumulo di tensioni e pressioni sull’organismo, che predispone l’individuo allo sviluppo di patologia.

Passo dopo passo, le considerazioni di Selye giunsero a considerare lo stress come un fenomeno naturale e fisiologico e, come tale, qualcosa che non può e non deve essere evitato:

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“la completa libertà dallo stress è la morte, contrariamente a quello che si pensa solitamente non dobbiamo e in realtà non possiamo evitare lo stress, ma possiamo affrontarlo in modo efficace e trarne vantaggio imparando di più sui suoi meccanismi, ed adattando la nostra filosofia dell’esistenza ad esso” (Selye, 1976).

In quest’ottica è possibile parlare di un effetto benefico dello stress (eustress), intendendolo come spinta (ritornando al significato originario di stress) che, secondo la legge di Yerkes e Dodson (1908), migliora la performance dell’individuo.

La teoria di Selye, che in ogni caso aprì la strada ad un ricchissimo filone di ricerca, manifesto' ben presto delle lacune. In primo luogo, le ricerche effettuate da Selye partivano dall'analisi degli effetti sull'organismo da parte di agenti stressanti fisici o chimici messi a diretto contatto con l'organismo, come inoculazione di sostanze o contatto con agenti fisici; sappiamo, però, dall'esperienza che non soltanto tali stimoli, fisici o chimici prossimali, sono in grado di produrre risposte di stress: anche agenti distali, quali un evento relazionale o un'informazione, possono rivelarsi fonti di stress che, quindi, inducono una risposta non tanto sulla base di una componente fisica misurabile, quanto piuttosto sulla base della risonanza psicologica soggettiva che sono in grado di determinare. Questa considerazione ha dato vita a numerosi studi sul significato simbolico e sulla risonanza intrapsichica che determinati stimoli detengono, evidenziando significative variabilità che differenziano risposte di individui diversi nei confronti di uno stesso stimolo.

Partendo dalla concezione dello stress di Selye, le ricerche successive sono state tese a spiegare i meccanismi attraverso i quali gli stressor più svariati possono indurre una reazione di potenziale significato patologico. Già Selye aveva postulato l’esistenza di un ipotetico mediatore, biochimico o nervoso, da lui chiamato “First Mediator”, che fungesse da tramite tra gli stimoli e le strutture endocrine deputate alla produzione della reazione di stress.

Tale ipotesi è stata successivamente ripresa e riformulata da Mason (1975), il quale postula che la reazione di stress sia in realtà mediata costantemente da un eccitamento del livello emozionale. Il suo punto di partenza è stato quello di aver rilevato attraverso un’ampia documentazione che la reattività del sistema ipotalamo-ipofisi-corticosurrene è stimolata dai più vari eventi psicosociali che, per loro natura, inducono comunque nell’individuo una reazione emozionale. Il First Mediator, la cui esistenza è stata postulata da Selye ma mai dimostrata, sarebbe secondo Mason, rappresentato dalle strutture anatomo – funzionali responsabili dell’attivazione emozionale a livello fisiologico e dell’apparato psicologico

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coinvolto nella risposta emozionale. Inoltre le ricerche della sua equìpe hanno dimostrato che la reazione di stress non coinvolge solo gli ormoni dell’asse ipofisi-corticosurrene, ma determina una risposta “multi-ormonale”, il cui significato è quello di determinare un miglior adattamento dell’organismo a condizioni particolari di richiesta ambientale e quindi a favorire la sopravvivenza dell’organismo stesso.

La prospettiva di Mason fu particolarmente significativa dal momento che, attribuendo un ruolo fondamentale alle implicazioni emotive, ha permesso di comprendere meglio i dati sperimentali che depongono in favore sia della specificita' che della aspecificita' dello stress.

La ricerca sullo stress parte, quindi, dall'osservazione di determinate reazioni generali dell'organismo in risposta a richieste ambientali generate da stimoli di natura diversa; la compresenza però sia di elementi aspecifici, come la Sindrome Generale di Adattamento, che di elementi specifici in base alla natura degli stimoli, ha indirizzato progressivamente tali ricerche sul versante delle reazioni emotive e sulle loro implicazioni, un campo di studio peraltro quanto mai controverso e difficile in tutta la storia delle neuroscienze. Anche il ruolo e i meccanismi di funzionamento delle emozioni, infatti, hanno rappresentato da sempre un campo di indagine da parte di filosofi e scienziati, senza giungere di fatto ad una definizione e ad una comprensione unanimemente condivisa.

L'importanza delle emozioni nelle reazioni dell'organismo finalizzate all'adattamento e, nello specifico, nella Sindrome Generale di Adattamento ha portato, alcuni ricercatori ad elaborare il concetto di stress psicologico, indirizzando cosi, inevitabilmente, questo filone di ricerca sempre più nella strada delle correnti psicologiche.

Alcuni studiosi hanno evidenziato che individui diversi reagiscono allo stesso stimolo stressante con risposte assai diverse. Questo ha indotto a supporre che prima dell’attivazione emozionale e la successiva reazione, lo stimolo venga elaborato dal sistema nervoso centrale e acquisisca, quindi, una specifica coloritura emozionale.

Secondo Lazarus (1966) “le circostanze stressanti vengono filtrate dal sistema cognitivo del soggetto”. Se a diversi livelli di consapevolezza uno stimolo non è valutato come rilevante per l’individuo, può non verificarsi attivazione emozionale e reazione di stress. L’accento viene posto sugli aspetti cognitivi dello stress; vale a dire, è il modo in cui soggettivamente percepiamo o valutiamo l’ambiente a determinare se un fattore di stress è

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presente o meno. Quando una persona stabilisce che quanto richiestole da una data situazione è superiore alle sue capacità e risorse, quella persona esperisce uno stato di stress.

Rilevante ai fini delle differenti risposte individuali è anche il concetto di coping, ossia quali strategie di reazione vengono messe in atto per affrontare un problema o per gestire le emozioni che esso produce. Persino tra coloro che valutano l’evento come stressante, gli effetti dello stress possono variare a seconda di come il singolo individuo affronta quell’evento. Lazarus e collaboratori hanno identificato due tipi fondamentali di strategie di reazione (Lararus e Folkman 1984). Nelle strategie di reazione focalizzate sul problema, l’individuo intraprende azioni direttamente finalizzate alla soluzione del problema oppure ricerca soluzioni che ne facilitano la soluzione. Nelle strategie di reazione focalizzate sull’emozione, l’individuo si sforza di ridurre le reazioni emozionali negative allo stress, per esempio distogliendo la mente dal problema, rilassandosi e cercando conforto negli altri. Spesso le strategie più efficaci sono quelle che cambiano a seconda della situazione. Numerose evidenze dimostrano che in generale reagire tramite strategia di fuga/evitamento è la modalità di reazione meno efficace di fronte ai problemi dell’esistenza (Stanton e Snider, 1993; Suls e Fletcther, 1985).

