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Dal 1980 in poi: guerre e disordini

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Dal 1980 in poi: guerre e disordini

2.1 Iraq contro Iran

La guerra tra Iraq e Iran, scoppiata nel 1980, affonda le sue radici nelle contrapposizioni nate secoli prima tra Mesopotamia sunnita e Persia sciita. In particolare, la questione più annosa che si trascinò per lungo tempo e portò allo scontro armato fu quella relativa alla delimitazione dei confini tra i due paesi.

Il primo accordo confinario tra le due parti venne firmato a Zuhab nel 1639 dopo la vittoriosa campagna di Murat IV contro i persiani; questo però non stabiliva una demarcazione formale sul terreno dei rispettivi possedimenti, bensì la definizione di appartenenza alle varie tribù, con la scomoda conseguenza che il confine si spostava di volta in volta in seguito ai movimenti tribali.

Nel corso dell’Ottocento la Gran Bretagna e la Russia, le due potenze che rivaleggiavano nel Medio Oriente, cercarono più volte di ricomporre i problemi intervenendo direttamente nella negoziazione e nei conflitti sorti nel corso del tempo come a metà anni Quaranta quando, in seguito all’eccidio ottomano a Karbala, mediarono tra i due paesi per mantenere lo status quo ed evitare una guerra dalle imprevedibili conseguenze. Le trattative portarono al Trattato di Erzerum del 1847, frutto di reciproche concessioni: gli ottomani entrarono in possesso della provincia di Zuhab, mentre i persiani della zona montagnosa della stessa e della città di Muhammarah1.

Tuttavia la questione di maggior importanza era quella che riguardava lo Shatt Al-Arab, un fiume interamente navigabile che, posto al confine tra le due zone e formato dalla confluenza tra il Tigri e l’Eufrate, sfocia nel Golfo Persico. Il controllo di questo era di vitale importanza, poiché nel canale si concentrò nel tempo a venire un crescente traffico di petroliere; il trattato di Erzerum assegnò la completa sovranità del fiume agli ottomani, ma fu pesantemente contestato dai persiani che non ne riconobbero la validità sostenendo che l’accordo era stato firmato dall’ambasciatore persiano a Parigi all’insaputa del proprio governo2.

1 V.Strika, La guerra Iraq-Iran e la guerra del Golfo, Napoli, Liguori Editore, 1993, p.50. 2 Ivi, pag.51.

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Questo problema si trascinò fino alla creazione del regno dell’Iraq del 1921 che peggiorò le relazioni tra i due paesi e le arricchì di nuovi contenziosi: andavano infatti definiti i confini settentrionali, abitati su entrambe le sponde da popolazioni curde (come le province di Khaniqin e Qasr Shirin), e protetti i cittadini iraniani che si recavano in pellegrinaggio alle antiche città sante sciite irachene.

Altro grave problema erano la relazioni tra i due nuovi stati: da una parte l’Iraq che si richiamava al sunnismo erigendosi come il guardiano della nazione araba di fronte alla Persia; dall’altro lo stato iraniano, sciita, che percepiva l’Iraq come una minaccia nel timore che il territorio posto sotto mandato diventasse un porto franco per gli interessi occidentali nella regione3 (fu per questo motivo che Teheran decise di

riconoscere ufficialmente l’Iraq solo nel 1929).

La controversia tra i due paesi sembrò arrivare ad una soluzione positiva nel 1937, quando lo stato iracheno prese una decisione inaspettata. Dato che era diventato di vitale importanza per l’Iraq assicurarsi pacifiche relazioni con il potente vicino orientale, Bakr Sidqi si convinse a rasserenare i rapporti con l’Iran: il 4 luglio venne firmato un nuovo accordo con l’Iran che prevedeva la concessione per l’utilizzo dei porti iraniani di Abadan e Khorramshahr e una nuova frontiera lungo il thalweg4 del

fiume per quattro miglia posta in prossimità dei due luoghi.

In sostanza, l’Iraq rinunciava alla sovranità esclusiva per il tratto di acqua in prossimità dei due porti per ricomporre la frattura con lo stato sciita. L’Iran, da parte sua, aveva il diritto di utilizzare il canale a patto che le sue navi issassero la bandiera irachena, venissero comandate da un capitano iracheno e pagassero un pedaggio. Tuttavia la rivoluzione antimonarchica e l’uscita dell’Iraq dal Patto di Baghdad del marzo 1958 riesumò le contrapposizioni tra i due paesi. L’Iran mise in discussione l’accordo del 1937, chiedendo che la linea di thalweg si estendesse per la sua intera distensione mentre l’Iraq sollevò altre questioni come quella riguardante il Khuzistan, la regione più a ovest dell’Iran, abitata in prevalenza da arabi (che infatti la chiamavano Arabistan) che per lo stato iracheno doveva assicurarsi l’autodeterminazione.

3 P.J Luizard, op.cit., p.185.

4 Nella navigazione fluviale il thalweg è il filone (o solco) d’impluvio, cioè quella parte del fiume in cui le acque sono più profonde e maggiore è la velocità della corrente. il termine è usato anche dai diplomatici rispetto ai confini fluviali. Nel caso specifico si decise che nei pressi dei porti di Abadan e Khorramshahr la frontiera doveva coincidere con la linea di massima profondità del fiume.

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Nell’anno successivo i rapporti si deteriorarono a tal punto che ci furono scontri da una parte e dell’altra dello Shatt al-Arab e fu impedito ad alcune navi di entrare nei porti di Bassora ed Abadan5. Nonostante ciò, i due paesi non erano interessati ad una

escalation del conflitto e riuscirono a trovare un accordo nel 1961, grazie al quale la navigazione riprese senza ulteriori complicazioni.

L’equilibrio era destinato a finire tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta quando il rapporto tra nazionalisti arabi e persiani del Golfo si irrigidì in maniera definitiva. Oltre alla questione riguardante i confini, che si ripresentava in modo ciclico da ormai tre secoli, le relazioni tra i due paesi precipitarono definitivamente dopo la presa del potere del Baath e il sostegno offerto da entrambi i paesi ai movimenti rivoluzionari che combattevano contro lo stato nemico. L’Iraq iniziò ad aiutare gli insorti in Oman contro l’Iran, rivendicò sistematicamente il Khuzistan e si pose come il difensore degli arabi nel Golfo, mentre l’Iran sostenne sempre più attivamente le composizioni etnico-confessionali irachene in lotta contro il potere centrale (sciiti e curdi) per indebolire la nuova leadership nata nel 1968. Il 19 aprile 1969 il governo iraniano denunciò il Trattato di Sabadad (1937) interrompendo il pagamento del pedaggio e come deliberata provocazione decise di far scortare dalla marina militare le navi dirette nei porti persiani6. Per replicare a

questo affronto l’Iraq decise di scatenare una guerra a bassa intensità che si svolse dal 1970 al 1975: frequenti furono gli sconfinamenti di frontiera e gli scambi di artiglieria da entrambe le sponde del fiume che lasciarono numerosi morti sul campo, come consistenti continuarono ad essere gli aiuti alle minoranze etniche dei due rispettivi paesi.

Una soluzione pacifica della controversia si concretizzò il 6 marzo 1975, quando al vertice dei paesi OPEC vennero firmati gli Accordi di Algeri: l’Iraq accettò lo spostamento del thalweg lungo tutto lo Shatt al-Arab e l’Iran assicurò la fine del sostegno militare a Barzani e al KDP. Tuttavia, la rivoluzione scoppiata in Iran nel 1978 fece naufragare definitivamente tutti gli sforzi per evitare il conflitto armato e trasformò la monarchia del paese in una repubblica islamica: da qui in poi il rapporto tra i due paesi subì un escalation che portò all’attacco iracheno del 22 settembre 1980.

5 C.Tripp, op.cit., p.221.

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I rapporti tra i due regimi si erano incrinati definitivamente. L’Iran aveva dato vita ad uno stato teocratico che si ispirava alla legge coranica per ogni aspetto della sua vita politica, mentre l’Iraq era uno stato in mano al Baath e a Saddam Husayn, che fondava la sua forza sull’arabismo e sul socialismo. Il leader iracheno, arrivato al potere nel 1979, voleva proiettare l’immagine dell’Iraq come quella di una potenza guida del mondo arabo: ricco, politicamente stabile e forte, con tutte le carte in regola per assumere questa investitura e diventare campione di tutte le cause arabe dal Mediterraneo al Golfo Persico.

Saddam considerava il neonato stato islamico debole ed instabile, turbato da agitazioni nelle province (che ne mettevano in dubbio l’ordine interno) e ormai isolato internazionalmente dopo la rottura delle relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti.

