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Da un'idea di infanzia all'educatore della prima infanzia : percorsi, riflessioni, prospettive

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Da un’idea di infanzia all’educatore della prima infanzia:

percorsi, riflessioni e prospettive

Elisabetta Madriz

Abstract – This paper is meant to reflect upon the early childhood educator, starting from the idea of childhood

itself, matured – not without difficulties – in the course of time to a cultural level. Early childhood services are the most recent newborn on the national territory and still suffer from a limited legislation, unable to follow the chang-es regarding the whole environment of welfare. In this framework and paying attention to the forthcoming socio-cultural scenarios, this essay aims at outlining the specific vocational figure of the early childhood educator, both at a theoretical and practical level.

Riassunto – Il contributo intende portare una riflessione sulla figura dell’educatore della prima infanzia, a partire dall’idea di essa che nel tempo faticosamente si è maturata a livello culturale. I servizi alla prima infanzia sono gli ultimi nati sul territorio nazionale e godono ancora di una legislazione ridotta, non in grado di accompagnare i cambiamenti che stanno riguardando l’intero ambito del welfare. In questo quadro e con un’attenzione agli sce-nari culturali e sociali che verranno, il contributo intende tracciare lo specifico professionale, teorico e pratico, dell’educatore della prima infanzia.

Keywords – early childhood educator, early childhood services, idea of childhood Parole chiave – educatore della prima infanzia, servizi alla prima infanzia, idea di infanzia

Elisabetta Madriz (Gorizia, 1973) è docente a contratto di Pedagogia generale presso l’Università degli Studi di Trieste (dove è tutor di tirocinio del Corso di Laurea in Scienze dell’educazione), di Pedagogia dell’infanzia pres-so l’Università di Verona e di Pedagogia della famiglia prespres-so l’Università di Pola (Croazia). Tra i suoi interessi di ricerca si annoverano il ruolo delle figure educative, professionali e non, e i nuovi scenari formativi. Tra le sue più recenti pubblicazioni: Prendere forma per dare forma. L’azione educativa professionale (Roma, Armando, 2011);

Le responsabilità smarrite. Crisi e assenze delle figure adulte (Milano, Unicopli, 2015, in coll. con M. Cornacchia).

1. Premessa

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puericultura, la pediatria spicciola e domiciliare; per non parlare di quanto i primi tempi della vita siano al centro di interessi di mercato, dagli ambiti dedicati al controllo della salute dei bambini a quello di prodotti ludici, di tecnologie e di alimentazione specifici per loro.

Questa pervasiva diffusione di un’idea di infanzia (o, come meglio vedremo, di una certa di idea di infanzia, non sempre di essa rispettosa) non risulta tuttavia sufficiente né tantomeno garante della creazione, dell’ideazione e della formalizzazione di luoghi di incontro e di sup-porto educativo per genitori e bambini di questa età. Dalla L. 1044/1971 ad oggi (quasi mezzo secolo, in fondo) la realizzazione di una cultura dell’infanzia ha vissuto tempi difficili, special-mente su di un fronte, quello che ci accingiamo a discutere in questo contributo, ovvero lo specifico identitario professionale di chi opera in questo settore.

È noto a tutti, e non sarà pertanto il caso di riprenderlo se non per brevi cenni, quale era lo scenario culturale che ha accompagnato l’emanazione di quella legge e soprattutto la nascita delle prime pionieristiche esperienze dei nidi di infanzia: questi ultimi, in controtendenza ad una storia codificata da caratterizzazioni custodialistiche ed assistenziali, andavano costruen-do un loro sapere pedagogico ex novo ed ex nihilo in vista di una chiara identità educativa di quel rinnovato servizio. Anzi, fu forse proprio la fatica di vivere la compresenza di nidi d’infan-zia (sulla base della L. 1044) e di nidi ex-ONMI1, a promuovere un assetto culturale che si

fa-ceva sempre più attento al tempo e al modo di sviluppo della persona del bambino e sempre meno preoccupato di quelle voci contrarie ad una precoce educazione fuori dalle mura dome-stiche. Questa nuova impresa culturale aveva come suoi punti fermi da un lato “la necessità di individuare e definire nuove coordinate per il servizio sulla base di una specifica pedagogia del nido”2 e dall’altro “l’esigenza di dare corpo ad un profilo professionale rinnovato, in sintonia

con la nuova fisionomia istituzionale e sociale che via via il servizio faceva propria”3.

