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Capitolo 1. La consultazione dell’oracolo di Delfi (5.64-236)

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τὸν τῶν ἀνθρώπων βίον ὑπὸ δυεῖν τούτοιν μεγίστοιν τυραννούμενον, ἐλπίδος καὶ φόβου […]· ἀμφοτέροις γάρ, τῷ τε δεδιότι καὶ τῷ ἐλπίζοντι, […] τὴν πρόγνωσιν ἀναγκαιοτάτην τε καὶ ποθεινοτάτην οὖσαν, καὶ Δελφοὺς οὕτω πάλαι πλουτῆσαι… Lucian. Alex. 8 Introduzione

Il governatore Appio Claudio Pulcro e la Pizia Femonoe sono due personaggi minori del Bellum civile, posti ai margini della Storia di Roma, che nella prima parte del quinto libro il poeta eleva al rango di protagonisti, per poi abbandonarli al loro inevitabile destino, travolto dalla vertigo rerum provocata dalla guerra1. L’episodio

del loro incontro a Delfi si inserisce nella narrazione epica come una sorta di ‘interlu-dio’, un momento di pausa – per autore e lettore – tra l’assemblea straordinaria del Senato fuggiasco in Epiro al seguito di Pompeo (5.1-64a), e la partenza di Cesare da Brindisi alla volta dell’Epiro (5.237-475).

Con l’episodio delfico Lucano sospende il corso principale della narrazione e apre un’ampia parentesi che – da poeta doctus2 quale è – arricchisce di particolari

eruditi, toni esuberanti, descrizioni e spiegazioni di vario tipo e interesse, rivelando una grande capacità di reimpiego del materiale offerto dalla poesia di Virgilio in pri-mis, ma anche da quella di Ovidio e di Seneca tragico, creando scene e brevi scorci molto suggestivi. Pur trattandosi infatti di un episodio secondario e niente affatto de-terminante ai fini dell’azione narrativa, esso offre diversi spunti di riflessione, sia che lo si metta in relazione con altri episodi di analoga natura dell’epica precedente3,

nonché del poema lucaneo stesso, sia che lo si consideri in sé, nella singolarità che assume da un punto di vista letterario e poetico. È in particolare l’epilogo con

l’inu-1 L’espressione vertigo rerum si legge in Lucan. 8.l’inu-16. Sul capovolgimento rovinoso dei destini di quanti vengono coinvolti nella guerra civile, seppur in modo marginale, vd. Salemme 2002, 33-56. 2 Il poeta si muove di continuo tra i vari campi del sapere, dalla geografia alla scienza, dalla reli

-gione alla politica, facendo sfoggio di una raffinata doctrina, per cui vd. Landolfi – Monella 2007. 3 Si pensi alla concatenazione di profezie nell’Eneide, necessarie a Enea per apprendere

gradualmente il fine ultimo e glorioso della sua missione: Giove (1.260-296); fantasma di Ettore (2.289-295); Penati (3.147-171); Arpia Celeno (3.250-257); Eleno (3.374-462); Sibilla (6.83-97); anima di Anchise (6.756-853).

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suale morte della Pizia, provocata dalla violenza con cui Apollo la costringe a vatici-nare, che si rivela un emblematico esempio dello stile lucaneo caratterizzato da una peculiare tensione espressiva, da un eccesso di forma che soffoca il contenuto; irre-golare, enfatico, esagerato, ‘baroccheggiante’, uno stile lontano dal sobrio equilibrio della narrazione virgiliana, armonioso e regolare dal punto di vista formale. A Virgi-lio infatti la critica lucanea ha guardato generalmente nell’analizzare i contenuti di questo episodio, la cui costruzione è stata interpretata alla luce del più celebre incon-tro tra Enea e Deifobe, la Sibilla Cumana, nel sesto dell’Eneide: un accostamento fuori da qualsiasi dubbio, tanto più che è Lucano stesso a suggerire il parallelo tra la sua Pizia e la Sibilla virgiliana (5.183-187). Il rapporto emulativo che Lucano instau-ra nei confronti di Virgilio è cainstau-ratterizzato dal tentativo di ribaltare per antifinstau-rasi il messaggio positivo dell’Eneide (vd. Premessa). Questo atteggiamento è ravvisabile anche nella struttura dell’episodio delfico, di cui si possono comprendere la finalità e la caratterizzazione soprattutto se messo a confronto con l’episodio virgiliano4: per la

negatività che ne delinea i tratti principali e l’atmosfera di decadenza5, l’incontro di

Appio e Femonoe si pone in netto contrasto con la positività dell’incontro di Enea con la Sibilla; dall’inizio alla fine si assiste infatti a una graduale climax di rove-sciamenti della scena virgiliana: la forte contrapposizione tra il metuens e supersti-zioso Appio e il pius Aeneas, che è maestus, ma non spaventato6; il confronto tra la

Sibilla, che attende al suo compito senza lamentarsi, anzi prendendo lei stessa l’ini-ziativa di procedere col rito della consultazione, e la riluttante Pizia che invece finge in un primo momento l’invasamento per evitare gli effetti mortali di un vero vatici-nio, dichiarando che Apollo è assente dal santuario; e infine gli esiti diversi dei

re-4 Il confronto è stato analizzato in modo più o meno approfondito in diversi studi: O’Brien-Moore 1924, 224-225; Bayet 1946, 70 n.1; Dick 1965, 464; Ahl 1976, 127-128; Barratt 1979, 24; Masters 1992, 118-128; De Nadaï 2000, 130-132; Narducci 2002, 139-141; Sannicandro 2010, 148 n. 18 e 182.

5 La profezia della Pizia Femonoe non è isolata all’interno del poema, costellato di oscuri presagi e anticipazioni pronunciati da sacerdoti, profeti e fantasmi, tutte caratterizzate da un risvolto negativo e angoscioso, (come nota Neri 1986, 1994-1996): il primo responso è quello dell’aruspice etrusco Arrunte (1.586-638), cui fanno subito seguito quello di Nigidio Figulo (1.639-672) e l’invasamento profetico della matrona (1.673-695); nel sesto troviamo la profezia del cadavere resuscitato da Erictho (6.776-820); infine nel settimo libro leggiamo la profezia dell’augure presso i colli Euganei, che nella mattina dello scontro di Farsalo avverte il presagio del giorno funesto (7.192-200). Dick 1963, 49, considera l’uso della profezia in Lucano come un «epic device». In Fantham 1992a, 78, si legge che l’intervento di questi fenomeni soprannaturali serve a rivelare l’influenza delle divinità cui viene negato dall’autore l’intervento diretto nella battaglia. O’Higgins 1988, 211, a proposito delle profezie contenute nel quinto e sesto libro, scrive: «Lucan saw his own work as having prophetic meaning and the vatic messages of Pharsalia 5 and 6 have an interpretive value for the work as a whole».

6 Dietro l’immagine dell’eroe valoroso si cela tuttavia quella di un uomo che soffre per le dure prove imposte dal Fato. Interessanti considerazioni sulla figura di un Enea «non eroico» si leggono in Aricò 2010.

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sponsi: positivo e funzionale all’azione narrativa, quello della Sibilla7; velato da una

positività solo apparente, il responso dato ad Appio, il quale, contento di poter restare immune dai pericoli della guerra, si ritira a vita privata in Eubea, senza considerare che l’unica cosa da cui non c’è scampo è la morte.

Un aspetto dell’episodio cumano, cui invece il poeta si attiene senza oppor-visi, riguarda la descrizione degli effetti del furor profetico di Deifobe, nel tratteg-giare l’invasamento della Pizia; dalla descrizione virgiliana egli riprende diversi ticolari, ampliandola e arricchendola fino a esasperarne gli effetti, in ossequio al par-ticolare gusto per le descrizioni espressionistiche di forte impatto emotivo e visivo8.

Nel fare ciò il poeta si rifà al ricordo di altre figure femminili profetiche che trovia-mo in Ovidio, ovvero il personaggio di Ociroe, figlia di Chirone (met. 2.633-675), e quello di Medea (met. 7.1-452); ma anche di personaggi della tragedia senecana, in particolare la Cassandra dell’Agamemnon, la Pizia dell’Oedipus e la Medea della tra-gedia omonima, le cui scene di profezia non sono state, a mio parere, tenute adegua-tamente in considerazione dagli studiosi precedenti che si sono occupati di questo brano9, e che invece rivelano, a una più attenta analisi di confronto, come il

perso-naggio della Pizia sia stato plasmato attraverso un mirato riuso di molteplici modelli. Così l’episodio delfico del Bellum civile diventa un’interessante lettura10 per

chiun-que voglia indagare i vari aspetti della tecnica compositiva lucanea e dell’arte allusi-va, per mezzo della quale i motivi virgiliani si intrecciano continuamente con motivi di altri autori, primi fra tutti Ovidio e Seneca, che a buon diritto possono essere con-siderati modelli imprescindibili del Bellum civile.