Era un’occasione ghiottissima: l’indebolimento del tradizionale nemico di cui l’Iraq aveva sempre subito l’iniziativa, l’emergere della potenza irachena come nuovo attore principale della regione e la sconfitta definitiva della minoranza sciita nel proprio territorio potevano essere raggiunte con una guerra che, secondo gli alti comandi militari, non avrebbe avuto storia.

Saddam Husayn vide una guerra circoscritta con l’Iran come un modo per costringere il regime iraniano a riconoscere che la bilancia del potere pendeva adesso dalla parte dell’Iraq. La prova tangibile di questo riconoscimento doveva venire dalla cancellazione del trattato del 1975 e dalla restaurazione della sovranità irachena su tutto lo Shatt al-Arab […] la concessione doveva non soltanto far dimenticare la debolezza dell’Iraq nel 1975, ma dimostrare che il nuovo e minaccioso regime iraniano era stato riportato all’ordine dalla potenza irachena7.

Sul piano interno, l’attentato nei confronti di Tareq Aziz dell’aprile 1980 permise al nuovo leader di far passare una legge che condannasse a morte tutti coloro che erano sospettati di essere membri del partito islamista sciita Da’wa e delle organizzazioni ad essa affiliati; una decisione che falcidiò le file dell’opposizione e portò all’assassinio di Baqir al-Sadr, scatenando una durissima reazione dell’ayatollah iraniano Khomeini che invitò parte della popolazione irachena a sollevarsi contro il regime baathista.

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Era il momento che Saddam stava aspettando: ad una seduta dell’Assemblea Nazionale, il 19 settembre 1980, abrogò il trattato del 1975 dichiarando la sovranità irachena su tutto lo Shatt al-Arab.

Il 22 settembre iniziarono le ostilità con l’offensiva irachena sui principali aeroporti persiani e porti di Khorramshahr e Abadan, nel tentativo di scoraggiare immediatamente la resistenza dei nemici. Il piano iracheno prevedeva tre operazioni parallele lungo la maggior parte del confine con l’Iran: a sud un attacco ai pozzi petroliferi del Khuzistan per separare la zona dal resto del territorio, al centro e al nord l’invasione dei confini in corrispondenza di Mehran e Penjwen.

Le iniziali vittorie irachene (la più importante fu la conquista di Khorramshahr il 10 novembre) dettero la sicurezza a Saddam che il conflitto si sarebbe concluso in poco tempo: il debole e instabile regime islamico avrebbe invocato la fine della guerra per arrendersi al volere dell’Iraq. Il nuovo leader pensava non tanto a conquiste territoriali (interessava solo l’autodeterminazione del Khuzistan), quanto ad un piano per rovesciare i fondamentalisti, dando forza alle opposizioni laiche, erigendosi definitivamente come il leader arabo dell’intera regione mediorientale. Ma tutto ciò si rivelò un catastrofico errore di calcolo.

Il governo iraniano vide nell’attacco un modo per mettere alla prova la rivoluzione appena conclusa e la guerra di aggressione condotta da Saddam, divenne nell’immaginario islamico l’attacco alla comunità dei giusti, degli offesi, dei perseguitatati dalla tirannia laica. In questo quadro retorico Khomeini attinse a piene mani invocando il sacrificio di ampie fasce della popolazione8. Questa prima fase del

conflitto evidenziò quindi la superiorità militare irachena ma anche l’ottimismo, l’organizzazione e la disponibilità al martirio iraniano che non sarebbero stati sconfitti facilmente.

Fu per questi motivi che il 28 settembre, quando il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite chiese il cessate il fuoco, l’Iraq si rese disponibile, mentre l’Iran rifiutò l’offerta. Lo stato islamico faceva affidamento sulla superiorità dell’aviazione di Teheran e sull’abilità dei pasdaran di combattere nei centri abitati per cercare di spingere i soldati iracheni fuori dai confini.

Tra il 1981 e il 1982 iniziò la controffensiva iraniana denominata “La via di

Gerusalemme”, che costrinse le forze irachene costrette ad abbandonare la maggior

parte dei territori occupati nel 1980: i persiani riconquistarono Abadan nel settembre

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1981 e Khorramshahr nel marzo 1982 iniziando il loro primo attacco in territorio iracheno il 13 luglio dello stesso anno.

La controffensiva persiana aveva colto di sorpresa Saddam, che aveva sicuramente sopravvalutato la potenza del suo esercito e sottovalutato la capacità di reazione dello stato islamico. Il popolo iracheno si accorse ben presto degli errati calcoli strategici del leader e la presunta guerra lampo si rivelò ben presto un conflitto dall’alto costo economico e umano: le riserve di moneta straniera si ridussero da 30 miliardi di dollari del 1980 a circa 3 del 1983, mentre l’introito derivante dalla vendita dell’oro nero diminuì del 70% a causa della distruzione delle strutture petrolifere9; decine di

migliaia furono i morti e circa 40.000 i prigionieri.

Dopo solo due anni dall’inizio delle ostilità iniziò a farsi strada a Baghdad l’imperativo di porre fine alle ostilità, ma alla richiesta irachena Teheran, rinvigorita dalle recenti vittorie, decise nella primavera del 1982 di rilanciare le seguenti controproposte: rovesciamento di Saddam, ingente somma di riparazioni e ripristino del Trattato di Algeri. Non fece neanche mistero della volontà di instaurare un regime islamico in Iraq, prima tappa per affermare l’integralismo in tutta la regione10.

Alla scontata risposta negativa dell’Iraq i persiani ripresero i loro attacchi.

Nel 1983 il comando supremo iraniano sferrò una grossa offensiva nella zona curda. Il KDP, da sempre in conflitto contro il potere centrale, aiutò le forze sciite fornendo supporto locale ed importanti informazioni segrete che permisero agli iraniani di conquistare le città di Hajj ‘Umran e Penjwen, minacciando direttamente l’oleodotto di Kirkuk; gli iracheni cercavano invece di reagire sferrando attacchi aerei contro gli obbiettivi strategici in territorio iraniano, come l’isola di Kharg. Nella parte meridionale tra febbraio e marzo l’Iran prese possesso dell’isola di Manjoon, territorio iracheno ricchissimo di giacimenti petroliferi.

Saddam si trovava quindi a combattere non solo un nemico esterno, ma anche un nemico che aveva in casa, quei curdi che da sempre aspiravano alla propria indipendenza e che vedevano il caos scatenato all’interno dei confini iracheni come il momento propizio per realizzare il loro sogno. Dopo poco il KDP e il PUK strinsero un’alleanza che avrebbe portato ad azioni molto efficaci nei confronti dell’esercito iracheno.

9 R. Radaelli, A. Plebani, op.cit., pp.93-94. 10 V.Strika, op.cit., p.91.

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Per il timore scatenato dall’improvviso capovolgimento delle forze in campo Saddam arrivò a temere per la sua stessa leadership, accusata dai comandi militari e dall’opinione pubblica di aver sottovalutato la forza nemica. La risposta del leader iracheno si articolò dunque lungo due direttive: da una parte cercò di mantenere sempre più stretto il controllo sulla società civile per reprimere sul nascere qualsiasi accenno di dissenso eliminando tutti coloro che potevano rappresentare una minaccia

11; dall’altra effettuò un pesante rimpasto all’interno del corpo ufficiali per prevenire

una possibile fronda interna e rilanciare il piano militare.

Dopo aver appurato che la guerra si era trasformata in una resistenza difensiva, Saddam trovò una linea condivisa con gli ufficiali generali eliminando i responsabili del fallimento sul campo e sostituendoli con uomini a lui vicini; contemporaneamente sostenne in modo sempre più deciso l’acquisto di equipaggiamenti militari pesanti dalle nazioni occidentali, iniziando un piano di sviluppo dell’arsenale non convenzionale (principalmente armi chimiche e batteriologiche) che cambiò l’esito del conflitto.

Per sostenere la spesa militare, che si aggirava sui 15 miliardi di dollari l’anno per l’intera durata del conflitto, negoziò una serie di prestiti sia con l’Unione Sovietica che con i paesi del Golfo filo-occidentali (Bahrein, Kuwait e Arabia Saudita).

Grazie al sostegno economico e militare delle principali potenze occidentali (Washington in primis), spaventate da un possibile dilagare della rivoluzione islamica, l’Iraq riuscì a rallentare l’avanzata iraniana lungo tutto il fronte in attesa che i rifornimenti di armi iniziassero a fare il loro effetto: lo stallo lungo il confine si prolungò infatti fino al febbraio 1986, quando le forze persiane riuscirono ad insediarsi nella penisola di al-Faw (alle foci dello Shatt al-Arab) nel momento del loro maggior impeto. Da quel momento in poi iniziò la controffensiva irachena che permise all’esercito di riconquistare tutti i territori perduti nel corso dei primi anni del conflitto.

