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CAPITOLO 1: L'analisi del pensiero keynesiano

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Academic year: 2021

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CAPITOLO 1: L'analisi del pensiero keynesiano

1.1 Il contesto storico-sociale che decretò la nascita della “rivoluzione keynesiana”

1.2 I concetti chiave della “Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta” 1.3 Bretton Woods e il piano monetario internazionale proposto da John Maynard Keynes

Premessa

In questo primo capitolo, ripercorrerò gli anni e le vicende dalla Prima alla Seconda Guerra Mondiale che portarono J. M. Keynes a pubblicare la “Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta”, il saggio più rivoluzionario da lui stesso scritto. E' nel contesto di crisi del 1929 che va inserita tale opera, dal quale scaturisce un'analisi del capitalismo più completa e innovativa rispetto ad altri tentativi precedenti, e da cui soprattutto si traggono (nei decenni successivi) le linee politiche per sanare le distorsioni del sistema.

Le pagine che seguono rappresentano un tentativo di sintesi dei tratti essenziali dell'economia keynesiana, che vengono dedotti dalla lettura autentica della Teoria Generale: fu definita "rivoluzione" poiché cambiò in modo radicale la visione degli economisti e degli uomini sul come governare l'economia della nazione, specialmente riguardo all'opportunità dell'intervento pubblico nell'economia, tramite l'azione sulla domanda aggregata. Ne scaturì una visione dell'economia politica e della politica economica nuova che rimase pressoché egemone fino al fiorire, negli anni Settanta del monetarismo, che ebbe come capofila Milton Friedman, e che analizzerò dettagliatamente nel secondo capitolo.

1.1 Il contesto storico-sociale che decretò la nascita della “rivoluzione keynesiana”

John Maynard Keynes è stato senza dubbio l’economista più influente del ventesimo secolo; influenza dovuta non solo al suo acume scientifico ma anche all’autorità esercitata sul piano intellettuale nell’ambito di una serie di eventi di primaria importanza storica, come la

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Conferenza di Pace di Versailles alla fine della Prima Guerra Mondiale e gli accordi di Bretton Woods alla fine della Seconda.

Con riferimento alla sua attività di economista1, egli abbinò costantemente alla riflessione

teorica numerosi impegni e incombenze2: ad esempio, dal 1911 fino all'anno della sua morte,

diresse una delle più prestigiose riviste di economia a livello internazionale, l'Economic Journal, e partecipò a numerose commissioni governative. Già nel 1913 venne chiamato a far parte della “Royal Commission on Indian Currency and Finance”ed è proprio grazie a questa esperienza che si deve la sua prima pubblicazione di rilievo, “Indian currency and finance3”,

dalla quale scaturì un attenta analisi delle problematiche relative ai sistemi monetari internazionali, con un particolare attacco al sistema del gold standard4. Nel 1919, Keynes

entrò a far parte della delegazione britannica alla Conferenza di Pace di Parigi in qualità di rappresentante del Tesoro; per l'occasione, elaborò una proposta per la ricostruzione dell’Europa che prevedeva una quantificazione dei danni di guerra che tenesse conto delle effettive capacità di rimborso tedesche, la creazione di un’area di libero scambio europeo, un accordo finanziario per stabilizzare i cambi, la cancellazione dei debiti tra nazioni alleate, e un nuovo ruolo della Germania nell’Europa dell’Est. La gran parte delle sue proposte però venne ignorata: il Trattato di Pace infatti, di lì a poco avrebbe previsto pesanti riparazioni belliche che, successivamente, Keynes ritenne umilianti per la Germania, lesive della sua sovranità e pressoché impossibili da onorare, che a nulla avrebbero portato se non a porre le premesse per un nuovo conflitto mondiale. Per protesta, Keynes dette le dimissioni dall'incarico e le sue opposizioni alle conclusioni della Conferenza trovarono spiegazione nell’opera “The

1) Per una ricostruzione delle vicende biografiche di Keynes si veda: Harrod R.F., La vita di Keynes, Einaudi,

Torino, 1965.

2) Si veda a riguardo http://www.sapere.it/enciclopedia/Keynes,+John+Maynard.html e Pavanelli G., Valore, distribuzione, moneta. Un profilo di storia del pensiero economico, cap. XVI, Franco Angeli, 2003

3) J. M. Keynes, Indian currency and finance, Macmillan, London, 1913, ora in Id., Collected Writings, vol I, Macmillan, London, 1971.

4) A Keynes si era presentata l’occasione di studiare il funzionamento del sistema aureo occupandosi dei problemi monetari dell’India; fu proprio allora che notò come il sistema aureo fosse un sistema fortemente asimmetrico: considerava un paese dotato di un robusto sistema bancario e di una Banca Centrale maggiormente in grado di controllare i flussi finanziari internazionali rispetto a un paese come l’India. Suggerì come, quest'ultima, invece che dotarsi di un sistema aureo interno, avrebbe dovuto continuare a limitarsi all’uso dell’oro nei pagamenti internazionali e dotarsi di una Banca Centrale. Elaborò e propose di adottare, un nuovo sistema (destinato ad affermarsi come gold-exchange standard ), secondo cui vi sarebbe stata un unica valuta di riferimento (all'epoca la sterlina) direttamente convertibile in oro e le autorità monetarie degli altri Paesi partecipanti avrebbero dovuto impegnarsi a fissare il proprio tasso di cambio nei confronti di quest'ultima. Tale regime, secondo Keynes, costituiva un metodo più razionale di quello allora in vigore, in quanto avrebbe consentito di ridurre al minimo le risorse immobilizzate sotto forma di riserve auree.

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economic consequences of the peace5” (1919) in cui si sottolineava come gli ingenti debiti di

guerra non avrebbero potuto favorire la ripresa economica dell’Europa e come le condizioni accettate dalla Germania fossero ben al di là delle sue reali possibilità e sicuramente avrebbero prodotto tensioni politiche e impoverimento6.

Keynes nel decennio seguente scrisse una serie di interessanti opere che lo portarono per tappe successive a elaborare lo schema del suo originale apparato teorico, con cui rivoluzionò la dottrina economica corrente. Nel “A Treatise on Probability7” del 1921, riprese i suoi

interessi matematici, sviluppando alcuni concetti sulla teoria della probabilità: era convinto che l'incertezza rappresentasse uno dei principali vincoli all'azione umana, e che fosse necessario individuare regole di condotta che permettessero di elaborare decisioni razionali anche in un contesto nel quale il livello di conoscenza era limitato8. Vedremo, che la

complessa riflessione in tema di probabilità, si rifletterà su aspetti rilevanti della Teoria Generale, con particolare riferimento alla teoria dell'investimento.

Con “A tract on monetary reform9” (1923) Keynes si schierò contro la proposta del ritorno al

regime del Gold Standard, opponendosi al ritorno della sterlina alla parità aurea pre-bellica10: 5) J. M. Keynes, The Economic Consequences of the Peace, Macmillan, Londra, 1919; tr. it. Le conseguenze

economiche della pace, Adelphi, Milano 2007.

6) La previsione di Keynes venne confermata durante la repubblica di Weimar: solo piccola parte delle riparazioni vennero pagate ai vincitori, che nel tentativo di rispettare gli obblighi previsti, svilupparono una potenza industriale di tutto rispetto, destinata a contribuire al riarmo tedesco. Inoltre, l'iperinflazione del 1923 pesò duramente sull'economia tedesca e causò un forte scontento che preparò la strada all'avvento del nazismo. Nel 1922 Keynes trattò nuovamente la questione della ricostruzione postbellica e in particolare delle riparazioni in “A Revision of the Treaty”.

7 ) J. M. Keynes, A Treatise on Probability, Macmillan, Londra, 1921; Trad. it: Trattato sulla probabilità, Bologna, Clueb, 1994.

8) L'economista britannico distinse tra due tipologie di situazioni: quelle nelle quali gli individui erano in grado ex ante di assegnare probabilità numeriche agli eventi che sarebbero accaduti e situazioni nelle quali questo non sarebbe stato possibile, perché le conoscenze attuali si sarebbero rivelate insufficienti anche per definire lo spazio degli eventi che il futuro avrebbe riservato; tali situazioni contraddistinguevano in particolare l’ambito economico e finanziario. Per prendere le loro decisioni, gli agenti economici si sarebbero dovuti affidare quindi, a “convenzioni”, come quella di supporre che “la situazione attuale durerà a tempo indeterminato”. Tuttavia, come spiega lo stesso Keynes: “Una valutazione convenzionale, che si sia stabilita come risultato della

psicologia di massa di un grande numero di individui ignoranti, è esposta a cambiamenti violenti in seguito a un mutamento di opinioni” (J. M. Keynes, Trattato sulla probabilità, Bologna, Clueb, 1994).