Fatte dunque queste premesse, credo sia necessario considerare quale sia la prospettiva entro cui Lucano si muove, inserendosi, sì, nella tradizione epica, ma allo stesso tempo discostandosene; quale sia lo scopo nell’indugiare su tutti questi aspetti, a discapito della continuità narrativa, e quindi in che misura si debba ritenere davve-ro slegato dall’intera narrazione il racconto di questo insignificante incontdavve-ro tra due vite solitarie ed emarginate, quella di un governatore timoroso, fin troppo fiducioso

7 Cf. Makowski 1977, 196-197.

8 La vivida icasticità con cui Lucano rappresenta certi momenti della guerra civile, dando al lettore la sensazione di assistervi come uno spettatore, fa parte di quegli espedienti stilistici tipici della cosiddetta «storiografia drammatica», e prende il nome di ἐνάργεια; per questo particolare aspetto della tecnica compositiva lucanea, vd. Leigh 1997. Utili osservazioni sul tema dello spectare come uno dei dati di maggior peso dell’epica lucanea anche in De Nadaï 2000, passim; Narducci 2002, 92-94; 101-103; Esposito 2002, 606. Sull’impiego di questo espediente retorico, più in generale vd. Calboli Montefusco 2005.

9 Un cursorio riferimento in Sannicandro 2010, 151 n. 22.

10 Sebbene i primi commentatori dell’opera abbiano dimostrato uno scarso interesse per questo episodio: nell’introduzione ad Heitland 1887, xxxiii, Haskins lo definisce un «padding», un elemento riempitivo di poco valore; in Morford 1967, 65, l’intera storia è considerata «evidently popular as an exemplum for declaimers»; in Syndikus 1958, 111, il personaggio di Appio non è considerato importante.

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nell’arte divinatoria, e quella di una Pizia apatica e irrispettosa verso i suoi doveri sa-cerdotali. Infine altrettanto utile è tentare di comprendere se davvero questa scena so-spesa in un’apparente irrealtà di paura, follia, decadenza e morte, sia del tutto avulsa dal pessimismo che permea il Bellum civile, o sia invece un ulteriore tassello da cui ricavare il messaggio ultimo del grande e inquietante mosaico lucaneo.

1. Appio Claudio Pulcro: la testimonianza di Cicerone

Appio Claudio Pulcro, membro eminente di una delle più note e antiche fami-glie patrizie di Roma, fratello del più celebre Clodio, era legato a Pompeo nella vita politica e in quella privata per il matrimonio contratto fra i rispettivi figli, Claudia e Cneo Pompeo11. Negli anni della guerra civile, Appio, all’apice della carriera politica,

era governatore della provincia d’Acaia, dopo aver ricoperto il consolato nel 54 con Domizio Enobarbo12, e la censura nel 50, durante la quale aveva espulso Sallustio dal

Senato giudicando immorale la sua condotta13.

È qui il caso di soffermarci più ampiamente sulle notizie relative alla carriera di Appio, perché utili ai fini dell’interpretazione dell’episodio lucaneo. Nel 63 aveva infatti ricoperto la carica di augure, che, stando alle notizie fornite da Cicerone, suo collega e amico, fu la carica che risultò essergli più congeniale, poiché gli permise di coltivare la passione per il diritto augurale e l’arte divinatoria. In un passo del Brutus, Cicerone lo cita infatti tra gli oratori, ricordando le sue qualità di oratore exercitatus e augure peritus (267): Appius Claudius […] hic iam et satis studiosus et valde cum doctus tum etiam exercitatus orator et cum auguralis tum omnis publici iuris antiquitatisque nostrae bene peritus fuit. Interessante è anche il giudizio espresso da parte di Quinto in due passi del De divinatione: nel primo lo definisce un buon augure (1.29): Appius, collega tuus, bonus augur, ut ex te audire soleo; nel secondo ne parla più diffusamente, citandolo come «l’esempio del vero augure»14 (1.105):

11 Cf. Cic. fam. 3.4.2: tum accesserunt etiam coniunctiones necessariorum tuorum (duo enim duarum aetatum plurimi facio, Cn. Pompeium, filiae tuae socerum, et M. Brutum, generum tuum). Per l’alleanza di Appio con Pompeo, cf. Syme 19742, 40 e 47. Per la corrispondenza epistolare tra Cicerone e Appio, vd. Tyrrell ‒ Purser 19692, 204; Bernard 2008. Sul personaggio storico di Appio lo studio di Constans 1921 è l’unico interamente a esso dedicato. Un esaustivo elenco di fonti, utile per ricostruire la vita di Appio, è fornito inoltre in F. Münzer, Appius Claudius Pulcher, «RE» 3, 1899, 2849-54; MRR II, 2; Bernard 2013, 443.

12 Cf. Caes. Gall. 5.1 e Dio. Cass. 40.63. Su questo consolato e il clima di tensione e alleanze prima della guerra civile, vd. Syme 19742, 40.

13 Syme 19742, 43, definisce la censura di Appio come una «carica in aperto contrasto con la sua condotta privata», perché spiega più oltre (p. 68) che i suoi nemici avrebbero potuto incriminarlo sulla base degli stessi capi d’accusa. In effetti nel 75 era stato processato per reato di concussione (de pecuniis repetundis), ma aveva vinto la causa, corrompendo i giudici (cf. Constans 1921, 1). Durante la sua censura, lavorò per il suo partito procedendo all’espulsione di senatori indesiderabili, aumentando così il numero di seguaci di Cesare. È definito un arrogante e caparbio censore, che non faceva onore al partito di Catone.

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Tibi App. Claudius augur consuli nuntiavit addubitato salutis augurio bellum do-mesticum triste ac turbulentum fore; quod paucis post mensibus exortum paucioribus a te est diebus oppressum. Cui quidem auguri vehementer adsentior; solus enim mul-torum annorum memoria non decantandi augurii, sed divinandi tenuit disciplinam. Quem inridebant collegae tui eumque tum Pisidam, tum Soranum augurem esse di-cebant; quibus nulla videbatur in auguriis aut praesensio aut scientia veritatis futurae; sapienter aiebant ad opinionem imperitorum esse fictas religiones.

Appio era dunque un incompreso, poiché si trovava a essere un augure con-vinto e appassionato in un’epoca in cui la divinatio era denigrata e considerata super-flua e falsa, essendo venuto meno il sistema di valori che si incardinava su di essa15.

L’utilità degli auspici era infatti tenuta in qualche considerazione solo in funzione de-gli interessi dello Stato, come sosteneva Claudio Marcello, col quale Appio si trovò in netto disaccordo, scatenando una controversia che Cicerone ricorda in leg. 2.32: Sed est in collegio vestro inter Marcellum et Appium, optimos augures, magna dis-sensio (nam eorum ego in libros incidi), cum alteri placeat auspicia ista ad utilita-tem esse rei publicae composita, alteri disciplina vestra quasi divinari videatur pos-se. E ancora in div. 2.75 dimostrandosi favorevole alla posizione di Marcello: Equi-dem adsentior C. Marcello potius quam App. Claudio, qui ambo mei collegae fue-runt, existimoque ius augurum, etsi divinationis opinione principio constitutum sit, tamen postea rei publicae causa conservatum ac retentum.

Questa strenua difesa dell’arte divinatoria faceva di Appio, oltre che un in-compreso, anche un isolato – condizione che viene particolarmente accentuata da Lu-cano. Tuttavia grazie alla peritia e alla passione per lo ius augurale, egli proba-bilmente era un’autorità ai suoi tempi, e il suo trattato sulla pratica divinatoria do-veva essere considerato un’opera fondamentale16. Certo questa passione trascendeva

in una vera e propria forma di superstizione, che lo portava a interessarsi anche ad al-tre pratiche divinatorie come la necromanzia17 e la psicomanzia, su cui ci informa

an-cora Cicerone in Tusc. 1.37: … meus amicus Appius νεκυομαντεῖα faciebat, e in div. 1.132: Nunc illa testabor, non me sortilegos neque eos, qui quaestus causa hariolen-tur, ne psychomantia quidem, quibus Appius, […] uti solebat, agnoscere.

Fin qui le notizie principali sul personaggio storico, utili in larga parte per meglio comprendere la scelta di Lucano di fare di Appio il protagonista dell’episodio

riferimento importante in questa indagine, dal momento che offre importanti notizie sull’arte della divinazione e sull’oracolo di Delfi. Tra i diversi studi nati intorno a questa opera, vd. Linderski 1982; Guillaumont 2006.

15 Cf. Desideri 1996, 94.

16 Di quest’opera, giunta frammentaria, ci dà notizia Cicerone, che ne è il dedicatario, come leg-giamo nell’epistola inviata ad Appio stesso (fam. 3.4.1-2): Quod egomet multis argumentis iam antea iudicaram maximeque illo libro augurali, quem ad me amantissime scriptum suavissimum misisti.

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delfico. Vediamo quindi adesso in che punto della narrazione epica si colloca la sua vicenda e la funzione letteraria che riveste.

1.1 Il prologo del quinto libro

Il brano narrativo, in sé compiuto, è inserito poco dopo l’inizio del quinto li-bro, sezione del poema che introduce una nuova fase nella guerra, quando l’Oc-cidente è stato abbandonato da Pompeo per rifugiarsi in Grecia, dove avrà luogo lo scontro finale. Il libro si apre con la riunione straordinaria dei senatori di parte pom-peiana appena giunti in Epiro18: sin dai primi versi domina un sentimento di mestizia,

poiché il Senato è fuggiasco da Roma, insieme con Pompeo, e si trova costretto a riu-nirsi in quella che il poeta definisce una peregrina ac sordida sedes, sebbene resa sa-cra e legale dalla presenza di fasci e scuri (5.7-14):

Dum tamen emeriti remanet pars ultima iuris, consul uterque vagos belli per munia patres elicit Epirum. Peregrina ac sordida sedes Romanos cepit proceres secretaque rerum hospes in externis audivit curia tectis: nam quis castra vocet tot strictas iure securis, tot fasces? Docuit populos venerabilis ordo non Magni partes, sed Magnum in partibus esse.