Nonostante le numerose vittorie riportate, l’Iran non riuscì a dare la spallata decisiva al regime di Saddam perché, a partire dal 1984, si era aperto un altro fronte che aveva pesantemente colpito la sua economia: la cosiddetta guerra delle petroliere.

Consigliati dalla Francia e aiutati strategicamente dagli Stati Uniti, gli iracheni avevano iniziato ad attaccare con sempre maggior insistenza le installazioni e il commercio navale dell’oro nero iraniano causando consistenti perdite economiche

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che impedirono di finanziare efficacemente lo sforzo bellico. Questi attacchi provocarono rappresaglie da parte iraniana, provocando un rischio costante per il regolare flusso di petrolio.

Durante questi reciproci attacchi alle petroliere i paesi occidentali come Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia ebbero un ruolo principale in quanto mossero il proprio naviglio in prossimità dei combattimenti, con lo scopo neanche troppo velato, di essere coinvolte nel conflitto. Colpita una petroliera battente bandiera americana, dal 1987 gli USA iniziarono ad attaccare frequentemente le installazioni petrolifere e le postazioni militari iraniane, cambiando definitivamente l’esito del conflitto.

Da metà 1986 ebbe inizio la riscossa irachena: tra il maggio e il luglio i militari bombardarono pesantemente la raffinerie di Teheran, Tabriz e Shiraz, la città di Arak ed il terminal petrolifero dell’isola di Sirri.

Dopo mesi di stallo che avevano mostrato all’esercito iracheno come la spinta iraniana sul fronte meridionale si fosse ormai esaurita, Saddam decise di occuparsi della zona curda. A capo dell’armata del nord venne posto il cugino del ra’is, Ali Hassan al-Majid (passato alla storia con il nome di Ali il chimico), che dal marzo 1987 iniziò una strategia aggressiva soprannominata an-Anfal.

La campagna passò alla storia per la sua crudeltà e ferocia: le forze irachene entrarono nelle città curde uccidendo civili, distruggendo interi villaggi e costringendo alla fuga migliaia di persone: le armi non convenzionali utilizzate sistematicamente non risparmiarono neanche donne e bambini. Di fronte a questa crudeltà e alla sproporzione di armamenti la guerriglia curda non riuscì ad organizzare una resistenza adeguata e l’aiuto dell’Iran fu minimo.

Quando l’esercito persiano riusciva a riportare qualche sporadica vittoria le forze irachene reagivano con ferocia: accadde nella città settentrionale di Halabija, dove nel marzo 1988 si verificò il massacro dei suoi abitanti che subirono l’uso massiccio delle armi chimiche ordinato da Hassan al-Majid. Si calcola che queste abbiano causato almeno 4.000 morti in larga parte civili.

Sfruttando il terrore diffuso dall’uso di questi terribili armamenti l’Iraq riuscì a riportare una serie di vittorie militari riappropriandosi della penisola di al-Faw, delle isole Manjoon e di varie località del Kurdistan tra l’aprile e l’agosto 1988, dando inizio ad una grande offensiva che gli permise di superare il confine in più punti. L’Iran, fiaccato da otto anni di guerra e costretto a combattere con un paese rifornito costantemente da modernissimi armamenti, decise di accettare il 18 luglio la

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Risoluzione Onu 598 (era stata precedentemente rifiutata nel luglio 1987 per la pretesa iraniana che si condannasse l’aggressione irachena) che chiedeva un cessate il fuoco: la guerra si era conclusa.

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2.2 Le conseguenze della guerra con l’Iran

La guerra tra Iraq e Iran può essere considerata come una delle più terribili del XX secolo sia in termini di durata che di vite spezzate. Il conflitto iniziato nel 1980 e durato otto anni (superiori persino ai sei anni della Seconda guerra mondiale) si concluse con un numero indecifrabile di morti: secondo stime ufficiali i caduti iraniani sarebbero stati circa 200.000 mentre quelli iracheni un numero variabile tra i 160.000 e i 240.000; tuttavia, il numero complessivo ipotizzato è enormemente più alto, circa un milione sembrano quelli di parte persiana, mentre 400.000 gli iracheni

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Entrambi gli schieramenti sfruttarono la propria propaganda per convincere la popolazione della bontà della decisione di far ricorso alle armi: da parte persiana la guerra condotta dall’Iran contro il regime laico di Baghdad fu paragonata alla conquista dei primi musulmani, da parte irachena Saddam Husayn cercò invece di rinverdire il ricordo dell’epica vittoria araba del 63713. In realtà, lo scoppio del

conflitto fu uno scontro tra regimi che, al di là delle rivendicazioni ideologiche, era più politico che religioso: entrambi i paesi volevano infatti acquistare territori a spese dell’altro ed ergersi a potenza regionale di riferimento nello scacchiere mediorientale. A questo proposito, proprio per un preciso calcolo geopolitico gli Stati Uniti non intervennero subito ed ebbero un comportamento che mutò più volte nel corso del conflitto: vedere i due stati candidati al controllo regionale indebolirsi in maniera reciproca non faceva che favorire la posizione americana nell’intricato mosaico mediorientale.

Inizialmente Washington mantenne una posizione defilata fermando comunque qualsiasi tentativo di condanna dell’Iraq da parte del Consiglio di Sicurezza mentre tra il 1983 e il 1986, con gli iraniani che avevano ribaltato il conflitto a proprio favore, gli Stati Uniti riallacciarono le relazioni con gli iracheni (quelle ufficiali ripresero dal novembre 1984) e condussero operazioni in prima persona, intensificate

12 P.J Luizard, op.cit., p.191.

13 In questo anno a Qādisiyya si tenne la vittoria decisiva degli arabi sui persiani al termine della quale gli sconfitti abbandonarono l’odierno basso Iraq.

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nel biennio 1986-1987. Gli USA non disdegnavano neanche aiuti militari all’Iran, come venne reso pubblico dallo scandalo Irangate14.

L’improvviso cambio di strategia statunitense (la decisione di schierare le proprie navi da guerra nei pressi della costa iraniana ufficialmente dettata dall’urgenza di salvaguardare la sicurezza della navigazione) fu probabilmente suggerito dalle notizie fornite dai servizi segreti USA sul programma missilistico iracheno: il protrarsi della guerra stava minacciando una rischiosa corsa agli armamenti, creando un paese forte e potenzialmente destabilizzante nella regione. E’ questa la spiegazione del crescente coinvolgimento degli Stati Uniti che con il loro intervento diretto riuscirono a cambiare definitivamente l’esito del conflitto.

L’atteggiamento delle superpotenze, spiega come non ci fu alcuna iniziativa diplomatica per portare i contendenti sul tavolo delle trattative, nonostante gli interventi di organismi dei quali facevano parte entrambi, come il Movimento dei paesi non allineati e l’Organizzazione della conferenza islamica15.

Riguardo al raggiungimento degli obbiettivi, gli iniziali scopi iracheni non erano stati raggiunti e gravi problemi si trascinavano ancora tra i paesi: i due stati non avevano firmato un trattato di pace, non conducevano normali relazioni diplomatiche e lo Shatt al-Arab, pomo della discordia, era soggetto a un blocco e quindi inutilizzabile. Continuavano inoltre a manifestarsi tensioni per le questioni dei prigionieri di guerra, del pellegrinaggio degli sciiti iraniani nelle città sante irachene e per le riparazioni di guerra.

La situazione economica era preoccupante: si ritiene infatti che la guerra sia costata all’Iraq tra i 150 e i 200 miliardi16: il debito estero salì a 80 miliardi, mentre la

riduzione delle esportazioni di petrolio soltanto nei primi cinque anni di guerra arrecò al paese circa 55 miliardi di danno.

Per contrastare questa difficile situazione Saddam annunciò la decisione di privatizzare le imprese statali e liberalizzare i prezzi, adottando misure per incoraggiare gli investimenti delle monarchie del Golfo. Tuttavia, queste non riuscirono a raggiungere l’effetto sperato: gli investitori arabi continuarono ad investire nel più sicuro Occidente mentre la liberalizzazione dei prezzi determinò una

14 Irangate (o Iran-contras) è lo scandalo politico che nel 1985-1986 investì i più alti funzionari dell’amministrazione Reagan, al suo secondo mandato. Gli alti funzionari e militari acconsentirono la vendita illegale di materiale bellico all’Iran, i cui proventi servirono per finanziare l’opposizione dei contras nicaraguesi al governo sandinista.

15 V.Strika, op.cit., p.105. 16 Ivi, pag.117.

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grande confusione suscitando polemiche e misure restrittive. A trarre giovamento da queste operazioni furono infatti poche imprese familiari o individuali mentre la maggioranza della popolazione, che nella in larga parte era ancora in condizioni disastrose per aver perso il capofamiglia (l’unica fonte di entrate) durante il conflitto, non trasse alcun beneficio.

