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1.1 L’EMATOPOIESI 1. INTRODUZIONE

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1. INTRODUZIONE

1.1 L’EMATOPOIESI

L’ematopoiesi è il processo attraverso il quale vengono prodotti gli elementi cellulari del sangue: globuli rossi, globuli bianchi e piastrine. Queste cellule svolgono funzioni diverse ed hanno una durata di vita piuttosto limitata. Proprio per questo motivo, esse devono essere costantemente rinnovate e la loro produzione deve essere regolata per mantenere l’omeostasi interna all’organismo. Infatti, in un individuo di 70 Kg, ogni giorno vengono normalmente sostituite circa 1012 cellule ematiche, tra cui 200 miliardi di globuli rossi e 70 miliardi di linfociti (Dancey et al. 1976, Erslev 1983). Nel soggetto adulto, l’ematopoiesi si realizza all’interno del midollo osseo, in numerosi segmenti scheletrici: coste, sterno, bacino, scapole, cranio, omero, femore e tibia.

Il sistema ematopoietico è composto da una gerarchia di cellule che si originano dalle cellule staminali ematopoietiche (Hematopoietic Stem Cells, HSCs), dotate di elevata capacità autorigenerativa, proliferativa e differenziativa. Queste capacità vengono progressivamente perse nelle divisioni cellulari successive che, dalle cellule staminali, generano progenitori pluripotenti i quali, a loro volta, possono intraprendere cammini differenziativi diversi, generando precursori sempre più differenziati e indirizzati verso una specifica filiera cellulare.

L’esistenza di HSCs, capaci di autorigenerarsi per consentire un rifornimento continuo di progenitori e di differenziarsi nelle diverse filiere ematopoietiche, era stata ipotizzata già negli anni Sessanta (Till e McCulloch 1961); tuttavia, la bassa frequenza delle HSCs nel midollo osseo (dell’ordine di una su 104−106 cellule), la

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carenza di antigeni di membrana specifici e il fenotipo indifferenziato delle HSCs (Boggs et al., 1982) hanno impedito di compiere osservazioni dirette sulle cellule staminali ematopoietiche. Per questo, lo studio dei meccanismi che regolano le tappe di differenziamento delle cellule staminali e dei progenitori da esse generati e quindi, in ultima analisi, di tutto il sistema ematopoietico, si è avvalso di saggi funzionali e indiretti, basati sulla capacità clonogenica delle cellule ematopoietiche immature: questi saggi comprendono il saggio di colonie spleniche (spleen colony assay) e i saggi di ricostituzione di animali letalmente irradiati (o geneticamente difettivi) in vivo, le colture liquide e clonali in vitro. Tali metodologie hanno permesso di evidenziare un complesso sistema regolativo in cui fattori di trascrizione, fattori di crescita e loro recettori giocano un ruolo determinante (trattati in Ogawa, 1993).

Le HSCs possono dare origine, alternativamente, al precursore clonogenico comune di tipo linfoide (Common Lymphoid Progenitor, CLP), che può generare esclusivamente cellule B, T e NK (Natural Killer), o al precursore clonogenico comune di tipo mieloide (Common Myeloid Progenitor, CMP), capace di originare globuli rossi, piastrine, granulociti e macrofagi (Figura 1, trattati in Weissmann, 2000). Questi precursori sono stati isolati ed identificati in base a specifici marcatori di membrana (Akashi et al., 1999, Akashi et al., 2000).

Recentemente è stata isolata una popolazione di cellule che, sebbene sia in grado di sostenere un alto potenziale proliferativo e differenziativo in cellule linfo-mieloidi (linfociti B, T e CFU-GM), ha perso la capacità di dare origine a cellule del lineage eritroide e megacariocitario (Adolfsson et al., 2005). Ciò suggerisce l’esistenza di un precursore linfoide multipotente (Lynphoid-primed multipotent

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più limitato anche alla mielopoiesi, dando origine sia a CLP sia a precursori di granulociti e macrofagi (Adolfsson et al., 2001).

Le tappe differenziative del precursore CLP lungo il lineage linfoide non sono del tutto chiarite, al contrario, per il precursore CMP numerosi studi hanno fornito una notevole quantità di dati circa la sua differenziazione nella mielopoiesi.

Un gradino successivo nella piramide dei progenitori mieloidi è rappresentata dalle CFU-S (Colony Forming Unit-Spleen), studiata tramite saggi in vivo. Iniettando midollo osseo in topi singenici letalmente irradiati, a distanza di 7-14 giorni dal trapianto si osservano, a livello della milza, colonie macroscopiche contenenti cellule differenziate appartenenti a diverse filiere mieloidi, assieme a CFU-S capaci, a loro volta, di generare colonie secondarie (Till e McCulloch, 1961). Per questa ragione le CFU-S sono state considerate, per lungo tempo, cellule staminali, in realtà esse rappresentano una popolazione eterogenea. Infatti, dopo 7-8 giorni dal trapianto, sulla milza del topo ospite, si formano noduli contenenti cellule di un’unica filiera cellulare (prevalentemente noduli eritroidi), quindi generati da precursori unipotenti, mentre al 12° giorno si possono rilevare nuove colonie contenenti diversi tipi cellulari, derivate, di conseguenza, da precursori pluripotenti (Magli et al., 1982).

Un contributo molto importante per lo studio dei precursori ematopoietici è stato dato dallo sviluppo di sistemi di coltura in vitro in terreni semisolidi che, in presenza di appropriate combinazioni di fattori di crescita, ha permesso di effettuare una stima quantitativa e qualitativa dei numerosi progenitori che occupano diverse posizioni nell’ambito della gerarchia ematopoietica (Pluznik e Sachs, 1965; Stephenson et al., 1971; Metcalf et al., 1975).

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Una popolazione decisamente vicina alle CFU-S che si osservano al giorno 12 è quella delle CFU-Mix (Colony Forming Unit-Mix), che hanno una capacità autoreplicativa molto più limitata, ma mantengono un elevato potenziale proliferativo e differenziativo, e formano colonie costituite da cellule di vario tipo (eritroide, granulocitario, macrofagico, megacariocitario) dopo 10-14 giorni di coltura (Johnson e Metcalf, 1977; Iscove, 1978; Johnson et al., 1980). Uno stadio più avanzato è rappresentato da precursori bipotenti, (CFU-GM, Colony Forming

Unit-Granulocyte-Macrophage), il cui potenziale differenziativo è ristretto alle

cellule mielo-monocitarie che, dopo 7-14 giorni di coltura, danno origine a colonie formate da cellule granulocitarie e macrofagiche associate, talvolta, ad elementi megacariocitari, e derivate, in tal caso, da progenitori tripotenti CFU-GMM (Colony Forming Unit-Granulocyte-Macrophage-Megacariocyte). Analogamente, esistono anche precursori bipotenti che originano colonie di cellule eritroidi associate a cellule di megacariociti (CFU-EMk, Colony Forming

Unit-Erythroid-Megekariocyte). Infine, questi precursori bipotenti scelgono uno

specifico destino differenziativo, generando precursori unipotenti per ciascuna

filiera cellulare. A partire dal 7° giorno di coltura, si possono evidenziare

aggregati di soli granulociti o di soli macrofagi, che si originano da precursori unipotenti (CFU-G, Colony Forming Unit-Granulocyte o CFU-M, Colony

Forming Unit-Macrophage). All’interno della filiera eritroide si distinguono due

tipi di precursori, quelli unipotenti precoci (BFU-E, Burst Forming

Unit-Erythroid) e quelli tardivi (CFU-E, Colony Forming Unit-Unit-Erythroid). Le BFU-E

formano un tipo di colonia dall’aspetto aranciato, costituita da un minimo di 200 fino a milioni di cellule, emoglobinizzate e identificabili a partire dal 7° giorno di coltura (Iscove e Sieber, 1975); le CFU-S che si osservano al giorno 8,

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probabilmente, sono equivalenti alle BFU-E. Le CFU-E, progenitori ad un livello differenziativo successivo, invece, danno origine a piccole colonie con caratteristica forma a “morula” costituite da 8-64 elementi, identificabili al 2° giorno di coltura. Tali aggregati sono qualitativamente identici a quelli presenti nelle BFU-E, e sono formati da cellule che stanno subendo le ultime divisioni prima della completa maturazione (Iscove e Sieber, 1974). Infine, esistono altri precursori unipotenti (CFU-Mk, CFU-Eo e CFU-Ba), uno per ciascun lineage cellulare, che danno origine alle rimanenti filiere del compartimento mieloide (megacariociti, granulociti eosinofili o granulociti basofili). Alla base della gerarchia ematopoietica vi sono infine le cellule mature del sangue, aventi caratteristiche morfologiche e funzionali completamente definite e, ad eccezione dei linfociti, prive di capacità proliferativa (Pluznik e Sachs, 1965; Iscove, 1975; Metcalf et al., 1975).