La descrizione si conclude icasticamente con una sententia a favore di Pompeo e implicitamente critica nei confronti di Cesare, poiché Pompeo non è a capo del partito, ma piuttosto è all’interno del partito, come una sorta di primus inter pares, a differenza invece del suo avversario politico, che tiranneggia la sua fazione. Nei versi successivi interviene il console Lucio Cornelio Lentulo a risollevare gli animi del maestus coetus (15), tessendo un breve elogio di Roma, della sua gloria passata, dei senatori presenti (17-40), ed esortando infine tutti al coraggio (41-44): «Tollite signa, duces, fatorum inpellite cursum, / spem vestram praestate deis Fortunaque tantos / det vobis animos, quantos fugientibus hostem / causa dabat». Quindi conclude proponendo l’elezione di Pompeo a dux dell’azione contro Cesare, proposta che viene da tutti accolta con gioia (44-49):

«Nostrum exhausto ius clauditur anno: vos, quorum finem non est sensura potestas,

consulite in medium, patres, Magnumque iubete

18 In realtà Pompeo e i suoi posero il loro quartier generale in Macedonia, a Tessalonica, dove adibirono un edificio a sala riunioni per il Senato (cf. Canali 20075, ad loc.). Lucano nei primi versi puntualizza che la riunione ha luogo tra la fine di dicembre del 49 e l’inizio del 48, ovve ro qualche giorno prima delle calende di gennaio, periodo in cui si scelgono i nuovi consoli (3-6): Iam sparserat Haemo / bruma nives gelidoque cadens Atlantis Olympo / instabatque dies, qui dat nova nomina fastis / quique colit primus ducentem tempora Ianum.

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esse ducem». Laeto nomen clamore senatus excipit et Magno fatum patriaeque suumque inposuit.

Il discorso di Lentulo galvanizza gli animi dei comandanti e dei soldati, che, dopo aver reso gli onori ai re alleati (49-64), sciolgono l’assemblea, rivolgendosi ai preparativi bellici. A questo punto ci aspetteremmo di vedere finalmente in azione Pompeo, rimasto in silenzio durante l’assemblea; ma il poeta preferisce rimandare ancora questo momento fino alla fine del libro, per rivolgere adesso l’attenzione al ti-moroso Appio, la cui paura per i casi incerti di Roma lo spinge a consultare l’oracolo di Delfi.

1.2 Perché Appio?

Gli studiosi si sono interrogati sui motivi che hanno spinto il poeta a scegliere Appio come protagonista di questa sezione narrativa: nell’epica tradizionale, la con-sultazione di una figura profetica è un motivo topico che va ad arricchire le numerose e mirabili imprese dell’eroe, come avviene per Ulisse, che si reca presso l’indovino Tiresia, e per Enea presso la Sibilla.

In questo episodio, come in quello di Sesto Pompeo e la maga Erictho, Lu-cano rende omaggio a questo topos del racconto epico, ma lo fa a modo suo, facendo di questi due episodi l’ironico e paradossale contraltare dei più celebri esempi dell’e-pica greca e latina. Coltivando un piacere particolare nell’esagerare e nello stupire, egli rimaneggia il materiale offerto dal repertorio poetico precedente e ripropone mo-tivi e scene topiche in modo distorto, deformato, con l’intento preciso di creare un cosmo antitetico e straniato rispetto a quello dell’epica passata. Sarebbe certamente stato ‒ per così dire ‒ più ‘epicamente corretto’ e in linea con la tradizione, se Luca-no avesse affidato la consultazione dell’oracolo a Pompeo19, piuttosto che dedicare

più di un centinaio di versi a un personaggio minore, il cui ricordo all’interno del Bellum civile è destinato a essere cancellato velocemente20. Perché dunque la scelta

del poeta è ricaduta su Appio? La risposta a questa domanda risiede nella realtà stori-ca dei fatti narrati: l’incontro tra Appio e la Pizia non è un’invenzione letteraria, ma un fatto realmente accaduto, che, seppur passato sotto silenzio nelle fonti storiche note21, è stato tuttavia considerato di particolare interesse da Valerio Massimo, che lo

19 Come ricorda Cicerone, Pompeo credeva moltissimo ai prodigi in div. 2.52-53: Quid ego ha-ruspicum responsa commemorem (possum equidem innumerabilia), quae aut nullos habuerint exitus aut contrarios? Hoc civili bello, di inmortales, quam multa luserunt! Quae nobis in Graeciam Roma responsa haruspicum missa sunt! Quae dicta Pompeio! Etenim ille admodum extis et ostentis movebatur.

20 La questione è affrontata diffusamente in Dick 1965, 461; Ahl 1976, 121-123.

21 Mancando i libri dedicati alla guerra civile, non sappiamo se Livio abbia trattato questo episodio. Sebbene nei riassunti delle Periochae (109-116) non vi sia traccia di Appio, tuttavia va ricordato

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ha inserito tra i memorabilia de miraculis raccolti nel primo libro del suo trattato (1.8.10):

… illud tantum non ore ipsius Apollinis editum, quo Appii interitum veridica Py-thicae vaticinationis fides praecucurrit. Is bello civili, quo se Cn. Pompeius a Caesa-ris concordia pestifero sibi nec rei publicae utili consilio abruperat, eventum gravis-simi motus explorare cupiens, viribus imperii − namque Achaiae praeerat − antisti-tem Delphicae cortinae in intimam sacri specus parantisti-tem descendere coegit, unde ut certae consulentibus sortes petuntur, ita nimius divini spiritus haustus reddentibus pestifer existit. Igitur inpulsu capti numinis instincta virgo horrendo sono vocis Ap-pio inter obscuras verborum ambages fata cecinit: «Nihil» enim inquit «ad te hoc, Romane, bellum: Euboeae coela obtinebis». At is ratus consiliis se Apollinis moneri ne illi discrimini interesset, in eam regionem secessit, quae inter Rhamnunta, nobi-lem Attici soli partem, Carystumque Chalcidico freto vicinam interiacens Coelae Eu-boeae nomen obtinet, ubi ante Pharsalicum certamen morbo consumptus praedictum a deo locum sepultura possedit.

L’episodio, narrato da Valerio Massimo in modo cursorio, si presta partico-larmente a una utilizzazione all’interno del Bellum Civile, per almeno due motivi: permette a Lucano di inserire nel suo poema la consultazione topica di una fonte ora-colare, e in secondo luogo la singolarità dell’episodio − derivata dalla riluttanza della Pizia a vaticinare, e dal ridicolo esito del responso, dopo il quale Appio crede di non essere in pericolo, non comprendendo invece che la Pizia gli ha appena preannuncia-to una morte imminente − forniscono abbastanza materiale al poeta per creare un epi-sodio che bene si inserisce nella sequenza di prodigi e profezie disseminati nel rac-conto, e che funge da farsesca controparte del più celebre episodio virgiliano del se-sto dell’Eneide. Per questi motivi, derivati dai dati se-storici e dalle scelte poetiche di Lucano, credo che la domanda di partenza debba essere riformulata nel considerare non tanto la scelta di questo personaggio rispetto a un altro, quanto piuttosto quella di raccontare proprio questo episodio, una scelta motivata dal fatto che l’autore abbia

che la vicenda è ripresa anche da Orosio 6.15.11, che in Livio trovava la sua fonte principale per la storia di Roma (cf. Lippold 1976, 454); si potrebbe dunque ipotizzare che anche in Livio fosse narrata questa vicenda e che Lucano e Valerio Massimo attingessero a lui. Orosio ha interesse a riportare la vicenda di Appio, perché si tratta di uno dei tanti esempi fornitigli dalla paganità, in cui si evince che già i pagani, ancora prima della venuta di Cristo, non tenessero più in grande considerazione la veridicità degli oracoli: Appius Claudius Censorinus, qui iussu Pompei Graeciam tuebatur, iam abolitam Pythici oraculi fidem voluit experiri: quippe ab eo adacta vates descendere in specum respondisse fertur de bello consulenti: «Nihil ad te hoc Romane bellum pertinet, Euboeae coela obtinebis». Coela autem vocant Euboicum sinum. Ita Appius perplexa incertus sorte discessit. Sulla presenza di Livio nell’opera di Lucano come fonte storica principale, molti passi avanti sono stati fatti in seguito allo studio di Pichon 1912, 252-253, che ammetteva solo una dipendenza per la trama degli eventi storici, ma non per quanto riguarda lo stile e certe coloriture, su cui invece hanno insistito successivamente Syndikus 1958, 1-17; Marti 1970, 6-14; Ahl 1976, 52; Leigh 1997, 116; Narducci 2002, 20 e passim; Radicke 2004, 320 n. 26.

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voluto sfruttare ciò che gli suggeriva la realtà storica dei fatti per offrire la sua perso-nale e stravagante versione di un topos codificato nella tradizione epica.