Anche il ritorno a casa dei militari causò notevoli problemi. Tra l’autunno 1988 e l’inizio del 1990 tornarono a casa circa 900.000 combattenti: con i gravi danni alle infrastrutture industriali l’economia irachena non riuscì a riassorbire questi potenziali lavoratori creando un preoccupante quadro di disoccupati che non sapevano come e dove essere reinseriti.

Nonostante questi dati disastrosi, l’Iraq non poteva permettersi di ridurre le proprie spese militari: una ripresa del duello con l’Iran non era un’ipotesi remota e Saddam, dopo la vittoria (almeno sulla carta) ottenuta, voleva continuare a porsi con l’immagine di leader dell’area. Solo l’industria bellica non subì sconvolgimenti ma fu invece potenziata.

L’idea di far sorgere un’industria militare propria prevalse a partire dalla metà degli anni Ottanta e proseguì una volta finita la disputa con l’Iran: l’obbiettivo ultimo era quello di raggiungere la parità strategica con Israele per proiettare le forze irachene al primo posto nel mondo arabo, che dal 1987 (prima intifada) stava conducendo una rivolta continua nei territori occupati. Furono progettati vari tipi di missili derivati dagli Scud (capaci di raggiungere i 600 km di gittata e già sperimentati contro i persiani), gli Abbas e il missile anti-missile Faw che dovevano rappresentare il potere militare iracheno. A fine aprile 1989 si tenne una grandiosa sfilata militare nella quale il ministro dell’industria e industrializzazione militare Kasin Hasan dichiarò la possibilità di accordi con l’URSS e la Francia per la costruzione di aerei militari.

L’Iraq riprese inoltre il progetto di programma nucleare che secondo gli esperti poteva portare Baghdad a possedere esplosivi atomici intorno al 1995. Lo stato iracheno aveva già iniziato un piano nucleare a scopo pacifico a partire dagli anni Sessanta (con l’aiuto della Francia), ma questo era stato interrotto il 7 giugno 1981 a seguito dell’attacco israeliano al reattore nucleare Osirak (Al Tuwaitha); ora, grazie ai finanziamenti sauditi e all’aiuto di tecnici pakistani, Saddam voleva rinnovare il progetto in campo militare. Allo stesso tempo lo stato iracheno poteva far

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affidamento sulle armi chimiche e batteriologiche già usate durante la guerra contro persiani e curdi.

La corsa agli armamenti che si stava sviluppando in Medio Oriente non era ben vista: le distanze tra lo stato ebraico e le nazioni arabe ed islamiche si stavano pericolosamente assottigliando ed Israele era sempre più spaventata. L’Intifada, scoppiata a Gaza nel 1987, era incoraggiata e sostenuta da Baghdad con il ra’is che cercava di strumentalizzare il movimento palestinese per trarne giovamento nel mondo arabo: dalla capitale irachena partivano quotidianamente i comunicati sugli avvenimenti e gli annunci di sciopero nei territori occupati. Tel Aviv minacciò l’Iraq di ritorsioni e guerre preventive che Baghdad non sottovalutò, ricordandosi dell’attacco a sorpresa subito nel 1981.

Tuttavia, oltre alla politica estera e alla disastrosa situazione economica che colpiva gravemente l’Iraq, Saddam aveva gravi problemi anche a livello politico interno. Il dittatore sapeva bene che la guerra aveva aumentato le minacce politiche alla sua posizione che venivano principalmente dalla solidarietà corporativa che si era instaurata tra gli alti ufficiali iracheni durante la guerra. Per prevenire un possibile colpo di stato (ipotesi non remota dato che qualche complotto era venuto alla luce tra la fine del 1988 e l’inizio del 1989)17 Saddam si servì dei suoi sistemi di favoritismi e

discriminazione, retrocedendo o degradando alti ufficiali che erano diventati popolari durante il conflitto con gli iraniani: questi risultavano vittime dopo misteriosi incidenti fatali o venivano messi agli arresti senza ragioni plausibili; venivano sostituiti con familiari e parenti di sicura affidabilità che permisero la sopravvivenza politica, anche se governare la famiglia richiedeva un difficile equilibrio.

Questa era quindi la situazione irachena nel periodo che intercorse tra la fine della guerra con l’Iran e l’inizio della nuova sfortunata avventura: ad un’industria bellica in perenne sviluppo e una politica estera aggressiva (per diventare guida indiscussa dello scacchiere mediorientale) faceva da contraltare un paese economicamente in difficoltà e un capo perennemente preoccupato per la sua leadership politica. In questo periodo nella testa della cerchia di Saddam, cominciò a balenare l’idea di utilizzare la forza militare contro il Kuwait, stato piccolo ed indifeso che, una volta

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conquistato, avrebbe dato respiro alle casse irachene e ribadito fermamente le voglia di importanza geopolitica dell’Iraq.

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2.3 Iraq contro Kuwait

La guerra tra Iraq e Kuwait fu frutto di una serie di calcoli errati di Saddam Husayn sulla reale portata di ciò che con le sue azioni avrebbero provocato: l’errore del ra’is fu quello di pensare di poter colpire impunemente il Kuwait, uno dei più grandi fornitori di petrolio degli Stati Uniti d’America. Saddam, appena uscito dalla disputa con l’Iran, voleva affermare il primato nazionale sul Medio Oriente e si impegnò in questa avventura in modo troppo superficiale.

La causa principale del conflitto tra i due paesi mediorientali fu la gestione dei prezzi di vendita dell’oro nero dell’emirato che, secondo il leader, avevano provocato consistenti perdite all’economia di Baghdad già stremata e fatto riaffiorare antiche dispute territoriali.

L’indipendenza del Kuwait, proclamata nel giugno 1961, era da sempre fonte di polemiche: per più di 6000 anni il territorio era stato parte integrante della Mesopotamia e l’Iraq ne contestava l’esistenza accusando il piccolo stato di voler smembrare il proprio territorio privandolo della propria terra; le isole di Bubiyane Warba erano l’esempio più evidente. Queste, controllando l’accesso al Golfo Persico, erano da sempre rivendicate (fin dalla nascita del piccolo emirato), provocando nel corso degli anni qualche apprensione a causa di piccoli incidenti di frontiera provocati dall’Iraq. Nonostante questi problemi, di certo non nuovi in Medio Oriente data l’estrema artificialità dei confini coloniali, l’Iraq aveva riconosciuto piena sovranità ed indipendenza al Kuwait nel 1963 e mai nessuno avrebbe pensato che Saddam avesse potuto mettere in dubbio l’integrità del piccolo stato mediorientale. A far precipitare la situazione furono due questioni legate al petrolio: la prima riguardante i giacimenti di Rumaylah, la seconda provocata dall’improvvisa discesa del prezzo dell’oro nero che rese ancor più precaria l’economia irachena, già devastata da otto anni di guerra con l’Iran.

L’Iraq, per bocca del ra’is e di Tareq Aziz, accusò lo stato kuwaitiano di aver installato un impianto petrolifero nella parte meridionale del giacimento di Rumaylah, che estraeva illegalmente il petrolio iracheno; sempre secondo le alte cariche statali, da questa sottrazione il Kuwait aveva ricavato in dieci anni la somma di 2,4 miliardi di dollari18.

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Tareq Aziz dichiarò durante un’intervista alcuni anni dopo:

Non c’era solo il problema di Rumaylah… ma l’abbiamo sollevato perché il Kuwait, durante la guerra tra l’Iraq e l’Iran, iniziò le trivellazioni orizzontali alla ricerca del petrolio di questo giacimento, che poi è un giacimento iracheno. Quando ci rendemmo conto di questo fatto, eravamo in guerra con l’Iran e non potevamo aprire un altro fronte di crisi19.

Oltre al problema di Rumaylah, la scintilla che nell’agosto 1990 portò Baghdad ad attaccare il piccolo emirato fu l’accusa di voler provocare il collasso dell’economia irachena inquinando il mercato petrolifero. Secondo Saddam, l’eccesso di produzione del Kuwait sulle quote che gli erano state assegnate dall’OPEC aveva portato ad una fortissima contrazione delle rendite petrolifere data da una drastica ed inspiegabile discesa del costo dell’oro nero sul mercato internazionale.

L’istituzione dei paesi esportatori di petrolio aveva fissato il prezzo di riferimento a 18 dollari al barile, obbiettivo che venne raggiunto nel dicembre 1989. A questo seguì un crollo inesorabile che fece abbassare il costo dell’oro nero fino a 13,67 dollari (nel mese di giugno): a queste condizioni l’Iraq non aveva la benché minima speranza di poter risollevare la sua disastrata economia. La nazione irachena non era in grado di aumentare la propria produzione, cosa che invece facevano il Kuwait, gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita senza rispettare le quote stabilite dall’OPEC, come dichiarato candidamente dallo stesso emirato20.