9) J. M. Keynes, A tract on monetary reform, Macmillan, 1923; trad. it: La riforma monetaria, Feltrinelli, Milano, 1978.

10) Una delle prime misure adottate dai Paesi belligeranti, durante il Primo Conflitto Mondiale, fu quella di sospendere il gold standard. Alla fine della guerra, i Paesi si ritrovarono a fronteggiare pesanti spese di conflitto, solo in parte finanziabili con il ricorso alla tassazione, che decretarono l'insorgere di fenomeni inflazionistici: in Germani ed Austria l'inflazione fu tale da privare di ogni valore le valute nazionali. Quasi tutte le valute europee, inoltre, subirono un forte deprezzamento nei confronti del dollaro. La maggior parte degli economisti individuò nel ripristino del gold standard, la via maestra per tornare alla normalità: con riferimento a quelle valute che, come la sterlina, non avevano subito un eccessiva svalutazione, inoltre, questo provvedimento avrebbe dovuto essere preceduto da misure deflazionistiche tali da garantire il ritorno ai tassi di cambio prebellici. Se da una parte l'inflazione post-bellica, aveva vanificato i risparmi di quella parte di popolazione che aveva fatto

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individuò nella stabilità dei prezzi interni (perseguibile tramite politiche monetarie discrezionali) piuttosto che nella stabilità dei cambi un obiettivo prioritario per garantire alle economie dei Paesi industrializzati un processo di crescita equilibrata. Secondo l'economista inglese, il ritorno al sistema aureo, se pure poteva contenere le dinamiche inflazionistiche, non avrebbe garantito la stabilità delle variabili interne: l'adesione ad esso avrebbe imposto il perseguimento di politiche monetarie restrittive, tutte le volte che la stabilità del cambio fosse stata minacciata, sottoponendo così il sistema economico a misure deflazionistiche, che avrebbero avuto conseguenze ben più gravi delle tanto temute svalutazioni.

Contrariamente all’avviso di Keynes, la sterlina rientrò nel sistema aureo (aprile 1925) alla stessa parità ante guerra e un nuovo attacco al ritorno all'oro fu sferrato nel profetico opuscolo “The Economic Consequences of Mr. Churchill11” (1925), in cui si pose in luce come la

politica governativa inglese di quegli anni, avrebbe causato una serie di scioperi catastrofici per la stessa economia, come poi in effetti avvenne. E' proprio in questo periodo infatti, che emersero violentemente gli effetti del primo conflitto: il ruolo dello Stato nell'economia si fece sempre più pressante, accollandosi la riconversione degli impianti e finanziandosi con l'aumento delle imposte, del debito pubblico e dell'emissione di cartamoneta che inevitabilmente determinarono un aumento generale del livello dei prezzi (inflazione)12.

A livello europeo, territorio dove il primo conflitto fu combattuto, si verificò un rallentamento di tutte le economie. L'Inghilterra ebbe il peggior risultato a livello di PIL: decadde l'apparato industriale e alte tasse furono imposte al fine di ripagare i debiti verso gli Stati Uniti per la ricostruzione; fra tutti, la sterlina fu valutata al tasso di cambio con il dollaro ante guerra, non considerando tra l'altro la svalutazione delle altre monete europee.

Le attenzioni di Keynes si concentrarono sulla dilagante disoccupazione in tutti i paesi europei, in particolar modo in Gran Bretagna. La preoccupazione per questo fenomeno e le sue pessimistiche previsioni in proposito trovarono prima espressione nello scritto “The end of the laissez-faire13” (1926) e poi nel suo appoggio in qualità di consulente governativo al

programma di lavori pubblici avviati dal Liberal party che miravano a compensare la caduta di fiducia nell'investimento privato. Keynes si allontanò definitivamente dalla filosofia

affidamento sui titoli di Stato o su obbligazioni a reddito fisso, dall'altra i processi deflazionistici si sarebbero rivelati ancora più dannosi, dal momento che anche solo il timore di una riduzione dei prezzi nel futuro, sarebbe stato in grado di paralizzare l'attività produttiva.

11) J. M. Keynes, The Economic Consequences of Mr. Churchill, Hogarth Press, Londra, 1925; trad. it.:

Esortazioni e profezie, Mondadori, Milano, 1968.

12) Stesso schema, ricordiamo, fu seguito dalla Germania, al fine di pagare le riparazioni. 13) J. M. Keynes, The end of the laissez-faire, Hogarth Press, Londra, 1926.

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politica del laissez-faire (secondo i classici, l’agire della mano invisibile del mercato consentiva di raggiungere il miglior risultato possibile) poiché crebbe in lui la convinzione che la politica avrebbe dovuto occuparsi della fragilità del capitalismo e saper prendere le misure necessarie per assicurare stabilità e crescita economica, al fine di assicurare l’ordine sociale. Rovesciando i termini di una radicata convinzione del pensiero liberale, era convinto che non fosse il liberismo a garantire lo sviluppo economico ma bensì la prosperità economica il presupposto per la sopravvivenza del sistema liberale14.

Nel 1929 da un periodo di stagnazione, si passò ad una depressione mondiale con il crollo di Wall Street e del sistema finanziario15: Keynes ebbe ancora una volta la convinzione che il

libero mercato fosse totalmente incapace di garantire autonomamente la piena occupazione dei fattori produttivi16. Negli anni della crisi Keynes portò a termine il suo “A Treatise on

money 17“, in cui cominciarono ad affiorare riflessioni più approfondite sul divario fra

risparmio e investimenti; in particolare, rovesciò l'assioma classico in base al quale il risparmio era una virtù non solo per il privato, ma anche per la società, in quanto permetteva,

14) La sua teoria economica, che ruppe con la tradizione liberista del laissez-faire,cioè con l’idea che lo Stato non debba occuparsi di economia e lasciar fare al libero mercato, fu la base del New Deal inaugurato dal presidente americano Franklin Delano Roosevelt per uscire dalla crisi iniziata nel 1929 con il crollo di Wall Street. Le politiche keynesiane, costituite soprattutto da investimenti pubblici, tassazione progressiva e protezione sociale, risollevarono l’economia americana e segnarono la politica economica dell’Occidente fino agli anni ‘70.

15) Una importante contraddizione interna all'economia statunitense era rappresentata dal sistema finanziario: non furono posti limiti alle attività speculative delle banche e della borsa valori, dovute principalmente alla volontà da parte degli investitori di detenere titoli , non tanto per ottenere dividendi e dunque profitti, quanto solo per aumentare il proprio capitale. In sostanza, si comperava per rivendere, senza preoccuparsi della qualità dei titoli stessi, e conseguentemente all'aumento di domanda dei titoli, si accompagnò direttamente quella delle quotazioni. A questo contesto si deve aggiungere la responsabilità dei rappresentanti delle holding che detenevano portafogli (i quali avevano interesse a che i corsi dei titoli si alzassero) che, per spingere i risparmiatori all'acquisto dei titoli, effettuavano dichiarazioni troppo ottimistiche. L'aumento del valore delle azioni industriali, finì per non corrispondere a un effettivo aumento della produzione e della vendita di beni, tanto che, dopo essere cresciuto artificiosamente per via della speculazione economica diffusasi a tutti i livelli in quegli anni, questo scese rapidamente e costrinse i possessori a una massiccia vendita, provocando il noto crollo della borsa.

16) Secondo gli storici tale crisi scaturì dalle ripercussioni della Prima Guerra Mondiale sui rapporti economici, finanziari e monetari tra le potenze, e dall’ondata di speculazioni finanziarie dovute alla posizione di superiorità degli Stati Uniti nei confronti dei debitori internazionali. La crisi coinvolse tutti i paesi che avevano avuto rapporti con gli Stati Uniti, e velocemente si assistette ad un crollo della produzione e ad un aumento della disoccupazione. Se all’inizio del 1900, la teoria economica e il pensiero filosofico con nettezza sostenevano la non necessità di un intervento del governo nelle faccende economiche, all’interno del contesto della grande depressione, iniziarono a cambiare gli atteggiamenti nei confronti del liberismo e del laissez faire. Se il liberismo poteva condurre a tali sciagure, era ragionevole pensare che fosse necessario considerare delle alternative, e molti economisti finirono per sostenere l'intervento del settore pubblico al fine di arginare la disoccupazione. 17) J. M. Keynes, A Treatise on Money, vol I The pure Theory of Money; vol. II The applied Theory of Money,

Macmillan, Londra, 1930; trad. it.: Trattato della moneta, vol. 1: Teoria pura della moneta, vol. 2 : Teoria

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inevitabilmente, un futuro investimento. Keynes constatò come un eccessivo risparmio, considerato insito in un'economia avanzata, diventava un freno per lo sviluppo poichè finiva per essere semplicemente un drenaggio di risorse dal circuito dell'economia, in quanto il livello degli investimenti, per diverse ragioni, poteva essere troppo basso per rimettere in circolo quello stesso ammontare. Per queste ragioni, gli organi dello Stato incaricati di gestire l'economia avrebbero dovuto offrire maggiori possibilità di investimento. Il caso inverso, ovvero un eccesso di investimento sul risparmio, sarebbe stato raro nei sistemi economici avanzati, ma ove esistente avrebbe richiesto un intervento opposto delle autorità, che avrebbero dovuto evitare l'inflazione che ne sarebbe derivata18.