2. Solus… metuit… Appius: l’antieroe timoroso e solitario [64b-70]

Appio Claudio «era, nella sua superstizione, un isolato, e un isolato medio-cre», così Timpanaro definisce questo personaggio più volte ricordato nel De divi-natione22; il medesimo isolamento e la medesima mediocrità connotano il modo di

agire di Appio nel poema lucaneo:

Iam turba soluto arma petit coetu; quae cum populique ducesque casibus incertis et caeca sorte pararent,

solus in ancipites metuit descendere Martis Appius eventus finemque expromere rerum sollicitat superos multosque obducta per annos Delphica fatidici reserat penetralia Phoebi.

Sin dai primi versi viene sottolineata la distanza che separa Appio dal resto dei pompeiani, poiché egli teme ciò che gli altri si preparano ad affrontare con co-raggio23. La condizione di isolamento del governatore dal resto della turba è

ac-centuata dalla posizione iniziale in cui è collocato il termine solus, speculare al nome Appius che apre l’esametro successivo24. Mentre, dunque, la turba si rivolge ai

prepa-rativi della guerra, il solus Appius si reca a Delfi; il divario tra questi due soggetti, il singolo contrapposto alla collettività, si accentua se considerato alla luce di un’abitu-dine militare, consolidata sia nella società greca che in quella latina, dei comandanti che, alla vigilia di grandi decisioni, come una dichiarazione di guerra o in momenti di crisi per la collettività, erano soliti recarsi presso i santuari più famosi per interpel-lare gli oracoli25. In queste occasioni essi erano seguiti da uno stuolo di

accompagna-22 Timpanaro 1988, lxxx. In Syme 19742, 47, Appio è definito enigmatico, orgoglioso, corrotto e superstizioso.

23 Eppure gli stessi pompeiani qui intrepidi, un libro dopo, giunti in Tessaglia, sono presi da agita-zione al pensiero dello scontro imminente (6.413-419): Hac ubi damnata fatis tellure locarunt / castra duces, cunctos belli praesaga futuri / mens agitat summique gravem discriminis horam / adventare palam est, propius iam fata moveri. / Degeneres trepidant animi peioraque versant; / ad dubios pauci praesumpto robore casus / spemque metumque ferunt.

24 L’aggettivo solus nell’Eneide è spesso in posizione forte a inizio verso; non è mai riferito a Enea, ma ad altri personaggi: Didone, per esempio, vive l’isolamento dell’abbandono nella reggia vuota (4.82). Ci sono anche casi in cui solus/a è impiegato da Virgilio per indicare le scelte di volontario distacco dagli altri: è il caso di Camilla che si rende disponibile a combattere da sola contro i troiani (11.504); anche Turno più di una volta dichiara, mosso dal furor belli, di voler agire da solo (10.442; 12.16). Per ulteriori approfondimenti, vd. Lenaz 1988, 933-34. L’aggettivo solus è spesso sostituito da unus, che assume un equivalente significato quando indica un forte isolamento del singolo che si discosta dal gruppo; vd. a tal proposito Degl’Innocenti Pierini 1991, 398. L’opposizione ‘uno/tutti’, analizzata in rapporto al sacrificio espiatorio di singoli uomini o intere comunità, è stata studiata in Hardie 1993, 29-31e 49-51.

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tori e soldati, la turba appunto, intesa non nella sua accezione negativa di “folla di-sordinata”, “calca”, ma nel senso di “gruppo di accompagnatori”; per esempio Sesto Pompeo non si reca solo da Erictho (6.419-420): Turbae sed mixtus inerti / Sextus erat; lo accompagna una turba vile costituita dai suoi fidi scelerum suetique ministri (573).

Un’interessante testimonianza su questa consuetudine proviene da Tibullo, che vi fa cenno nell’elegia 2.3: il poeta, disperato perché la sua amata Nemesi si tro-va in campagna, dichiara di voler diventare contadino pur di poterle stare vicino; in questa scelta non sarebbe un amante solo, dal momento che anche un grande dio come Apollo aveva accettato di fare da mandriano alle giovenche di Admeto, pur di stargli vicino, dimenticando però i suoi doveri divini e profetici; così, oltre a trala-sciare la cetra (12) e l’arte poetica (19-20), il dio aveva abbandonato anche i santuari di Delo e Delfi, rendendoli inattivi per lungo tempo, tanto che molte volte la schiera di soldati che accompagnava i duces era stata costretta a tornarsene indietro senza aver potuto ricevere il responso (21-22): Saepe duces trepidis petiere oracula re-bus: / venit et a templis inrita turba domum; tanto che più avanti il poeta apostrofa così il dio (27): Delos ubi nunc, Phoebe, tua est, ubi Delphica Pytho26?

Considerata dunque questa pratica, è possibile ipotizzare che nell’episodio di Appio il poeta la stia stravolgendo, sostituendo la figura preminente del dux Pompeo con quella di un personaggio secondario, e presentandolo come del tutto estraneo ai preparativi della turba pompeiana, che ovviamente non lo accompagna: egli infatti non è inviato ufficialmente presso il santuario per conto di Pompeo o del Senato, ma vi si reca privatamente27, per cercare consolazione. In questa solitaria decisione di

af-fidare i suoi timori alla sapienza oracolare, il sentimento di Appio appare in qualche modo vicino a quello di Sesto Pompeo, che, preso dai timori, si rivolge alla magia nera della maga Erictho28 (6.423-434):

était alors fréquente. On sait que sous l’empire elle devint si répandue qu’une loi remontant à Tibère punissait de mort ceux qui consultaient les devins sur la vie du prince ou sur les intérêts suprêmes de État». A tal proposito, vd. Paul. sent. 5.21.3-4: Qui de salute principis vel summa rei publicae mathematicos hariolos haruspices vaticinatores consulit, cum eo qui responderit capite punitur. Non tantum divinatione quis, sed ipsa scientia eiusque libris melius fecerit abstinere. Quod si servi de salute dominorum consuluerint, summo supplicio, id est cruce, adficiuntur: consulti autem si responsa dederint, aut in metallum damnantur aut in insulam relegantur. Vd. inoltre Parke ‒ Wormell 1956, I 393; Vernant 1974, 17-19; Flacelière 19762, 60; Levin 1989, 1601-1602.

26 Cf. Della Corte 1980 e Maltby 2002, ad loc. Va inoltre osservato che la presenza di una turba o di un comitatus al seguito di un personaggio politico era un elemento basilare nella valutazione del prestigio di quest’ultimo in pubblico, come osserva Degl’Innocenti Pierini in un nuovo lavoro in corso di stampa – in bibliografia: (forthcoming 1).

27 In Parke ‒ Wormell 1956, I, 408, Appio è ricordato tra i «private enquirers». Tuttavia come si legge in Suppl. ad Lucan. 5.68, Appio è «unus ex ducibus Romanis».

28 I personaggi di Appio e Sesto Pompeo sono la doppia controparte lucanea dell’Enea del sesto libro, poiché se con Appio viene reinterpretata la scena del vaticinio della Sibilla, con l’episodio di

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Qui stimulante metu fati praenoscere cursus inpatiensque morae venturisque omnibus aeger non tripodas Deli, non Pythia consulit antra nec quaesisse libet, primis quid frugibus altrix aere Iovis Dodona sonet, quis noscere fibra fata queat, quis prodat aves, quis fulgura caeli servet et Assyria scrutetur sidera cura

aut si quid tacitum, sed fas erat: ille supernis detestanda deis saevorum arcana magorum noverat et tristis sacris feralibus aras,

umbrarum Ditisque fidem, miseroque liquebat scire parum superos.

Sebbene entrambi i personaggi siano spinti dal metus ‒ inteso come condizio-ne di timore per circostanze condizio-negative difficili da controllare e prevedere29 ‒, Lucano

giudica in modo differente la loro scelta di servirsi dell’arte profetica: negativamente quella di Sesto, poiché decide di consultare una maga, una fonte profetica non uffi-ciale, un personaggio ferino che vive ai margini della società in spregio alle leggi di-vine e umane. Il biasimo per Sesto è chiaramente espresso dal poeta, quando lo defi-nisce Magno proles non digna parente (6.420), e più avanti Pompei ignava propago (6.589)30. Il giudizio nei confronti di Appio è invece stemperato dalla compassione

per la sciocca e ingenua fiducia che egli ripone nell’oracolo. Il suo sentimento è inol-tre diverso da quello di Enea, ed è proprio a partire da questa distanza che viene co-struita l’allusione antifrastica al modello virgiliano.

Appena giunto a Cuma, Enea lascia i suoi compagni sulla spiaggia per recarsi presso il tempio di Apollo (Aen. 6.5-12):

Iuvenum manus emicat ardens litus in Hesperium: quaerit pars semina flammae abstrusa in venis silicis, pars densa ferarum tecta rapit silvas inventaque flumina monstrat. At pius Aeneas arces, quibus altus Apollo praesidet, horrendaeque procul secreta Sibyllae,

antrum immane, petit, magnam cui mentem animumque Delius inspirat vates aperitque futura.