Questa prospettiva, che vede nella valutazione cognitiva la condizione necessaria e sufficiente dell’emozione, rimane tuttora la pietra angolare della prospettiva cognitivista (Lazarus, 1991).

L’ipotesi, quindi, di una correlazione tra mente e corpo, tra eventi psichici ed eventi fisici ha alimentato nel corso della storia prevalentemente la ricerca intorno allo stress e ai suoi meccanismi; questo concetto ha subito una graduale evoluzione, sulla base comunque della formulazione originaria di Selye. Paolo Pancheri, nella sua opera “Stress, Emozioni, Malattia”, definisce lo stress come la risposta dell'organismo ad ogni richiesta di modificazione effettuata su di essa. Questa risposta si manifesta sia a livello fisiologico che a livello comportamentale ed e' mediata da un'attivazione emozionale indotta da una valutazione cognitiva del significato dello stimolo. Essa e' relativamente aspecifica, nel senso che un'ampia gamma di stimoli puo' innescarla, ma personalizzata in rapporto al significato dello stimolo per il singolo individuo ed alle sue modalita' di reazione psicofisiologica. Lo stress e', di per se', una reazione fisiologica, adattativa, caratteristica della vita, che puo' tuttavia assumere un significato patogenetico quando e' prodotta in modo troppo intenso per lunghi periodi di tempo o quando e' ostacolata nel suo regolare svolgimento (Pancheri).

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FISIOLOGIA DELLO STRESS

Molti studi volti alla valutazione degli effetti biologici dello stress sono stati condotti inizialmente seguendo il modello classico di Selye e cioè valutando gli effetti degli stressor su organi e apparati periferici.

Negli ultimi anni si è messo in evidenza il ruolo dello stress a livello del sistema nervoso centrale (SNC) e sui sistemi neurovegetativo, neuroendocrino e immunitario ad esso correlati allo scopo di valutare le cosiddette reazioni “periferiche” allo stress.

Si è osservato che, oltre alle caratteristiche oggettive di intensità, gravità e durata degli stressors, la personalità e i fattori cognitivi sono un importante fondamento della variabilità della risposta, così come la suscettibilità alla malattia.

L’ ASSE IPOTALAMO –IPOFISI-SURRENE

L’ Asse ipotalamo-ipofisi-surrene (noto con l’acronimo inglese HPA Hypothalamic-Pituitary-Adrenal) è il principale mediatore ormonale della risposta allo stress che consente l’adattamento dell’organismo ai cambiamenti, onde mantenerne la stabilità e la salute (Mc Ewen 2004).

L'ipotalamo ha una funzione di controllo del sistema nervoso endocrino: due nuclei ipotalamici (sopraottico e paraventricolare) sono collegati direttamente alla neuroipofisi (porzione posteriore dell'ipofisi,) tramite vie nervose, mentre il collegamento tra ipotalamo e adenoipofisi (porzione anteriore dell’ipofisi) avviene tramite una rete vascolare detta sistema portale ipotalamo-ipofisario, in cui vengono rilasciati da parte dell’ipotalamo dei cosiddetti fattori di rilascio (RH) (ad esempio il TRH per la tireotropina, il GnRH per la gonadotropina, il CRH per l’ormone adenocorticotropo, e il GHRH per il fattore della crescita), ma anche di fattori di inibizione (IF). Intercettati dall’ipofisi, essi controllano la produzione e il rilascio

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dei corrispondenti ormoni ipofisari, i quali agiscono a loro volta sulla secrezione degli ormoni secreti dagli organi bersaglio (ad esempio tiroide, gonadi, ghiandola surrenale, ossa, muscoli…).

Infatti, in situazioni stressanti i centri corticali e sottocorticali modulano l’attivazione del nucleo paraventricolare dell’ipotalamo, il quale stimola a sua volta una reazione neuroendocrina vitale per il mantenimento dell’omeostasi. L’attivazione del nucleo paraventricolare induce il rilascio di corticotropina (Corticotropin Releasing Hormone, CRH) nel circolo portale ipofisario. Il CRH raggiunge quindi l’ipofisi anteriore e stimola la produzione dell’ormone adrenocorticotropo (Adrenocorticotropic Hormone, ACTH). Rilasciato dall’ipofisi nel circolo sistemico, l’ACTH raggiunge la corteccia della ghiandola surrenale dove induce la produzione e secrezione di cortisolo. L’ipotalamo, in parallelo, stimola attraverso connessioni nervose dirette, il rilascio di adrenalina da parte della midollare del surrene. L’aumento di adrenalina e glucocorticoidi circolanti determina un aumento della pressione arteriosa e del battito cardiaco, un dirottamento del flusso ematico verso i distretti muscolari e un aumento della disponibilità di glicogeno per il consumo metabolico. Allo stesso tempo i glucocorticoidi inibiscono processi al momento non essenziali. Si tratta cioè di un meccanismo di difesa che prepara l’organismo a reagire ad un evento stressante. Se la reazione acuta allo stress è fisiologica, l’aumento prolungato di glucocorticoidi circolanti può avere effetti deleteri sull’organismo. C’è quindi un sistema di controllo a retroazione (feedback) che riduce la produzione di CRH e di ACTH, agendo direttamente sull’ipotalamo e sull’ipofisi.

SISTEMA A FEEDBACK

La quantità di ormone adrenocorticotropo presente nel sangue è cruciale per l’effettivo funzionamento del sistema endocrino.

L’azione ormonale necessita di un sistema di monitoraggio, in modo che le quantità di ormoni possano essere aumentate o diminuite secondo necessità. La maggior parte di questo

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controllo avviene tramite feedback negativo. Le cellule che inizialmente rilasciano l’ormone (o una sostanza chimica attivante), sono sensibili alla presenza dell’ormone stesso nel sangue. Quanto più l’ormone viene rilasciato, tanto più aumenta la sua concentrazione nel sangue. Ad un determinato punto di soglia, i recettori all’interno della ghiandola endocrina registrano che c’è abbastanza ormone circolante e ne interrompono la produzione e/o il rilascio: questo è il feedback negativo.

L’attività dell’asse HPA è modulata anche dall’azione di diverse strutture del sistema limbico tra loro collegate, quali la corteccia prefrontale, l’amigdala, l’ippocampo. Queste strutture ed in particolare l’ippocampo, sono molto sensibili agli effetti neurotossici degli alti e persistenti livelli di CRH e cortisolo che si verificano in seguito a stress prolungati. In tali condizioni, il sistema di autoregolazione diviene inefficace e l’asse HPA si mantiene attivato in modo patologico.