Nel 1931 il Regno Unito uscì per sempre dal sistema aureo. In un cinegiornale dell’epoca, Keynes spiegò come fuori dalla “gabbia aurea” non ci fossero rischi d’inflazione o svalutazione; piuttosto, maturavano le condizioni affinché “imprenditori, lavoratori e disoccupati coltivino una nuova speranza”.

Parallelamente, nei suoi scritti brevi riprese il tema dell’importanza dell’azione pubblica per stimolare gli investimenti e uscire dalla crisi. Era ormai del tutto smarcato dalle idee classiche che costringevano all’inazione pubblica, senza peraltro sposare le tesi socialiste per cui le crisi altro non sarebbero che l’inizio del crollo inevitabile del capitalismo: il problema non era una crisi di capacità produttiva ma bensì un insufficienza di domanda e, non essendo sufficienti i tradizionali canali di ripresa economica (riduzione dei salari, calo del costo del denaro), la libera impresa avrebbe potuto salvarsi solo con un intervento pubblico saggio e moderato. Alla Conferenza economica mondiale di Londra (1933), Keynes appoggiò le misure del neo-eletto presidente degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt, insistende ancora una volta per un blocco valutario dollaro-sterlina. A Roosevelt si rivolse anche con una lettera aperta contenente suggerimenti operativi in campo monetario.

L’insoddisfazione per l’incapacità delle teorie economiche a dare spiegazioni e indicazioni convincenti di fronte alla disoccupazione di massa, dovuta alla crisi del 1929, e i risultati di un complesso approfondimento delle tendenze di lungo periodo del sistema capitalistico

18) E' nel primo volume dell'opera che si può dedurre quanto riportato; nel secondo, intitolato “Teoria applicata

della moneta”, Keynes, ritornò sulle problematiche relative all'ordinamento monetario internazionale,

elaborando una prima formulazione dell'ambizioso progetto di riforma del sistema monetario che sosterrà a Bretton Woods.

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vennero raccolte nella sua opera più importante, “The General Theory of Employment, Interest and Money19” (1936) che secondo lo stesso autore “will largely revolutionize the way

the world thinks about economic problems20”. L'opera divise subito gli economisti tra chi la

considerava un’opera rivoluzionaria, chi la giudicava un ritorno alle idee mercantiliste, e chi si limitava ad apprezzarne alcuni contenuti con molti distinguo. Ma si trattava in ogni caso di un successo senza precedenti. Il pensiero keynesiano ebbe una tale influenza sia sull'evoluzione della teoria economica sia sui concreti indirizzi di politica economica governativa da far parlare di una “rivoluzione keynesiana”.

In seguito alla pubblicazione della Teoria Generale, l’influenza delle idee e delle indicazioni di Keynes fu notevole sia in Europa che negli Stati Uniti. L’economista divenne un ascoltato consulente del presidente Roosevelt ed ispirò le misure americane di uscita dalla recessione e i suoi schemi influenzarono la politica economica nel corso degli anni ’50 e ’60, periodo caratterizzato da eccezionale stabilità e prosperità per tutti i paesi industrializzati.

Nel 1940 Keynes fu nominato consulente finanziario del cancelliere dello Scacchiere e membro del Consiglio di direzione della Banca di Inghilterra; poté così mettere la sua esperienza al servizio del paese e influire sulla politica di finanziamento del Secondo Conflitto Mondiale. È dello stesso anno il saggio “How to pay for the war21 “(1940) in cui si

sottolineava come lo sforzo bellico si sarebbe dovuto finanziare con un maggiore livello di imposizione fiscale, piuttosto che con un bilancio negativo, per evitare spinte inflazioniste. Nel 1944 salì a capo della delegazione britannica alla conferenza di Bretton Woods, dove sostenne un piano di ricostruzione economica e finanziaria e un suo progetto di riforma monetaria postbellica internazionale, che avrebbe previsto l'instaurazione di una International Clearing Union, ovvero una specie di Banca Centrale internazionale autorizzata a emettere una speciale moneta . Il piano fu presentato e discusso a Bretton Woods, ma ad esso fu preferita la proposta dell'americano Dexter White: venne siglato l’accordo per un sistema di cambi fissi e modificabili, il cui fulcro diventava il dollaro, e la nascita di due nuove istituzioni: il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (o Banca Mondiale).

Keynes sapeva che il sistema di cambi fissi stabilito dagli accordi avrebbe potuto essere

19) Keynes J. M., 1936, The General Theory of Employment, Interest and Money, Edizione italiana, Teoria

generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, a cura di T. Cozzi, UTET, 2006.

20) Si veda a riguardo : Article by Cassidy, Johnson (10 October 2011), "The Demand Doctor", The New Yorker. 21) J. M. Keynes, How to Pay for the War: A radical plan for the Chancellor of the Exchequer, Macmillan,

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mantenuto nel tempo, in presenza di economie molto diverse quanto a tassi di crescita, inflazione e saldi finanziari, solo a patto di costringere gli Stati Uniti, destinati ad avere una bilancia commerciale e finanziaria positiva, a finanziare i paesi con saldi finanziari negativi: incontrò l'opposizione statunitense verso la predisposizione di fondi, che Keynes avrebbe voluto essere assai ingenti, destinati a tale scopo.

I fondi furono predisposti ma erano, per volere americano e grazie all'azione del negoziatore statunitense White, di dimensioni contenute. Risultarono di fatto insufficienti a finanziare i saldi finanziari negativi dei paesi più deboli e a fronteggiare la speculazione sui cambi, che nel corso del tempo divenne sempre più aggressiva, fino alla crisi del petrolio degli anni '70. Il sistema di Bretton Woods durò fino a metà degli anni Settanta, quando le pressioni sulle diverse monete causarono la fine dei cambi fissi ed il passaggio ad un regime di cambi flessibili, ad opera del presidente degli Stati Uniti d'America Richard Nixon.

1.2 I concetti chiave della “Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta”

“Ho intitolato questo libro Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, insistendo sull’aggettivo generale. Lo scopo di tale titolo è di contrapporre il carattere dei miei ragionamenti e delle mie conclusioni a quelli formulati nella stessa materia dalla teoria classica […] Dimostrerò che i postulati della teoria classica si possono applicare soltanto ad un caso particolare e non a quello generale, poiché la situazione che essa presuppone è un caso limite delle posizioni di equilibrio possibili. Avviene inoltre che le caratteristiche del caso particolare presupposto dalla teoria classica non sono quelle della società economica nella quale realmente viviamo; cosicché i suoi insegnamenti sono ingannevoli e disastrosi se si cerca di applicarli ai fatti dell’esperienza.22

Gli studiosi sostengono che il sistema teorico keynesiano possa essere pienamente compreso solo combinando le idee contenute in vari libri e scritti scientifici. In ogni caso, una

22) Keynes J. M., 1936, The General Theory of Employment, Interest and Money, Edizione italiana, Teoria

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elaborazione organica e piuttosto completa di questo sistema è presente nella sua opera più famosa, la Teoria Generale dell’Occupazione, dell’Interesse e della Moneta (1936). Probabilmente, se l’economia mondiale non avesse conosciuto la Grande Depressione degli anni ’30, la sola forza delle idee non avrebbe consentito a Keynes di rivoluzionare la scienza economica. Ma uno scenario di disoccupazione elevata e persistente come quella degli anni della Grande Depressione era semplicemente incompatibile con la legge di Say e, in generale, con lo schema dell’ortodossia pre-keynesiana. I fatti e gli eventi offrivano a Keynes una indubbia posizione di vantaggio per attaccare la visione classica e proporre una visione del mondo diversa.