Messo in ginocchio dalla crisi economica provocata dalla lunga guerra contro l’Iran il leader iracheno chiese con insistenza ai paesi arabi del Golfo di aiutarlo in questa difficile situazione cancellando il debito del paese (30/40 miliardi di dollari solo verso i paesi del Golfo, nel quale era compreso l’aiuto economico del Kuwait) e iniziando una politica attiva di produzione del greggio per favorire un aumento dei prezzi. Per fare ciò Saddam giocò la carta del sacrificio pagato dallo stato iracheno negli anni Ottanta per fermare il terrore iraniano: come potevano i paesi del Golfo comportarsi in maniera così scorretta con lo stato che aveva fermato il nemico persiano?

19 Ibidem.

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Se l’Arabia Saudita si dimostrò sensibile, lo stesso non può dirsi per la dinastia regnante in Kuwait che, per bocca del suo emiro Jaber Al-Ahmad Al Sabah, oppose un netto rifiuto.

Forse la motivazione di questo rifiuto fu più politica che economica, ovvero spingere al collasso la maggior potenza militare della regione. Il Kuwait, nazione ricchissima, non aveva certo bisogno di aumentare la produzione del suo bene più remunerativo, né tantomeno ad esigere la restituzione dei crediti di guerra. Erano forse Stati Uniti e Israele che sostenevano la linea dura contro lo stato iracheno per esasperare la contesa e provocare un precipitare degli eventi che avrebbe portato ad un intervento militare della superpotenza per disinnescare la mina vagante Saddam? Fiumi di inchiostro sono stati spesi da intellettuali e storici senza che si sia giunti ad una conclusione univoca.

In seguito a rifiuto Saddam iniziò a considerare l’idea di un intervento armato nel piccolo Kuwait. Il leader iracheno, da parte sua, non disdegnava certo la conquista del piccolo emirato: avrebbe potuto approfittare di una semplice vittoria contro il ricco ma debole stato kuwaitiano per rilanciare l’economia e riaffermare il peso politico-militare in tutto il Medio Oriente.

In un colpo solo il ra’is avrebbe risolto i vecchi problemi confinari con l’emirato impossessandosi delle due isole, assicurandosi inoltre un valido sbocco sul mare. Da un punto di vista economico, invece, l’Iraq avrebbe eliminato uno dei maggiori creditori di Baghdad, risanato le finanze e cosa più importante, si sarebbe assicurato le enormi riserve di petrolio che avrebbero garantito allo stato iracheno un arricchimento senza precedenti (il Kuwait detiene circa la stessa quantità di petrolio dell’Iraq ma in un territorio molto più limitato) 21.

Tra giugno e luglio le trattative tra i due paesi mediorientali giunsero ad uno stallo per poi esplodere in tutta la loro gravità nel giro di pochi giorni, dalla metà di luglio all’attacco del 2 agosto.

Dopo le accuse pubbliche avanzate da Saddam Husayn e Tareq Aziz alle televisioni e alla Lega Araba sui tetti di estrazione del petrolio e sulla questione del giacimento di Rumaylah, il 24 luglio Washington invitò Saddam a tornare sui suoi passi, in seguito allo spostamento di truppe irachene vicino al Kuwait, mosse come prova di forza del dittatore iracheno.

21 Per una carta geografica delle riserve di petrolio presenti in ciascun paese produttore alla data dell’attacco si può vedere M. Valentini, La bomba petrolio, in “Espresso” n.33, 19 agosto 1990, p.77.

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L’episodio più incredibile di tutta la vicenda avvenne il 25 luglio: il ra’is, per chiarire la questione, convocò l’ambasciatrice americana April Glaspie, non facendo mistero delle sue intenzioni bellicose se non fosse riuscito a risolvere in via diplomatica il contenzioso con il Kuwait. Per Tareq Aziz, «il colloquio tra la signora Glaspie ed il leader si mantenne sul binario della normale amministrazione»22. Secondo la

trascrizione araba, mai ufficialmente smentita, l’ambasciatrice spiegò:

Noi non esprimiamo opinioni sui vostri conflitti di arabi con arabi, come la sua disputa col Kuwait. Il segretario Baker mi ha ordinato di sottolineare ciò che fu detto all’Iraq per la prima volta nel 1960, e cioè che la questione del Kuwait non è associata all’America23.

L’ambasciatrice sembrò quindi soddisfare il dittatore iracheno che ebbe l’impressione che la superpotenza non sarebbe intervenuta in caso di ostilità, impressione rafforzata dal fatto che due giorni dopo la signora Glaspie andò in vacanza, non lasciando certo presagire una forte presa di posizione degli Stati Uniti d’America.

Il 27 luglio sembrò arrivare una distensione quando l’OPEC decise di assecondare Saddam concedendo per la prima volta dal dicembre 1986 un aumento del prezzo del petrolio da 18 a 21 dollari, remunerativo anche per l’Iraq. Tuttavia la situazione continuò a precipitare.

Il 30 e 31 luglio si tenne a Gedda l’ultimo negoziato tra la nazione irachena ed il Kuwait, nel quale Saddam avanzò le sue richieste, di fatto inammissibili: «cancellazione del debito con il Kuwait da trasformare in sovvenzione per il ruolo dell’Iraq nel Golfo durante la guerra con l’Iran, un nuovo contributo a fondo perso o un prestito di 10 miliardi di dollari per il risanamento economico dell’Iraq, cessione delle due isole di Warba e Bubiyan per novanta anni […], revisione dei confini territoriali tra i due paesi»24. Allo scontato rifiuto dell’emirato seguì il fulmineo

attacco iracheno del 2 agosto.

In poche ore l’Iraq occupò l’emirato costringendo la dinastia degli Al Sabah a fuggire in Arabia Saudita. Non poteva essere altrimenti: i rapporti di forza erano completamente sbilanciati a favore della nazione irachena che poteva contare su un

22 J.M Benjamin, op.cit., p.27.

23 P. Barnard, Perché ci odiano, Milano, Bur Rizzoli, 2006, p.63. 24 R. Radaelli, A. Plebani, op.cit., p.99.

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esercito di circa un milione di unità e migliaia di carri armati, contro i circa ventimila soldati del piccolo emirato25.

L’attacco iniziò all’1.30: i soldati iracheni si precipitarono nell’autostrada che univa il Kuwait all’Iraq (voluta dai kuwaitiani in segno di amicizia) e arrivarono senza incontrare resistenza a Jahra, villaggio verso il deserto. Da qui ripartirono occupando l’importante centrale elettrica distante 15 km dalla capitale e, dopo brevi conflitti a fuoco con una piccola guarnigione, ripartirono alla volta di Kuwait City occupando aeroporto, radio, televisioni e palazzi presidenziali. Alle prime ore del mattino il piccolo emirato di fatto non esisteva più.

Contrariamente a ciò che pensava Saddam, l’occupazione fu gravida di conseguenze. Nel giro di poche ore il governo statunitense stabilì l’embargo delle importazioni di petrolio, il congelamento dei rapporti con l’Iraq e l’invio di rinforzi alla flotta americana nel Golfo Persico; da parte sua il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approvò all’unanimità la Risoluzione 660, che condannò senza appello l’invasione irachena chiedendo l’immediato ed incondizionato ritiro delle truppe. Il 5 agosto il presidente George Bush affermò che l’invasione irachena era un attentato alla pace nel mondo e propose una serie di blocchi economici e sanzioni nei confronti dello stato mediorientale.

Il giorno seguente il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approvò, ancora una volta all’unanimità, la Risoluzione 661 che impose l’embargo totale di investimenti e rapporti commerciali (compreso il petrolio) con l’Iraq e con le aree del Kuwait, finite nelle mani degli iracheni; il presidente Bush dette invece inizio allo spiegamento delle forze armate americane per difendere l’Arabia Saudita dando l’inizio all’operazione Desert shield.

Gli Stati Uniti intervennero per impedire che il ra’is mettesse le mani sul petrolio kuwaitiano e, dopo la semplice vittoria, attaccasse l’Arabia (fedele alleato USA) per conquistarla e riorganizzare i rapporti di forza in Medio Oriente. Fu proprio il governo di Ryadh che si affrettò a chiedere aiuto al potente alleato: migliaia di soldati statunitensi presero posizione nel ricco emirato e crearono non pochi problemi di politica interna a re Fahd: nella nazione custode della Mecca che si vantava di rappresentare il prestigio spirituale dell’Islam, arrivava il simbolo armato dell’occidentalismo. Tuttavia la paura del governo di Ryadh contribuì a mettere da

25 Per un confronto tra i rapporti di forza militare tra Iraq e Kuwait si può vedere R. Fabiani,

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parte ogni riserva di carattere religioso e il re offrì il suo territorio per la preparazione dell’attacco americano.