Dati preclinici indicano che un eccesso di glucocorticoidi causa alterazioni morfologiche parzialmente reversibili nelle strutture ippocampali e nella corteccia prefrontale (McEwen, 1997, 1999), che dovrebbero a loro volta inibire l’HPA. Tuttavia il danno ippocampale e prefrontale conseguenti all’eccesso di cortisolo e agli effetti neurotossici dello stress contribuiscono ad un ulteriore aumento del cortisolo tramite questa via, innescando un “circuito riverberante” positivo (Sherwood Brown et al., 1999, Gold e Chrousos, 2003). Ipotizzabile è l’intervento anche di altri fattori che inibiscono ad esempio la produzione di fattori neurotrofici quali il BDNF.

Oltre a stimolare l’attività funzionale dell’HPA, lo stress aumenta il rilascio nel cervello di noradrenalina e serotonina dai rispettivi nuclei di origine (nucleo del locus coeruleus e nuclei del raphe) alle aree corticali, subcorticali e limbiche modulandone la loro attività funzionale.

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IL RUOLO DEL CORTISOLO

Il cortisolo ha un ruolo di primaria importanza nell’organismo in quanto agisce a livello di numerosi organi e tessuti; infatti è implicato in molte funzioni essenziali come il metabolismo e l’utilizzo delle proteine, dei carboidrati e dei grassi, nel controllo dell’infiammazione e dei livelli degli zuccheri nel sangue. Partecipa inoltre alla regolazione della pressione arteriosa, dell’attività nervosa e cerebrale, della funzione cardiovascolare e del sistema immunitario.

La secrezione del cortisolo è controllata dall’asse ipotalamo–ipofisi-surrene e viene regolata dal ritmo circadiano del ciclo sonno-veglia, con un picco secretivo da parte della ghiandola surrenale nelle prime ore del mattino, tra le 6 e le 9, a cui fa seguito un progressivo rallentamento lungo la giornata per raggiungere il minimo verso mezzanotte (Angeli 1983). I valori del cortisolo mattutino sono pertanto un buon indicatore della funzionalità massimale corticosurrenalica, mentre il valore registrato dal prelievo notturno, evidenzia il livello più basso della produzione fisiologica giornaliera di cortisolo, ed è quindi un buon indicatore dell’andamento circadiano della sua secrezione surrenalica, con particolare riferimento all’attività basale della corteccia.

Il suo coinvolgimento nella risposta allo stress è tale da essere stato definito “l’ormone dello stress”. Piccoli aumenti di quest’ormone hanno effetti positivi sull’organismo mentre livelli alti hanno dimostrato avere effetti negativi. Il buon esito dell’adattamento allo stress dipende da un buon “bilancio anabolico”, dato dall’equilibrio fra ormoni catabolici (cortisolo) e anabolici (diedro epiandrosterone DHEA, ormone della crescita, growth hormon GH, testosterone, insulin like growth factor IGF-I). Nello stress acuto il bilancio anabolico è determinato principalmente dal rapporto fra cortisolo e DHEA, entrambi liberati in seguito all’attivazione del sistema ipotalamico-ipofisi-surrene. In particolare, il DHEA protegge l’organismo dagli effetti catabolici del cortisolo quindi se il suo livello plasmatico si riduce per effetto di uno stimolo stressante protratto nel tempo prevalgono gli effetti catabolici (Browne et al 1992, Salimi 1994)

Questo fenomeno è si adattivo in quanto permette di controllare lo stress cronico, ma con il tempo porta ad una disregolazione dei sistemi ormonali e del carico allostatico

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(Hechter et al. 1997, Herbert 1997, Mc Ewen e Seeman 1999, Seeman et al. 2001), contribuendo alla comparsa di sintomi depressivi e di malattie croniche (Kennett et al. 1985).

Da un punto di vista psichiatrico, il cortisolo modula l’eccitabilità, il comportamento e l’umore. Livelli troppo elevati possono provocare la comparsa di insonnia, con una diminuzione della frazione di sonno REM e un aumento del sonno ad onde lente e del tempo di veglia. Si possono verificare poi incrementi o flessioni eccessive del tono dell’umore ed una diminuzione della funzione mnesica. Nell’uomo infatti gli effetti dell’ipercortisolemia, dovuti all’esposizione a uno stress cronico, sono particolarmente rappresentati da disturbi del sonno, ridotta capacità di concentrazione e performance cognitiva, psicosi, disturbi psicomotori e ansia. Essi risultano correlati con la gravità dei sintomi e sembrano dovuti all’attivazione dell’asse HPA.

Esempi paradigmatici di grave iperattivazione HPA sono la Sindrome di Cushing per quanto riguarda i disturbi organici e la depressione (Keller 2006; Smith 2004) per quanto riguarda quelli psichiatrici.

Sebbene quindi, gli effetti del cortisolo siano adattativi per l’organismo nel breve termine, è stato proposto che le conseguenze di una cronica esposizione a elevati livelli di cortisolo possano essere nocive. In particolare, una cronica esposizione al cortisolo potrebbe indurre neurodegenerazione a livello encefalico, soprattutto nella regione dell’ippocampo, e produrre così sintomi psichiatrici.

E’ stato anche ipotizzato tuttavia che aumentati livelli di cortisolo potrebbero essere un estremo meccanismo adattivo, attivato nel tentativo di sopperire a una deficitaria funzione dei recettori per i glucocorticoidi, reale causa delle conseguenze psicopatologiche dello stress. A sostegno di questa ipotesi si è visto che la specifica inattivazione dei recettori per i glucocorticoidi a livello corticale, negli animali, produce alterazioni fisiologiche e comportamentali sovrapponibili a quelle descritte durante episodi depressivi nell’uomo.

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MECCANISMO D’AZIONE DEL CORTISOLO SUL SNC E RITMO CIRCADIANO

Nel cervello, il cortisolo mostra grande affinità di legame con i recettori di mineralcorticoidi (MC) presenti nell’ippocampo, risulta invece meno affine ai legami con i recettori di glucocorticoidi (GC) nell’ipotalamo, nell’ipofisi ed in altre zone della struttura cerebrale. La tipologia di recettori coinvolti nei legami con il cortisolo è un fattore direttamente coinvolto nel mantenimento del ritmo circadiano del rilascio dell’ormone corticotropo (CRH): i legami con i recettori di mineralcorticoidi prevalgono nella prima fase notturna (durante la fase di abbassamento del livello di cortisolo), mentre i legami con i recettori di glucocorticoidi (sia nell’ipotalamo che nell’ipoccampo) vengono occupati prevalentemente nell’acrofase (momento di massima concentrazione) del livello del cortisolo, aumentando l’effetto inibitorio di quest’ultimo sulla secrezione di CRH e, conseguentemente, di ACTH.