La critica al pensiero classico e la teoria degli investimenti

Uno dei capisaldi della teoria classica, era l'ipotesi che l'azione spontanea delle forze economiche della domanda e dell'offerta, ispirandosi alla mano invisibile di Smith23, sarebbe

stata in grado di garantire il raggiungimento e il mantenimento di una configurazione di equilibrio caratterizzata dalla piena utilizzazione delle risorse produttive e di un efficiente allocazione delle stesse. L'intervento dello Stato, attraverso manovre di politica economica, non sarebbe stato necessario ma anzi, avrebbe costituito un ostacolo alla libertà d'azione delle forze di mercato.

Secondo i classici24 il livello di occupazione si determinava nel mercato del lavoro: lì si

sarebbero incontrate la domanda di lavoro delle imprese e l’offerta di lavoro da parte dei lavoratori. Secondo la loro concezione, il mercato del lavoro risultava simile al mercato delle merci, in cui la quantità domandata aumentava qualora fossero diminuiti i prezzi, mentre all'aumentare dei prezzi si sarebbe incrementata la quantità offerta. Dunque, il “prezzo” poteva ben corrispondere al salario in termini reali, cioè al netto dell’inflazione, la “quantità”

23) L’espressione mano invisibile fu utilizzata da Smith nell’ambito dell’analisi del problema del protezionismo e del libero commercio. Più precisamente, ne fece riferimento spiegando che, seguendo le loro preferenze egoistiche, i possessori di capitale avrebbero preferito investire in attività localizzate nel proprio paese, creando in tal modo benefici ad esso e alla società, che nei paesi esteri. Secondo Smith, gli individui sarebbero spinti da una ‘mano invisibile’ a operare in modo da assicurare tali benefici, pur perseguendo null’altro che vantaggi individuali. Dunque, la suddetta metafora rimandava ai meccanismi per i quali il corpo sociale si trova a godere di benefici che nessuno aveva posto come fine delle proprie azioni.

24) Keynes J. M., 1936, The General Theory of Employment, Interest and Money, Edizione italiana, Teoria

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invece al numero di occupati: all'aumentare dei salari reali, i lavoratori avrebbero offerto “più lavoro”, mentre le imprese avrebbero richiesto più lavoratori solo se i salari reali si fossero ridotti. Il punto di equilibrio tra domanda e offerta determinava il salario reale effettivamente percepito e la quantità di lavoratori effettivamente occupati.

Il meccanismo25 può essere descritto dai seguenti grafici:

(figura 1: l'interconnessione tra mercato del lavoro e mercato dei beni secondo la concezione classica)

Nel primo grafico, la curva di domanda di lavoro (Nd, linea in azzurro), da parte delle imprese operanti in condizioni di concorrenza perfetta, corrispondeva perfettamente alla curva della produttività marginale del lavoro (PmgL: misurava l’incremento di prodotto dovuto ad un’unità aggiuntiva di forza lavoro ) e risultava decrescente in funzione dei salari reali (w/P).

Di converso, la curva di offerta di lavoro (Ns linea in rosso) da parte dei lavoratori risultava crescente in funzione dei salari reali e corrispondeva alla curva di disutilità

25) A riguardo si veda anche: Pavanelli G. (2003) , Valore, distribuzione, moneta. Un profilo di storia del

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marginale del lavoro per i lavoratori ( ossia, si riteneva che la disutilità per il lavoratore fosse crescente all’aumentare della quantità di lavoro richiesto, ad un dato salario)26

Appareva logico che i lavoratori avrebbero accettato la “pena” di lavorare invece che avere tempo libero qualora fossero stati pagati di più; ma d’altra parte le imprese avrebbero assunto lavoratori sempre meno utili solo a condizione di una diminuzione dei loro salari. Si tenga conto che si trattava di ipotesi sui comportamenti individuali del tutto idealizzati, ma questo era tipico della teoria classica basata sull’individualismo metodologico, in cui gli agenti venivano considerati identici a prescindere da differenze di classe: imprenditori, consumatori, lavoratori, investitori finivano sempre per massimizzare la loro utilità.

L’incontro tra queste due curve risultava essere il punto di equilibrio del mercato del lavoro in corrispondenza del quale si arrivava a determinare il salario reale e il livello di occupazione di equilibrio [(w/P)* e N*]27.

Trattando il mercato dei beni si poteva notare che, dato un certo ammontare di capitale (K), si potevano configurare vari livelli produttivi in base al livello di occupazione: cioè, dato un certo livello di capitale costante (ad esempio una catena di montaggio), ogni nuovo lavoratore

avrebbe prodotto un poco meno di quello precedente.

Il livello di occupazione N* determinato così nel mercato del lavoro, veniva riportato sulla funzione di produzione determinando il prodotto nazionale Y*, che, per l’operare della Legge di Say sarebbe stato interamente venduto (la domanda di beni aggregata D(N) coincideva con la funzione di produzione che rappresentava l’offerta di beni aggregata Z(N))28.

Dunque, secondo questo modello, con salari flessibili e concorrenza perfetta tra le imprese, si poteva sempre raggiungere l’equilibrio di piena occupazione e qualora si fossero presentate

26) Keynes definirà “primo postulato classico” le ipotesi sottostanti alla curva di domanda e “secondo postulato classico” le ipotesi sottostanti alla curva di offerta di lavoro.

27) I neoclassici facevano notare come tutti i lavoratori a destra di N* erano considerati disoccupati volontari perché avrebbero voluto un salario reale maggiore di quello di equilibrio. Se avessero abbassato le loro pretese, la curva di offerta di lavoro sarebbe traslata in basso a destra (Ns+, linea rossa tratteggiata) e corrisponderebbe a un livello di salario reale più basso (w/P)+ per il quale si potrebbero occupare lavoratori fino a N+, determinando inoltre un aumento della produzione fino a Y+. In questo contesto, le uniche forme possibili di disoccupazione erano di tipo: frizionale, la quale traeva origine dalle imperfezioni del mercato o da brevi periodi di inattività derivanti dal passaggio da un' occupazione ad un' altra; e di tipo volontario, la quale derivava da accordi tra lavoratori a non accettare salari al di sotto di un certo livello. Veniva dunque esclusa a priori, qualunque ipotesi di disoccupazione involontaria.

28) Seconda la legge di Say, che dominava il pensiero classico, l'offerta era sempre in grado di creare una domanda sufficiente ad assorbire i nuovi beni prodotti. Questa accettazione, comportava che l'astensione dal consumo nel presente fosse equivalente alla decisione alla decisione di effettuare un investimento dello stesso ammontare. Si escludevano quindi situazioni ove la domanda aggregata fosse insufficiente: la curva di domanda andava quindi a coincidere sempre con quella di offerta aggregata.

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situazioni di disequilibrio, si riponeva una totale fiducia nella capacità del libero mercato di rimediarvi29. Gli episodi di elevata disoccupazione non potevano essere esclusi a priori ma

qualora si fossero presentati, avrebbero avuto una durata molto breve. Infatti, il libero gioco della domanda e dell’offerta nel mercato del lavoro avrebbe condotto, in presenza di disoccupazione, ad una riduzione dei salari: i lavoratori disoccupati sarebbero cioè stati disposti a lavorare per salari inferiori rispetto ai salari pagati ai lavoratori occupati, ma a loro volta quest'ultimi, avrebbero accettato una decurtazione dei loro salari per difendersi dalla concorrenza dei disoccupati. Insomma, la disoccupazione avrebbe abbassato i salari e i salari più bassi avrebbero stimolato la richiesta di un numero maggiore di lavoratori da parte delle imprese consentendo così di riassorbire la disoccupazione che, di conseguenza, poteva essere solamente un fenomeno di breve durata. Inoltre, non solo la disoccupazione sarebbe stata riassorbita in breve tempo, ma la convinzione dominante era che poteva sorgere solo raramente. Sela domanda fosse sempre stata sufficiente ad acquistare i beni prodotti, secondo la legge di Say30, di norma, le imprese non avrebbero accumulato scorte di beni invenduti e

non avrebbero abbassato i loro livelli produttivi ed occupazionali: essendo quindi sempre verificata l'equivalenza tra produzione e domanda, era di conseguenza impossibile che il sistema economico funzionasse al di sotto della piena occupazione.

Qualora la domanda per beni di consumo e per beni di investimento fosse risultata insufficiente ad acquistare la produzione, i tassi di interesse si sarebbero ridotto e ciò avrebbe stimolato i consumi e gli investimenti da parte delle imprese. Ancora una volta, come per il mercato del lavoro, anche per il mercato dei beni si riponeva una assoluta fiducia nella capacità dell’economia di raggiungere l’equilibrio tra domanda ed offerta.