1.2 LE CELLULE STAMINALI

Durante l’embriogenesi, un singolo oocita fecondato è in grado di dare origine a un organismo pluricellulare, attraverso eventi di commitment, proliferazione e differenziazione che portano alla formazione di organi e tessuti diversi. Dopo la nascita e per tutta la vita adulta, tutti i tessuti mantengono la loro omeostasi, sostituendo cellule che muoiono naturalmente o a causa di insulti esterni o patologici. La capacità dell’embrione di creare tutti i tipi cellulari e la capacità di alcuni tessuti adulti di rigenerarsi nel corso della vita è dovuta alla presenza di cellule staminali (SC). Queste possiedono elevate capacità di autorinnovarsi, cioè di dividersi e ricreare altre cellule staminali identiche alla madre, ma anche di

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proliferare indefinitamente e differenziare in molteplici tipi cellulari seguendo specifici pathways molecolari. Mentre le cellule staminali dell’embrione sono totipotenti, cioè hanno conservato la capacità di differenziare in tutti i tessuti dell’animale, si ritiene che le cellule staminali dei tessuti adulti possiedano capacità differenziative limitate al tessuto in cui risiedono (Fuchs et al., 2000). Tuttavia, questa teoria negli ultimi anni è stata messa in discussione da studi che indicano che alcuni tipi di cellule staminali adulte sono in grado di generare progenie tipica di altri tessuti, cioè sono dotate di plasticità (Herzog et al., 2003). Sono molte le caratteristiche che permettono di correlare diversi tipi di cellule staminali, in riferimento, soprattutto, alle loro capacità di autoreplicazione, proliferazione e differenziazione .

Ad esempio, per mantenere elevate queste capacità in diversi tipi di cellule staminali, quali le embrionali (ES) e le neurali (NSC), è necessaria l’attività di un gruppo di fattori di trascrizione tra cui Stat3 (Niwa et al., 1998; Matsuda et al., 1999), Oct3/4 (Nichols et al., 1998; Niwa et al., 2000), Nanog (Chambers et al., 2003; Mitsui et al., 2003), FoxD3 (Hanna et al., 2003) e Sox2 (Avilion et al., 2003).

Infatti, lo stesso complesso Sox2/Oct-3/4 è in grado di legare gli enhancers di alcuni geni target, come FGF-4, UTF1 e Fbx15 (Nishimoto et al., 2003; Tokuzawa et al., 2003), geni indispensabili per il self-renewal e la sopravvivenza delle cellule staminali embrionali e neurali.

1.2.1 LE CELLULE STAMINALI EMBRIONALI (ES)

Le cellule staminali embrionali derivano dalla massa cellulare interna della blastocisti dell’embrione dei mammiferi, prima dell’impianto nella parete uterina.

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Le cellule ES possono proliferare indefinitamente, mantenendo la loro pluripotenza, ma allo stesso tempo possono dare origine a tutte le cellule dei tre foglietti embrionali e differenziare in tutti i tipi cellulari dell’organismo adulto. Inoltre, possono essere isolate, stabilizzate e cresciute ex vivo, dove continuano a mantenere le loro elevate capacità autorinnovative, proliferative e differenziative. Le cellule ES murine sono state stabilizzate per la prima volta nel 1981, e si sono rivelate di estrema utilità sia per la generazione di topi mutanti, sia per lo studio dei meccanismi che regolano lo sviluppo e la differenziazione tissutale (Evans e Kaufman, 1981; Martin, 1981). Nel 1998 sono state generate cellule staminali pluripotenti anche a partire da blastocisti umane (Thomson et al., 1998).

Per mantenere le cellule ES in coltura nel loro stato relativamente indifferenziato, esse devono ricevere costitutivamente il segnale estrinseco di una citochina, il LIF (Leucemia Inhibitory Factor) (Nichols et al., 1998; Niwa et al., 1998), che agisce tramite il suo legame a un eterodimero costituito dal recettore per lo stesso LIF e dalla glicoproteina 130 (gp130) che attiva un segnale tramite il pathway molecolare di JAK/STAT, essenziale per il mantenimento della pluripotenzialità

in vitro (Smith, 2001).

In assenza di LIF, spontaneamente le cellule ES coltivate si aggregano formando i corpi embrioidi che differenziano, se esposti ad appropriati fattori di crescita, in diversi lineages cellulari, tra cui cellule muscolari cardiache pulsanti, isole sanguigne, neuroni, cellule endoteliali, cellule pigmentate, macrofagi, cellule epiteliali e adipociti (Keller et al., 1993; Dani et al., 1997; Drab et al., 1997; Brustel et al., 1999) (Figura 1.2.1).

Similmente, se le cellule ES vengono iniettate in topi nudi, queste differenziano in masse multicellulari, definiti teratocarcinomi. Sebbene il programma di

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espressione genica di queste strutture somigli fortemente al pathway differenziativo tipico dello sviluppo degli animali, la crescita di queste strutture è caotica, e il risultato finale è un miscuglio di tessuti diversi (trattati in Fuchs e Segre, 2000). Questo illustra l’importanza delle interazioni intercellulari e della organizzazione cellulare nello sviluppo embrionale. Durante l’embriogenesi, infatti, la comunicazione intercellulare genera una trasmissione di segnali specifici tra una cellula e quelle che la circondano, alterando in qualche modo il comportamento di queste ultime. Il modo più comune di comunicare è l’utilizzo di segnali chimici, quali ormoni o citochine. E’ quindi di importanza fondamentale studiare i meccanismi molecolari e biochimici che spingono le cellule ES ad adottare specifici destini differenziativi.

Ad esempio, il gruppo di Brustle è stato in grado di isolare una popolazione pura di progenitori multipotenti che esprimono marcatori di precursori gliali. Aggregati murini di cellule ES sono stati coltivati e propagati in mezzo condizionato contenente prima soltanto il fattore di crescita dei fibroblasti (FGF2), successivamente un mix di FGF2 e il fattore di crescita epidermico (EGF), e infine, un mix di FGF2 e il fattore di crescita derivato dalle piastrine (PDGF). In queste condizioni, le cellule potevano essere mantenute in coltura per più generazioni. Successivamente, le cellule sono state private dei fattori di crescita e queste si sono differenziate in oligodendrociti o astrociti (Brustle et al., 1999). Per testare la loro reale potenzialità, questi cloni cellulari sono stati trapiantati nel ventricolo di ratti con deficit di mielina: si è osservata la formazione di una guaina mielinica attorno agli assoni dell’ospite in diverse regioni del cervello, tra cui la corteccia, l’ippocampo e l’ipotalamo. Inoltre non si

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è avuto nessun segno di tessuti non neuronali in questi trapianti (Brustle et al., 1999).

Non vi è nessun dubbio che le cellule ES siano le più flessibili tra tutte le cellule staminali ma il loro utilizzo a scopo terapeutico è oggetto di accesi dibattiti, soprattutto sulla base di considerazioni etiche. Pertanto, molti sforzi sono diretti a trovare fonti alternative di cellule pluripotenti capaci di rigenerare organi e tessuti, in particolare cellule staminali adulte. Tuttavia le ES rappresentano un modello validissimo per comprendere i meccanismi dello sviluppo embrionale, della differenziazione tissutale e della patogenesi di numerose malattie.

1.2.2 LE CELLULE STAMINALI ADULTE

E’ ormai appurato che, nell’età adulta, le cellule staminali sono presenti in quasi tutti i tessuti, inclusi la pelle (Watt, 1998), il sistema nervoso centrale (Gage et al., 1995), il muscolo scheletrico (Schultz e McCormick, 1994), il midollo osseo (cellule staminali ematopoietiche, HSC, Till e McCulloch, 1961; cellule staminali mesenchimali, MSC, Friedenstein, 1973), il fegato (Alison e Sarraf, 1998), il pancreas , il polmone, la prostata, le ghiandole mammarie (Welm et al., 2002), il follicolo pilifero (Al-Awqati e Oliver, 2002) e l’intestino (Brittan e Wrignt, 2002). Le cellule staminali adulte possiedono un’elevata capacità di self-renewal e possono al contempo dare origine a tipi di cellule mature con funzioni specializzate. Tipicamente esse generano intermedi cellulari (progenitori e precursori più differenziati) prima di raggiungere il loro pieno stato differenziato. I progenitori e i precursori sono considerati come determinati a differenziare lungo uno specifico lineage cellulare. La funzione primaria delle SC adulte è di mantenere l’omeostasi interna all’organismo e, con alcune limitazioni, di

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sostituire le cellule danneggiate e morte a causa dell’invecchiamento, di disfunzioni o di danni. Il loro comportamento è fortemente influenzato dal microambiente tissutale da cui originano e risiedono (Lemoli et al., 2005).

Fino a poco tempo fa si pensava che le potenzialità differenziative delle cellule staminali adulte fossero tessuto-specifiche, tuttavia sempre più numerose

scoperte scientifiche sembrano sfidare questo dogma classico, suggerendo che la capacità delle cellule staminali di generare una progenie matura non è limitata ai tipi cellulari presenti nel tessuto in cui risiedono, ma può essere sorprendentemente più estesa. Il fenomeno della plasticità è tuttora dibattuto e in attesa di definitive verifiche, tuttavia diverse ipotesi sono state avanzate per spiegarne i meccanismi di base. Fondamentalmente sono stati proposti quattro modelli (Frisen, 2002): il modello gerarchico, la transdifferenziazione, la transdeterminazione e la dedifferenziazione.