Una delle possibili problematiche relative all’eccessiva concentrazione di cortisolo, è l’attivazione dei recettori dei glucocorticoidi presenti nell’amigdala, che causa una reazione simile a quella dovuta ad eccesso di stress emotivo e che si verifica appunto quando il livello del cortisolo è tale da aver già in qualche modo saturato i recettori di ippocampo ed ipotalamo. Questa situazione comporta un’inversione del feedback fisiologico del cortisolo, stimolando la sintesi di CRH, con l’estrema conseguenza di un’ulteriore stimolo sulla corteccia delle surrenali a produrre cortisolo, da cui la perdita del ritmo fisiologico dell’asse HPA, nonché la modifica della sua regolazione omeostatica.

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ALTRE RISPOTE ALLO STRESS

· Risposta emotiva

Nella descrizione neurofisiologica si enfatizza l’attivazione degli ormoni adreno-corticali e altri sistemi ormonali, ma occorre tenere presente che la risposta biologica è finalizzata a costruire il supporto metabolico al comportamento, influenzandolo direttamente per azione del sistema nervoso centrale. Quindi la descrizione degli aspetti neurofisiologici della risposta allo stress non può trascurare anche la risposta emotiva. Infatti sembra che lo stress, sia a livello comportamentale che biologico, sia indotto da determinanti di natura emozionale.

Già Selye (1956) aveva osservato che nell’uomo le cause di stress più importanti sono di natura emotiva. L’impatto con uno stimolo provoca l’eccitazione del sistema limbico deputato alle emozioni e arricchisce la risposta emotiva. Il sistema limbico costituisce la parte filogeneticamente più antica rispetto alla corteccia, esso opera influenzando il sistema endocrino e il sistema nervoso autonomo, coordinando le afferenze sensoriali con le reazioni corporee e viscerali. Attraverso la stimolazione elettrica di un suo componente, l’amigdala, sono state notate significative reazioni riguardo al cambiamento del ritmo cardiaco, respiratorio, gastrointestinale e dell’attenzione, funzionali dunque nell’esercitare un controllo comportamentale di adattamento nei confronti di stressors pericolosi.

Mason (1975) ha dimostrato che la reazione di stress si manifesta ogni volta che, un qualsiasi stressor agente sull’organismo induce un’attivazione emozionale mediata dal sistema limbico-ipotalamico. Tali osservazioni hanno condotto ad una ridefinizione dello stress quale risposta relativamente aspecifica, modificando il concetto classico di Selye (1936). Tanto più importante è un evento per l’individuo, tanto più intensa sarà la sua risposta emotiva e conseguentemente la reazione di stress.

Oggi la dicotomia omeostasi fisiologica e psicologica è superata. L’organismo vive in un sistema aperto, che scambia continuamente materia verso l’interno e verso l’esterno. Lazarus (1984) ha precisato che lo stress non risiede né nella situazione né nell’individuo, ma in una transazione dall’uno all’altro. Lo stress può quindi definirsi “transazionale”, implica cioè un continuo scambio di energia fra i due poli della relazione individuo-ambiente, per cui gli input di entrata (stimoli) subiscono una rielaborazione ad opera dei processi psichici.

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· Risposta comportamentale

L’esposizione allo stress si è dimostrata capace di determinare non solo alterazione dell’asse HPA ma anche alterazioni comportamentali.

Nello “swim test”, dove si prevede che un topo sia collocato in un cilindro contenente acqua dal quale non può uscire, è stato osservato che il topo nuota per circa un quarto d’ora e poi, rendendosi conto di non poter uscire, assume una posizione passiva. Ripetendo il test il giorno dopo, il topo assume l’atteggiamento passivo più precocemente.

Un altro modello tipico è la “learned helplessness” (impotenza appresa) proposta da Seligman (1974) nello studio della depressione. La premessa che sta alla base di tale teoria è che la passività e la sensazione di essere incapace di agire e di controllare la propria vita, vengono acquisite attraverso traumi ed esperienze negative su cui l’individuo ha cercato inutilmente di esercitare il proprio controllo e che hanno creato un senso di impotenza. L’autore nei suoi esperimenti osservò che gli animali che vivono in una situazione in cui non possono controllare gli stimoli negativi a loro diretti sviluppano un comportamento simile a quello che caratterizza il disturbo depressivo e quindi principalmente passivo. Questo sentimento appreso tende poi ad influire, in maniera grave e deleteria, sulla prestazione in situazioni dove lo stress può essere controllato.

La “teoria dell’impotenza appresa” è stata successivamente integrata con “la teoria attribuzionale di Weiner” (1971) dando origine alla “teoria dell’attribuzione causale” di Abramson, Seligman e Teasdale (1978). Secondo questa posizione teorica gli individui che tendono ad attribuire una causalità interna a degli eventi negativi (locus of control interno), ritenendoli stabili nel tempo e globali, tendono a reagire con depressione e disperazione. Abramson e collaboratori parlano a questo proposito di stili attribuzionali e sostengono che tali stili influenzano il grado in cui un evento viene vissuto come stressante e spiegano i vissuti di impotenza e di disperazione di alcuni individui di fronte ad esso.

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· Risposta Immunitaria

La psico-neuro-endocrino-immunologia (PNEI) (Biondi, 1994) è la disciplina che si occupa dei cosiddetti effetti diretti degli eventi e dell’impatto dello stress sul sistema neuro-ormonale e di conseguenza della risposta immunitaria alle modificazioni endocrine e neuronali. Eventi di vita e stress sono due concetti strettamente collegati.

Già Selye aveva messo in evidenza un effetto dello stress sul sistema immunitario (SI) tanto che uno degli elementi della “triade dello stress” era l’ipertrofia del timo, delle strutture linfatiche e una condizione di ridotta resistenza agli agenti infettivi.

Nel corso degli anni successivi queste prime intuizioni sono state ampiamente confermate. E’ stato infatti possibile osservare, attraverso l’uso di sofisticate metodiche di indagine da laboratorio, come l’esposizione ai più svariati tipi di agenti stressanti sia in grado di produrre costantemente significative alterazioni della funzionalità immunitaria. L’effetto più comunemente osservato negli animali stressati è la comparsa di uno stato di immunodepressione, sia a carico della componente cellulare che di quella umorale. Queste rilevazioni, condotte sugli animali, hanno trovato ampia conferma anche negli esperimenti sull’uomo.

A questo riguardo, risultano di notevole interesse i dati riportati in studi in cui è stato valutato come lo stress emozionale prodotto da vari eventi di perdita (per esempio morte del coniuge) sembri associarsi a soppressione della reattività immunitaria dei linfociti T e B ai mitogeni (sostanze che stimolano la mitosi cellulare e la trasformazione dei linfociti), la quale si protrae a lungo con un ripristino dei normali equilibri funzionali solamente dopo molti mesi.