La demolizione di questa legge sul piano teorico era per Keynes un passaggio necessario se desiderava affermare il principio di una inerente tendenza delle economie di mercato a generare disoccupazione.

Secondo l'economista di Cambridge, il secondo postulato classico andava respinto poiché dall'evidenza empirica emergeva come la contrattazione salariale, non avveniva con riferimento al salario reale, ma bensì a quello nominale: a riprova di questo, Keynes osservava come di norma i lavoratori opponevano resistenza ad una riduzione dei salari

29) Si veda: Napoleoni, Ronchetti, Il pensiero economico del Novecento, cap. XIV, Einaudi, Torino, 1990. 30) Si veda a riguardo: http://www.feduf.it/container/scuole/john-maynard-keynes.

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monetari, mentre una riduzione del salario reale, derivante da un aumento moderato del livello dei prezzi (non accompagnato da un aumento proporzionale del salario nominale), non si traduceva in una riduzione dell'offerta di lavoro. Inoltre, anche ammesso che lo avessero voluto, i lavoratori non sarebbero stati in grado di determinare il livello del salario reale. Venendo meno quindi il secondo postulato classico, su cui si reggeva la curva di offerta aggregata del lavoro, il mercato del lavoro risultava indeterminato: il livello di occupazione andava fissato esogenamente sulla base della domanda aggregata, e una carenza di quest'ultima avrebbe creato dei problemi occupazionali. Passiamo quindi a esaminare le condizioni di equilibrio sul mercato dei beni.

Contrariamente ai classici, Keynes riteneva che la domanda aggregata potesse risultare insufficiente a garantire il pieno impiego dei fattori produttivi e che nelle economie avanzate vigeva una diversa relazione tra domanda e offerta: non era la produzione che generava la domanda ma piuttosto era la domanda a generare la produzione31. Se la domanda fosse

aumentata, le scorte di magazzino si sarebbero assottigliate e le imprese avrebbero aumentato la produzione e l’occupazione32. Per converso, se la domanda si fosse ridotta, l’invenduto

sarebbe cresciuto e le imprese avrebbero ridotto la produzione e l'occupazione. Ne seguiva che per individuare le cause che determinavano il livello di occupazione occorreva studiare in primo luogo i fattori dai quali dipendevano le decisioni di spesa poichè la domanda di lavoro si determinava sul mercato dei beni e non sul mercato del lavoro.

Considerando, un economia chiusa nella quale non si consideri il settore pubblico, la domanda aggregata derivava dalla somma delle domande per investimenti (da parte delle imprese, per l'acquisto di beni capitali, destinati a produrre altri beni) e per consumi (da parte delle famiglie)33. Con riferimento a quest'ultima variabile, Keynes giunse alla conclusione che il

consumo aggregato C ,e quindi anche il risparmio R (Risparmio= Reddito-Consumo) , dovessero essere considerati funzione del reddito disponibile corrente34 e come le loro quote 31) L'economista inglese rifiutò così la Legge di Say, poiché aveva la convinzione che non era per niente scontato che tutto quanto venga prodotto fosse certamente venduto.

32) Uno degli elementi più rivoluzionari dell’opera di Keynes era la teoria per cui i sistemi capitalistici fossero, per loro stessa natura, sempre esposti al rischio di generare una disoccupazione eccessiva. Quando la domanda si dimostrava troppo bassa, le imprese accumulavano scorte di magazzino di beni invenduti e, di conseguenza, riducevano i livelli produttivi e provvedendo a licenziare parte della loro forza lavoro.

33) Pavanelli G., Valore, distribuzione, moneta. Un profilo di storia del pensiero economico, cap. XVI, pag. 312, Franco Angeli, 2003.

34) La domanda di consumo risultava direttamente proporzionale al reddito: all'aumentare della ricchezza nazionale era verosimile ipotizzare che tendeva a crescere anche il tenore di vita e quindi, di conseguenza, le

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tendevano a rimanere relativamente stabili nel breve periodo. Avanzava dunque due ipotesi basate su regole comportamentali di tipo psicologico:

• la propensione marginale al consumo35 (dC/dY) era caratterizzata da un valore

positivo, ma comunque minore di 1; ossia gli uomini, in media, erano disposti ad accrescere il loro consumo con l'aumentare del reddito, ma non tanto quanto l'aumento dello stesso;

• la propensione media al consumo (C/Y), tendeva a ridursi all'aumentare del reddito; ne seguiva che la quota di risparmi sul reddito tendeva ad aumentare, e quindi che i paesi più avanzati erano quelli maggiormente esposti al rischio di ritrovarsi con una domanda insufficiente e quindi in situazioni di sottoccupazione dei fattori produttivi, dal momento che nulla garantiva che il risparmio si traducesse in nuovi investimenti tali da far avanzare l'economia;

Keynes dichiarava come la tesi dei “classici” secondo cui, l'astensione al consumo (ossia il risparmio) era da considerarsi un comportamento virtuoso, l'unico in grado di garantire alti tassi di crescita, fosse privo di fondamento: comprendendo l'importanza della moneta come “riserva di valore”, e proprio perché la moneta poteva essere accumulata, un eccesso di risparmio avrebbe determinato un deficit della domanda, e conseguentemente la riduzione della produzione e quindi la disoccupazione36.

Del tutto diverso risultava essere il ruolo degli investimenti: essi rappresentavano una componente instabile della domanda, per cui potevano rivelarsi insufficienti a garantire il pieno impiego delle risorse. Laddove, secondo i classici, i risparmi costituivano la precondizione necessaria per effettuare investimenti, nel modello keynesiano, nell'ipotesi di sottoccupazione delle risorse, un aumento esogeno di quest'ultimi comportava un aumento della domanda aggregata e del reddito verso l'equilibrio. Posto che i risparmi, come i consumi, erano funzione del reddito, si sarebbe verificato anche un aumento del loro

necessità dei membri della collettività.

35) L'inclinazione della funzione di consumo, cioè il tasso di crescita del consumo rispetto alla crescita del reddito, era rappresentata dalla propensione marginale al consumo (PMC).

36) Ricordiamo che per Keynes, la profonda crisi economica del '29 era dovuta ad un'insufficienza di domanda da parte dei consumatori e da parte delle imprese: sarebbe servita quindi una manovra di politica economica che di nuovo alimentasse la domanda aggregata, per poter riavvicinare il sistema alla piena occupazione.

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ammontare37. Le scelte di investimento rappresentavano dunque la variabile strategica per

incentivare la domanda e quindi risolvere il problema occupazionale: la domanda di investimenti in beni capitali essendo funzione inversa del tasso d'interesse ( un aumento del tasso rendeva più oneroso ottenere finanziamenti per acquistare macchine necessarie alla produzione), costituivano l'anello di trasmissione della politica monetaria della Banca Centrale38.

Keynes capovolse l'impostazione classica enunciando il suddetto principio:

“il prezzo complessivo di offerta della produzione, ottenuta con un dato volume di occupazione è l'aspettativa del ricavo che renda appena conveniente agli imprenditori offrire quella occupazione. Ne deriva che in un dato stato della tecnica, delle risorse e del costo dei fattori per unità di occupazione, il volume di occupazione, sia in ciascuna impresa singola o in ciascun settore produttivo, sia nel complesso, dipende dall'ammontare del ricavo che gli

imprenditori prevedono di ottenere dalla produzione corrispondente; infatti gli imprenditori

cercheranno di fissare il volume dell'occupazione a quel livello che rende massima, nelle loro previsioni, l'eccedenza del ricavo sul costo dei fattori […] quindi il volume di occupazione è dato dal punto di intersezione fra la funzione di domanda aggregata e la funzione di offerta aggregata, giacché a quel punto saranno rese massime le previsioni di profitti da parte degli imprenditori. Chiameremo domanda effettiva il punto della funzione di domanda aggregata nel quale questa è intersecata dalla funzione di offerta aggregata39

Aiutandoci coi grafici sotto (figura2), possiamo vedere la funzione di offerta aggregata Z(N) e quella di domanda aggregata D(N):

37) E' a questo punto che Keynes, introdusse il meccanismo del moltiplicatore: in una situazione di sottoccupazione delle risorse, un aumento esogeno degli investimenti, sarebbe stato in grado di determinare una variazione più che proporzionale del reddito complessivo.