Il 10 agosto la Lega Araba si riunì al Cairo per cercare una soluzione regionale al problema ma questa non fece altro che accertare lo sfaldamento del fronte sulla questione: dei venti paesi rappresentanti (assente la Tunisia), dodici paesi condannarono l’aggressione (tra cui Egitto, Siria, Marocco, Emirati Arabi, Oman e Qatar), tre furono i voti contrari (Iraq, Libia e OLP) e cinque le astensioni (Algeria, Yemen, Giordania, Sudan e Mauritania). Venne quindi accettato l’invio di truppe in Arabia Saudita contro eventuali azioni irachene.

Davanti a questa decisione Saddam cercò di ricucire lo strappo con i paesi arabi: come contropartita per il ritiro dal Kuwait il ra’is chiese il ritiro di Israele dai territori occupati in Palestina e quello della Siria dal Libano.

Tra il 30 agosto e il Primo settembre, in una riunione d’urgenza della Lega Araba svoltasi sempre al Cairo alla quale erano presenti solo tredici paesi (di cui dodici del fronte antiracheno) venne ufficializzata una nuova risoluzione che chiedeva all’Iraq di ritirarsi dal Kuwait e di provvedere al risarcimento economico dei danni recati. Il ra’is non era riuscito nel suo intento.

Parallelamente alle trattative con i paesi arabi, il dittatore arabo portò avanti una politica terrorista contro i paesi occidentali in piena violazione dei principi alla base del diritto internazionale: l’Iraq annunciò il 18 agosto che avrebbe usato come scudi umani i cittadini stranieri delle nazioni facenti parte delle coalizione internazionale ostile e ciò portò quindi ad una nuova Risoluzione Onu (la 664) 26.

Progressivamente, il Consiglio estese le sanzioni nei confronti dell’Iraq: arrivarono le risoluzioni 665 del 25 agosto e 670 del 25 settembre (che imponeva un blocco marittimo e aereo).

Dato che l’Iraq continuava a non avere la benché minima considerazione di queste indicazioni, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite decise quindi di approvare il 29 novembre la Risoluzione 678, che era un ultimatum, nel quale:

si autorizza gli stati membri a cooperare con il governo del Kuwait, a meno che l’Iraq, in data 15 gennaio 1991 o prima di tale data, dia piena attuazione alle presenti risoluzioni, e ad utilizzare tutti i

26 Il 23 agosto venne diffuso un video nel quale Saddam Husayn era circondato da ostaggi britannici. Tutto il mondo rimase indignato nel vederlo accarezzare e parlare ad un bambino di cinque anni. Il video integrale è reperibile al link https://www.youtube.com/watch?v=7q5KMe7LPRI.

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mezzi necessari per ottenere ed attuare la Risoluzione 660 (1990) e le risoluzioni successive per restaurare la pace e la sicurezza internazionali nell’area.

Contemporaneamente la macchina militare americana aveva cominciato a funzionare a pieni giri: Bush aveva dato mandato a Dick Cheney, suo Segretario della Difesa, di aumentare il contingente americano (fino a 500.000 uomini) in modo da essere pronti ad ogni mossa militare e l’8 novembre lo comunicò al Congresso, alimentando un feroce dibattito tra interventisti e non interventisti. Questo perché, sovrastimando il potenziale dell’esercito iracheno, iniziarono a circolare nella stampa USA delle stime che parlavano di un sacrificio tra le 20.000 e le 30.000 vite americane27, numero

decisamente alto per liberare un paese alleato.

Bush provò quindi una nuova soluzione diplomatica: invitò Tareq Aziz alla Casa Bianca e propose di inviare e James Baker a Baghdad per un colloquio con Saddam. Tuttavia l’unico incontro fu quello del ministro degli esteri iracheno ed il segretario di Stato americano che, nonostante le buone intenzioni, finì con un nulla di fatto. Si spalancarono le porte dell’intervento degli USA: il 12 gennaio le istituzioni degli Stati Uniti autorizzarono l’intervento dell’esercito con 250 si e 183 no alla Camera e 52 si e 47 no al Senato e a mezzanotte del 16 gennaio iniziò l’operazione Desert

storm, la più grande operazione militare alleata dalla fine del secondo conflitto

mondiale.

La coalizione di 31 paesi (di cui facevano parte anche Arabia Saudita, Egitto, Siria, Marocco ed Emirati Arabi Uniti) guidata dagli Stati Uniti, condusse la prima parte della guerra con pesanti bombardamenti che annientarono le barriere antiaeree, eliminarono i radar nemici e tagliarono le linee di trasporto facendo prendere agli alleati il pieno possesso dello spazio aereo iracheno. Il diluvio di bombe e di missili in poche settimane distrusse il 92% delle centrali elettriche e l’80% delle raffinerie, la quasi totalità di fabbriche, le linee ferroviarie, i ponti e gli impianti di depurazione delle acque, facendo pagare il prezzo più alto della guerra alla popolazione civile. Nei primi giorni ci furono diverse uscite di piloti iracheni esperti nel conflitto a bassa quota che riuscirono a neutralizzare molti attacchi da parte della coalizione. Tuttavia dopo pochi giorni gli aerei iracheni subirono numerose perdite e per evitare il completo annientamento della flotta ripiegarono in Iran28. Già dopo pochi giorni si

27 G. Mammarella, Europa e Stati Uniti dopo la guerra fredda, Bologna, il Mulino, 2010, p.20. 28 J. H. Cushman, Iraq: some Iraqi jets flee to Iran. U.S. says reason Is unclear, in “New York Times”, 27 gennaio 1991.

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capiva quale sarebbe stato l’esito del conflitto: troppa era la differenza tecnologica e di preparazione tra l’esercito guida della coalizione e l’esercito iracheno.

Il ra’is decise allora una mossa strategica: il 22 gennaio lanciò un attacco di missili Scud contro Israele cercando di trascinare in guerra lo stato ebraico; facendo ciò Saddam cercava di dividere il fronte arabo partecipante alla coalizione. Questa strategia non dette però i suoi frutti: i missili causarono danni leggeri e Israele, convinta dall’alleato americano, decise di rimanere neutrale accettando tuttavia l’installazione di missili Patriot sul suo territorio per cautelarsi.

Dopo la martellante campagna aerea che aveva devastato il paese e reso inoffensiva la quasi totalità della forza militare irachena, il 24 febbraio iniziò l’offensiva terrestre.

L’attacco per portare all’espulsione degli iracheni dal Kuwait si trasformò per i combattenti del dittatore in una gigantesca ritirata: le previsioni americane sulle potenzialità dell’esercito avversario si rivelarono completamente errate e le forze armate al comando del ra’is si disintegrarono in pochi giorni.

Tristemente famosa divenne la strada Highway 80 che collegava Kuwait City e Bassora, passando dalle città periferiche di Abdali e Safwan: nella notte tra il 26 e il 27 febbraio centinaia di veicoli iracheni che si stavano ritirando vennero attaccati e completamente distrutti dagli aerei della coalizione, provocando la morte di migliaia di militari iracheni29. L’episodio dell’Autostrada della Morte (come venne

ribattezzata il luogo dove si svolse la carneficina) chiuse di fatto la guerra e il 28 febbraio, dopo soli 42 giorni di conflitto, Tareq Aziz annunciò l’accettazione di tutti i principali ordini contenuti nelle diverse risoluzioni dell’Onu e l’inizio del cessate il fuoco.

Le guerra mise in evidenza l’abissale differenza politica, economica e militare tra l’Occidente ed il Medio Oriente: l’esercito più temibile della regione era stato disintegrato dalla forza d’urto statunitense che, dopo il dissolvimento dell’Unione Sovietica, era la sola potenza in grado di decidere le sorti del mondo.

Saddam Husayn fu colpevolmente lasciato alla guida del potere nella speranza che un’insurrezione interna lo cacciasse definitivamente: invece, nonostante il caos che regnò nella nazione per svariati mesi, il ra’is riuscì a mantenere il controllo politico del paese. Probabilmente l’occasione perduta riguardò però non tanto il

29 K. L. Shimko, The Iraq wars and America’s Military Revolution, Cambrige, Cambrige University Press, 2010, p.75.

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proseguimento del regime, quanto la totale assenza di idee e iniziative per trovare un nuovo ordine nella terra mediorientale.