I risultati dello studio di questi fenomeni sono riconducibili ad un meccanismo che vede la sua principale sede di modulazione nell’ambito del sistema nervoso centrale. Di particolare importanza appare il compito svolto dall’ipotalamo, dato il suo ruolo nel coordinamento delle risposte emozionali e delle reazioni di stress. E’ stato infatti possibile rilevare come vari ormoni, tra cui principalmente l’ACTH, il cortisolo, l’ormone della crescita, la prolattina e le catecolamine siano in grado di intervenire nella regolazione di varie riposte immunitarie. L’azione immunodepressiva della maggior parte di questi ormoni è ormai ampiamente documentata, anche sulla base delle evidenze farmacologiche derivanti dall’uso clinico dei derivati corticosteroidei a scopo immunosoppresivo. Secondo quanto

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afferma Bottaccioli (1997), la somministrazione anche di una sola dose di cortisonici comporta una riduzione dei macrofagi del 90% e dei linfociti del 70%.

E’ quindi possibile concludere che la reazione di stress è legata ad una condizione depressiva del sistema immunitario, conseguente a modificazioni funzionali rilevabili a carico di alcuni assi ormonali e in particolare dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene. Tutto ciò influenzerà in primo luogo i sistemi nervoso ed endocrino e quindi l’intero organismo, predisponendolo a innumerevoli potenziali problematiche organiche e psichiche.

STRESSORS E PSICOPATOLOGIA

Un legame diretto fra eventi e malattie è presente da secoli in psicopatologia: basti pensare al ruolo di certi eventi della vita considerati come cause “morali” della pazzia, descritte da Esquirol (1938)

L’idea che gli eventi di vita possano influenzare la resistenza umana alle difese si ritrova persino nella medicina indiana, assira, greca e romana (Zilboorg e Henry, 1941; Rahe, 1995). Già Galeno parlava dell’origine delle malattie come derivanti “dall’impatto tra una serie di cause esterne, quali la dieta, il regime di vita, l’ambiente fisico e sociale, i veleni e una predisposizione corporea che è suscettibile al loro influsso, o addirittura predisposta a subirlo” (Vegetti, 1983). Dopo il periodo buio del Medioevo in cui la malattia mentale è stata attribuita a forze demoniache, solamente all’inizio del XIX secolo quando il malato mentale è divenuto oggetto di studio scientifico, la relazione esistente tra un qualsiasi fattore esterno e una risposta patologica dell’organismo è divenuta uno dei centri di interesse dell’epidemiologia medica e della psicopatologia.

La conclusione delle messe di studi che è seguita a questa presa di coscienza è che eventi traumatici acuti e cronici possono essere all’origine di disturbi psicopatologici ed entrambi possono alterare la personalità (Marmer, 1999).

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I termini “eventi di vita” o “eventi stressanti” sono tendenzialmente utilizzati come sinonimi per indicare quegli avvenimenti occorsi nella vita di un individuo oggettivamente identificabili, delimitabili e circoscritti nel tempo che modificano in modo variabile e sostanziale l’assetto di vita della persona, richiedendo un significativo sforzo di adattamento alla nuova situazione (Biondi & Brunetti,1988).

È possibile differenziare gli eventi stressanti in: eventi consueti e quotidiani, eventi relativamente rari ma presenti nella vita di ognuno (es. lutti; matrimonio; divorzio), eventi eccezionali (es. catastrofi), ed eventi particolari (es. stupro, rapina).

Da sempre la psicopatologia ha messo in relazione i fenomeni psichici abnormi con accadimenti esterni e l'argomento è stato affrontato con due ottiche: da una parte si è cercato di mettere in relazione gli eventi esterni con le reazioni psicopatologiche (letteratura life-events) dall'altra parte si è posto l'accento sull'elemento qualitativo della percezione individuale dell'evento (letteratura psicodinamica).

Molti eventi in quanto tali non sono prettamente stressanti, ma è il modo in cui un potenziale stressor viene percepito ed il significato che ad esso viene attribuito dall'individuo che determina se questo verrà vissuto come stressante o meno. Talvolta, eventi vissuti in modo negativo da una persona potrebbero essere vissuti in modo positivo da altri. In merito la letteratura indica alcune caratteristiche peculiari degli stressors in base alle quali si possono distinguere eventi percepiti come più o meno stressanti.

Secondo Sarason et al. (1978) gli eventi negativi mostrano una relazione più forte con il distress psicologico e i sintomi fisici rispetto agli eventi positivi (Sarason, Johnson, & Siegel, 1978), in quanto gli eventi stressanti negativi potrebbero avere implicazioni maggiori sul concetto di sé, comportando una perdita di autostima. Vi è però un'eccezione, infatti, Brown osservava che per le persone che hanno un’immagine di sé negativa, effetti avversi sulla salute sono determinati dagli eventi positivi piuttosto che da quelli negativi; mentre per le persone con una alta autostima, gli eventi positivi sono associati ad una salute migliore (Brown & McGill, 1989).

Thompson (1981) focalizza l'attenzione sulla controllabilità di un potenziale evento e dai suoi studi emerge che gli eventi non controllabili o imprevedibili sono percepiti come più stressanti rispetto a quelli controllabili o prevedibili.

Ulteriore fattore che incide sulla percezione degli eventi come più o meno stressanti è l'ambiguità dell'evento. Secondo Billings & Moos (1984) gli eventi ambigui sono percepiti come più stressanti rispetto a eventi definiti, poiché quando un potenziale stressor è ambiguo non si ha possibilità di fare qualcosa e le proprie risorse tendono ad essere impiegate

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primariamente nella comprensione dello stressor. Mentre eventi ben caratterizzati permetterebbero di superare una prima fase di definizione della problematica per indirizzare le proprie risorse nella ricerca di possibili soluzioni.

Infine è più probabile che le persone percepiscano gli eventi come maggiormente stressanti se tali incidono su aspetti centrali della loro vita rispetto a quelli periferici (Swindle & Moos, 1992). Ad esempio è stato scoperto che gli eventi negativi che colpiscono le relazioni personali sono i maggiori predittori di depressione per le persone che vivono le relazioni di dipendenza come aspetti centrali della propria vita, rispetto a quelle che non attribuivano un’ importanza significativa a tali aspetti (Hammen, Marks, Mayol, & DeMayo, 1985).

Quindi eventi negativi, incontrollabili, ambigui che riguardano aspetti centrali della propria vita potrebbero essere percepiti come più stressanti rispetto agli eventi positivi, controllabili, chiari, gestibili o che incidono su aspetti periferici esistenziali.