• Il modello gerarchico prevede l’esistenza, all’interno dei diversi tessuti, di cellule staminali altamente pluripotenti non ancora indirizzate verso un determinato destino differenziativo e capaci, quindi, come le cellule staminali embrionali di dare origine a progenie di diversi tessuti. A questo proposito, è stata recentemente isolata dal midollo osseo umano e murino, dal muscolo e dal cervello una popolazione molto primitiva di cellule (MAPCs, Multipotent Adult Progenitor Cells) che sono in grado di dare origine, in vitro, a tutti i tipi cellulari somatici (Jiang et al., 2002).

• La transdifferenziazione definisce la condizione (il processo attraverso il quale) in cui una cellula già differenziata acquisisce un altro fenotipo, spesso senza andare incontro alla divisione cellulare: un esempio sono le cellule pancreatiche che, in opportune condizioni di coltura,

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transdifferenziano in vitro in cellule epatiche (Shen et al., 2003), mentre analisi in vivo effettuate sulla salamandra mostrano le cellule epiteliali della lente transdifferenziare in cellule pigmentate della retina (Del Rio-Tsonis e Rio-Tsonis, 2003).

• La transdeterminazione descrive invece la condizione in cui una cellula staminale o un precursore primitivo già indirizzati verso uno specifico cammino differenziativo generano una progenie appartenente ad un altro

lineage cellulare. In letteratura sono riportati dati sperimentali a favore di

questo modello: per esempio è stato osservato che cellule staminali neurali in coltura sono in grado, se trapiantate nelle blastocisti di embrioni murini, di contribuire alla generazione di tutti e tre i foglietti embrionali (Clarke et al., 2000).

• Nella dedifferenziazione, una cellula lineage-specifica riacquisisce dapprima le proprietà di cellula staminale o di precursore primitivo e, in seguito, intraprende un altro cammino differenziativo. Per esempio, in seguito all’amputazione di un arto nella salamandra, i miociti presenti localmente sono in grado di de-differenziare e generare altri tipi cellulari (Nye et al., 2003); così nei follicoli piliferi del topo, parte delle cellule che migrano fuori dal microambiente recuperano le capacità “staminali” dell’autorinnovamento ed acquisiscono altre potenzialità differenziative (Nishimura et al., 2002).

Le prime evidenze a favore della plasticità delle cellule staminali adulte sono emerse dallo studio sul sistema ematopoietico, attraverso saggi funzionali in vivo che sfruttano la proprietà clonogenica delle cellule ematopoietiche immature: è stato infatti osservato che cellule di midollo trapiantate in animali mutanti difettivi

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o mieloablati, genotipicamente o fenotipicamente distinguibili, sono in grado di dare origine a progenie “atipica” e rigenerare, anche se ad una frequenza piuttosto bassa, altri tessuti. A tale proposito, una delle prime dimostrazioni delle capacità plastiche delle HSCs è stata ottenuta trapiantando in animali recipienti wild type cellule di midollo osseo di un topo trasgenico contenente il costrutto LacZ sotto il controllo di un promotore muscolo-specifico; dopo alcuni mesi dal trapianto è stato osservato che, in seguito ad una lesione muscolare indotta, un significativo numero di cellule LacZ+ avevano contribuito alla rigenerazione del tessuto muscolare scheletrico (Ferrari et al., 1998). Questo risultato è stato successivamente consolidato da altri esperimenti condotti in vivo su modelli murini affetti da particolari distrofie, in cui cellule di midollo erano in grado di recuperare parzialmente il fenotipo wild type, mostrando le elevate potenzialità miogeniche delle HSCs (Gussoni et al., 1999)

A queste prime osservazioni, si sono aggiunte, negli anni più recenti, innumerevoli dati sperimentali che sembrano attribuire alle HSCs capacità differenziative sempre più ampie: saggi funzionali in vivo ed in vitro suggeriscono che le cellule di midollo osseo adulto siano in grado di dare origine a cellule mature di tessuti non ematopoietici, quali fegato (Theise et al., 2000; Austin e Lagasse, 2003), pancreas (Ianus et al., 2003) e dei reni (Gupta et al., 2002), pelle (Krause et al., 2001) tratto gastro-intestinale (Okamoto et al., 2002), cuore (Orlic et al., 2001; Anversa e Nadal-Ginard, 2002), ) muscolo scheletrico (LaBarge e Blau, 2002 e sistema nervoso (Castro et al., 2002).

Sebbene le evidenze sperimentali siano sempre più confortanti, il tema della plasticità delle cellule staminali continua ad essere argomento di acceso dibattito; molte perplessità nascono dal fatto che le tecniche in vivo ed in vitro fino ad oggi

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adottate non sono in grado di fornire una prova certa delle loro effettive potenzialità differenziative e, molto spesso, i dati ottenuti non sono riproducibili. Infatti, negli ultimi due anni, studi sempre più rigorosi hanno messo in evidenza che alcuni apparenti eventi di plasticità sono in realtà riconducibili ad altri fenomeni, quali la contaminazione o la fusione cellulare. In particolare, dal momento che le cellule staminali ematopoietiche sono in grado di migrare, attraverso la circolazione, in tutto l’organismo (Wright et al., 2001) è possibile che l’osservata trasdifferenziazione verso il destino ematopoietico di cellule di un determinato tessuto non ematopoietico non sia determinata dalla loro plasticità ma dalla presenza, nel tessuto stesso, di HSCs che ivi transitano (trattati in Camargo et al., 2004).

D’altra parte, la bassa frequenza con la quale si verificano gli eventi di transdifferenziazione ha sollevato la possibilità che si tratti di eventi stocastici non-fisiologici e, a favore di questa ipotesi, alcune evidenze sperimentali suggeriscono che la fusione cellulare possa essere un spiegazione alternativa per alcuni casi di osservata plasticità (Vassilopoulos e Russel, 2003). Infatti questa rappresenta un naturale processo biologico che contribuisce alla formazione di diversi tessuti nell’organismo, quali la formazione dei miotubi (Mintz e Baker, 1967), degli osteoclasti (Scheven et al., 1985), della placenta (Kliman et al., 1986) e dalle cellule giganti derivanti dai macrofagi (Parwaresch et al., 1986), e si protrae per tutta la vita, producendo cellule con distinte proprietà biologiche. Recenti esperimenti condotti su modelli murini affetti da tirosinemia ereditaria di tipo I hanno permesso di dimostrare che la fusione cellulare interviene anche nella riparazione dei tessuti adulti (Vassilopoulos et al., 2003; Wang et al., 2003): questi animali presentano, a seguito di una mutazione del gene Fah

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(Fumaril-Acetoacetato-Idrolasi), un difetto al fegato curabile attraverso un trapianto di cellule wild type di midollo osseo, le quali sono in grado di rigenerare cellule epatiche esprimenti Fah. Analisi citogenetiche, genomiche e immunoistochimiche indicano che questi nuovi epatociti non sono cellule ematopoietiche transdifferenziate ma il risultato della fusione di cellule di midollo osseo wild type del donatore con gli epatociti affetti del ricevente (Vassilopoulos et al., 2003; Wang et al., 2003). Come per la plasticità, le osservazioni sperimentali a conferma (Weimann et al., 2003; Caplice et al., 2003) e a smentita (La Barge e Blau, 2002; Ianus et al., 2003) del fenomeno della fusione sono numerose; lo sforzo dei ricercatori rimane, comunque, quella di effettuare analisi sempre più rigorose al fine di stabilire quale dei due processi giochi realmente un ruolo determinante nelle capacità differenziative delle cellule staminali nell’ambito dei diversi sistemi differenziativi.

1.2.3 LE CELLULE STAMINALI NEURALI (NSC)

Le cellule staminali neurali sono considerate una popolazione eterogenea di cellule attive mitoticamente, multipotenti e dotate di elevata capacità autoreplicativa presenti nel sistema nervoso, sia nell’organismo in via di sviluppo, sia nell’adulto. Queste cellule mostrano un complesso pattern di espressione genica che varia spazialmente e temporalmente. Agli inizi del 1990, vennero isolate dal sistema nervoso centrale e periferico dell’embrione dei mammiferi un tipo di cellule neurali che però possedevano attività staminale (Cattaneo et al., 1990; Semple et al., 1992). Da allora, sono state isolate cellule staminali dal sistema nervoso centrale in toto e da alcune regioni quali la zona subventricolare (SVZ) del ventricolo laterale, il giro dentato e la corteccia

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cerebrale (Reynolds et al., 1992). Col procedere dello sviluppo embrionale, la frequenza di cellule staminali diminuisce, mentre aumenta l’attivazione di programmi cellulari della differenziazione verso i diversi lineage neurali (Alvarez et al., 2001). Nel sistema nervoso centrale adulto, le cellule staminali sono in grado di guidare la neurogenesi di alcune regioni quali il bulbo olfattivo, l’ippocampo, la SVZ, e il canale centrale del midollo spinale. L’origine di questa popolazione cellulare è ancora attualmente oggetto di acceso dibattito e al riguardo, sono state formulate due diverse teorie. La prima dice che le NSC della SVZ differenziano a partire dalle cellule ependimali che esprimono la nestina, una proteina dei filamenti intermedi (Johansson et al., 1999), mentre la seconda identifica le NSC come cellule simili agli astrociti di tipo B subependimali che esprimono sia la nestina che la proteina acida fibrillare gliale (GFAP) (Doetsch et al., 1991). Si pensa che queste ultime, localizzate nella SVZ, generino in vivo tre differenti popolazioni di progenitori che possiedono un fenotipo neuronale e gliale: cellule di tipo C, di tipo D e progenitrici della sostanza bianca (WMPC,

White Matter Precursor Cell) (Lemoli et al., 2005).