L’istituzione del nido di infanzia, insomma, attivò processi culturali, ma anche scientifici, impe-gnati a dare uno statuto identitario corrispondente alla professionalità educativa ivi impiegata. Si ricordano, a tal proposito, le prime iniziative legate al Gruppo Nazionale Nidi e Infanzia, na-to nel 1980 per iniziativa di Loris Malaguzzi, finalizzate a dare voce, a coordinare e a mettere in relazione le innovative esperienze che si stavano realizzando in vari luoghi del Paese. L’im-pegno era quello di mettere in evidenza non tanto la singolarità dei diversi servizi, quanto piut-tosto i tratti comuni per tentare di delineare il gradiente pedagogicamente rilevante della loro operatività ed arrivare ad un contributo significativo in ordine alla definizione del ruolo profes-sionale che in essi operava.

Come afferma Bobbio “l’educatore è un soggetto che “si sporca le mani” con i costrutti e la fenomenologia della quotidianità […], con le rappresentazioni sociali e il senso comune, con i saperi caldi della cura di cui sono depositari genitori, nonni, amministratori, dirigenti. Tutti

in-1 L’Opera Nazionale Maternità ed Infanzia, fondata nel 1925 dal Regime Fascista, con lo scopo di tutelare le madri in difficoltà e i minori in situazioni disagiata, istituì i primi nidi di infanzia che avevano una funzione sanitaria ed assistenziale e rimasero in attività fino alla legge 1044/1971.

2 A. Infantino, Il lavoro educativo con la prima infanzia. Tra progetto pedagogico e scelte organizzative, Az-zano San Paolo, Edizioni Junior, 2008, p. 21.

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terlocutori che, prima di essere clienti, sono persone e cittadini”4. Per tutte queste ragioni,

ri-flettere nell’ottica della costruzione di uno specifico professionale della prima infanzia è compi-to complesso ma necessario, specialmente agendo affinché la diversificazione dei servizi non debba cedere il passo ad una loro qualità approssimata, anzi: i tempi sono ormai maturi per assumere la storia dei servizi all’infanzia come un punto fermo, come l’origine per le argomen-tazioni sullo specifico delle professionalità in essi implicate. Tale origine, legata a passaggi culturali difficoltosi ed ambivalenti per alcuni aspetti, non deve legittimare una deriva che ve-drebbe la figura dell’educatore come un qualsiasi operatore che risponda ai bisogni di una particolare fascia di età della vita. Al contrario, il lavoro educativo con la prima infanzia richie-de un fondamento antropologico particolarmente chiaro e richie-definito, non prescindibile in favore di un’operatività, pur definita routinaria, legata al delicato compito di cura educativa.

2. L’idea di prima infanzia

La prima domanda da porsi, allora, non riguarda tanto quali sono le competenze da acqui-sire per svolgere al meglio questa professione, ma quale sia la natura specifica dell’educando cui ci si rivolge nel proprio agire quotidiano. Innegabilmente, allora, la prima questione da af-frontare è di natura antropologica, assumendo che ogni discorso pedagogico non può che tro-vare il suo fondamento in una teoresi antropologica5.

Va innanzitutto evidenziato che diverse pubblicazioni dell’ultimo ventennio testimoniano il vivo interesse per una sorta di “antropologia dell’infanzia”, tesa a dare rilievo a questa partico-lare fase della vita, rilevandone la sua portata valoriale, grazie ad un’attenta e promettente in-terdisciplinarietà sui temi che la riguardano. Ulrich6, ad esempio, intende ed argomenta

l’infan-zia come una condizione che per alcuni elementi costitutivi si rivela proprio come il simbolo

della condizione umana. Scomparirebbe, in tal senso, quel permanere storico-concettuale che

vede infanzia e adultità come mondi contrapposti, come tempi dell’umano perennemente in antitesi, cifra di impossibilità, incompiutezza, limite, la prima; mentre tempo di possibilità, compiutezza e superamento, la seconda. La costante polarità (in quanto elemento di accom-pagnamento continuativo dello sviluppo del genere umano) tra “bambini” e “adulti” ha contras-segnato anche dolorosamente la nostra storia e, non da ultimo, è stata un potente deterrente allo sviluppo di una pedagogia dell’infanzia, scientifica e non semplicemente aneddotica.

