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La stanza del vescovo (Dino Risi, 1977)

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Academic year: 2021

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La stanza del vescovo (Dino Risi, 1977) Di Andrea Mariani

Marco Maffei, che ha vissuto da esule in Svizzera durante il periodo bellico, trascorre il tempo navigando senza meta sul Lago Maggiore con una barca acquistata d'occasione. Su un molo viene avvicinato dall’eccentrico Temistocle Mario Orimbelli, in tenuta bianca coloniale, che lo invita nella propria villa sul lago. Qui conosce la moglie Cleofe, attempata e di ricca famiglia, e la cognata Matilde, presunta vedova del fratello di Cleofe, apparentemente morto in Abissinia. Marco è coinvolto nelle gite in barca dall'invadente Orimbelli, all’ostinata ricerca di evasioni: con questo si trova a dover condividere due disinibite amiche svizzere. Nonostante un crescente affetto apparentemente ricambiato per Matilde, parte con lei e Temistocle per un’escursione in barca: a questo infine la cede, convinto che siano amanti. Durante la notte trascorsa in un albergo sul lago a 18 km dalla villa di Temistocle, vengono avvisati che Cleofe è stata trovata annegata. Uno stratagemma di Temistocle fa sì che la versione del suicidio venga immediatamente avvalorata. Dopo qualche mese Orimbelli sposa Matilde e Marco continua a frequentarli. Improvvisamente, Antonio, fratello di Cleofe, allertato per la morte della sorella, ritorna dall’Africa, dove si era nascosto vinto dalla vergogna per aver subito un’evirazione durante il conflitto. L’insistente ricerca della verità di quest’ultimo, sostenuta dalla testimonianza del giovane Marco Maffei, convince il giudice a riaprire il caso e a provare l'assassinio compiuto da Temistocle. Questi s’impicca e Marco, dopo aver passato la notte con Matilde, finisce però per abbandonarla.

Piero Chiara, autore del romanzo cui il regista con gli sceneggiatori Benvenuti e De Bernardi hanno attinto, pensò proprio a Tognazzi nel concepire il personaggio di Temistocle Mario Orimbelli. Il film diventa dunque un monumento all’attore cremonese, perfettamente a suo agio nelle vesti del laido avvocato, cui pure dà forma e sentimento con estrema cautela, controllando sapientemente il proprio istrionismo. Gli anni settanta per Dino Risi, padrino della commedia all’italiana, sono il periodo di un’interessante svolta onirico-grottesca verso temi e storie dove può esplorare con eccessi spesso anche macabri la solitudine e la crisi esistenziale dell’individuo. Si tratta di una commedia profondamente diversa da quella degli anni Sessanta: in questi anni Risi dirige il seguito de I Mostri, che due lustri prima aveva ritratto il cinismo degli italiani e che invece ora, ne I nuovi mostri, li trasforma in esseri truci, privi di quello slancio vitale che pur li caratterizzava e scagionava. Nei film degli anni Settanta c’è magari tenerezza, maggior vicinanza affettiva nei confronti dei personaggi, ma non c’è perdono: le loro maschere mostrano inequivocabilmente le loro debolezze e le crudeltà. Sono personaggi irrimediabilmente corrotti dalla morte quelli di Profumo di donna (1974), Telefoni bianchi (1975), Anima persa (1976) e La stanza del vescovo (1977). Si tratta di storie dove la spasmodica ricerca di un’evasione vitalistica scade inevitabilmente nell’angoscia della tragedia, della morte, della disperazione. Così La stanza del vescovo è un film perfettamente diviso in due, con una prima parte dove i segni e i presagi di morte non riescono davvero ad intaccare lo sguardo ironico e beffardo e rimangono a quella distanza di sicurezza garantita dal ridicolo, e una seconda parte dove questi stessi presagi si materializzano fatalmente interrompendo qualsiasi pretesa fuga o evasione vitale, virando la quotidianità apparentemente spensierata e godereccia al cupo risvolto angoscioso