Sesto e la maga tessala, Lucano rielabora la catabasi agli Inferi di Enea: la campagna tessala, scenario dell’incontro con la maga, appare infatti al lettore come un inferno a cielo aperto. Sul celebre brano lucaneo di necromanzia molti sono gli studi che offrono diverse interpretazioni, fra cui vd. O’Higgins 1988, 217-226; Danese 1992; Korenjak 1996, 19; Domenicucci 2002, per un confronto tra la Pizia ed Erictho; Baldini Moscadi 2005, 15-101; Sannicandro 2010, 161-185. 29 Cf. Bianchi 2004, 82.

30 Sul personaggio lucaneo di Sesto, vd. Ogden 2001, 144-146; Ogden 2002, 249-271; Tesoriero 2002, 229-247.

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Il distacco di Enea dal resto del gruppo è evidenziato dall’incipit del v. 9, At pius Aeneas, un nesso celebre, in cui Virgilio riassume la grandezza del suo eroe, e che serve qui a predisporre il lettore all’atmosfera di sacralità e al carattere iniziatico e religioso del libro. Enea è pius perché, giunto a Cuma, si reca presso il santuario di Apollo per incontrare la Sibilla, come gli avevano suggerito Eleno (3.441-452) e il fantasma del padre (5.731-736); mentre i compagni si dedicano alla caccia, lui, es-sendo il capo, è mosso da superiori necessità: diversamente che dal timoroso e su-perstizioso Appio, Enea è animato dalla pietas, da quel senso religioso di obbedienza verso gli dèi che lo rende superiore fra i Troiani31. Lucano fa leva su questo aspetto

per rendere Appio ancor più vile agli occhi del suo lettore che riconosce l’allusione a Virgilio.

Quella di contrapporre l’eroe ai suoi compagni «è una consuetudine, quasi una struttura formulare dell’epos virgiliano»32 per mettere meglio in risalto certe

straordi-narie imprese che Enea compie mentre i suoi compagni sono presi da preoccupazioni più basse; questo espediente, di derivazione omerica, serve a Virgilio per esaltare la grandezza eroica del suo protagonista che affronta la missione in una «irrimediabile solitudine»33. Lucano fa propria questa tecnica compositiva, ma l’effetto ottenuto non

è lo stesso, dal momento che in genere i personaggi isolati dal resto del gruppo sono per lo più destinati al fallimento. Va inoltre osservato che Enea, nonostante porti su di sé il peso della missione che gli ha riservato il Fato, è spesso accompagnato, almeno in un primo momento, da alcuni fidati compagni: anche quando si reca al santuario di Apollo è accompagnato, come si evince dal verbo al plurale del v. 13 (Iam subeunt Triviae lucos atque aurea tecta) e dai vv. 33-37 in cui il fidus Achates34 giunge con la

sacerdotessa di Apollo: Quin protinus omnia / pelligerent oculis, ni iam praemissus Achates / adforet atque una Phoebi Triviaeque sacerdos, / Deiphobe Glauci. Appio è al contrario solo dall’inizio alla fine, la sua non è un’impresa esemplare; egli non è un eroe, ma un uomo vile, non tanto mosso da un sentimento nobile, quanto da una

31 Sulla pietas che influenza le azioni di Enea, vd. il commento di Servio ad Aen. 1.180: AENEAS merita personarum vilibus officiis interesse non debent: quod bene servat ubique Vergilius, ut hoc loco, item in sexto cum diversis officiis Troianos diceret occupatos, ait «at pius Aeneas arces quibus altus Apollo praesidet»: nisi cum causa pietatis intervenit. Vd. inoltre Norden 1916 e Horsfall 2013, ad loc.

32 Narducci 2002, 138. 33 La Penna 1966, lix.

34 Il fedele compagno di Enea, Acate, risulta una figura evanescente, una specie di ombra silenziosa cui mai Enea rivolge le sue angosce; proprio a causa di questa indefinitezza, Servio spiega che Acate non sarebbe altro che la personificazione della sollicitudo, in greco ἄχος (ad Aen. 1.312): comitatus achate bene ostendit Aeneam esse fortissimum nec quidquam timere dicendo ‘uno graditur comitatus Achate’. Et diximus quaeri, cur Achates Aeneae sit comes. Varia quidem dicuntur, melius tamen hoc fingitur, ut tractum nomen sit a Graeca etymologia. ἄχος enim dicitur sollicitudo, quae regum semper est comes.

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spes inproba veri, come gli rinfaccerà la Pizia (5.130-131)35. Il verum che Appio va

indagando presso l’oracolo riguarda l’esito della guerra, poiché egli vuole finemque expromere rerum (68). Mi sembra che in questo punto Lucano sia chiaro nel fare in-tendere al suo lettore la natura della domanda che Appio vuole rivolgere alla Pizia; una motivazione che è simile a quella data da Valerio Massimo nel passo citato supra (p. 8), quando spiega che il governatore era eventum gravissimi motus explorare cu-piens. Mi preme fare questa precisazione, perché si è andata diffondendo nel tempo un’errata interpretazione della richiesta di Appio, che ha indotto molti studiosi a so-stenere che questo personaggio fosse spinto da un puro calcolo egoistico: interpretan-do in maniera non corretta il verso appena citato, essi spiegano infatti che il governa-tore si reca a Delfi per conoscere esclusivamente il suo destino36. Questa fuorviante

interpretazione è stata probabilmente indotta dal responso della Pizia, che effettiva-mente fa riferimento soltanto al destino di Appio, tanto da suscitare lo sdegno di Lu-cano, che, rivolgendosi ad Apollo, chiede perché il destino di Roma rimanga ancora celato (198). Il responso dell’oracolo non è dunque direttamente connesso alla do-manda di Appio, che tra l’altro Lucano riporta di nuovo implicitamente anche ai vv. 122-123, dove il governatore è detto Hesperii scrutator ad ultima fati; e ancora al v. 160 finalmente la richiesta è espressa esplicitamente dal consultante stesso: «… or-bis trepidi tanto consulta tumultu». Da tutti questi elementi testuali non mi sembra dunque che sia corretta l’interpretazione di coloro che ritengono questa richiesta pu-ramente personale ed egoistica, né tanto meno mi sembra valida quella secondo cui la sua domanda verterebbe sull’indecisione di non sapere da che parte schierarsi37.

35 La paura si accompagna sempre alla speranza, come scriveva Seneca a Lucilio in epist. 5.8: Spem metus sequitur.

36 Vd. Morford 1967, 65: «Appius […] determines to find what destiny awaits him»; Narducci 2002, 140: «… Appio, interessato unicamente alla sua sorte personale»; Salemme 2002, 48: «In realtà ad Appio interessa il suo destino personale, interessa come scamparla»; Sannicandro 2010, 142: «… cerca di scoprire quale sarà il suo destino»; Casamento 2012, 156: dove si legge che la scelta di Appio è discutibile perché «agisce in preda al metus e, contravvenendo alla regola aurea delle consultazioni oracolari, non per gli interessi della collettività ma per i suoi personali»; Ossa-Richardson 2013, 22: «Appius visits Delphi to learn his own fate in the civil war». Differenti invece le interpretazioni di Ahl 1969, 337, che spiega che la visita sarebbe indotta soltanto da una semplice curiosità accademica, ma poi in Ahl 1976, 133, osserva che personale invece appare la richiesta di Sesto Pompeo alla maga Erictho: «Appius sought information about the future of Rome, but Sextus is more interested in his own fate and in the destiny of his friends than in the larger issues of the war» (cf. Lucan. 6.600-601: «Elysias resera sedes ipsamque vocatam, / quos petat e nobis, Mortem mihi coge fateri»); Makowski 1977, 193: «He dreads the uncertainty of war and troubles the gods to find out how the conflict will end»; Barratt 1979, 25: «Appius alone decides to appeal to the oracle of Apollo at Delphi to find out the issue of events»; Luck 1985, 280: «Appius, who wishes to know the outcome of the war»; Croisille 2007, 255: «Cet épisode […] met en scène celui que Pompée avait préposé à la protection de la Grèce, et qui vient consulter la prêtresse sur l’issue des événements à venir»; Baldini Moscadi 2005, 152: «Appio […] decide di consultare l’oracolo […] sugli esiti della guerra futura»; Ustinova 2009, 140: «Appius… wished to learn the secret of Roman destiny».

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Egoista e interessato semmai potrà apparire in seguito, dopo aver ricevuto il respon-so, ritirandosi senza più preoccuparsi del destino di Roma e senza badare alla Pizia morente: se ne va contento e, allietato dalla vana prospettiva di restare lontano dalla guerra, per nulla attraversato dal dubbio che in Eubea non troverà altro che la morte. Così egli si rivela un vile, quasi un traditore della patria nel maggiore momento di bi-sogno38.

2.1 La chiusura del santuario di Delfi: finzione letteraria? [69-70]

Nella parte conclusiva di questo primo gruppo di versi, un particolare non ha mancato di sollecitare l’attenzione non solo dei lucanisti, ma anche di coloro che si sono occupati dell’oracolo di Delfi da un punto di vista storico e religioso. Ai vv. 69-70 Appio sollicitat superos in un atteggiamento di scomposta superstizione, e fa apri-re il tempio di Delfi chiuso da tempo, mostrando poco rispetto nei confronti del luo-go sacro: multosque obducta per annos / Delphica fatidici reserat penetralia Phoe-bi39.