Come sostiene Scurati, l’infanzia e l’adultità “non sono perfezioni in se stesse, ma condi-zioni reciproche di convivenza e di vita, da porre l’una sotto il contrassegno della

responsabili-4 A. Bobbio, Pedagogia dell’infanzia e cultura dell’educazione, Roma, Carocci, 2011, p. 9.

5 A puro titolo esemplificativo, segnaliamo alcuni saggi che ci paiono emblematici in tal senso: S. Leone, M. Lo Giudice, Maxima debetur puero reverentia. Una bioetica per la promozione dell’infanzia, Acireale, Istituto Sici-liano di Bioetica, 2002; S. Zamboni, Etica dell’infanzia. Questioni aperte, Roma, Lateran University Press, 2013; C. Nanni, Antropologia pedagogica, Roma, Las, 2002; C. Melzi, Antropologia pedagogica, Lecce, Pensa Multi-media, 2008; F. Ulrich, L’uomo come bambino. Per un’antropologia filosofica dell’infanzia, Roma, Las Editore, 2013.

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tà dell’altra. Alterare questo quadro significa complicare fino ai limiti dell’impossibilità una rela-zione che è già di per sé fra le più difficili”7. Ma di quale difficoltà stiamo parlando?

Probabil-mente questa difficoltà, assunta nei termini tutti contemporanei, della “fatica ad educare” e della “crisi dell’educazione” trova drammaticamente negli adulti la ragione della sua pervasivi-tà. Basterà qui solo accennare alle diverse immagini rappresentative del “mondo bambino” che circolano nell’attualità: dal bambino “angelo” al bambino “tiranno”, da quello “intelligente ma senza regole” a quello “libero di scegliere” perché solo così è possibile garantire il suo be-ne. In altre sedi8 ci siamo già occupati di indagare forme e ragioni di queste derive educative

che hanno alla base altrettante distorte immagini dell’infanzia, ma tanto basti a ribadire l’impegno serio che oggi la pedagogia dell’infanzia deve assumersi, prima di tutto, nella co-struzione di direzioni di studio e di ricerca che riportino a legittime ragioni di polarità l’infanzia e l’adultità.

Ancora sul finire degli anni ’90 Becchi rilevava la contraddizione principale relativa al mon-do dell’infanzia: ad un parlare impegnativo e quasi rimon-dondante “del monmon-do dei piccoli, della lo-ro esistenza, di come questi minuscoli personaggi dovrebbelo-ro essere, di come di fatto sono, di come non dovrebbero essere”9 è sempre più corrisposta invece una silenziosa assenza

del-la vera voce dell’infanzia, che trova posto solo “nel privato, nei rapporti tra pochi, intimidita nel-la sua stessa inettitudine, inabile a rintracciare rapporti verbali”10. Parlare diffusamente di

in-fanzia, quindi, legarla ad un tempo di vita esiguo e irrisorio rispetto ai tempi lunghi dell’odierna longevità umana, non significa conoscerla, averne identificato la natura specifica, ri-conoscerla per la portata contingente “di umanità” e non solo prospettica che essa ha assunto.

Il fondamento antropologico di una pedagogia dell’infanzia mira a riconoscere come “tale stagione della vita si avvale di una forma autonoma di esistenza, di una “pienezza” che va ri-conosciuta e promossa. Essa rappresenta un modo di esistere altro rispetto a quello adulto, con cui tuttavia è in profonda relazione. Per dar forma ad un’autentica cultura dell’infanzia, pertanto, bisogna riconoscerne l’irriducibile alterità, l’esistenza unica ma interrelata, il suo mondo complesso e poliedrico”11. Di questa complessità e poliedricità si stanno facendo

cari-co le numerose prospettive interdisciplinari che, dagli anni ’90 ad oggi, propongono un’imma-gine non solo scientificamente verificabile ma anche culturalmente assumibile del mondo in-fantile, che a livello concettuale risulta costituito da una duplice natura: “è un fatto biologico, con le sue scansioni, le sue criticità, la sua “lunghezza” (l’infanzia dell’uomo è la più estesa tra le diverse specie animali) ma è anche un fenomeno culturale: si è bambini sempre in senso differenziale, rispetto a chi non lo è più e rispetto ad una serie di norme di inculturazione che ascrivono all’infanzia alcune prerogative precludendone altre”12. È importante ritrovare in

que-7 C. Scurati, Tra presente e futuro. Analisi e riflessioni di pedagogia, Brescia, La Scuola, 2001, p. 16. 8 Cfr. M. Cornacchia, E. Madriz, Le responsabilità smarrite. Crisi e assenze delle figure adulte, Milano, Uni-copli, 2015.