38) Come vedremo, un aumento dell'offerta di moneta, determinerà la riduzione dei tassi d'interesse in modo tale da incentivare l'investimento e riportare in alto la funzione di domanda aggregata.

39)J. M. Keynes (1936), The General Theory of Employment, Interest and Money. Edizione italiana (2006): Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, cap. III, pag. 207, a cura di T. Cozzi, UTET.

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(figura 2: la visione keynesiana sull'interrelazione tra mercato dei beni e mercato del lavoro) Il punto di incontro in E* rappresentava per Keynes la domanda effettiva che a sua volta, configurava il valore della produzione o il livello del reddito nominale (ossia in termini di moneta) nazionale di equilibrio Y* e il livello di occupazione effettiva N*. Supponendo, quindi, un andamento della produttività marginale del lavoro decrescente, e riportando N* nel grafico sottostante si arrivava a determinare il salario reale d’equilibrio(w/P)* 40. La domanda

aggregata risultava dunque essere la determinante del livello di impiego delle risorse, che normalmente non era quello massimo possibile, in quanto non vi era certezza che gli operatori economici finissero per spendere tutto ciò che guadagnavano in consumi e in investimenti, facendo sì che la domanda effettiva si collocasse a un punto tale da garantire la piena occupazione. Questo era il presupposto, del tutto irrealistico, della teoria classica che considerava il sistema economico moderno come una “economia di baratto” in cui non esisteva la moneta (o meglio era definita come “neutra”, cioè non in grado di influenzare le grandezze reali come produzione e occupazione) e considerava ogni risparmio equivalente

40) Possiamo notare come un aumento della domanda aggregata fino a D(N)+ provocherebbe un aumento sia del reddito nazionale nominale fino a Y+, sia un aumento dell’occupazione fino a N+ e una diminuzione del salario reale fino a (w/P)+. Si noti che Keynes non rappresentava il mercato del lavoro poiché né la Produttività Marginale né la Disutilità Marginale del Lavoro erano rispettivamente Domanda e Offerta di lavoro come nel modello classico: come già detto precedentemente infatti, Keynes sosteneva che i lavoratori e le imprese avrebbero contrattato i salari monetari, non quelli reali.

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sempre ad un investimento (cioè a una spesa). L'equilibrio economico sul mercato dei beni, per Keynes, non era necessariamente un equilibrio di piena occupazione, come invece sostenevano i classici: una delle caratteristiche della crisi era infatti quella del non pieno utilizzo della capacità produttiva dovuta al fatto che gli imprenditori non avrebbero motivo a produrre, qualora avessero temuto un basso livello di vendite; una volta licenziati i lavoratori e chiuse un certo numero di imprese, la produzione totale sarebbe rimasta stabile e venduta a chi aveva ancora un reddito. Non si sarebbe trattato di una situazione transitoria, ma bensì di un equilibrio stabile di sotto-occupazione, in quanto non esisterebbe nessuna forza interna di mercato che possa permettere il raggiungimento del pieno impiego41. E' contro il

mantenimento di questo equilibrio che si evidenzierà, più avanti, la necessità da parte dello Stato di intervenire nell'economia: non tanto attraverso un intervento di politica monetaria, ma piuttosto attraverso l'attuazione di politiche di spesa pubblica, maggiormente efficaci per far variare la domanda aggregata42, essendo esse stesse parte della funzione di domanda.

Rimaneva quindi la necessità di definire le variabili da cui dipendevano gli investimenti e il loro andamento nel corso del tempo. Come era logico pensare, nella determinazione di un progetto di investimento, risultava cruciale valutare il flusso di redditi futuri attesi che questi avrebbe permesso di conseguire43; a fronte di questo, occorreva tener conto, secondo Keynes,

del prezzo di offerta dei beni capitali, ossia il minimo prezzo sufficiente ad indurre un produttore a produrre un unità aggiuntiva di quel bene capitale. Questi due concetti, venivano uniti dall'efficienza marginale del capitale44, che altro non era che il tasso di attualizzazione

con il quale avrei valutato il flusso di redditi prospettici: rappresentava quella grandezza in grado di uguagliare quest'ultimo flusso al prezzo di offerta del capitale. Ogni impresa, avrebbe al minimo tenuto conto di fare un certo investimento, solo se l'efficienza marginale del capitale, di un certo progetto, fosse stata maggiore del tasso di interesse di mercato: ne

41) Garretsen Harry, Keynes, coordination and beyond: The Development of Macroeconomic and Monetary

Theory since 1945, ch. 2 p. 24, Edward Elgar, 1992.

42) Interessante era notare è l'aumento del livello di produzione, che conseguiva ad un incremento di spesa pubblica, risultasse maggiore dell'aumento iniziale di quest’ultima: questo perchè l'intervento di spesa pubblica, avendo fatto aumentare il reddito d'equilibrio, aveva determinato anche l'aumento della domanda dei consumi, che come noto aveva una relazione direttamente proporzionale con il reddito. La domanda aggregata quindi sarebbe aumentata sia per effetto di un aumento dal lato dei consumi, che dal lato della spese operate dalla pubblica amministrazione: questo processo di espansione del reddito molto più grande dell'incremento della spesa pubblica, divenne noto come moltiplicatore del reddito.

43) Keynes lo definì come “reddito prospettico”.

44) Keynes J. M., 1936, The General Theory of Employment, Interest and Money, Edizione italiana, Teoria

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seguiva che una riduzione del tasso d'interesse, si sarebbe tradotta in un aumento degli investimenti. Come si può constatare, questo aspetto a prima vista poteva coincidere con la visione classica; tuttavia se ne differenzierà soprattutto per il ruolo cruciale che le aspettative assumeranno nei confronti degli investimenti.

Per Keynes, infatti, gli investimenti non dipendevano solamente dai tassi di interesse ma essi erano determinati anche e soprattutto da ciò che gli imprenditori si sarebbero aspettati in termini di redditi prospettici, per il futuro della loro impresa. Se fossero stati ottimisti avrebbero investito anche con tassi di interesse elevati mentre, qualora fossero stati pessimisti invece, non avrebbero investito anche con tassi di interesse bassi. Ne seguiva che, se la domanda si fosse rivelata insufficiente, il calo del tasso di interesse non sarebbe stato in grado di far aumentare l’investimento, per cui la domanda sarebbe potuta rimanere a livelli bassi anche per lunghi periodi di tempo. Questo avrebbe significato bassa produzione ed elevata disoccupazione anche per un discreto numero di anni45.

Da questa visione del mondo emergeva poi, con chiarezza, la ricetta che avrebbe dovuto essere adottata per far fronte alla recessione: qualora gli imprenditori privati fossero stati poco propensi a investire, ad esempio perché le previsioni sull'andamento futuro dell'economia risultavano poco promettenti, era necessario un intervento diretto del governo che prendesse a prestito risorse presso privati o tramite il sistema bancario, e le usasse per promuovere la realizzazione di opere pubbliche, consentendo così il riassorbimento della disoccupazione e il ripristino delle condizioni di pieno impiego.

In definitiva, la visione di stampo classico, secondo cui basterebbe far sì che i salari non siano rigidi verso il basso46 al fine di ottenere un ripristino automatico del livello di occupazione e

di crescita del prodotto nazionale, venne totalmente rigettata da Keynes visto che la riduzione dei salari monetari avrebbe ridotto i consumi (parte della domanda aggregata) e quindi non avrebbe avuto risvolti positivi sull’occupazione: il mercato del lavoro risultava troppo diverso dagli altri mercati per sperare che operasse sulla base degli stessi meccanismi. I sindacati ed i

45) Detto questo, è doveroso ricordare come, nell'opinione di Keynes, a parità di aspettative, una riduzione del tasso d'interesse costituiva una misura importante nello stimolare le decisioni di investimento, consentendo così di riportare verso l'alto la domanda aggregata e l'occupazione.

46) A riguardo si veda: Napoleoni, Ronchetti , Il pensiero economico del Novecento, cap. XIV , Einaudi, Torino, 1990.

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contratti collettivi, ad esempio, avrebbero impedito ai disoccupati di insidiare gli occupati offrendosi a salari più bassi, senza contare che diversi fattori di ordine psicologico e sociologico avrebbero fatto sorgere nei lavoratori una forte resistenza nei confronti di una riduzione dei loro salari. In definitiva, esistevano molte ragioni per cui, anche a fronte di una elevata disoccupazione, i salari non si sarebbero abbassati o comunque molto lentamente. Per questo motivo la disoccupazione si sarebbe protesa nel tempo piuttosto che scomparire in pochi mesi.