Per quanto riguarda il significato che viene attribuito agli eventi, esistono eventi con un peso più o meno importante uguale per tutti (la morte di un figlio ha sicuramente un peso molto maggiore di un cambiamento di residenza) ed esiste un significato specifico che ciascuno di noi attribuisce ad un evento in base alla propria esperienza e al proprio background socio-culturale. Faravelli (1985) sostiene che il significato individuale di un evento di vita nasca dalla somma di una quota di significato personale, che si riferisce a quell’individuo “qui ed ora” e pertanto irripetibile, con una quota di significato di gruppo che è comune ad ogni persona. Quest’ultimo rappresenterebbe la porzione di significato che un individuo ha in comune con le altre persone dello stesso background socio-culturale (pari a circa i 2/3 del significato totale). Tendenzialmente vi è una buona sovrapposizione tra il significato individuale e significato di gruppo nei normali, mentre tale concordanza è minore nei malati psichiatrici, in cui la quota di significato comune si riduce drasticamente.

Uno degli autori che maggiormente ha approfondito questo aspetto è stato Lazarus, (1966) il quale introduce il concetto di stress psicologico per indicare la situazione nella quale la reazione individuale dipende dalla valutazione cognitiva dello stimolo. Secondo il modello di Lazarus e Folkman (1984) quando un individuo si confronta con un ambiente nuovo o in cambiamento si avviano due distinte forme di valutazione (appraisal): la valutazione primaria, per determinare il significato dell'evento, che può essere percepito come positivo, neutrale o negativo in base alle sue conseguenze, e nelle stesso tempo la valutazione secondaria, in cui la persona valuta, le proprie risorse e capacità (strategie di coping) per far fronte allo stimolo stressante. Quindi l’esperienza soggettiva dello stress è determinata

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dall’equilibrio tra i processi di valutazione primaria e secondaria, ovvero l' evento sarà tanto più stressante quanto più l’individuo si percepirà inadeguato e incapace di fronteggiarlo.

Tali dati suggeriscono che la reazione abnorme all'evento potrebbe trovare la sua giustificazione oltre che nel carico di eventi traumatici che eccede la soglia di tolleranza dell'individuo, anche in elaborazioni intrapsichiche particolari, tali da attribuire all'evento significati del tutto personali.

Le prime interpretazioni sulla relazione fra gli eventi di vita e i disturbi psichiatrici si dividevano in un’ipotesi qualitativa e una quantitativa. Secondo il modello qualitativo, sostenuto da Paykel et al. (1971), solo gli eventi negativi, legati a una perdita o ad una situazione non controllabile, hanno un ruolo patogeno; mentre, l'ipotesi quantitativa (Holmes et al.,1967; Kaplan et al.,1983) suggerisce che l'evento indipendentemente dalla sua positività o negatività è un fattore rilevante nella vita di ogni soggetto in quanto in grado di suscitare uno squilibrio che si manifesta sottoforma di sintomi (Holmes et al., 1967; Dohrenwend et al., 1973).

Un aspetto importante da evidenziare è che non tutti coloro che vivono dati eventi vanno poi incontro a episodi di malattia, in quanto sembra che gli eventi favoriscano l’esordio dei disturbi non solo in quanto accadimenti che generano uno squilibrio Hinkle et al.1975), ma poichè interagiscono con altri fattori, quali caratteristiche personologiche (Henderson et al., 1981), fattori familiari (Perris et al., 1982) e biologici (Maier et al., 1998). L’elemento biologico più importante è lo stress, poiché in grado di attivare i sistemi neuroendocrino e immunitario e indurre un quadro clinico come conseguenza dell’esaurimento dei meccanismi anti-stress.

L’evento rappresenta un co-fattore in soggetti predisposti, ovvero che hanno una certa vulnerabilità di tipo psicologico o biologico.

Gli eventi di vita gravi possono essere distinti in eventi di vita precoci (early life events) ovvero elementi di predisposizione, fattori di rischio e in eventi di vita recenti (recent life events) ossia fattori scatenanti o precipitanti. Gli eventi predisponenti si riferiscono a quegli eventi avvenuti durante l’infanzia e l’adolescenza, periodo di formazione psicologica e potrebbero costituire un fattore di predisposizione alla malattia. La maggior parte degli studi

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fissa come cut-off i primi 15 anni di vita. Gli eventi scatenanti rappresentati invece dagli eventi recenti, responsabili di un certo grado di stress, si verificano in età adulta, nei 6-12 mesi precedenti l’esordio di una patologia (Cosci, Cecchi, Valgiusti e Faravelli, 2004).

Un’ulteriore classificazione può essere fatta tra gli eventi recenti, in base al controllo esercitato dall'indiviuo su di essi, distinguendo eventi dipendenti e indipendenti. Gli eventi di vita dipendenti sono quelli sotto il controllo della persona, ovvero quelli il cui verificarsi potrebbe essere dovuto al comportamento della stessa, mentre gli eventi di vita indipendenti sono quelli che non sono sotto il controllo della persona (Faravelli & Pallanti, 1989). Eventi come il divorzio, la perdita del lavoro sono abitualmente considerati dipendenti, mentre la morte di un parente o un danno economico causato da una catastrofe naturale vengono generalmente considerati indipendenti (Faravelli et al., 2007).

Tale distinzione è estremamente importante per un'accurata valutazione di una possibile associazione tra eventi e psicopatologia, in quanto consente di controllare che l’evento, ipotizzato causa della psicopatologia, non sia conseguenza di un comportamento già disturbato. In letteratura vi sono diverse indicazioni circa il controllo di questa variabile, tra cui la lista degli avvenimenti stressanti di Paykel (Paykel et al., 1971).

Infine non è possibile concludere questo paragrafo non facendo un breve cenno ai cosidetti Positive Life Change (PLC). Si tratta di eventi che comportano importanti cambiamenti, o che neutralizzano life events negativi o che consentono la realizzazione di progetti o il raggiungimento di uno scopo o che producono stabilità. Questi PLC sarebbero più frequenti nei 3 mesi precedenti la guarigione di un episodio depressivo o ansioso favorendone la guarigione. PLC che favoriscono l’aumento di speranza, la possibilità di ricominciare, agirebbero di più sulla depressione, quelli che consentono maggiore sicurezza e stabilità agirebbero di più sull’ansia (Needles e Ambramson, 1990).

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Misurazione e valutazione dei life events

Nella valutazione degli eventi di vita l'intervista rappresenta lo strumento basilare per la raccolta dei dati relativi agli eventi. Tradizionalmente si distinguono tre diversi metodi di valutazione: normativo, soggettivo e contestuale.