Riguardo a questo passo la Barratt si limita a segnalare che l’esametro con-clusivo è un esempio di ‘verso aureo’ per la costruzione simmetrica in cui vengono collocati gli aggettivi delphica e fatidici, separati dai due sostantivi penetralia e Phoebi da reserat posto al centro; tuttavia la studiosa passa completamente sotto si-lenzio la notizia storica qui accennata. Per questo motivo credo sia necessario soffer-marsi su questi versi, tentando di stabilire sulla base delle fonti storiche e degli studi specialistici ‒ che non mancano mai di citare questo passo ‒, se la testimonianza lu-canea sia storicamente accettabile o se si tratta di una mera invenzione letteraria. Mi sembra utile infatti riconsiderare le fonti, raccogliendo le notizie da esse ricavabili, per cercare di dare una visione di insieme più chiara possibile su questa complessa questione.

the Delphic oracle»; Dick 1965, 460: «Appius […] did not know whether to support Caesar or Pompey in the oncoming conflict. In this dilemma, he decided to consult the Delphic oracle»; Codoňer 2003, 318: «Apio Claudio consulta a la Pythia, ante la necesidad te tomar una decisión: unirse a uno de los dos bandos o permanecer el margen»; Tommasi Moreschini 2005, 151: «Lucan depicts him doubtful about taking sides in the conflict, despite his ties with Pompey»; Scott 2015, 180: «… consultò l’oracolo […] sull’opportunità di sostenere Pompeo o Cesare». Per l’appartenenza di Appio allo schieramento pompeiano, vd. Syme 19742, 47: «… il partito della repubblica, il campo di Pompeo, contava dieci uomini di rango consolare. Aggiungendo a essi i consoli dell’ultimo anno della repubblica, lo schieramento si rivela davvero grandioso e significativo. Al primo posto stava Pompeo, insieme al suo decorativo suocero, Q. Metello Scipione, ai due Lentuli e ai due Marcelli. Veniva poi […] A. Claudio Pulcro». Vd. anche Fucecchi 2011, 253-254.

38 Cf. Ahl 1976, 128.

39 Cf. Casamento 2012, 148 n. 125. Si noti l’impiego del verbo reserare, il cui significato va oltre il semplice “aprire”, ma sottolinea l’aspetto oracolare e sacro della “rivelazione”, già a partire da Ennio ann. 210 Sk.: Nos ausi reserare, per cui vd. Degl’Innocenti Pierini 2007, 142.

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La notizia della chiusura dell’oracolo data da Lucano non è isolata, ma è stata tramandata da altre fonti; tuttavia egli la reinterpreta a suo modo e la piega alle esi-genze narrative, alterando i dati storici: è necessario che l’oracolo sia chiuso da tem-po, perché questo particolare è fondamentale per motivare la reticenza a vaticinare della Pizia, ormai disavvezza al rituale. In realtà l’oracolo dai tempi della guerra civi-le fino ai tempi di Nerone non era mai stato effettivamente chiuso: lo dimostrerebbe-ro per esempio i tanti donativi inviati da Augusto e dalla moglie Livia, che aveva mo-strato un vivo interesse per il culto delfico40. Per questo motivo, dunque, piuttosto

che di una vera e propria chiusura sarebbe meglio parlare di un declino, di uno stallo che rende spesso inoperoso l’oracolo rispetto alla sua epoca d’oro: da ciò che si evin-ce dalle fonti storiografiche, infatti, sembra che nella storia romana si sia registrata un’alternanza tra periodi di assidua frequentazione degli oracoli, come all’epoca del-le guerre puniche, e periodi di relativa stasi. La prima fonte sul declino dell’oracolo, iniziato a partire dal I secolo a.C., è il De divinatione di Cicerone, dove l’oracolo di Delfi viene ricordato da entrambi i fratelli; Quinto ne difende la veridicità nel primo libro, affermando che non si potrebbe spiegare altrimenti tanta fama, e tuttavia rico-nosce che negli ultimi tempi è andata scemando in concomitanza con l’affievolirsi delle capacità divinatorie della Pizia, che le giungevano dall’adflatus della terra (1.37-38):

Defendo unum hoc: numquam illud oraclum Delphis tam celebre et tam clarum fuis-set neque tantis donis refertum omnium populorum atque regum, nisi omnis aetas oraclorum illorum veritatem esset experta. «Idem iam diu non facit». Ut igitur nunc in minore gloria est, quia minus oraculorum veritas excellit, sic tum, nisi summa ve-ritate in tanta gloria non fuisset. Potest autem vis illa terrae, quae mentem Pythiae di-vino adflatu concitabat, evanuisse vetustate, ut quosdam evanuisse et exaruisse am-nes aut in alium cursum contortos et deflexos videmus. Sed, ut vis, acciderit (magna enim quaestio est), modo maneat id quod negari non potest nisi omnem historiam perverterimus: multis saeclis verax fuisse id oraculum.

Nel secondo libro, Cicerone riprende e confuta l’affermazione del fratello, spiegando a sua volta che ciò che è animato da un afflato divino non può per nessuna ragione diminuire nel corso del tempo, in quanto la forza divina non dovrebbe mai esaurirsi, perciò conclude che evidentemente la veridicità dell’oracolo tanto difesa non era poi così sicura (2.117):

Sed, quod caput est, cur isto modo iam oracla Delphis non eduntur non modo nostra aetate, sed iam diu [tantum modo], iam ut nihil possit esse contemptius? Hoc loco cum urguentur, evanuisse aiunt vetustate vim loci eius, unde anhelitus ille terrae

40 Sulla questione del declino dell’oracolo, vd. Parke ‒ Wormell 1956, I, 282-283; Luck 1985, 249-250; vd. inoltre Levin 1989; Bowden 2013, 47; Stadter 2014, 20; Scott 2015, 182-183. Cf. Ahl 1976, 122: «Lucan is emphatic on the subject».

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fieret, quo Pythia mente incitata oracla ederet. De vino aut salsamento putes loqui, quae evanescunt vetustate; de vi loci agitur, neque solum naturali, sed etiam divina; quae quo tandem modo evanuit? «Vetustate», inquies. Quae vetustas est, quae vim divinam conficere possit? Quid tam divinum autem quam adflatus e terra mentem ita movens ut eam providam rerum futurarum efficiat, ut ea non modo cernat multo ante, sed etiam numero versuque pronuntiet? Quando ista vis autem evanuit? An postquam homines minus creduli esse coeperunt?

Dopo la testimonianza di Cicerone, secondo cui gli oracoli non vengono più pronunciati già da molto tempo (non modo nostra aetate, sed iam diu)41, il declino di

Delfi diventa un topos letterario spesso sviluppato in poesia, come dimostrano, oltre a Lucano, Tibullo, Stazio42 e Giovenale; quest’ultimo proprio a Lucano sembra

allu-dere nella sesta satira43, celebre invettiva contro l’antica istituzione romana del

matri-monio e contro le donne ormai coinvolte in un’inarrestabile degenerazione morale; nella sezione che occupa i vv. 548-591, Giovenale si sofferma sull’abitudine che ac-comuna matrone e plebee di consultare aruspici e astrologi orientali, per apprendere

41 Nel paragrafo precedente (2.116) Cicerone aveva affermato che Apollo aveva smesso di versificare già prima dell’arrivo di Pirro (280/279 a.C.): praeterea Pyrrhi temporibus iam Apollo versus facere desierat. Tuttavia, stando alle notizie fornite da Livio (22.57.5) l’ultima consultazione ufficiale da parte di Roma risaliva alla seconda guerra Punica (216 a.C.): Q. Fabius Pictor Delphos ad oraculum missus est sciscitatum quibus precibus suppliciisque deos possent placare et quaenam futura finis tantis cladibus foret (cf. 23.11.1-4 con il responso della Pizia); la notizia è riportata più brevemente da Plut. Fab. 184E. Cf. Gagé 1955, 370-376; Parke ‒ Wormell 1956, I, 277. Scopriamo però da Plutarco che lo stesso Cicerone in gioventù si fosse rivolto all’oracolo (Cic. 5.1): ὁ δ’οὖν Κικέρων ἐλπίδων μεστὸς ἐπὶ τὴν πολιτείαν φερόμενος, ὑπὸ χρησμοῦ τινος ἀπημβλύνθη τὴν ὁρμήν. Ἐρομένῳ γὰρ αὐτῷ τὸν ἐν Δελφοῖς θεὸν ὅπως ἂν ἐνδοξότατος γένοιτο, προσέταξεν ἡ Πυθία τὴν ἑαυτοῦ φύσιν, ἀλλὰ μὴ τὴν τῶν πολλῶν δόξαν, ἡγεμόνα ποιεῖσθαι τοῦ βίου. Per uno studio su questo episodio della vita di Cicerone che sembra entrare in conflitto con il suo atteggiamento scettico nei confronti dell’oracolo, vd. Rasmussen 2013, 82-85.