9 E. Becchi, Chi è il bambino?, in D. Lodi, L. Micali Baratelli, Una cultura dell’infanzia. Contributi per la società di domani, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1997, p. 21.

10 Ivi.

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sto differenziale il senso della responsabilità nei confronti dell’infanzia, che non è meramente l’impegno ad avere cura circoscritta di essa, ma soprattutto quello di un ripensamento del suo statuto (si veda a tal proposito il posto che l’infanzia via via ha acquisito nelle importanti do-cumentazioni internazionali ma anche europee), delle sue potenzialità, delle promesse che la abitano e che dipendono strettamente dalla nostra capacità e volontà di custodirle, preservarle, promuoverle.

Allora per “gettare le basi di una rinnovata cultura dell’infanzia è auspicabile una conside-razione particolare da parte dell’uomo nei confronti della sua esistenza. Nell’immagine dell’infanzia è custodita l’intuizione che si possiede rispetto all’umanità e al suo futuro, poiché i bambini ne costituiscono l’anello dinamico, in quanto soggetti intrinsecamente in divenire e aperti ad esperienze formative. L’accostamento all’universo infantile, sostanzialmente, reca con sé quesiti di natura ontologica, riporta al senso dell’uomo e dell’esistere umano. Nel di-spiegarsi del proprio percorso esistenziale alla ricerca del senso, l’uomo si pone con tutto se stesso e con la sua storia: con ciò che è e con ciò che è stato. Per il solo fatto di essere stati bambini, l’infanzia abita in noi. Essa è parte costitutiva del nostro esistere”13.

3. L’educazione della prima infanzia oggi

Fatta questa premessa antropologica, necessaria al quadro generale in cui si inserisce il discorso legato alla professionalità, veniamo ora a tratteggiare lo specifico dell’agire educativo “per/con” la prima infanzia. La precisazione grammaticale relativa alle due preposizioni non è casuale, né di banale evidenza operativa: essa diviene un pretesto sufficiente per chiarire il passaggio epocale che l’istituzione dei nidi di infanzia ha costituito nei termini di un agire in-tenzionalmente educativo. Se il lavoro “per” la prima infanzia indica un insieme di pratiche (ma anche di teorie, di ricerca, di progetti) volte ad avere cura educativamente delle nuove gene-razioni, l’accostamento alla preposizione “con” ribadisce la matrice fondamentalmente relazio-nale e reciproca di quell’agire di cura. Tale dimensione relaziorelazio-nale non chiama in causa solo il piano della quotidianità delle pratiche educative ma, secondo recenti orientamenti internazio-nali diviene monito ed impegno a “dare voce” attiva all’infanzia, secondo quello statuto specifi-co che essa ha e che deve essere non solo rispecifi-conosciuto ma anche promosso.

Una prospettiva particolarmente interessante e feconda, a tal proposito, ci pare essere quella di Clark e Moss, denominata “approccio a mosaico”. Nata da “alcuni primi studi empirici finalizzati ad ascoltare la voce dei bambini a proposito dei servizi per la prima infanzia da essi frequentati”14, oggi questa modalità di intervento assume particolare spendibilità quando

pos-sa ancorarsi “dentro una progettazione educativa volta a centrare le proprie priorità su certe dimensioni – tra cui le relazioni tra pari, quelle tra servizi e famiglie, l’inclusione dei bisogni educativi speciali e delle situazioni di diversità, marginalità e vulnerabilità, la collegialità del

13 M. Amadini, Op. cit., p. 9.

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gruppo di lavoro, la partecipazione della comunità – al fine di promuovere l’ascolto dei bambini, da un lato, e la partecipazione collettiva a un progetto di educazione all’infanzia, dall’altro”15.