Le NSC isolate dal cervello adulto sia murino che umano, possono essere coltivate in vitro e mantenute allo stato indifferenziato in presenza di fattori di crescita, quali FGF ed EGF. In tali condizioni formano aggregati, detti neurosfere, che contengono sia cellule staminali che precursori neurali. Queste cellule mostrano: a) una proliferazione dipendente da fattori di crescita e velocità di crescita stabile; b) elevate capacità di self-renewal; c) multipotenza; d) plasticità funzionale. La plasticità e la flessibilità funzionale in vitro delle NSC adulte possono essere modulate tramite la loro esposizione a determinati fattori di crescita. LIF, in combinazione con il fattore neurotrofico derivato dal cervello

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(BDNF), il fattore neurotrofico ciliare (CNTF), le neurotropine (NT)-3 e (NT)-4 spingono le NSC verso un destino neuronale, mentre la proteina morfogenica dell’osso (BMP), insieme a CNTF e LIF aumentano il numero in coltura di astrociti derivati dalle NSC (Galli et al., 2003).

Molte evidenze sperimentali affermano che le NSC possono intervenire nel riparare il cervello durante la vita adulta. Infatti, alcuni recenti dati mostrano che le NSC endogene sostengono la neurogenesi e la gliogenesi in risposta a gravi danni come ischemia, traumi o infiammazioni (Picard-Riera et al., 2002; Dugall et al., 1997). Questi eventi potrebbero innescare una cascata di segnali cellulari e molecolari, attraverso mediatori solubili quali citochine, chemochine, metalloproteasi e molecole di adesione, in grado di supportare la neurogenesi e la gliogenesi che limitano il danno tissutale. In alcuni esperimenti di encefalomielite autoimmune cronica (EAE), utilizzando il modello animale della sclerosi multipla, alcuni progenitori mitoticamente attivi, localizzati o nella SVZ del cervello o nello strato subependimale del canale centrale del midollo spinale, cambiano il loro destino fisiologico (migrazione lungo la RMS verso il bulbo olfattivo o le colonne laterali del midollo spinale) migrando verso aree demielinate, dove differenziano in cellule gliali (Picard-Riera et al., 2002).

1.2.4 LE CELLULE STAMINALI MESENCHIMALI (MSC)

Nel 1973, Friedenstein fu il primo a identificare una popolazione cellulare con un forte potenziale osteogenico in una sospensione a singole cellule prelevata dal midollo osseo adulto. Similmente, cellule osteogeniche sono state isolate dal timo e dalla milza di coniglio e maiale nano. Successivamente a questi lavori pineristici, molti gruppi di ricerca hanno recentemente isolato cellule

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staminali/progenitori mesenchimali da molti tessuti adulti, quali muscolo scheletrico, tessuto adiposo, pelle e retina (Jiang et al., 2002; Pittenberg et al., 1999; Halvonsen et al., 2001; Doherty et al., 1998; Asakura et al., 2001).

Lo stroma del midollo osseo è composto da una varietà di tipi cellulari essenziali per lo sviluppo delle cellule ematopoietiche e produce una vasta gamma di mediatori chimici necessari per il corretto processo di formazione delle cellule del sangue (Allen et al., 1990).

E’ noto da diversi anni che le MSC del midollo osseo sono in grado di differenziare in vitro, sotto opportune condizioni, in diversi tipi cellulari quali osteoblasti, adipociti, condrociti e miociti (Figura 1.2.4). Le metodologie per isolare e coltivare le MSC sono molteplici, uno dei metodi più diffusi è quello di sfruttare le loro caratteristiche di adesione per separarle dalla componente ematopoietica del midollo, che cresce in sospensione. A tale scopo si utilizza un terreno di coltura minimo, privo cioè di citochine, che facilita la crescita delle unità formanti colonie di tipo fibroblastoide (CFU-F). Queste ultime possono anche essere propagate per molti passaggi fino a diventare linee cellulari (trattato in Zipoli, 2004).

Le cellule così ottenute possono essere differenziate, sotto specifici stimoli chimici in:

• osteoblasti: con acido ascorbico, dexametasone e β-glicerofospato; • adipociti: con insulina e dexametasone;

• condrociti: con TGFβ (Transforming growth factor) (trattati in Gregory et al., 2005).

Un approccio alternativo è basato sull’isolamento di una popolazione di precursori utilizzando marcatori sulla superficie cellulare (Pittenberg et al., 1999).

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Ad esempio, alcuni recenti studi indicano che le MSC prelevate da midollo osseo umano possono essere selezionate in base all’espressione di CD49a, recettore per collagene e laminina (Deschaseaux et al., 2003). Questa popolazione è CD49a+

CD45med/low e differenzia verso un lineage mesodermico. tutte le CFU-F coltivate

a partire da midollo osseo umano in toto sembrano essere CD49a+ CD45med/low . E’ stata caratterizzata e co-purificata con le MSC un’altra popolazione cellulare, le MAPC (Multipotent Adult Presursor Cell): queste sembrano più versatili delle cellule mesenchimali e sono in grado di differenziare in vitro non solo in mesoderma, ma anche in neuroectoderma ed endoderma (Jiang et al., 2002). Se iniettate in blastocisti precoci, le singole MAPC contribuiscono alla formazione di tipi cellulari somatici; se vengono trapiantate in animali non irradiati, ripopolano e differenziano in cellule ematopoietiche, come pure in epitelio del fegato, polmone e stomaco (trattato in Zipori 2004).

Poiché le MSC e le cellule MAPC sembrano essere multipotenti e coltivabili in vitro, potrebbero rappresentare una risorsa molto importante di cellule utilizzabili nella clinica, per approcci di terapia e genica (Prockop, 1997).

1.2.5 LE CELLULE STAMINALI EMATOPOIETICHE (HSC)

Le cellule staminali ematopoietiche sono state il primo tipo di cellule staminali adulte descritte in letteratura una cinquantina di anni fa (Till e Mc Cullogh,1961). Tuttavia, contrariamente alle ES ed alle NSCs, identificate successivamente, non è tuttora possibile mantenere le HSC ex vivo, se non per tempi molto brevi, nè espanderle su vasta scala. Sono rare, morfologicamente non riconoscibili e pertanto molti sforzi sono concentrati sull’identificazione di marcatori al fine di

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isolarle quale popolazione omogenea. In letteratura sono stati descritti numerosi antigeni, qui di seguito vengono citati i principali.

Il primo, sul quale si è per molti anni concentrata l’attenzione è la glicoproteina CD34 (Cluster of Differentiation), espresso solo in piccole frazioni di cellule midollari che comprendono i precursori ematopoietici ed anche le HSCs. I primi esperimenti, condotti utilizzando cellule donatrici CD34+ per il trapianto di topi letalmente irradiati o immunocompromessi, mostravano la capacità di queste cellule di ripopolare a lungo termine l’intero sistema ematopoietico dell’animale ricevente (trattati in Goodell, 1999). Inoltre l’utilizzo di popolazioni di midollo osseo umano arricchito in cellule CD34+ migliorava notevolmente l’efficienza dei trapianti di midollo e ne diminuiva le complicazioni (Civin et al., 1996; Link et al., 1996; Yabe et al., 1996). Tuttavia, studi successivi hanno evidenziato che anche le cellule CD34- sono in grado di realizzare una completa ricostituzione del sistema ematopoietico. L’utilizzo di sostanze citotossiche come il 5-FluoroUracile e l’Idrossiurea, che provocano la morte delle cellule in divisione, ha permesso al gruppo di Ogawa di mostrare che le HSCs in quiescenza esprimono livelli molto bassi, se non nulli, di CD34 e che l’espressione aumenta in risposta a segnali di attiva proliferazione (Sato et al., 1999). Queste osservazioni hanno suggerito la possibilità che la glicoproteina CD34 avesse un ruolo come marcatore delle cellule staminali in stato di attivazione; tuttavia la maggior parte delle HSCs si trova normalmente in stato di quiescenza, in fase G0, e solo una piccola parte, in modo del tutto casuale, passa allo stato di attivazione (Ogawa, 1993). In seguito all’attivazione, le cellule staminali ematopoietiche iniziano ad esprimere CD34 e possono andare incontro ad autoreplicazione, a differenziamento o, in alternativa, possono tornare allo stato di quiescenza, con la

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conseguente inattivazione del gene. Così come per CD34, anche l’espressione di un'altra glicoproteina, CD38, sembra essere influenzata dallo stato di attivazione delle cellule staminali: dati sperimentali mostrano infatti che cellule staminali in divisione sembrano essere CD34+CD38-, mentre cellule staminali quiescenti si trovano nella frazione CD34-CD38+ (Tajima et al., 2001).