42 In Ossa-Richardson 2013, 21 e n. 32, Stazio e Tibullo vengono citati tra le fonti poetiche che informano del declino dell’oracolo, tuttavia credo che si debba fare una precisazione, poiché entrambi i poeti lo inseriscono esclusivamente nell’ambito del racconto mitico: in Theb. 8.196, Stazio parla, sì, del silenzio di Delfi, ma è un silenzio luttuoso per la morte del sacerdote di Apollo e indovino Anfiarao: semper […] mutisque diu plorabere Delphis. Lo stesso vale per il verso di Tib. 2.3.27 incontrato già sopra: Delos ubi nunc, Phoebe, tua est, ubi Delphica Pytho?, un verso certamente molto evocativo, tanto da meritare di essere scelto dallo studioso come epigrafe di apertura del primo capitolo del suo saggio; e tuttavia credo che questo verso non rivesta così tanta importanza per un’indagine storica, dal momento che esso si inserisce all’interno di una digressione di carattere mitologico, dove, come abbiamo visto, si racconta di come Apollo per amore di Admeto dimentica i suoi doveri per farsi suo mandriano. I santuari restano privi del dio, perché leggiamo al v. 28: Nempe Amor in parva te iubet esse casa. Nulla a che vedere dunque con la realtà storica. Inoltre lo studioso prende un abbaglio, quando spiega (21 n. 32): «Tibullus […] had imagined the silence of the oracles as a result of Apollo’s consuming love for Alcestis», il dio si innamora di Admeto, non di Alcesti. Sulle fonti greche di Tibullo per questo mito, vd. Della Corte 1980, ad loc.; Solimano 1970.

43 Vd. Bellandi 1995, Santorelli 2011 e Nadeau 2011, ad loc.: in particolare quest’ultimo nota che Giovenale accenna a due passi di Lucano, non solo quello qui analizzato, ma anche a 9.544-546 in cui troviamo la notizia a proposito della fama del santuario egizio di Giove Ammone: Stabant ante fores populi, quos miserat Eos, / cornigerique Iovis monitu nova fata petebant. Per uno studio complessivo della sesta satira, vd. Bellandi 2003.

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se diventeranno eredi di una lauta fortuna o riceveranno profferte dagli innamorati, e soprattutto quando la morte coglierà i loro familiari, primo fra tutti il marito. All’in-terno di questo quadro sarcastico e maligno, il poeta satirico osserva che le donne si rivolgono ormai solo all’oracolo di Giove Ammone, mentre a Delfi regna il silenzio, fornendo una notizia su un cambiamento di tendenza che si è venuto a verificare in questo secolo44 (Juv. 6.553-556): Chaldaeis sed maior erit fiducia: quidquid / dixerit

astrologus, credent a fonte relatum / Hammonis, quoniam Delphis oracula cessant / et genus humanum damnat caligo futuri.

Un’ulteriore testimonianza storiografica sul declino dell’oracolo verificatosi tra la fine del I secolo a.C e l’inizio del I d.C., è fornita da Strabone (9.3), nel capito-lo dedicato alla descrizione della Focide e delle sue principali città45. Al paragrafo 8

Strabone non lamenta tanto il silenzio dell’oracolo, quanto piuttosto il fatto che Del-fi, un tempo ricca e prosperosa46, adesso viva un inesorabile declino e impoverimento

a seguito di vari saccheggi:

Ἐπίφθονος δ’ ὢν ὁ πλοῦτος δυσφύλακτός ἐστι κἂν ἱερὸς ᾖ. Νυνί γέ τοι πενέστατόν ἐστι τὸ ἐν Δελφοῖς ἱερὸν χρημάτων [δὲ] χάριν, τῶν <δ’> ἀναθημάτων τὰ μὲν ἦρται, τὰ δὲ πλείω μένει. Πρότερον δὲ πολυχρήματον ἦν τὸ ἱερόν, καθάπερ Ὅμηρός τε εἴρηκεν οὐδ’ ὅσα λάϊνος οὐδὸς ἀφήτορος ἐντὸς ἐέργει Φοίβου Ἀπόλλωνος Πυθοῖ ἐνὶ πετρηέσσῃ, (Il. 9.404-405) καὶ οἱ θησαυροὶ δηλοῦσι καὶ ἡ σύλησις ἡ γενηθεῖσα ὑπὸ τῶν Φωκέων, ἐξ ἧς ὁ Φωκικὸς καὶ ἱερὸς καλούμενος ἐξήφθη πόλεμος.

L’attuale povertà del santuario viene attribuita alle varie spoliazioni che si sono susseguite nel corso del tempo a partire dalla terza guerra sacra promossa da Fi-lippo il Macedone (356-346 a.C.); ma altre spoliazioni in età repubblicana si devono all’azione di Silla tra gli anni 87-86 a.C. per finanziare la guerra contro Mitridate47, e

infine anche a Nerone, al cui volere più avanti Lucano attribuirà il declino del santua-rio.

3. Inizio dell’excursus: il mito tra erudizione e arte allusiva [71-85]

Il gruppo di versi che abbiamo fin qui analizzato si conclude con l’immagine di Febo che è detto vates fatidicus (70): da questo punto fino al v. 120, il poeta

svi-44 Cf. Levin 1989, 1600.

45 Al sito di Delfi sono dedicati i paragrafi 3-12, per cui vd. Baladié 1996, 9.

46 Cf. l’inno di Callimaco ad Apollo 2.34-35: «È ricco d’oro Apollo e ricco di beni: osservando Pito lo puoi giudicare». Sui motivi che avevano reso Delfi un luogo pieno di fascino e attrattiva, vd. Del Corno 1985, 284; Luck 1985, 247-248; Dodds 1997, 99-100.

47 Cf. Parke ‒ Wormell 1956, I, 278-280; Levin 1989, 1602-1603; Baladié 1996, 125 n. 3; Scott 2015, 177-178.

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luppa un ampio excursus sull’oracolo, che per i temi trattati e per rendere più agevole l’analisi, è possibile dividere in due parti.

Diversi sono gli argomenti affrontati dal poeta che fanno della prima sezione «a solemn epic passage on the mythological and religious significance of this prophetic seat»48; tuttavia essa non ha destato un particolare interesse tra gli studiosi

che, concentrati sulla questione relativa all’obsolescenza dell’oracolo e alle cause della possessione della Pizia, hanno sempre tralasciato di considerare questa parte, ignorando quasi del tutto il suo contenuto49:

Hesperio tantum quantum summotus Eoo cardine, Parnasos gemino petit aethera colle, mons Phoebo Bromioque sacer, cui numine mixto Delphica Thebanae referunt trieterica Bacchae. Hoc solum fluctu terras mergente cacumen eminuit pontoque fuit discrimen et astris;

tu quoque vix summam, seductus ab aequore, rupem extuleras unoque iugo, Parnase, latebas.

Ultor ibi expulsae, premeret cum viscera partus, matris adhuc rudibus Paean Pythona sagittis explicuit, cum regna Themis tripodasque teneret. Ut vidit Paean vastos telluris hiatus

divinam spirare fidem ventosque loquacis exhalare solum, sacris se condidit antris incubuitque adyto vates ibi factus Apollo.

Certo si tratta di una quindicina di versi, che costituiscono una delle poche di-gressioni di carattere mitologico presenti nel poema50, in cui Lucano racconta un

mito notissimo senza aggiungere nulla di nuovo rispetto a più autorevoli fonti mi-tografiche, ma è interessante osservare che da questa piccola ‘parentesi’ si possono trarre delle riflessioni non del tutto secondarie sulla capacità di Lucano di utilizzare il mito e di relazionarsi ai suoi modelli e alle fonti più dotte, in particolare l’Ovidio

del-48 Makowski 1977, 194. Vd. inoltre Syndikus 1958, 73.

49 In Bayet 1946, 69, per esempio, si legge che in questa sezione Lucano «se fait périégète». In Ahl 1994, 114-116, l’episodio è sommariamente ricordato.

50 Le altre tre digressioni mitologiche sono quella sulla storia di Fetonte (2.410-415); sulla leggenda di Ercole presso il giardino delle Esperidi (9.348-368); sul mito di Perseo e Medusa (9.619-699). Questa categoria di digressioni si aggiunge alle altre due proposte da Heitland in Haskins 1887, lxxiv-lxxv, ovvero digressioni catalogiche: catalogo dei popoli gallici che si alleano a Cesare nella guerra civile (1.392-465); catalogo delle forze alleate di Pompeo (3.169-297); catalogo delle forze armate di Giuba (4.670-686); descrizione della reggia lussuosa di Cleopatra e del banchetto offerto a Cesare (10.111-135). Le digressioni scientifiche, geografiche o etnologiche: descrizione degli Appennini (2.394-438); descrizione del Parnaso (5.71-85); descrizione della Tessaglia (6.333-412); descrizione della Libia (9.619-699); catalogo dei serpenti e delle differenti morti provocate dai loro veleni (9.700-838); discorso di Acoreo sulle sorgenti del Nilo (10.199-331). Sulla funzione della digressione in Lucano, vd. Alloncle-Pery 2004, 191-192.