Due riflessioni importanti scaturiscono dalla logica implicita in questo approccio: la prima è legata alla continuità del binario “operatività-ricerca” come modus operandi proprio del lavoro educativo 0-3, ancora più imprescindibile oggi, rispetto a scenari anche di poco lontani; la se-conda, è quella attualissima che riassumiamo con la parole di Milani, per cui “educare è trop-po difficile, è un compito che non soptrop-porta più la solitudine”16, e necessita pertanto di forme di

reciproco coinvolgimento tra servizi, famiglia, comunità, istituzioni. Soffermiamoci primaria-mente su questa ultima riflessione, che avvalora, a nostro avviso, le ragioni per cui le due po-sizioni “per/con” siano sostanzialmente interconnesse: il lavoro educativo con bambini da 0 a 3 anni non è una semplice applicazione pratica delle buone norme della puericultura. Se met-tiamo a confronto anche soltanto i luoghi educativi della prima infanzia all’indomani della L. 1044 e quelli odierni, le consistenti differenze non vengono solo dalle pratiche: anzi, le prati-che rappresentano soltanto la parte più visibile e nel contempo meno “stabile” dei cambiamen-ti che hanno riguardato questo universo educacambiamen-tivo. Descrive accuratamente la situazione For-tunati, quando afferma che “lo sviluppo non sempre ordinato delle esperienze di gestione di servizi educativi per la prima infanzia ha condotto, negli ultimi venti anni, a rendere il sistema dei servizi caratterizzato da elementi di crescente complessità. Da una parte, la diversificazio-ne delle tipologie dei servizi educativi – con l’affiancamento al nido dei cosiddetti servizi inte-grativi – e dall’altra parte la diversificazione dei soggetti coinvolti nella gestione dei servizi rappresentano oggi un dato di realtà che chiama alla necessità di una cultura di governo del sistema che richiede senza dubbio di essere sviluppata maggiormente anche nelle realtà più avanzate”17. Una cultura di governo non può, a nostro avviso, non prendere l’avvio da una

cul-tura della prima infanzia come luogo di saperi, di pratiche, di relazioni, di scoperte, di cono-scenze, condiviso e promosso da tutti coloro che ne sono, in qualche forma, implicati.

La complessità odierna, in vero tratto caratteristico della contemporaneità e non più con-tingente come si è voluto credere (o sperare) per diverso tempo, impone forme coordinate e congiunte di educazione, non concede più spazio a territori separati e divisi ove ciascuna au-torità possa esercitare il suo soggettivo governo regolativo della crescita dei piccoli. Si pensi anche solo al fatto che i servizi alla prima infanzia hanno oggi, tra le loro finalità generali, quel-la di costituirsi come luoghi di supporto alquel-la genitorialità, di promozione di modalità educative rispettose della multiculturalità, di situazioni comunitarie abitate contemporaneamente da edu-catori, bambini, famiglie, istituzioni, territorio. Siamo lontani (e il percorso per arrivare fin qui non è molto consistente dal punto di vista cronologico ma lo è, invece, dal punto di vista cultu-rale) da quei nidi di infanzia che vedevano nella soglia o nel corridoio d’entrata l’unico punto di contatto tra la vita interna del servizio e il resto del mondo da tenere fuori, prima fra tutti la fa-miglia. Il faticoso e continuativo percorso di rinnovamento ha portato alla costituzione di luoghi

15 Ivi, p. 12.

16 Milani P., Co-educare i bambini, Lecce, Pensa MultiMedia, 2008, p. 9.

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di fattivo incontro e di condivisione dell’educazione dei piccoli, pensabili come spazi di relazio-ne e di crescita (ciascuno con il suo ruolo e con il suo mandato) per tutti, come modalità di ri-sposta sempre più attuale ma anche temporaneamente “provvisoria” ai bisogni dei bambini e delle loro famiglie. Questa duplice dimensione di cura (dei bambini e delle famiglie) non è cer-to una novità nella scer-toria dell’infanzia e della riflessione scientifica su di essa: già Bowlby ci aveva messo in allarme sulla pericolosità di questa separazione, o meglio della negligenza nei confronti di uno dei protagonisti della relazione familiare. Egli rilevava, in uno dei saggi18 che

costituiscono il fondamento del suo pensiero, come l’impegno educativo nei confronti delle nuove generazioni fosse un impegno plurale, che dovesse avere al centro della cura non solo i bambini, ma anche primariamente chi si prende cura di loro, ovvero i genitori. Se in un tempo passato, la famiglia in cui nasceva un piccolo era messa al centro della cura comunitaria e i familiari più stretti si occupavano di dare i supporti necessari a questo importante momento di crescita e sviluppo del nucleo familiare, al tempo dell’Autore questa presenza comunitaria e familiare di supporto era già in qualche modo venuta meno, e si iniziava ad assistere a feno-meni di solitudine della nuova coppia, di scarsi supporti compensativi da parte delle politiche del welfare, di una diffusa percezione di quanto ciò impoverisse la società, nella sua valenza politica oltre che economica.