Recentemente sono stati identificati nuovi probabili marcatori di HSC:

• CD201, recettore endoteliale della proteina C (Endothelial Protein C

receptor, EPCR), il quale è espresso anche nelle cellule endoteliali ed è

coinvolto nella regolazione della coagulazione del sangue e negli stati infiammatori (Ivanova et al., 2002; Akashi et al., 2003);

• l’endoglina CD105, componente del recettore del fattore di crescita trasformante TGF-β quale caratterizza il 20% delle cellule di BM selezionate in base a principi fisici (Cheifetz et al., 1992; Chen et al., 2002);

• AC133, una glicoproteina di 120 Kd. AC133 è espressa selettivamente da cellule CD34bright (HSCs e progenitori ematopoietici) provenienti dal fegato fetale, dal midollo osseo e dal sangue periferico umano. La popolazione AC133+ umane presenta elevate capacità di attecchimento in trapianti effettuati su modelli animali tra cui i feti di pecora, e le cellule umane provenienti dal midollo osseo di queste chimere sono perfettamente in grado di ripopolare il sistema ematopoietico in trapianti secondari di animali riceventi (Yin et al., 1997);

• il gene Flt3, il quale codifica il recettore della tirosina-chinasi 3 nel fegato fetale (Fetal Liver Tyrosine kinase-3): le evidenze sperimentali suggeriscono comunque che la sua espressione sia associata alla perdita

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della capacità di autorinnovamento da parte della cellula staminale ematopoietica e quindi possa identificarne esclusivamente la scelta differenziativa (Adolfsson et al., 2001). Ai suddetti marcatori se ne aggiungono altri, quali CD45, antigene specifico di tutte le cellule ematopoietiche, CD43, ed altri marcatori presenti anche in altre cellule staminali, come kit, proto-oncogene localizzato a livello del locus W che codifica un recettore tirosino-chinasico, e Sca-1 (Stem Cell Antigen 1), comune anche a cellule staminali di altri tessuti.

Nessun marcatore individuale è specifico ed esclusivo per le HSCs, pertanto diverse combinazioni di marcatori vengono utilizzate per ottenere popolazioni fortemente arricchite in HSCs.

In aggiunta al profilo immuno-fenotipico, è stata recentemente sviluppata un’altra procedura per isolare cellule ematopoietiche primitive, basata sulla capacità di tali cellule di espellere alcuni coloranti fluorescenti come la Rodamina 123 (Rho) e Hoechst 33342 (Ho). È stato osservato che la maggior parte delle HSCs nei tessuti murini adulti è caratterizzata da una concentrazione minima di Rho (Spangrude et al., 1990) e tale fenotipo è determinato dall’attività della Glicoproteina-P, un trasportatore ABC presente sulla superficie delle cellule staminali ematopoietiche; infatti, topi transgenici mdr-1/ib-/-, privi della glicoproteina P, presentano HSCs funzionalmente normali ma altamente positive alla Rodamina.

Una metodica attualmente preferita prevede l’utilizzo di colorante fluorescente, Hoechst 33342, in grado di legare il DNA.

Colorando cellule di BM ed effettuando, successivamente, un’analisi al citofluorimetro (Fluorescence Activated Cell Sorted, FACS), Goodell e suoi collaboratori sono riusciti ad isolare una popolazione di cellule (Side Population,

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SP) che è in grado di espellere in breve tempo il colorante e di realizzare una completa ricostituzione del sistema ematopoietico in topi letalmente irradiati. Questo risultato suggerisce che la popolazione SP sia fortemente arricchita di cellule staminali ematopoietiche (Goodell et al., 1996).

Questa stessa procedura è stata adottata con successo per isolare popolazioni SP anche in altri tessuti non ematopoietici come il muscolo, il cervello, il fegato, il polmone e l’intestino tenue (Gussoni et al., 1999; Asakura et al., 2002), suggerendo che il fenotipo SP non sia ristretto alle cellule del sangue (Jackson et al., 2001).

Inoltre, dati recentissimi indicano che all’interno della SP si possa identificare una sottopopolazione chiamata “TIP”-SP che in combinazione con il fenotipo CD34 -kit+Sca-1+Lin-, ha prodotto la migliore purificazione finora ottenuta. Infatti utilizzando le tecniche di trapianto in animali riceventi in combinazione con la separazione di cellule tramite FACS in base a marcatori specifici di cellule staminali/precursori e la capacità della SP di rispondere al colorante fluorescente Hoechst 33342, è stato possibile isolare questa popolazione cellulare, che presenta una elevata capacità di proliferazione e differenziazione lungo diversi lineage. Questa popolazione è stata separata isolando le cellule con la più forte attività di colorazione della SP (“TIP”-SP) con una specifica caratteristica fenotipica, CD34 -kit+Sca-1+Lin- (CD34- KSL). Trapiantando singole cellule di questa popolazione, nel 96% dei topi riceventi letalmente irradiati si è avuta una completa ricostituzione a lungo termine. Questi risultati supportano l’ipotesi che le cellule “TIP”-SP CD34- KSL rappresentino le cellule staminali più primitive, capaci di migrare e attecchire alla loro nicchia, proliferando e differenziando efficientemente (Matsuzaki et al, 2004).

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Sebbene le combinazioni di antigeni di membrana e le tecniche di colorazione siano estremamente utili per isolare popolazioni fortemente arricchite in cellule staminali ematopoietiche o precursori molto primitivi, attualmente, la presenza di HSCs all’interno di una determinata popolazione cellulare può essere valutata esclusivamente attraverso saggi di ripopolazione a lungo termine, ossia analizzando la capacità di queste cellule di ricostituire il sistema ematopoietico di topi letalmente irradiati o geneticamente modificati (Ogawa, 1993). Infatti l’esposizione ad una dose elevata di radiazioni o il trattamento con particolari sostanze citotossiche sono in grado di provocare un danno letale per le cellule ematopoietiche del midollo osseo, senza tuttavia compromettere la funzionalità dello stroma. Animali irradiati letalmente vanno incontro a morte nel giro di una/due settimane a causa delle gravi carenze a carico del comparto mieloide e linfoide. Se, però, viene iniettato nella circolazione periferica di questi topi midollo osseo prelevato da topi geneticamente compatibili, si osserva un ripopolamento della cavità midollare da parte delle cellule iniettate ed un recupero completo della funzionalità ematopoietica (Ford et al., 1956; Mickelm e Loutit 1966). Utilizzando questa metodica può essere analizzata non solo la presenza di HSCs nella popolazione cellulare trapiantata ma, attraverso saggi di ripopolazione competitiva, valutarne anche le potenzialità e proporzioni. Trapiantando una popolazione midollare in condizioni di diluizione limite assieme ad una popolazione di supporto geneticamente distinguibile si è, ad esempio, dimostrato che una singola cellula staminale può essere in grado di ripopolare tutti i lineage ematopoietici a lungo termine in animali riceventi primari e che la sua progenie può dare ripopolazione a lungo termine se trapiantata in un secondo ricevente (trapianto secondario) (Dick et al., 1985; Magli et al., 1987). Questi approcci

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sperimentali hanno fornito una stima della frequenza delle HSCs nel midollo osseo di topo di una su 10.000-100.000 cellule (Harrison et al., 1988; Harrison e Zhong, 1992; Okada et al., 1993; Kim et al., 2000). La capacità delle cellule iniettate di andare a ricollocarsi nei siti di ematopoiesi dell’ospite sembra essere mediata dal contatto tra cellule staminali e cellule del microambiente attraverso specifici recettori; uno di questi è stato descritto, ad esempio, come una glicoproteina di 110-KD (CD26) contenente residui di galattosio e mannitolo (Aizawa e Tavassoli, 1987; Matsuoka e Tavassoli, 1989).

Un ulteriore sistema usato per studiare le dinamiche delle HSCs è quello che utilizza, come riceventi, animali geneticamente difettivi quali, ad esempio, topi portatori di una mutazione nel locus W, che codifica per kit, il recettore dello stem

cell factor (SCF). Le cellule ematopoietiche di questi topi hanno uno svantaggio

di crescita rispetto a quelle dei topi wild-type, quindi il trapianto di midollo osseo in questi animali può fornire un valido strumento per testare la capacità di ripopolazione competitiva di una determinata popolazione cellulare (Szilvassy et al., 1990; Kiefer et al., 1991). Un'altra linea di topi mutanti estremamente importante è NOD/SCID (non-obese diabetic/severe combined immunodeficient), nella quale le gravi carenze a carico del sistema immunitario permettono di condurre con successo anche trapianti con cellule ematopoietiche umane (trattati in Grainer et al. 1998).