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della tragedia. Gli anni Settanta sono quelli in cui anche Ugo Tognazzi porta finalmente a maturazione il lungo e meticoloso lavoro di costruzione e studio della ripugnanza e mostruosità dell’uomo comune, italiano e quasi esclusivamente del nord industrializzato. Dopo le prove “esplorative” degli anni Sessanta (le prime grandi interpretazioni in Il federale (1961) e La voglia matta (1962), entrambi di Luciano Salce – il primo ad affidargli ruoli drammatici – quelle dove mette a punto la scrupolosa e puntigliosa costruzione delle debolezze e bassezze dell’italiano, negli anni Settanta Tognazzi punta direttamente e sfrenatamente alla mostruosità dell’individuo, colto nel pieno di una crisi esistenziale totale (in questo c’è una sintonia fortissima col percorso di Dino Risi). È una maturazione che emerge con forza nelle interpretazioni di Venga a prendere il caffè da noi (Alberto Lattuada, 1970), In nome del popolo italiano (Dino Risi, 1971), La proprietà non è più un furto (Elio Petri, 1973), La grande abbuffata (Marco Ferreri, 1973), Telefoni bianchi (Dino Risi, 1976) e soprattutto Cattivi pensieri (Ugo Tognazzi, 1976) di cui l’attore cura anche la regia, con esito discutibile sul piano stilistico, ma perfettamente coerente sul piano della ricerca di personaggi ripugnanti moralmente, ideologicamente, fisicamente e sessualmente. Temistocle Mario Orimbelli è un uomo di mezz’età ossessionato dalla fuga: dalla fuga da un matrimonio d’interesse che pare soffocarlo; dalla fuga da una villa sul lago che vede come una prigione e che lo condanna alla noia e alla ripetizione ossessiva di una vita svuotata; dalla fuga da una vecchiaia incombente e già visibile che lo espone al ridicolo; dalla fuga dalla morte e dalla visione dei morti. È un uomo ridicolo: coperto da un abito elegante bianco in ricordo, forse, dei fasti di quell’epoca coloniale nella quale si è rifugiato, nascondendosi per dieci anni: gli stessi fasti che lui conserva segretamente in un baule; è un uomo coperto da un costume da bagno palesemente e ostentatamente fuori moda, indossato forse più che per nostalgia per coprire la porzione maggiore possibile di un fisico che non regge il confronto con la gioventù, nonostante millanti un vigore e una virilità ostentata solo a parole; è un uomo le cui ossessioni erotiche e gastronomiche (il pube femminile – «il triangolo»: «la terra si misura a triangoli» pronuncia in un momento di lucidità quasi mistica – e la maionese) lo espongono a una voracità animalesca scomposta, sregolata, sgraziata e in buona sostanza ridicola: è un uomo fisicamente ed esteticamente fuori misura, fuori forma, fuori moda. È un uomo pericoloso: intrappolato nelle proprie ossessioni e privo di qualsiasi orizzonte morale è un uomo – le donne del racconto non smettono di ripeterlo – «capace di tutto». Tognazzi è probabilmente l’attore che più di altri in Italia ha saputo interpretare con intelligenza la mostruosità dell’uomo comune e denunciarne la pericolosità sociale. Orimbelli farà di tutto per coronare ostinatamente e ossessivamente il proprio piano di felicità, salvo rassegnarsi, alla fine, all’evidenza della propria inadeguatezza: ecco il senso della tragica scelta finale, d’impiccarsi alla “Condé” – per sottolineare, anche nel gesto estremo, la prosopopea del gusto scenico del personaggio – non per senso di colpa, né per l’accusa di omicidio, ma per il senso del ridicolo, per l’ossessione della risata sguaiata e incontrollata della moglie che smaschera la caricatura di un uomo. Ma Temistocle Mario Orimbelli è anche e soprattutto Ugo Tognazzi. Sue le ossessioni erotiche e gastronomiche, sue le conquiste amorose di gioventù, sua la tenerezza e la capacità di commozione sprigionate da un male di vivere che l’ultima parte della sua vita lo costrinse a subire e che condivise con l’amico Vittorio Gassmann. In questo risiede anche la capacità di Tognazzi – forse unica nel suo genere – di far coincidere nei suoi personaggi mostro e preda, vittima e carnefice nello scavo di personalità tra le più complesse, angosciose e labirintiche del nostro cinema.

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