L’educazione della prima infanzia, oggi specialmente, non tollera più separazioni e discon-tinuità tra ambito familiare e ambito dei servizi: il rinnovato impegno nella realizzazione di pro-poste di qualità non può che passare attraverso modalità comunitarie, di gestione e di parteci-pazione, in vista di una reciproca cura, di un reciproco impegno, di una comune direzione di valore. E qui si inserisce quella seconda implicazione che l’approccio a mosaico ci suggeriva in apertura di paragrafo: la dimensione del nesso “operatività-ricerca”, che è stata un tratto ca-ratteristico di tutta quella letteratura specifica di ambito pedagogico dell’infanzia che si è pro-dotta a partire dai primi anni ’80.

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miglie, ridurrebbe la questione a termini non solo scorretti, ma semplificativi di una realtà che, nonostante le evidenti fatiche, contiene in sé propositi di avanzamento sociale in senso allar-gato, che raccolgono eredità pedagogiche di lunga data e, per fortuna, di lunga durata. Di lun-ga data, perché l’educazione di oggi cerca le sue radici nella dimensione di praticità della scienza pedagogica (in quanto tratto epistemologico costitutivo), trova la sua genesi nell’in-contro reale con le situazioni, i contesti, le relazioni, le problematiche, le possibilità di trasfor-mazione che lo scenario educativo contempla. E di lunga durata, proprio a ribadire come l’im-plicito pedagogico sia costituito dalla necessità di fare ricerca e legittimi uno dei tratti caratteri-stici dell’educatore (soprattutto della prima infanzia): l’essere uno scienziato. Con tale appella-tivo, non ci riferiamo soltanto alle molteplici possibilità di sperimentazione che il lavoro con la prima infanzia consente, ma sollecitiamo invece una riflessione sul senso proprio di una ade-sione scientifica all’educazione, piuttosto che romantica, artistica, improvvisata.

Ad una antropologia della prima infanzia, così come l’abbiamo, seppur brevemente, trac-ciata nel secondo paragrafo, deve corrispondere una pedagogia fondata rigorosamente, che metta al centro della riflessione il bambino e il suo percorso di crescita, ma lo assuma secon-do un orientamento alla pratica che non si esaurisce nell’accudimento, ma che si fonda su un agire educativo intenzionale, rigoroso, progettato, pensato entro una cornice di servizio che promuove i diritti dei bambini e contribuisce quotidianamente alla realizzazione di una vera cultura dell’infanzia. Come sostiene Amadini, la riflessione “espressa dalla domanda ‘chi è il bambino’ si deve sempre sviluppare entro una visione integrata e sistemica del divenire uma-no”19 a partire dalla quale sviluppare un’idea di educazione come progressivo

accompagna-mento alla realizzazione della persona, secondo i tratti della sua originalità entro un contesto che proprio il processo educativo deve governare attraverso la progettazione, nelle sue diver-se forme.

4. L’educatore della prima infanzia

“Quali attenzioni attivare nel rispetto dei bisogni di stabilità emotiva e relazionale dei bam-bini, come sostenere la spontanea interazione tra bambam-bini, quale ruolo prevedere per l’educatrice? Come ‘stare’ con i bambini? […] Ma soprattutto quali sono i bisogni di un bambi-no molto piccolo? Quali attenzioni relazionali devobambi-no essere messe in atto dalle educatrici per accogliere un bambino in un ambiente per lui nuovo, non familiare, come il nido?”20. Sono

queste le domande che hanno sostanziato la tradizione, l’innovazione, la crescita e la cultura dei servizi per la prima infanzia e delle professionalità in essi implicate. Ci pare d’obbligo ri-cordare, infatti, che tali servizi non si reggono solo sulla figura degli educatori, ma anche su al-tre professionalità che, a vario titolo, si spendono al loro interno per garantire una risposta adeguata ai bisogni delle famiglie e dei bambini.