Una delle questioni cruciali ancora irrisolte riguarda i meccanismi che determinano la scelta da parte delle HSCs del lineage differenziativo. Inizialmente era stato ipotizzato un modello di tipo “induttivo” secondo il quale il microambiente e i segnali, che da esso derivano, guidano il commitment della cellula staminale (Trentin al., 1970; VanZant et al., 1979). Successivamente è

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stato proposto un altro modello secondo il quale il cammino differenziativo che la cellula intraprende è del tutto casuale. A tale proposito, esperimenti basati su saggi clonogenici in vitro, supportano fortemente questo secondo modello, mostrando che le colonie derivanti dalle cellule figlie di uno stesso precursore differiscono non solo nel tipo ma anche nel numero di lineages che contengono (Ogawa, 1993). Questo evento differenziativo stocastico potrebbe avvenire secondo due distinti meccanismi: il primo prevede una restrizione casuale ma graduale delle potenzialità del precursore, ipotizzando quindi la produzione di progenitori intermedi; il secondo prevede invece che la cellula staminale venga stocasticamente e drammaticamente indirizzata verso uno stato differenziativo monopotente; secondo questo ultimo modello l’esistenza di due o più tipi cellulari all’interno di una colonia sarebbe dovuta alla presenza di diverse cellule staminali che hanno dato origine a specifici progenitori monopotenti. E’ ancora da chiarire quale dei due meccanismi sia effettivamente messo in atto dalla cellula staminale ematopoietica durante il suo cammino differenziativo.

Se, da una parte, le capacità di autoreplicazione e di differenziamento delle HSCs e dei progenitori appare essere determinato da eventi stocastici, dall’altra, la sopravvivenza e la proliferazione sembrano invece dipendere da un complesso sistema regolativo in cui il microambiente midollare, i fattori di trascrizione e fattori di crescita giocano un ruolo determinante (trattati in Ogawa, 1993).

L’interazione delle HSCs con il loro particolare microambiente è critica per il mantenimento delle proprietà tra cui l’adesione cellulare, la sopravvivenza e la quiescenza/proliferazione delle cellule staminali stesse. La nicchia ematopoietica, nella quale sono localizzate le HSCs, è costituita da tre componenti: cellule che supportano l’ematopoiesi, fattori da esse prodotti e la matrice extracellulare. La

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scelta di una cellula staminale se rimanere nel suo stato di quiescenza o andare incontro a divisione è guidata dal microambiente. E’ stato di recente dimostrato che due molecole importanti, Ang-1 (Angiopoietin-1), un fattore secreto dagli osteoblasti, e il suo recettore Tie2 sono importantissime per il contatto delle HSCs alle cellule della nicchia. E’ stato dimostrato che l’interazione di Ang-1, prodotta dagli osteoblasti, e Tie2, presente sulla membrana delle HSCs, induce la stretta adesione delle HSCs alle cellule stromali e, mantenendole in uno stato di quiescenza, ne preserva la massima capacità di ripopolazione a lungo termine (Arai et al., 2005).

Recentemente è stato dimostrato che l’entrata in ciclo delle cellule staminali è anche regolato da p21, una proteina appartenente alla famiglia CDKI

(Cyclin-dependent kinase inibitor). In assenza di questa molecola, il pool di cellule

staminali è espanso e presenta un aumento delle sue capacità proliferative. Il controllo dominante negativo esercitato da p21 sulle cellule staminali regola la taglia e la cinetica del comparto staminale mantenendo questa popolazione in uno stato di quiescenza (Cheng et al., 2000).

Un’altra proteina appartenente alla famiglia delle CDKI è p27. Come p21, p27 è associata alla differenziazione post-mitotica di altri tipi cellulari, ad esempio le cellule neurali. Il ruolo di p27 nell’ematopoiesi è supportato da analisi di citofluorimetria, in cui è stata osservata la sua espressione in cellule primitive e precursori maturi. A differenza di p21, p27 non sembra essere coinvolto nel controllo del numero delle cellule staminali, nel ciclo cellulare o nel loro

self-renewal, ma controlla la proliferazione dei precursori ematopoietici e il loro pool

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Un altro importante regolatore della proliferazione delle cellule staminali ematopoietiche è il fattore di trascrizione contenente il dominio zinc-finger Gfi-1 (Growth factor independent 1), un oncogene coinvolto nello sviluppo di tumori linfoidi. Il prodotto di questo gene promuove la proliferazione delle cellule T (Hock et al., 2004).

1.3 ONTOGENESI DEL SISTEMA EMATOPOIETICO

La genesi del sistema ematopoietico nell’organismo in sviluppo è un processo complesso, che si attua secondo schemi chiariti, finora, solo in parte, e le tappe molecolari che regolano l’ematopoiesi embrionale restano in prevalenza ancora da determinare. Studi recenti hanno, però, iniziato a definire gli eventi più precoci e le modalità di migrazione cellulare che regolano il programma ematopoietico. Lo sviluppo del sistema ematopoietico nei mammiferi si ottiene attraverso due principali fasi: quella primitiva, che si attua nel sacco vitellino, e quella definitiva, che ha luogo, in sequenza, nella regione splancnopleura para-aortica/aorta-gonadi-mesonefro (PAS/AGM), nel fegato fetale, nella milza e nel midollo osseo adulto (Marshall e Thrashr, 2001).

Negli studi pionieristici del 1970, Moore e Metcalf dimostrarono che le prime cellule eritroidi, i progenitori eritro-mieloidi, le CFU-S e le HSCs erano presenti nel sacco vitellino a diversi stadi di sviluppo, a giorno 7, 8, 8.5 e 11 post coitum. Insieme a risultati limitati che suggerivano l’assenza di una ematopoiesi intraembrionale divenne ampiamente accettato che il sacco vitellino fosse, secondo questa teoria, il sito di origine del sistema ematopoietico della vita adulta dei mammiferi; le cellule staminali generatesi nel sacco vitellino migrerebbero

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un programma fetale di differenziazione; dal fegato fetale, le HSCs migrerebbero quindi verso il midollo, dove darebbero origine all’ematopoiesi adulta (Moore e Metcalf, 1970).

Questo modello, ritenuto valido per circa venti anni, non teneva conto delle profonde differenze esistenti tra le cellule del sangue embrionale e quelle fetali. Infatti, gli eritrociti embrionali o precoci (EryP), generati esclusivamente nel sacco vitellino, sono, ad esempio, nucleati, più grandi e con un volume citoplasmatico maggiore rispetto a quelli fetali-adulti o definitivi (EryD); le cellule ematopoietiche embrionali danno origine ad una progenie quasi esclusivamente eritroide in vivo, e restano costantemente in ciclo cellulare, a differenza delle HSCs adulte, che rimangono la maggior parte del tempo in quiescenza (G0); infine, le cellule ematopoietiche embrionali, fetali ed adulte sintetizzano ognuna tipi differenti di globine. Queste differenze hanno suggerito un secondo modello secondo il quale le cellule ematopoietiche embrionali e fetali-adulte sono generate distintamente nelle prime fasi dello sviluppo. Le cellule primitive andrebbero incontro a morte programmata durante la vita fetale, e solo i progenitori definitivi sosterrebbero l’ematopoiesi fetale ed adulta (trattati in Zon 1995).

Il primo segno visibile di attività ematopoietica nell’embrione di topo si osserva con la formazione, intorno al giorno 6.5-7 di gestazione, delle “isole sanguigne” (Bood Islands), aggregati cellulari che originano dal mesoderma extraembrionale, migrato attraverso la stria primitiva nella regione del futuro sacco vitellino (Yolk

Sac, YS). In questi aggregati è possibile distinguere due tipi cellulari: gli

eritroblasti, deputati alla produzione di eritrociti, circondati da uno strato esterno di precursori endoteliali, gli angioblasti (Dzierzak et al 1998).

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Questa stretta associazione spaziale e temporale delle filiere ematopoietica ed endoteliale ha portato a formulare l’ipotesi che i due tipi cellulari derivassero da un precursore bipotente comune, l’emangioblasto (Sabin,1920; Murray,1932; Shalaby, 1997). Interessanti evidenze sperimentali a favore della sua esistenza sono state fornite da studi sulle cellule staminali embrionali il cui differenziamento in vitro riproduce le fasi precoci dello sviluppo in vivo del sistema ematopoietico. Infatti, in determinate condizioni di coltura le ES danno origine ad aggregati, denominati “corpi embrioidi” (ES cell-derived embryoid

bodies, EBs) costituiti da una popolazione eterogenea di precursori appartenenti a

diversi sistemi differenziativi. I corpi embrioidi, se coltivati in metilcellulosa in presenza del fattore di crescita vascolare (Vascular Endothelial Growth Factor, VEGF), danno origine, dopo circa 3 giorni, a colonie di blasti che possono differenziare sia in senso ematopoietico che endoteliale esprimendo un pattern di geni comuni ad entrambi i lineages: SCL/tal-1 (membro della famiglia dei fattori di trascrizione helix-loop-helix, bHLH), CD34 e flk-1 (recettore di VEGF) (Choi et al., 1998). La sorprendente responsività da parte di questi precursori al fattore di crescita vascolare, unitamente all’espressione genica delle colonie che da loro derivano, suggerisce fortemente che questa popolazione possa avere la potenzialità di generare cellule sia endoteliali che ematopoietiche.