Il metodo normativo deriva dalla raccolta e dall’osservazione degli eventi di vita che si verificano nella popolazione generale, presenta una metodologia di derivazione sociologica, presuppone ricercare il significato degli eventi nel gruppo considerando che il peso di un evento all'interno di un dato gruppo sia uguale per tutti i membri (Faravelli, 1985). Nel 1964 Rahe et al. identificarono una serie di 43 eventi che sembravano significativamente frequenti prima dell’inizio di molte malattie somatiche. La prima scala messa a punto seguendo il metodo normativo è nata sottoponendo questa lista di eventi al giudizio di 400 soggetti sani che ha consentito di costruire un sistema di pesi che considera il diverso impatto degli eventi della lista sulla salute. La Social Readjustment Rating Scale (SRRS) di Holmes e Rahe (1967), insieme alla sua versione clinica (il questionario Schedule of Recent Experience SRE) elenca i 43 eventi di vita più comuni nella vita delle persone e ritenuti in grado di indurre stress e richiedere risorse per farvi fronte ed adattarsi. La SRRS ha un sistema di punteggi per gli avvenimenti, detti Life Change Units, che va da 0 a 100, stabilito in base allo sforzo di riadattamento sociale richiesto da ogni evento.

Gli eventi di vita più comuni, in base alla loro natura e conseguenze, vengono classificati con il metodo normativo in modo diverso dagli autori e raccolti in apposite checklists o interviste dove vengono pesati, ordinati in base alla loro gravità e grado di interferenza o di stress che apportano. Si ipotizza che far fronte ad un certo tipo di evento sia più difficile rispetto al far fronte ad un altro o che un evento positivo apporti meno stress di uno negativo.

Rientra nel metodo normativo anche la lista di Paykel, descritta nel dettaglio nel capitolo successivo (Paykel, 1971).

Il limite principale di tale metodo è il non considerare sufficientemente le differenze inter- e intra- individuali e, come precedentemente descritto, non tutti gli individui provano lo stesso tipo di stress di fronte ad uno stesso evento e un certo tipo di evento può essere più difficile da sopportare per alcune persone rispetto ad altre. Inoltre non considera il contesto di vita intorno al verificarsi degli eventi, risultando troppo rigido come sistema di valutazione (Faravelli et al., 2004). Un altro limite è dovuto alla mancata chiarezza nella definizione degli

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eventi e la possibile confusione tra eventi e sintomi suscitati dagli eventi stessi (Brown e Harris 1978).

Il metodo soggettivo utilizza misure self-report per la classificazione degli eventi e, diversamente dal metodo normativo, non dà all'evento un valore assoluto identico per tutti ma ne riconosce un valore personale individuale in un preciso momento della sua vita. Si chiede ad ogni individuo di valutare la gravità di un evento in base all’impatto che questo ha avuto sulla propria vita. Gli eventi vengono quindi pesati direttamente dai soggetti e il peso ne rappresenta il significato soggettivo (Faravelli et al., 2004).

Alcuni sturmenti che rientrano in questo metodo sono il Recent Life Changes Questionnaire (RLCQ), una versione di Rahe del 1975 con modifiche apportate alla precedente scala e contenente 74 eventi e il Life Experience Survey, scala che suddivide gli eventi in tre classi (eventi con impatto negativo, positivo o neutro), pesati dai soggetti intervistati tramite una scala Likert a 7 punti, con punteggi da estremamente negativi (-3) a estremamente positivi (+3), e costituita da una lista di 47 eventi che sono per la maggior parte gli stessi indicati da Holmes e Rahe (Sarason et al., 1978).

Nonostante questo metodo consideri le differenze inter- e intra- individuali non è esente da limiti, in quanto oltre all’evento in sé e al suo contesto sono raccolte anche le relazioni emotive degli individui e le conseguenze che l’evento ha su di loro (Faravelli e Ambonetti, 1983), risultando la valutazione viziata da tali fattori, così come dalla personalità dei soggetti (Faravelli et al., 2004). Inoltre, dal confronto tra il gruppo di controllo e quello dei pazienti è apparso che quest'ultimo è più incline a dare importanza agli eventi per poter giustificare le cause del proprio malessere (“ricerca del significato”) (Brown e Harris, 1978; Dohrenwend, 1979). A seguito di tali limiti l'utilizzo del metodo soggettivo è limitato agli studi prospettici (Faravelli et al., 2004).

Il metodo contestuale, introdotto da Brown e Harris (1978), rappresenta un buon compromesso rispetto ai precedenti. Gli eventi sono raccolti tramite intervista semistrutturata che valuta gli eventi biografici, i contesti in cui questi si sono verificati, le circostanze e ogni elemento ritenuto significativo per la storia di vita dei soggetti. Gli intervistatori ignorano le reazioni emotive dei soggetti. Elemento caratterizzante tale metodo è la raccolta dei dati separata dalla loro valutazione: prima gli intervistatori raccolgono gli eventi; in seguito altri, ignari dei soggetti e delle loro esperienze e caratteristiche, valutano la gravità, in base a come l’evento sarebbe stato valutato da una persona media con l’utilizzo di opportune scale di misura.

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L’intervista introdotta dagli autori è la Bedford College Life Events, in cui sono considerati gli eventi (stressor specifici) e le difficoltà (vicende avverse alla vita) dei soggetti, gravità ed indipendenza (Brown, 1974; Brown & Harris, 1978). Le scale utilizzate dai valutatori presentano un punteggio di gravità che va da 0 a 4 (Faravelli et al., 2004).

Tale metodo permette di evitare il problema della ricerca di significato e il rischio di circolarità tra eventi e conseguenze, in quanto gli intervistatori ignorano le reazioni emotive degli intervistati e la raccolta è separata dalla valutazione. Inoltre si ritiene tale obiettivo riproducibile e applicabile ad un vasto range di situazioni. Tuttavia la complessità e l'ingente quantità di tempo per la sua implementazione ne rappresentano il limite principale (Faravelli & Ambonetti, 1983).

In uno studio comparativo sui tre metodi con l’assessment degli eventi nei disturbi depressivi, sono stati raccolti gli eventi recenti nei 12 mesi precedenti all’esordio del disturbo nei pazienti e comparati con quelli di soggetti in salute. I risultati indicano che per quanto riguarda la riproducibilità e validità i tre metodi non differiscono molto, mentre la sensibilità (la capacita di discriminare tra soggetti depressi e controlli) è elevata nei metodi contestuale e normativo, meno nel metodo soggettivo e inoltre risulta che i tre metodi misurano fenomeni parzialmente diversi. Tuttavia la scelta dello strumento rimane legata alle specifiche ipotesi della ricerca ed a questioni strettamente pratiche (Faravelli & Ambonetti, 1983).

Nello studio e valutazione del ruolo degli eventi nella psicopatologia bisogna necessariamente considerare alcuni accorgimenti metodologici.