Keynes pose dunque l’accento sul ruolo determinante svolto dalla domanda aggregata: in caso di assenza di domanda aggregata aggiuntiva (ad esempio, come appena citato, la spesa pubblica), il sistema non sarebbe ritornato da sé alla piena occupazione, ma avrebbe potuto avvitarsi in un circolo vizioso di caduta della domanda, della produzione e quindi dell’occupazione, che conseguentemente avrebbero causato un’ulteriore caduta della domanda per poi assestarsi su un equilibrio di sottoccupazione altamente inefficiente con un elevato livello di disoccupazione involontaria.

Il ruolo centrale delle aspettative

Keynes, non perse occasione per attaccare l'analisi del sistema economico da parte della teoria moderna. Riprendendo il concetto di equilibrio economico walrasiano, il sistema veniva da loro analizzato come una successione di stati d'equilibrio tra domanda e offerta qualora fossero risultate valide una serie di condizioni: concorrenza perfetta, o almeno libera; l'inesistenza di asimmetrie informative e di barriere all'ingresso e all'uscita; la moneta neutrale, cioè non in grado di influenzare le grandezze reali. Secondo l'economista inglese, tale teoria sarebbe risultata valida qualora i beni si fossero consumati subito, ma essendo in un economia avanzata, caratterizzata per lo più da beni durevoli, questo stato d'equilibrio risulterebbe irrealistico, poiché la moneta non si dimostrava affatto neutrale e non esisteva la concorrenza perfetta, come non si poteva prescindere dal fattore tempo: tanto più l'orizzonte temporale fosse stato di lungo periodo, tanto meno avremmo avuto elementi solidi per costruire le nostre decisioni di investimento47 e così avremmo dovuto sempre più fare

affidamento alle nostre aspettative48.

47) Keynes ribadì più volte, come l'attività di investimento era un attività incerta: l' incertezza si dimostrava un concetto totalmente diverso da quello di rischio; nel rischio, la probabilità di un evento risultava perfettamente quantificabile, mentre nell'incertezza, tale probabilità era del tutto sconosciuta.

48) Keynes J. M., 1936, The General Theory of Employment, Interest and Money, Edizione italiana, Teoria

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A riguardo, Keynes distingueva due tipi di aspettativa :

di breve periodo, le quali regolavano la produzione corrente ovvero riguardavano i ricavi attesi al momento d'inizio della produzione con un dato livello di impianti e occupazione e potevano essere tralasciate poiché non avrebbero modificato il livello di investimenti corrente e futuro, e quindi non avrebbero inciso sull'occupazione;

di lungo periodo, le quali, riguardavano i ricavi ottenibili con l'ampliamento della produzione, e quindi avrebbero potuto incidere sulla scelte di avviare nuovi investimenti e ampliare o meno lo stock di capitale;

Keynes mise in evidenza il forte collegamento tra i due tipi di aspettativa: quelle a breve di ogni singolo imprenditore (il quale avrebbe prodotto un certo bene durevole), risultavano determinate da quelle di lungo periodo degli investitori (i quali avrebbero potuto o meno creare la domanda). La dotazione attuale di capitale (impianti) sarebbe stata determinata dalle aspettative passate (e realizzate), ma il loro attuale livello di sfruttamento, sarebbe dipeso dalle aspettative correnti, che quindi si dimostravano in grado di regolare l'occupazione corrente. Si doveva prestare però attenzione a un aspetto fondamentale: mentre le aspettative di breve termine non sarebbero mutate, quasi mai improvvisamente, poiché sarebbe risultato complicato rielaborare le aspettative ogni qualvolta si iniziasse un nuovo processo produttivo (non inteso come nuovo investimento) , le aspettative a lungo termine, si mostravano invece soggette a revisioni improvvise, e questo avrebbe reso molto instabile il complesso delle decisioni di investimento.

Risultava necessario quindi, scoprire quali erano gli elementi che sarebbero stati alla base della determinazione delle aspettative di lungo periodo. Keynes trovò la risposta: le variazioni future della consistenza dei capitali (per qualità e quantità), dei gusti dei consumatori e della domanda effettiva di un certo bene, durante la vita dell'investimento stesso, e lo stato di fiducia (stato psicologico) dell'investitore, di riuscire a farsi un'aspettativa solida su questi suddetti stati di per sé incerti, avrebbero influenzato senza ombra di dubbio lo stato delle

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aspettative di lungo termine49. Il problema dell'instabilità e dell'insufficiente livello degli

investimenti, per avere il pieno impiego delle risorse, era quindi dovuto al fatto che ogni agente economico, avrebbe avuto le proprie aspettative sulla base del proprio stato psicologico, per natura molto variabile e quindi instabile; ma l'accento lo si poneva anche sull'esistenza dei mercati organizzati di capitali, che sì avevano permesso di convogliare più efficacemente le risorse verso le imprese, ma a scapito di una maggiore instabilità dell'investimento50.

Accertato che l'investimento era instabile, si individuavano quattro particolari situazioni che avrebbero accentuato l'instabilità:

• la presenza sempre più massiccia di investitori non professionali: essi avrebbero detenuto azioni di un certa società senza conoscerla a fondo ma decretando l'investimento solo sulla base di un comportamento imitativo. Si dimostravano di fatto preda di sentimenti mutevoli;

• il comportamento irrazionale che stava dietro alla fluttuazione dei profitti di un certo investimento, avrebbero contribuito in maniera decisiva alla volatilità dei corsi azionari e dei redditi prospettici collegati;

la mancanza di uno stato di fiducia solido, alla base delle aspettative, che quindi si sarebbe rilevato instabile e soggetto a cambiamenti frequenti;

• la presenza di investitori professionali con la funzione di speculatori: avrebbero esclusivamente accentuato l'instabilità del sistema e non si sarebbero occupati di una valutazione oggettiva del reddito prospettico di un investimento di lungo periodo, ma bensì avrebbero monitorato le valutazioni di mercato su un certo progetto, per cercare

49) Potevamo derivare un chiaro nesso causale: lo stato di fiducia avrebbe determinato lo stato delle aspettative dei singoli agenti economici, le quali determinando i redditi prospettici avrebbero inciso anche sulle loro decisioni di investimento.

50) Keynes mostrava come l'investitore, di fronte alla scelta di finanziare un impresa solida, da tempo sul mercato, e una start up da piazzare in Borsa, era indirizzato a finanziare la seconda , la quale gli avrebbe un utile di breve periodo elevato dovuto al successo della quotazione, piuttosto che scegliere di legarsi alla prima attraverso un investimento di lungo periodo.

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di anticipare il movimento dell'investitore non professionale, da cui poter derivare il loro profitto in ottica di breve periodo.

Keynes temeva che l'investimento sarebbe diventato ancora più volatile sia per ragioni storiche (la diffusione dell'atteggiamento speculativo, con il diffondersi dei mercati finanziari, avrebbe forse prevalso su quello imprenditoriale), sia perchè era basato su aspettative di lungo periodo, basate a loro volta sugli animal spirits, totalmente irrazionali, legati all'umore dell'investitore e quindi soggetti a cambiamenti improvvisi. Ma se così stavano le cose, sarebbe risultato difficile promuovere gli investimenti di lungo termine importanti (in ricerca o infrastrutture); essendo questi però fondamentali per il progredire di una società, una soluzione possibile, sarebbe stata quella di far avviare questi progetti da forme collettive (quali lo Stato, ad esempio) in quanto come enti sarebbero stati in grado di calcolare i flussi di reddito su un periodo più lungo.

La teoria generale del tasso d'interesse

La tradizione classica, considerava il tasso d'interesse come una variabile reale: era quel prezzo di equilibrio sul mercato dei capitali51, che potevo ottenere dall'intersezione della

domanda d'investimento (in beni capitali) con l'offerta di capitale (risparmio).

Keynes criticava questa impostazione poiché non teneva conto del ruolo delle aspettative e quindi dell'instabilità intrinseca ad ogni sistema di mercato; integrava così la definizione del tasso d'interesse con il concetto di propensione alla liquidità che rappresentava la predisposizione psicologica a detenere attività liquide52. Il tasso d'interesse non era nient'altro

che il premio per l'abbandono della liquidità (ivi compreso il premio per il rischio), o meglio il prezzo che equilibrava il desiderio di tenere ricchezza in forma liquida, con la quantità di moneta disponibile definita esogenamente53. Ciò implicava che, qualora si fosse ridotto il

compenso per la rinuncia alla liquidità, e quindi il tasso d'interesse fosse risultato inferiore a

51) L'equilibrio sul suddetto mercato si basava sulle condizioni di equilibrio economico di tipo walrasiano, già precedentemente riportate.