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2.4 Il dopoguerra: rivolte, sanzioni, morti e disintegrazione del tessuto

sociale

La decisione americana di non dare il colpo decisivo a Saddam Husayn può essere interpretata come la volontà di non procedere ad un salto nel vuoto. La presa di Baghdad, con la conseguente caduta del regime del ra’is, avrebbe infatti potuto creare un vuoto politico nel quale si sarebbero scatenate le ambizioni dei paesi confinanti, creando una situazione allarmante nell’intera regione. Il Presidente Bush, dopo aver incitato la rivolta dichiarando «vi è altro modo per fermare lo spargimento di sangue, ed è che la popolazione irachena e le sue forze armate prendano in mano la situazione obbligando Saddam ad abbandonare il potere»30, non fece seguire le

parole ai fatti permettendo al dittatore di reprimere nel sangue le insurrezioni di sciiti e curdi.

La motivazione formale di questa decisione fu che la Risoluzione Onu 678 chiedeva la liberazione del Kuwait ma non la cacciata del dittatore; in realtà, il vero motivo per il quale gli Stati Uniti decisero di non cacciare il ra’is fu la paura che la caduta del regime avrebbe potuto causare la frammentazione dell’Iraq, oppure, cosa ben peggiore, la creazione di una repubblica islamica ideologicamente vicina all’Iran. Da abile stratega Saddam capì che l’unico interlocutore con il quale doveva confrontarsi era la superpotenza statunitense e forse proprio il suo statuto di vinto poteva rappresentare la migliore garanzia di continuità, a patto di abbandonare le velleità politiche di guida dei paesi arabi e riconoscere la leadership della nazione uscita vincitrice dalla Guerra Fredda. Dopo la sconfitta del 1991 le ambizioni dell’Iraq dovevano per forza di cosa scemare.

Sempre da un punto di vista geopolitico, l’uscita di scena dello stato iracheno come attore protagonista regionale fu accettata dalla maggioranza dei paesi arabi come tacito riconoscimento della supremazia americana ma anche come ponderata scelta strategica per i propri interessi nazionali.

La Turchia, ad esempio, per ragioni di sicurezza preferiva che in Iraq continuasse ad esserci una leadership forte capace di tenere sotto controllo le regioni irachene del

30 Discorso di George Bush del 15 febbraio 1991 all’American Association for the advancement of science.

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nord per evitare che questo territorio diventasse il porto franco di rinnovate ambizioni curde.

L’Egitto, invece, dopo aver accertato lo sfaldamento del suo eterno rivale, fece di tutto per favorire il suo reinserimento nel mondo arabo e i paesi del Golfo, eliminata la minaccia militare irachena, preferirono il mantenimento del regime indebolito di Saddam piuttosto che un vuoto politico con tutta l’instabilità che ne sarebbe derivata. Partendo da queste considerazioni si può facilmente intuire come Saddam riuscì a reprimere le rivolte che si estesero in tutto il paese. Seguendo la vecchia ma sempre verde logica del “dividi et impera” il ra’is decise di frammentare la società irachena rifugiandosi dai suoi fedelissimi pur di mantenere il potere a tutti i costi.

La comunità sciita si ribellò poco dopo la sconfitta nella guerra e nel marzo iniziarono a scoppiare violenti disordini in tutto l’Iraq centro-meridionale. Le rivolte videro una crescente partecipazione popolare che portò alla conquista delle principali città del centro-sud iracheno: le città di Najaf, Karbala, Kut e la maggior parte del territorio di Bassora vennero conquistate degli insorti.

Tuttavia la risposta del ra’is non si fece attendere: la Guardia Repubblicana31, il

corpo di élite del quale il dittatore si fidava ciecamente, iniziò una vasta operazione di repressione non lesinando l’utilizzo di armi chimiche e in pochi giorni riuscì a riconquistare il territorio perduto. A testimoniare la veemenza degli scontri gli impietosi numeri di pochi giorni di combattimento: nella sola città di Karbala (teatro delle più violente operazioni) si stimarono 30.000 morti e in tutto il territorio sciita circa 100.00032.

Nonostante ciò il regime continuò a perseguire rivoltosi e civili per vendicarsi e dare una dimostrazione di aver ripreso in mano il controllo del potere. Il dittatore iniziò una vasta opera di drenaggio delle aree paludose al confine con l’Iran (che si concluse nel 1996) distruggendo l’ecosistema della regione per desertificare il territorio e costringere migliaia di famiglie ad andarsene per sempre da territori sul quale avevano vissuto per intere generazioni33.

31 La Guardia Repubblicana è stata la migliore delle forze di terra irachene. Questa, nata inizialmente come corpo d’élite con compiti di protezione del regime, è cresciuta notevolmente nel corso nella guerra con l’Iran, risultando decisiva nelle battaglie del 1988 di al-Faw e delle isole Manjoon; la stessa è stata inoltre il nerbo dell’invasione del Kuwait.

32 P.J Luizard, op.cit., p.142.

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Nell’agosto 1992, in evidente ritardo rispetto al corso degli eventi, l’Onu decise di adottare una specifica risoluzione per evitare l’intensificarsi della repressione: dato che durante le rivolte la Guardia Repubblicana aveva usato gli elicotteri militari per fare strage di civili, si decise di istituire una no-fly zone al di sotto del 33° parallelo, ovvero il divieto di sorvolare in tutto il territorio dell’Iraq appena a sud di Baghdad. Le cause del fallimento dell’intifada sciita furono sostanzialmente due: da una parte le anime dalla rivolta (nazionalisti, islamisti comunisti) non avevano fatto emergere dei leader forti capaci di coordinare le azioni, dall’altra la sollevazione rimase popolare e non si tramutò in un pianificazione militare: sotto i colpi di un esercito vero e proprio la rivolta si disintegrò. Gli sciiti iracheni si fidarono dall’occidente: dopo il discorso del presidente USA del 15 febbraio si aspettavano un sostegno americano che non arrivò mai.

A differenza della rivolta meridionale, l’insurrezione popolare scoppiata a nord del paese ad opera dei curdi nelle solite settimane si trasformò in poco tempo in una sollevazione armata ben organizzata e coordinata, capace di tenere impegnato per diversi anni prima militarmente e poi politicamente il governo di Baghdad.

I protagonisti dell’insurrezione furono il Partito democratico curdo legato alla tribù Barzani e l’Unione patriottica curda facente capo a Jalal Talabani: questi, superando la feroce ostilità che avevano l’uno per l’altro, decisero di fare fronte comune nella contrapposizione a Saddam.

Scoppiata la rivolta il 4 marzo 1991 nella cittadina di Rania, gli scontri si estesero in tutto il nord iracheno e in pochi giorni i rivoltosi riuscirono a prendere il controllo della città di Erbil, Kirkuk, Sulaimaniyya e Mosul e annunciare la creazione di istituzioni per l’autogoverno della regione il 13 dello stesso mese34.

Saddam rispose con una mobilitazione che iniziò il 26 marzo e in poco tempo riuscì a riconquistare le principali città e provocare un enorme esodo curdo verso l’Iran e la Turchia (circa due milioni di persone), provocato dal terrore dei possibili attacchi chimici che avevano contraddistinto la campagna An-Anfal nel 1988-1989.

A differenza di ciò che accadde con gli sciiti, la repressione della popolazione curda portò all’intervento immediato della comunità internazionale che decise di proteggere i civili con una risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu dell’aprile 1991. Questa portò alla realizzazione dell’operazione militare provide comfort che

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prevedeva l’aiuto ai profughi, la cessazione degli attacchi dell’esercito del ra’is e la creazione di una no-fly zone la di sopra del 36° parallelo.

Questa scelta tempestiva (a differenza dell’inibizione dei voli riguardante la zona meridionale del paese arrivata con evidente ritardo) dimostrò a Saddam l’appoggio delle potenze occidentali alla popolazione curda e lo indusse a ripiegare le truppe lungo una linea più agevolmente controllabile imponendo un blocco economico sulle zone fuori controllo a partire da ottobre.

Quella che all’inizio sembrava essere una vittoria curda di enormi proporzioni si rivelò un completo fallimento: le elezioni che si tennero nel gennaio 1992 videro uguagliarsi i due principali partiti (PUK e KDP), ma il blocco economico, la scarsità di beni e le differenze socio-politiche (il PUK era più moderno mentre quello guidato di Barzani era ancora associato a logiche tribali) esacerbarono le posizioni dei due schieramenti fino a degenerare nella guerra civile del maggio 1994.

La vittoria sul campo del Partito democratico curdo costrinse Barzani a chiedere l’intervento del ra’is, che nell’agosto 1996 si impossessò di nuovo dei territori iracheni del nord vendicandosi dell’affronto subito anni prima. Queste due lotte intestine acutizzarono la pesante crisi economica già in atto in Iraq causata dalle distruzioni subite durante il conflitto con il Kuwait e dalle pesanti sanzioni a cui era sottoposto il regime di Baghdad. La distruzione e la povertà delle principali città irachene avevano cancellato le sicurezze irachene che si trovavano di fronte ad un quadro apocalittico.