In primo luogo, per poter considerare l'associazione tra eventi e psicopatologia di tipo causale è necessario che l'esposizione agli eventi preceda temporalmente l'episodio, ciò implica la necessità di datare con precisione l'evento, diversamente vi è il rischio di accettare come causa eventi che in realtà sono conseguenze dell'alterazione dello stato psichico, inoltre tener presente la difficoltà nel riuscire a definire con precisione l'insorgenza di un episodio di malattia che presente in forma latente potrebbe indurre gli eventi ritenuti causa dello stesso. In secondo luogo, la maggior parte degli studi sugli eventi di vita sono retrospettivi, per cui si basano sul ricordo del soggetto che può essere falsato da problemi di memoria dovuti alla sintomatologia patologica o da un search of meaning (Brown & Harris 1978), ovvero la ricerca di un legame cause-effetto tra evento e malattia.

Infine, i soggetti con patologia psichica possono essere stress-prone, cioè inclini a causare eventi stressanti. Tuttavia è dimostrato come il numero di eventi sia sovrapponibile tra pazienti e controlli con la sola differenza della coincidenza temporale dell'evento con l'episodio di malattia.

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EVENTI DI VITA PRECOCI E PSICOPATOLOGIA

Freud, in Lutto e melanconia (Freud, 1957), mise per primo in evidenza la relazione fra perdita dell’oggetto d’amore e depressione.

La concezione psicoanalitica, per quanto criticata, ha lasciato in eredità il concetto di nevrosi non più per designare una qualsiasi malattia nervosa come nel secolo XVIII, ma per indicare la presenza di un conflitto psichico irrisolto che trae origine dall’infanzia. Il concetto di evento in psicopatologia è legato fondamentalmente alla nevrosi, così ancora ai giorni nostri la nevrosi è definita come una “reazione psicologica ad un’esperienza continua o acuta di stress, che si esprime in emotività o comportamento che alla fine risultano inappropriati nell’affrontare quello stress” (Sims, 1995).

L’importanza di un evento subito durante l’infanzia e l’adolescenza è allora diventato oggetto di studi sistematici, alcuni dei quali dimostrano una relazione tra trauma e sviluppo di una psicopatologia come la depressione (Pine, Cohen, Johnson e Brook, 2002) o lo sviluppo di fattori di vulnerabilità come per il disturbo bipolare (Post, Leverich, Xing e Weiss, 2001).

Diversi lavori hanno confermato tale relazione sottolineando come accadimenti traumatici con significato di perdita, avvenuti nei primi anni di vita, diano luogo ad una vulnerabilità che porta l’individuo ad elaborare in modo patologico successive esperienze di perdita.

La maggior parte degli autori concorda nell’avvalorare l’ipotesi che eventi di perdita, quali morte o separazione duratura da almeno uno dei due genitori, costituiscano in qualche misura un fattore di rischio per l’insorgenza della depressione in età adulta. Nel 1961 Brown ha riscontrato una maggiore incidenza di eventi traumatici precoci (morte di un genitore) in pazienti depressi, rispetto ai controlli (41% versus 19% dei pazienti medici e 16% della popolazione generale). Il dato è stato poi confermato da Forrest (Forrest, Fraser e Priest, 1965) e Dennehy (1966), evidenziando una maggiore presenza di maschi con perdita della madre e di femmine con perdita del padre. Nel loro studio Hill e Prince (1967) hanno considerato un campione di pazienti psichiatrici non depressi come gruppo di controllo e osservato che i soggetti di sesso femminile con diagnosi di depressione erano più frequentemente rimasti orfani del padre all’età di 10-14 anni. Il peso di questo tipo di eventi nella patogenesi della depressione è stato analizzato anche in relazione all’età del soggetto al

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momento dell’evento; in particolare Brown (Brown , Harris e Copeland, 1977) ha evidenziato che la perdita della madre prima degli 11 anni ha un maggiore significato rispetto a quella in età più avanzata. Ciò è stato confermato da molti studi successivi (Roy, 1978; Agid, Shapira e Zislin, 1999) con poche eccezioni (Tennant, Hurry e Pebbington, 1982). Infine, è risultato che la perdita della madre (per morte o separazione), rispetto alla perdita del padre, è più spesso associata all’insorgenza della depressione (Brown, Harris e Copeland, 1977; Munro e Griffiths, 1969; Kunugi, Sugawara, Aoki, Nanko, Hirose e Kazamatsuri, 1995). Tuttavia il dato non è confermato in modo univoco (Hill e Prince, 1967; Roy, 1985). I risultati sembrano confermare l’ipotesi che una parte sostanziale degli eventi di perdita verificatisi nei primi anni di vita dei soggetti depressi sia legata ad una maggiore incidenza di disturbi psichiatrici nei loro familiari (Paykel, 1982). In contrasto con l’evidenza di una relazione statisticamente significativa fra eventi di perdita in età precoce e depressione, alcuni autori (Oltman, McGarry e Friedman, 1952; Perris, Holmgren, von Knorring e Perris, 1986) non hanno riscontrato un maggior carico di early life event nei depressi rispetto ai controlli. È necessario sottolineare che in questi casi il campione preso in esame comprendeva per lo più casi di depressione bipolare.

Per quanto riguarda la relazione tra eventi di vita e disturbi d’ansia, Horesh ed allievi (Horesh, Ar, Kedem, Goldberg e Kotler, 1997) hanno osservato in un campione di soggetti con diagnosi di disturbo di panico (DP), con o senza agorafobia, che il numero degli eventi verificatisi nell’infanzia era maggiore rispetto ai controlli, con validità della relazione soprattutto fra eventi negativi e patologia. In uno studio non controllato di Shear e colleghi (Shear, Cooper, Klerman, Buscch e Shapiro, 1993), i pazienti con DP riferivano di aver avuto genitori irascibili, critici, con atteggiamento di controllo e di spavento. A conferma di ciò Bandelow e allievi (Bendelow, Spath, Tichauer, Broocks, Hajak e Ruther, 2002) hanno osservato 51 soggetti con DP, con o senza agorafobia, mostrando un numero significativamente maggiore di gravi malattie durante l’infanzia e di handicap fisici nei pazienti, rispetto ai controlli. I pazienti con DP presentavano inoltre più frequentemente problemi familiari legati alla mancanza di impiego dei genitori, a comportamenti violenti dei genitori fra loro e dei genitori verso i figli ed infine abusi sessuali.

I dati di letteratura sulla relazione fra eventi di vita precoci e gli altri disturbi di ansia sono particolarmente scarsi, da citare il disturbo d’ansia generalizzato (GAD) per il quale il numero di abusi sessuali o fisici nell’infanzia è risultato intermedio rispetto a quello rilevato per i soggetti con DP e con fobia sociale, ma comunque superiore a quanto riportato per i

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