52) Se i classici consideravano la moneta un semplice mezzo di scambio, Keynes sottolineava la sua funzione di

fondo di valore la cui caratteristica principale che la distingueva da tutti gli altri, era la liquidità, ovvero la sua

immediata scambiabilità a costo nullo con qualsiasi altro bene. Il problema era che, data questa sua caratteristica, nelle fasi di depressione, la moneta stessa contribuiva a determinare un peggioramento della congiuntura economica poiché gli agenti del sistema tendevano ad accumulare scorte monetarie, deprimendo così ulteriormente l'attività produttiva.

53) Keynes J. M., 1936, The General Theory of Employment, Interest and Money, Edizione italiana, Teoria

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quello che equilibrava quei due elementi, la domanda di moneta avrebbe teso all'infinito superando la quantità disponibile; viceversa, un aumento del tasso d'interesse, avrebbe determinato un'eccedenza di denaro liquido che nessuno sarebbe stato disposto a detenere. Se questa spiegazione risultava corretta, la quantità di moneta sarebbe stato l'altro fattore che, unitamente alla preferenza di liquidità, avrebbe determinato il tasso effettivo di interesse in date circostanze54: Keynes parlava quindi di un tasso d'interesse monetario, in base alla

convinzione che fosse fissato esogenamente sul mercato della moneta55.

Come ogni mercato, anche quello della moneta56, risultava caratterizzato da una funzione di

domanda e una funzione d'offerta: l'offerta di moneta era esogena e determinata dalle autorità monetarie. Per ciò che concerneva la domanda, l'analisi classica riassumeva così le ragioni per la preferenza alla liquidità:

motivo transazionale: la liquidità era detenuta per lo svolgimento quotidiano di scambi personali e commerciali;

motivo precauzionale: in assenza di incertezza era totalmente irrazionale detenere moneta; ma visto che l'incertezza esisteva era giusto detenere scorte liquide per far fronte a spese inattese: per esempio, in presenza di aspettative deflazionistiche, gli agenti economici avrebbero cercato di mantenersi più liquidi possibile in modo da far aumentare la loro ricchezza futura;

In entrambi i casi la domanda di liquidità si mostrava funzione del reddito.

Keynes però, nella sua analisi sottolineò l'esistenza di una terza motivazione, e risultava proprio in questo caso fondamentale la variabile tasso d'interesse:

54) Diventava centrale ancora una volta, il ruolo dell'incertezza: qualora non vi fosse, i tassi d'interesse futuri sarebbero stati perfettamente deducibili dai tassi d'interesse presenti; ma se non vi fosse incertezza, non sarebbero esistite neanche le ragioni per la preferenza alla liquidità. A riguardo, si veda anche : Garretsen Harry,

Keynes, coordination and beyond: The Development of Macroeconomic and Monetary Theory since 1945, ch. 2

p. 27, Edward Elgar, 1992.

55) Contrariamente a quanto affermato dai classici, Keynes sosterrà sempre come le variabili monetarie tendevano a influenzare quelle reali; la moneta in questo senso, non poteva risultare neutrale nell'ambito del processo di produzione capitalistico.

56) Pavanelli G., Valore, distribuzione, moneta. Un profilo di storia del pensiero economico, cap. XVI pag. 320, Franco Angeli, 2003

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motivo speculativo: qualora gli agenti economici avessero avuto aspettative di tassi d'interesse crescenti conseguentemente potevano prevedere una riduzione del prezzo delle azioni, e allora avrebbero cercato di mantenersi più liquidi oggi, per poter comprare domani quelle stesse azioni, quando l'operazione risulterà a loro più conveniente;

Era principalmente attraverso questo canale che, tramite il tasso d'interesse, la moneta era in grado di influenzare l'economia reale: un aumento dell'offerta di moneta, nell'ipotesi di una funzione di domanda stabile, avrebbe fatto ridurre il tasso; a parità di aspettative imprenditoriali, ciò avrebbe comportato un aumento degli investimenti e della domanda aggregata. Grazie all'azione del moltiplicatore l'effetto finale sarebbe stato quello di un incremento più che proporzionale del reddito.

Keynes riscontrava però una particolare criticità che avrebbero potuto vanificare i risultati di una politica monetaria espansiva: lo sviluppo dei mercati finanziari avrebbe potuto far sì che il terzo motivo, prevalesse sul secondo57, e il caso estremo avrebbe potuto portare ad una

situazione di trappola della liquidità: con aspettative di rialzo dei tassi d'interesse (e la conseguente caduta dei corsi azionari), gli operatori sarebbero voluti rimanere liquidi a tutti i costi, quindi avrebbero assorbito sotto forma di scorte speculative, tutta la liquidità offerta dalla Banca Centrale, facendo così rimanere pressoché invariato il tasso d'interesse senza stimolare gli investimenti58. In aggiunta, se anche si potesse raggiungere la piena occupazione

con il meccanismo precedentemente esposto, era ragionevole aspettarsi che aumenti anche il livello d'inflazione e che quindi la Banca Centrale vi provveda aumentando i tassi d'interesse: se gli agenti, seguendo le loro aspettative, avessero previsto un ciclo recessivo (da riduzione della domanda) proprio quando il loro investimento sarebbe entrato in attuazione, avrebbero deciso di non avviare quel determinato progetto a priori.

Ancora una volta, il ruolo delle aspettative tornava ad essere determinante nella decisione d'investimento: queste precisazioni però non implicavano affatto che la politica monetaria

57) Keynes aggiunse come sia proprio l'incertezza sul futuro, così pesante durante una crisi, a indurre gli attori dei mercati a speculare sul breve termine; proporrà in proposito, di tassare le transazione finanziarie in modo da punire la speculazione a breve termine, e favorire invece gli investimenti.

58) Keynes sottolineava come questo meccanismo possa venir amplificato attraverso un aumento sempre più veloce del tasso d'interesse, qualora intervenissero gli investitori professionali nell'anticipare il movimento del mercato.

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fosse normalmente inefficace ma invece, secondo Keynes, poste certe premesse, questa poteva essere in grado di influire positivamente sull'andamento dell'economia reale.

Come si è già accennato, la teoria classica, sosteneva che la funzione di risparmio e di investimento sul mercato dei capitali, fossero rispettivamente funzioni diretta e inversa del tasso d'interesse: l'interazione delle due funzioni definiva il tasso d'interesse reale di equilibrio dato un certo livello di reddito59. Questa possibilità venne esplicitamente negata da

Keynes: considerava un errore fondamentale considerare il reddito dato, e finì per porre il tasso d'interesse come variabile indipendente. Se accettava l'investimento funzione inversa del tasso d'interesse (per quanto fosse considerato una grandezza monetaria e non reale), ritenne invece il risparmio (così come il consumo) funzione del reddito e la curva di offerta sarebbe andata a rappresentare la relazione fra il risparmio e il reddito a un dato tasso d'interesse. Per i classici, una riduzione della domanda d'investimento, avrebbe determinato un nuovo punto d'equilibrio inferiore al livello precedente, ma essendo il reddito dato, si sarebbe ritrovato sulla stessa curva di offerta: questo meccanismo risultava semplicemente sbagliato agli occhi dell'economista inglese, poiché una variazione della domanda avrebbe sconvolto le condizioni di tutto il mercato, e non solo di quello monetario: avremmo dovuto vedere quindi, come si erano modificate le aspettative degli operatori e come si erano modificate la propensione alla liquidità e la quantità di moneta disponibile, per vedere l'effetto sul nuovo tasso d'interesse d'equilibrio.

In conclusione, qualora ci fosse stato uno spostamento della domanda, con conseguente variazione del reddito e traslazione della curva di offerta, si sarebbe determinato un nuovo reddito/risparmio d'equilibrio sulla base del nuovo livello di tasso d'interesse ottenuto dalle nuove condizioni di mercato60.

Gli incentivi alla liquidità

L'economista di Cambridge, riprendendo i motivi che regolavano la preferenza per la liquidità61, si focalizzò sul motivo speculativo, affermando come la politica monetaria avesse

59) Keynes J. M., 1936, The General Theory of Employment, Interest and Money, Edizione italiana, Teoria

generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, cap. XIV pag. 362, a cura di T. Cozzi, UTET, 2006.

60) Garretsen Harry, Keynes, coordination and beyond: The Development of Macroeconomic and Monetary Theory since 1945, ch. 2 p. 26, Edward Elgar, 1992.

61) Keynes J. M., 1936, The General Theory of Employment, Interest and Money, Edizione italiana, Teoria

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