Al fine di capire quale fosse il ruolo di SCL/tal-1 in questo processo differenziativo, sono state analizzate, sia dal punto di vista molecolare che cellulare, le potenzialità di sviluppo di cellule ES SCL-/-. Tali cellule non sono in grado di generare le caratteristiche colonie di blasti in risposta al VEGF, ma danno origine a delle colonie “transienti” che morfologicamente appaiono più ampie e compatte rispetto alle colonie di blasti wild-type. La successiva analisi di

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espressione genica su queste colonie transienti, in rapporto a quella ottenuta con le colonie di blasti, ha permesso di ipotizzare che il commitment verso il destino ematopoietico e/o endoteliale abbia luogo secondo stadi distinti: il primo stadio,

SCL-indipendente, sarebbe caratterizzato dallo stabilirsi di una prima popolazione

endoteliale; lo stadio successivo, SCL-dipendente, prevederebbe lo sviluppo dei precursori precoci ematopoietici e delle altre popolazioni cellulari endoteliali. Inoltre, l’analisi cinetica dello sviluppo di colonie di blasti e colonie transienti ha permesso di evidenziare che queste ultime derivano da precursori più precoci e quindi che il gene SCL/tal-1 potrebbe avere un ruolo fondamentale nella maturazione del precursore che dà origine alla colonia di blasti (Robertson et al., 2000).

A questi dati si aggiungono quelli forniti dall’analisi molecolare che ha permesso di evidenziare un pannello di geni coinvolti nella regolazione della differenziazione cellulare ed espressi da entrambi i tipi di precursori: CD34 (Young et al., 1995), flk-1 (Millauer, 1993; Yamaguchi, 1993; Kabrun, 1997),

flt-1 (Fong, flt-1996), TIE-2 (Takakura, flt-1998), SCL/Tal-flt-1 (Kallianpur, flt-1994), GATA-2

(Orkin, 1992) e PECAM-1 (Watt et al., 1995). Inoltre, esperimenti di gene

targeting hanno dimostrato che topi in cui viene completamente inattivato il

gene flk-1 che codifica il recettore tirosino-chinasico del VEGF, presentano gravi difetti di sviluppo e di crescita in entrambi i sistemi (Shalaby, 1995; Robb, 1995; Shidvasani, 1995; Lawson, 1999). In particolare, embrioni di topo flk-1-/- muoiono in utero intorno al giorno 8.5-9.5 di gestazione, caratterizzati dall’assenza delle isole sanguigne nel sacco vitellino e dalla presenza di un numero limitato di precursori ematopoietici. Ciò suggerisce che il gene flk-1 abbia un importante ruolo nelle fasi più precoci dell’ematopoiesi e, in particolare, nell’assicurare che i

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precursori mesodermici siano localizzati nelle sedi appropriate affinchè ricevano gli stimoli necessari al differenziamento in senso ematopoietico (Kabrun et al., 1997).

Al giorno 8.5 di gestazione, con la formazione dell’arteria onfalomesenterica e l’instaurarsi della connessione tra il sistema vascolare extraembrionale e quello intraembrionale, le potenzialità differenziative in senso ematopoietico del sacco vitellino variano. In questa sede infatti si riscontra la presenza di una seconda ondata di progenitori eritroidi e mieloidi, questa volta però con caratteristiche tipiche dell’ematopoiesi definitiva.

Queste osservazioni hanno portato a ipotizzare che, a livello dello YS, la gerarchia ematopoietica si sviluppi in maniera invertita: inizialmente comparirebbero cellule con ristrette potenzialità differenziative e solo successivamente verrebbero generate delle vere HSCs in grado di migrare e di colonizzare le altre sedi ematopoietiche (il fegato fetale e, successivamente, il midollo osseo) (Dzierzak e Medvinsky, 1995). Tale ipotesi è coerente con la necessità di avere in tempi molto rapidi cellule che trasportano l’ossigeno nell’embrione.

Il primo sito intraembrionale che mostra la presenza di precursori ematopoietici è quello denominato regione splancnopleura paraortica/aorta-gonadi-mesonefro (PAS/AGM) (Godin et al. 1993, Medvinsky et al. 1993). La regione PAS/AGM è situata nelle sezioni del tronco e dell’addome dell’embrione murino ed include il mesoderma splancnico, l’aorta dorsale, le creste genitali/gonadi e il pro/mesonefro, il mesenchima accessorio e il mesoderma intermedio. Si preferisce indicare questa regione come PAS quando ci si riferisce a stadi precoci dello sviluppo, mentre dopo il giorno 9 post coitum, avendo l’organogenesi distinto le

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componenti del sistema urogenitale dalla adiacente aorta dorsale, si indica come regione AGM.

Nella regione PAS, a partire dal giorno 7.5 post coitum è stata evidenziata la presenza di progenitori ematopoietici, che perdura fino al giorno 11-12 post

coitum, quando la regione AGM comincia a degenerare e il fegato incrementa la

propria attività ematopoietica (trattati in Dzierzak et al. 1998).

Dal giorno 9 di gestazione anche il fegato fetale (Fetal Liver, FL), che è ritenuto la più importante sede di ematopoiesi durante lo sviluppo fetale, inizia a manifestare attività ematopoietica. Esperimenti basati su saggi clonogenici hanno permesso di stabilire che, a partire dal giorno 10.5 di gestazione, il FL viene colonizzato da HSCs e inizia a produrre tutti i tipi cellulari del sangue, sostenendo l’ematopoiesi fino alla nascita (Dzierzak et al., 1998; Ema e Nakauchi 2000). Dal giorno 15 di gestazione iniziano a delinearsi il midollo osseo (Bone Marrow, BM) e la milza che, insieme al timo ed ai linfonodi, partecipano cooperativamente al mantenimento dell’omeostasi ematopoietica nell’organismo adulto.

Nonostante le evidenze sperimentali abbiano dimostrato che sia il sacco vitellino sia la regione AGM contribuiscono alla formazione di progenitori multipotenti definitivi, non è ancora chiaro se entrambe o solamente una delle due siano sede di produzione delle HSCs. Sono stati condotti diversi esperimenti al fine di indagare dove comparissero per la prima volta le HSCs. Questi esperimenti dimostrano che la prima cellula staminale ematopoietica è localizzata a livello del sistema vascolare principale. Recenti analisi condotte sui siti ematopoietici definitivi dell’embrione si sono focalizzati sull’identificazione di cellule progenitrici che sono destinate a diventare HSCs e precursori ematopoietici. Si pensa che tali precursori siano l’emangioblasto (il precursore mesodermico

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comune sia per il lineage ematopoietico che endoteliale), cellule endoteliali emogeniche, oppure cellule già destinate a dare progenie ematopoietica. La caratterizzazione fenotipica e funzionale di HSC derivate da AGM in grado di ripopolare animali adulti ha dimostrato che queste cellule sono kit+ CD34+

(Sanchez et al., 1996). A partire dallo stadio E9, le cellule provenienti sia dal sacco vitellino sia dall’AGM sono kit+ CD34+ e capaci di ripopolare neonati di topi mieloablati subletalmente (ma non riceventi adulti) (Yoder et al., 1997) ed è possibile che queste siano i diretti precursori delle HSCs.

Nel topo, per identificare le HSCs nel corso dello sviluppo, sono stati effettuati recenti studi di citofluorimetria e di immunocolorazione effettuate sull’AGM utilizzando anticorpi diretti contro marcatori ematopoietici, endoteliali e/o mesenchimali. Utilizzando embrioni Knock-in Runx1-lacZ (Runx1 è un fattore di trascrizione importante per la generazione delle HSCs), tutte le HSCs nell’AGM e nelle arterie vitelline/ombelicali possono essere separate in base all’espressione della galattosidasi (North et al., 2002). In embrioni allo stadio E10/E11, la β-galattosidasi è localizzata in clusters ematopoietici, cellule endoteliali e mesenchimali sul lato ventrale dell’aorta dorsale. Un’ ulteriore caratterizzazione di popolazioni cellulari positive alla β-galattosidasi è stata effettuata utilizzando alcune possibili combinazioni di anticorpi diretti contro marcatori delle tre popolazioni precedenti. Sono state trovate cellule staminali nell’AGM discriminate per marcatori di: cluster ematopoietici (CD45+CD31+ e CD45+

VE-caderina+); marcatori endoteliali (CD45-CD31+ e CD45- VE-caderina+); e

marcatori mesenchimali (Runx1-lacZ + CD45- VE-caderina-). E’ interessante notare che non sono state trovate HSCs nella popolazione CD45- VE-caderina- ,

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cioè mesenchimale. Questi dati indicano che è possibile trovare le HSCs solo nei

cluster ematopoietici e nell’endotelio (North et al., 2002).

L’insieme di tutti questi risultati e altri riportati in letteratura suggerisce fortemente un’ origine vascolare endoteliale, ma non mesenchimale della prima cellula staminale ematopoietica in grado di ripopolare topi adulti.