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le Metamorfosi, la cui presenza in questo passo è pervasiva. Se Ovidio è presente nel contenuto, Virgilio lo è nella forma, poiché sul piano strutturale e narrativo si nota la scelta di misurarsi con l’ekphrasis di Aen. 6.20-33, dove Virgilio, attraverso lo sguar-do attento e incuriosito del suo eroe, descrive i fregi sulla porta del santuario, che De-dalo in persona, giunto a Cuma durante la fuga da Creta, aveva costruito in onore di Apollo, cesellando sui portali i momenti più famosi del mito cretese51:

In foribus letum Androgeo; tum pendere poenas Cecropidae iussi (miserum!) septena quotannis corpora natorum, stat ductis sortibus urna. Contra elata mari respondet Gnosia tellus: hic crudelis amor tauri suppostaque furto Pasiphaë mixtumque genus prolesque biformis Minotaurus inest, Veneris monimenta nefandae; hic labor ille domus et inextricabilis error; magnum reginae sed enim miseratus amorem Daedalus ipse dolos tecti ambagesque resolvit, caeca regens filo vestigia. Tu quoque magnam partem opere in tanto, sineret dolor, Icare, haberes. Bis conatus erat casus effingere in auro,

bis patriae cecidere manus.

La digressione si conclude con l’arrivo della Sibilla, che distoglie l’attenzione di Enea dai fregi (33-36: Quin protinus omnia / pelligerent oculis, ni iam praemissus Achates / adforet atque una Phoebi Triviaeque sacerdos, / Deiphobe Glauci): in que-sto modo la descrizione ecfrastica è integrata nella continuità narrativa, come sempre avviene quando Virgilio interrompe la narrazione.

A proposito della digressione sull’oracolo di Delfi, Narducci sostiene che di-versamente si debba parlare riguardo alla capacità stilistica di Lucano nell’inserirla nella narrazione, poiché egli «non ha la stessa preoccupazione di Virgilio nei con-fronti della continuità del proprio racconto»52. È vero che l’eleganza stilistica e

com-positiva della poesia virgiliana è distante dallo stile più spezzato e discontinuo di Lu-cano, ma io credo che forse questa osservazione debba essere ridimensionata, in quanto, se è vero che il poeta, dopo la presentazione di Appio, inserisce questa di-gressione interrompendo bruscamente la narrazione, tuttavia non la slega del tutto dal contesto, creando un ponte che conduce «il lettore da un punto all’altro senza

51 Aen. 6.14-19: Daedalus, ut fama est, fugiens Minoia regna / praepetibus pennis ausus se credere caelo / insuetum per iter gelidas enavit ad Arctos, / Chalcidicaque levis tandem super astitit arce. / Redditus his primum terris tibi, Phoebe, sacravit / remigium alarum posuitque immania templa. Il confronto tra i due passi è stato segnalato da Henry 1873, 221 e Norden 1916, ad Aen. 6.42. E poi ripreso in Narducci 2002, 138-140

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sforzo»53. La digressione infatti si apre e si chiude nel segno della presenza di Apollo

presso l’oracolo, al v. 70 con l’epiteto Phoebus, e al v. 85 con il nome proprio, en-trambi emblematicamente posti in clausola, a indicare come la digressione abbia una funzione aretalogica di esaltare l’azione del dio a Delfi e la sua precipua influenza nella rivelazione profetica54.

Con questa precisazione non si vuole certo considerare tout court la di-gressione in esame un impeccabile esempio di continuità narrativa: come osserva Heinze, un errore che il poeta deve assolutamente evitare è che il corso dell’azione ristagni; è questo il caso della digressione di Lucano: nel fornire ulteriori infor-mazioni di carattere mitologico, cultuale e filosofico, per una cinquantina di versi cir-ca egli dimenticir-ca Appio per dare spazio al suo intervento autoriale, tanto che, appena lo conclude, per riprendere il filo principale della narrazione si vede costretto a ripe-tere nuovamente lo scopo per cui Appio si reca a Delfi. La digressione, in confronto a quelle virgiliane, non spicca per raffinatezza compositiva, manca la gravitas, la forza espressiva, poiché Lucano non riesce (o non vuole, o non ne ha avuto il tempo) a tro-vare dei versi di raccordo che possano meglio inserirla nel corso della narrazione, tuttavia credo che non sia un brano del tutto avulso dal contesto in cui è inserito, un’aggiunta meramente ornamentale, ma parte organica e necessaria, dove gli aspetti emblematici dell’intero episodio vengono introdotti per meglio comprendere lo svi-luppo della vicenda.

3.1 La compresenza di Apollo e Dioniso sul Parnaso [71-74]

La digressione si apre con il riferimento al Parnaso e alla sua posizione cen-trale dal punto di vista geografico (71-72):

Hesperio tantum quantum summotus Eoo cardine, Parnasos gemino petit aethera colle…

Attraverso una circonlocuzione il poeta riesce a rendere icasticamente l’im-magine dei due cardines, l’Occidente (Hesperius) e l’Oriente (Eous), posti ri-spettivamente a sinistra e a destra del verso, entro cui il monte si colloca, rappre-sentando il centro esatto della Terra: un’antica leggenda, alla quale il poeta sta ve-latamente alludendo, tramandava infatti che Zeus, volendo stabilire il centro della terra, si affidò al volo delle sue aquile che, partite rispettivamente da Oriente e da

53 Heinze 1996, 413, sulla sconvenienza di interrompere la narrazione all’improvviso.

54 Utili a tal proposito le parole di Dick 1965, 462-463: «Prior to the actual episode of Appius’ visit to the oracle, Lucan gives a brief prelude to the action in which he relates the mythology of the oracle. This introduction is important, for in it he gives the peculiarly Roman theory of the chasm that produces the mysterious, intoxicating fumes». Gli excursus in quanto parentesi didascaliche sono da considerare, come suggerisce Viansino 1974, 79, «… momenti meditativi separati dall’esposizione dei fatti, ma anche come punti concretamente caratterizzanti la prospettiva universalistica che il poema […] vuol darsi».

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Occidente, avevano percorso la medesima distanza, fermandosi sul Parnaso e de-terminandone la centralità55.

Il monte si caratterizza inoltre per la presenza di due cime ‘gemelle’: Par-nasos gemino petit aethera colle, una precisazione questa che suggerisce un con-fronto con una sezione del primo libro delle Metamorfosi, dove Ovidio racconta di come gli anziani coniugi, Deucalione e Pirra, unici sopravvissuti al diluvio univer-sale, trovarono riparo approdando con la loro piccola imbarcazione sulla cima del monte Parnaso, che, in una straniata descrizione, si trova allo stesso tempo a superare le nubi e ad emergere dalle acque (met. 1.313-321)56:

Separat Aonios Oetaeis Phocis ab arvis, terra ferax dum terra fuit, sed tempore in illo pars maris et latus subitarum campus aquarum. Mons ibi verticibus petit arduus astra duobus, nomine Parnasos, superantque cacumina nubes. Hic ubi Deucalion (nam cetera texerat aequor) cum consorte tori parva rate vectus adhaesit, Corycidas nymphas et numina montis adorant fatidicamque Themin, quae tunc oracla tenebat.

Il monte che svetta sopra il mondo sommerso dalle acque, arrivando fino alle stelle, svolge in questo episodio la medesima funzione del monte Ararat nel racconto del diluvio biblico57; ma la sua presenza all’interno del poema ovidiano non è

limita-ta solo alla storia di Deucalione e Pirra: in quanto futura monlimita-tagna consacralimita-ta al san-tuario di Delfi, ricompare successivamente nell’episodio di Apollo e Pitone, un’altra sezione di versi che, come vedremo, ha ispirato Lucano.

Nella descrizione ovidiana troviamo già l’immagine della duplice cima (316): mons ibi verticibus petit arduus astra duobus, da cui Lucano riprende il verbo petere,

55 Cf. CB ad loc.: Iovis scire volens quae pars terrarum media esset, alteram ab oriente aquilam, alteram ab occidente misit, ut pari volatu adversum tendentes iter ibi consisterent ubi obviae sibi factae essent. Quae sibi hoc in loco occurrerunt ubi Delphicum est oraculum, eoque umbilicus terrae dictus est. La più antica fonte di questa leggenda è Pind. Pyth. 4.6, in cui la Pizia è seduta presso le aquile d’oro di Zeus, che ornavano la pietra bianca di forma conica che prendeva il nome di ὀμφαλός: ἔνθα ποτὲ χρυσέων Διὸς αἰετῶν πάρεδρος / οὐκ ἀποδάμου Ἀπόλλωνος τυχόντος ἱέρεα (cf. schol. Pyth. 4.7 a et b, Drachmann p. 95). La descrizione delle aquile d’oro e della pietra bianca è riportata in Strab. 9.3.6, Paus. 10.16.3, Plut. def. orac. 409A. Per una dettagliata descrizione del sito di Delfi, vd. Strab. 9.3.1 e Del Corno 1983, 11.

56 Qualche sporadica segnalazione del confronto con Ovidio la troviamo in Haskins 1887, ad loc., seguito da Barratt 1979, ad loc. Phillips 1962, 72, si limita a notare: «Appius’ visit to the Delphic oracle allows Lucan to trace the history and geography of the shrine in six dignified hexameters (71-76). Several lines from various places in Ovid appear to have suggested themselves to Lucan rather than any single passage».

57 Cf. Barchiesi 20082, ad loc. Sull’ipotesi che Ovidio conoscesse l’episodio veterotestamentario e vi alludesse ai vv. 293-294 dello stesso libro: occupat hic collem, cumba sedet alter adunca / et ducit remos illic ubi nuper ararat, dove non sembra del tutto casuale l’utilizzo del verbo ararat, vd. Fletcher 2010.

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