Le infrastrutture come ponti e strade, le telecomunicazioni, le centrali elettriche, le raffinerie del petrolio e i complessi siderurgici erano andate distrutte. Erano in rovina anche gli ospedali, le costruzioni civili e le scuole.

La mancanza di acqua corrente, carburante, elettricità, e fognature funzionanti era all’ordine del giorno e compromise la produzione delle poche industrie ancora operanti. Secondo una missione Onu inviata nel marzo 1991 «l’Iraq è stato ricondotto, e per un lungo periodo futuro, a un epoca preindustriale, ma con tutte le costrizioni di una dipendenza post-industriale basata sull’utilizzo intensivo dell’energia e della tecnologia»35. Tutto ciò venne aggravato dall’impossibilità di

sfruttare liberamente il proprio petrolio se non in un quantità molto modesta decisa

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dall’Organizzazione delle Nazioni Unite36: lo stato iracheno venne privato di sicure

entrate date dalla vendita dell’oro nero che avrebbero permesso di risollevare in parte le disastrata economia.

Le decisioni Onu, la Risoluzione 661 dell’agosto 1990 che stabilì l’embargo totale37

e la Risoluzione 687 votata il 3 aprile 1991 furono i due macigni che ostacolarono la ripresa economica irachena per tutti gli anni Novanta.

Il provvedimento dell’Onu ebbe tre punti cardine: riconoscimento delle frontiere con il Kuwait; smantellamento di tutti i programmi per la creazione di armi di distruzione di massa; sanzioni economiche, militari e tecnologiche con un embargo delle importazioni.

La parte più densa di conseguenze fu quella in relazione alla distruzione delle armi di distruzione di massa: la progressiva riduzione delle privazioni commerciali sarebbe dipesa dalla distruzione degli armamenti iracheni. In particolare il paragrafo 8 recitava:

stabilisce che l'Iraq accetti incondizionatamente la distruzione, la rimozione o la resa inoffensiva, con la supervisione internazionale, di a) tutte le armi chimiche e biologiche, tutte le scorte di sostanze agenti e relativi subsistemi e componenti, e ogni tipo di ricerca, sviluppo, sostegno e impianti per la manifattura; b) tutti i missili balistici con un raggio superiore ai 150 km., le relative parti e gli impianti di riparazione e produzione.

A sorvegliare il rispetto della rimozione da parte irachena furono l’IAEA (International Atomic Energy Agency) e l’UNSCOM (United Nation Special Commission).

La decisione di mettere in relazione la produzione di armi di distruzione di massa con l’attenuarsi del regime di embargo si dimostrò una decisione completamente errata poiché lasciò i cittadini iracheni in balia delle decisioni prese da Saddam. La punizione, nata per far capitolare il regime del dittatore, si riverberò interamente sulla popolazione che non aveva nessuna colpa e nessuna voce in capitolo. Il dittatore sfruttò queste limitazioni per poter colpire in modo arbitrario la parte a lui avversa, mentre i più ricchi e i pochi privilegiati del regime riuscivano tranquillamente ad aggirare il blocco.

36 Le risoluzioni numero 706 e 712 istituivano una supervisione sul petrolio iracheno, permettendo a Baghdad di esportare solo quantità limitate del suo petrolio sotto la supervisione dell’Onu per rispondere ai soli bisogni urgenti della propria popolazione.

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Gli effetti più duri di queste decisioni vennero quindi subiti dalla parte più debole della popolazione: bambini, anziani e ammalati.

Da un punto di vista sanitario la maggior parte degli ospedali erano sprovvisti dei farmaci di base e malattie banali come diarrea, polmonite e diabete divennero incurabili a causa dell’impossibilità di acquistare materiale medico: l’ossessione della comunità per le armi chimiche non permetteva di acquistare qualsiasi medicina ma soltanto alcune selezionate.

Secondo un rapporto dell’Unicef del 12 agosto 1999 i bambini morti in Iraq ogni anno furono 90.00038. Un bambino iracheno su quattro soffriva di malnutrizione e

circa un terzo erano sottopeso. Il tasso di mortalità infantile passò dal 23 per mille nel 1990 al 130 per mille nel 2000 (al livello di Pakistan e Haiti, due dei paesi più poveri del mondo)39e secondo fonti autorevoli in queste condizioni morirono di più di

un milione di iracheni dei quali circa 560.000 bambini40.

A confermare questa tesi Anumapa Rao Singh (dottore Unicef) che nel luglio 2000 denunciò che :

Valutiamo in termini assoluti che siano morti forse 500.000 bambini sotto i cinque anni, cosa che non sarebbe avvenuta in condizioni normali, se il declino nella mortalità infantile che era prevalente negli anni `70 e `80 fosse continuato negli anni Novanta41.

Il paese ridusse la spesa sanitaria pro capite da 30 a 3 dollari e ciò, unito al vertiginoso aumento del prezzo dei pochi medicinali, portò il ceto medio-basso a morire senza potersi curare. I pochi aiuti che gli iracheni ricevevano venivano invece vanificati dalle difficoltà del trasporto: non esistevano efficienti mezzi per distribuire i farmaci, data la completa distruzione di strade, ponti, ferrovie e l’impossibilità di volare data dalle due no-fly zone. La speranza di vita precipitò da 61 a 46 anni per gli uomini e da 64 a 57 anni per le donne.

Il sistema scolastico, una volta di qualità e vanto del paese, cadde in disgrazia: si stimava che circa il 30% dei bambini avevano abbandonato gli studi e le scuole tagliate erano più di 8.000.

Secondo l’Unesco:

38 J.M Benjamin, op.cit., p.99. 39 P. Barnard, op.cit., pp.65.

40 Rapporto FAO Evaluation of food and nutrition situation in Iraq, Roma, 1995. 41 Intervista alla Reuters del 21 luglio 2000.

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il sistema scolastico iracheno nell’insieme dei suoi stadi primario, secondario, e universitario è stato compromesso dalla scarsità di materiale didattico, libri, carta, matite ecc. La popolazione scolastica si valuta che ammonti a 4,8 milioni di studenti per 14.000 scuole, in cui la maggior parte delle classi sono danneggiate, prive di banchi e cattedra e spesso sono prive di acqua corrente e servizi igienici42.

Gli insegnanti non guadagnavano abbastanza per mantenere le famiglie e gli edifici scolastici venivano puntualmente saccheggiati mentre il regime tagliava massicciamente i fondi tanto che l’analfabetismo quasi debellato nel 1980 tornò ad aumentare notevolmente. Il collasso delle università favorì la fuga di cervelli che impoverì intellettualmente l’Iraq43.

Da un punto di vista alimentare la popolazione era allo stremo: a causa delle mancanza di pezzi di ricambio l’agricoltura usava mezzi precari per coltivare la terra e la riduzione degli ettari coltivabili era tristemente tangibile. Le aree destinate alla coltura si erano ridotte drasticamente e la razione giornaliera di riso si riduceva ogni mese; l’allevamento di bestiame invece si era più che dimezzato.

Per lenire la sofferenza, al quale era costretta la popolazione irachena, il Consiglio di Sicurezza Onu decise di varare nel 1996 la Risoluzione 986 che istituiva il programma “Oil for Food” (petrolio in cambio di cibo): grazie a questa il paese poteva vendere due miliardi di dollari ogni sei mesi (aumentati a 6 nel 1998 e 8 nel 1999) per acquistare cibo per la propria popolazione.

In realtà la maggior parte dei proventi andarono al Kuwait e agli altri paesi del Golfo per le riparazioni di guerra e a coprire i costi della missione UNSCOM: soltanto una piccola percentuale venne destinata all’acquisto dei beni di prima necessità per gli iracheni. Il programma si rivelò uno scandalo amministrativo planetario: molti dei beni venduti al regime furono gonfiati per permettere alle società e alle multinazionali occidentali guadagni più cospicui44.

Le rivolte armate del marzo 1991, le distruzioni della guerra e il collasso dell’economia portarono ad un impoverimento generale della popolazione che si rifugiò nelle solidarietà locali e familiste. In questo scenario di disintegrazione economico-sociale le sanzioni, invece che indebolire il regime di Saddam lo rinsaldarono, e il ra’is riuscì a gettare le fondamenta di un nuovo sistema che lo vedeva ancora protagonista e che sopravvisse fino al 2003, quando una nuova

42 J.M Benjamin, op.cit., p.108.

43 R. Radaelli, A. Plebani, op.cit., p.120.

44 I. Williams, The True UN Scandal: Who Pocketed the $10 Billion for Iraq?, in “World Policy Journal”, Vol.23, n.4 (Winter 2006/2007), pp.27-34.

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terribile guerra sul proprio territorio (la terza in vent’anni) sgretolò in modo definitivo l’ex potenza mediorientale.

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