Sebbene si pensi che l’esistenza dell’emangioblasto sia limitata alla vita embrionale, alcuni recenti risultati indicano che vi sia una stretta relazione tra

lineage ematopoietico ed endoteliale anche nell’adulto. Per esempio, cellule

ematopoietiche umane purificate da midollo osseo o cordone ombelicale sulla base dell’espressione di CD34 e KDR (VEGF-R2), sono in grado de generare in vitro sia cellule ematopoietiche sia cellule endoteliali (Pelosi et al., 2002).

Similmente, trapianti in topi hanno rivelato che cellule di midollo osseo arricchite in popolazione staminale (Sca1+ kit+ Lin-) sono in grado di differenziare in vivo in cellule endoteliali di diversi tessuti (Bailey et al., 2004), oltre che in cellule sanguigne.

1.4 FATTORI DI CRESCITA

L’ematopoiesi è regolata dalle interazioni tra le molecole intracellulari, rappresentate prevalentemente dai fattori di trascrizione, e da segnali intercellulari, principalmente molecole di adesione, citochine e recettori (Kirito et al., 2004). Le citochine, identificate anche come fattori di crescita (growth factors, GF), sono glicoproteine a basso peso molecolare secrete in massima parte dai leucociti, ma anche da altri tipi cellulari, in risposta a una grande varietà di stimoli. Esse regolano le interazioni tra le varie cellule che intervengono nella

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risposta immunitaria, tra queste ultime e il sistema nervoso centrale, nell’ematopoiesi, nell’infiammazione. Il numero sempre crescente di studi nel campo delle citochine ha finora prodotto una considerevole quantità di informazioni sia sul numero che sulle caratteristiche ed i ruoli di queste molecole. Pur essendo coinvolte in differenti attività biologiche, le citochine mostrano alcune caratteristiche comuni, la più importante delle quali è la capacità di legarsi a recettori sulla superficie cellulare per iniziare la cascata del segnale e la conseguente alterazione dell’espressione genica della cellula bersaglio (Whiteside, 1998).

I recettori per le citochine non si trovano solo sulla membrana plasmatica delle cellule, ma possono trovarsi in forma solubile anche nel siero. La loro funzione consiste nell’inibire o limitare l’attività biologica del fattore di crescita stesso. L’azione delle citochine può essere:

a) autocrina, quando è diretta alla stessa cellula; b) paracrina, quando è diretta a cellule vicine; c) endocrina, quando è diretta a cellule distanti. Il loro effetto biologico può essere:

a) pleiotropico, cioè la stessa molecola agisce su diverse cellule; b) ridondante, vale a dire che più citochine possono avere effetti simili

c) sinergico, l’azione combinata di due o più citochine è maggiore della somma degli effetti delle singole citochine;

d) antagonista, l’azione di una citochina inibisce quella di un altro fattore (trattati da Del Gobbo, 2003).

I GF coinvolti nella regolazione dell’ematopoiesi vengono prodotti sia dalle cellule ematopoietiche che dalle cellule dello stroma presente negli organi

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ematopoietici. Sono state identificate, ed in gran parte caratterizzate, molteplici citochine, che possono agire in sinergia fra loro e sembrano svolgere il proprio ruolo sostenendo la sopravvivenza e la proliferazione dei diversi progenitori. Studi in vitro hanno permesso una distinzione delle citochine in base al tipo di colonie che si sviluppano sotto la loro azione: per questo motivo in origine sono state denominate CSF (Colony Stimulating Factors). In accordo con il modello stocastico del differenziamento delle cellule staminali ematopoietiche, secondo il quale i fattori di crescita supportano la sopravvivenza e la proliferazione dei precursori delle cellule del sangue ma non ne dirigono la differenziazione, le citochine sono state inizialmente suddivise in tre categorie: alla prima appartengono quelle che agiscono su precursori unipotenti, come l’eritropoietina (Epo) che è un regolatore fisiologico dell’eritropoiesi, l’M-CSF

(Macrophage-Colony Stimulating Factor) e l’interleuchina 5 (IL-5) che sono specifiche

rispettivamente per i macrofagi/monociti e per gli eosinofili (Sanderson, 1992); la seconda categoria comprende le citochine che hanno effetto su precursori pluripotenti, quali l’interleuchina 3 (IL-3), il GM-CSF

(Granulocyte-Macrophage-Colony Stimulating Factor) e l’interleuchina 4 (IL-4) che

sostengono la proliferazione di progenitori multipotenti dopo la loro uscita dalla fase di quiescenza. Farebbero infine parte della terza categoria le citochine che intervengono sulla cinetica del ciclo cellulare delle cellule in fase G0, come l’interleuchina 1 (IL-1) che agisce sinergicamente assieme a IL-3 nel supportare la proliferazione delle HSCs murine (Jubinsky et al., 1985; Mochizuki et al., 1987) o l’IL-6 (Ikebuchi et al., 1987), il G-CSF (Ikebuchi et al., 1988), l’IL-11 (Musashi et al., 1991), lo SCF (Stem Cell Factor) (Tsuji et al., 1991) e l’IL-12 (Hirayama et al., 1993) che, unitamente all’IL-3, sostengono la formazione di colonie a partire

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da progenitori ematopoietici murini in quiescenza.

Tuttavia, questo tipo di classificazione non ha un valore assoluto: infatti, sebbene ogni CSF abbia uno specifico ruolo nell’ambito del processo differenziativo, è stato dimostrato che più fattori sono in grado di promuovere la formazione di diverse colonie, suggerendo una ridondanza, seppur parziale, della loro azione. I fattori di crescita agiscono a livello delle cellule mediante specifici recettori di membrana che si possono suddividere in due grandi famiglie per le loro caratteristiche comuni: la prima comprende i recettori associati ad una tirosina chinasi, fra i quali quelli per EGF (Epidermal Growth Factor), M-CSF e SCF; la seconda include quelli che, sebbene non contengano domini tirosin-chinasici (Yarden et al., 1987, Sherr 1990), hanno una certa omologia a livello del loro dominio extracellulare come il recettore per Epo (Eritropoietina), GM-CSF o di varie interleuchine come IL-2, IL-3, IL-4, IL-5, IL-6 e IL-7 (Bazan 1990). Molti membri di questo gruppo di citochine sono in grado di formare eterodimeri di catene α e β e, quando avviene il legame tra il recettore e lo specifico ligando, le catene α si associano ad una o più catene β. Poiché le catene β sono promiscue, più recettori diversi, come GM-CSF, Multi-CSF e IL-5, possono legare la stessa catena β (Miyajima, 1992). La catena β sembra avere un ruolo determinante nel dare inizio al segnale intracellulare e questo potrebbe in qualche modo spiegare come più fattori di crescita siano in grado di stimolare la proliferazione di una specifica popolazione cellulare del sangue (Metcalf, 1993).

L’apparente ridondanza dei fattori di crescita è indice del fatto che il sistema ematopoietico possiede una certa flessibilità, indispensabile in situazioni di emergenza dovute ad infezioni, stress o patologie di vario genere: una famiglia multigenica di citochine cooperanti e capaci di estendere la loro azione a vari

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livelli permette al sistema stesso di mantenere una corretta funzionalità anche in condizioni non ottimali, sopperendo alla mancanza di un determinato fattore con la presenza di un’altra molecola regolatrice. Si è osservato, infatti, che singole cellule possono coesprimere recettori di membrana per citochine che hanno un ruolo analogo, oltre che a recettori per fattori di crescita che hanno effetti molto differenti fra loro (Beyrne et al. 1981).

Al fine di far luce su questa apparente ridondanza da parte delle citochine, uno degli approcci sperimentali effettuati è stato quello di sopprimere l’azione di uno specifico GF attraverso l’utilizzo di anticorpi specifici o mediante la generazione di animali geneticamente modificati in cui il gene corrispondente è inattivato o deleto. E’ stato osservato, per esempio, che la somministrazione di anticorpi anti-G-CSF provoca nei cani la comparsa di neutropenia, mostrando l’importante ruolo di questo GF nella produzione dei granulociti (Hammond et al., 1991). Saggi in

vitro su cellule di fegato fetale o di sacco vitellino di topi transgenici privati del locus codificante il recettore per l’eritropoietina (EpoR-/-) mostrano che le colonie eritroidi (CFU-E o BFU-E) non riescono a svilupparsi neppure in presenza di Epo esogena. La formazione di BFU-E può, però, essere indotta in presenza di trombopoietina (Tpo) esogena e SCF, oppure di Tpo e IL-3. Le BFU-E così ottenute risultano morfologicamente normali ed esprimono la β-globina adulta ed il recettore per la trombopoietina (c-Mpl). Tali evidenze sperimentali indicano l’esistenza di una coespressione dei recettori per l’Epo e per la Tpo in alcuni elementi della filiera eritroide, suggerendo l’ipotesi che tali recettori possano attivare una serie di segnali comuni. Inoltre, studi condotti sugli animali EpoR-/- hanno evidenziato che questi topi sono affetti da gravi anemie e non sopravvivono oltre l’11°-12° giorno di sviluppo embrionale, evidenziando un’eritropoiesi

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