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La professionalità degli educatori è uno degli ambiti più cari ai soggetti gestori per la preci-sa volontà di “individuare nella formazione e nella professionalità del personale […] un indica-tore che segni la qualità della prestazione offerta, in larga parte rappresentata da competenze relazionali elevate ed etero dirette, da capacità organizzative e gestionali, da attitudini a rico-noscere ed individuare in tempi brevi la natura di un problema al quale dare risposte adeguate, per lo meno contestuali al momento in cui il problema si pone”21. I servizi per la prima infanzia

in Italia accolgono oggi bambini di età compresa tra 3 e 36 mesi. Altri paesi europei hanno storicamente compiuto scelte diverse, legate a politiche di welfare che riconoscono il valore della maternità sotto altre forme e con altri tipi di tutele.

Condivisibili o meno che siano queste scelte, l’educatore si trova ad accogliere, una matti-na di settembre alla riapertura del servizio, umatti-na diade particolarmente fragile, costituita da umatti-na madre e un bambino che può avere dai tre mesi in poi: 90 giorni di vita, la promessa di un’esistenza dentro un progetto di vita che respira, nella sua fisiologica umanità, da solo 90 giorni. La fragilità che va assunta ed accolta nel contesto educativo non è data tanto da circo-stanze, pur legittime ed importanti, legate alla salute fisica del bambino, quanto più da quella particolare ed insostituibile relazione che lega una madre al suo piccolo, da ben prima della nascita fino poi a quell’istante particolare dell’inserimento/ambientamento al nido e più in su, a tutte le altre “fisiologiche” situazioni di distacco che la vita presenterà. Accogliere quel bambi-no significa far posto, entro le proprie competenze spese nella specificità di quel servizio edu-cativo, ad una famiglia intera, alla sua cultura, alla sua storia, alle sue fatiche, alle sue risorse. E questo apre ad una dimensione educativa tutt’altro che semplice, scontata, routinaria, co-moda. Da questo dato di fatto è necessario prendere le mosse per discutere dell’identità dell’educatore che lavora con la prima infanzia, tenendo conto che il nostro Paese andrà alli-neandosi, a breve, con molti altri paesi europei nella creazione di un sistema integrato di edu-cazione e di istruzione per la fascia 0-6 anni. Resterà, ad ogni buon conto, ferma la figura di un educatore in possesso della formazione universitaria (cosa che al momento non è unifor-mata sul territorio, essendo tali servizi di competenza delle Regioni), diversa e distinta da quella per l’insegnamento nella scuola dell’infanzia, con alcune specifiche competenze che in chiusura del contributo cerchiamo di evidenziare, in conseguenza di quanto detto fin qui.

La professionalità dell’educatore della prima infanzia “ha, in effetti, un suo carattere com-plesso e una identità che deve essere ancora compiutamente definita e socialmente accettata, visto che – tradizionalmente – essa è stata avvicinata, se non, in qualche modo, assimilata al-la figura materna”22. Per lungo tempo la predisposizione naturale ad educare, tipica della

ma-dre, è stata ritenuta condizione sufficiente per svolgere questo compito educativo e un rinno-vamento in questo senso è davvero recente, tale che scegliamo di utilizzare il termine di

edu-catore della prima infanzia, ribadendo la non sufficienza (né garanzia) del genere femminile

all’esercizio della professione e, inoltre, constatando una recente e sempre più ampia diffusio-ne di educatori maschi operanti diffusio-nei servizi dedicati.

21 S. Benedetti, Il mestiere dell’educatrice tra il sapere e il saper fare, in A. L. Galardini (a cura di), Crescere al nido, Roma, Carocci, 2012, p. 125.

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A partire da questa considerazione non secondaria, rispetto all’ambito competenziale e al suo sviluppo nel tempo, va rilevato che “proprio l’espansione la progressiva articolazione e sperimentazione di nuove esperienze educative all’interno del nido hanno reso possibile il consolidarsi di un sapere specifico sulla prima infanzia e la progressiva definizione del titolo professionale dell’educatrice, orientato sempre più chiaramente ad un lavoro educativo con i bambini molto piccoli e con le loro famiglie”23.

La triangolazione della relazione educativa (educatore-bambino/famiglia-colleghi) ci pare il tratto distintivo di questa professione: una comunità infantile che non si articoli realmente se-condo tali versanti relazionali, rischia di essere un luogo assistenziale che niente ha a che ve-dere con l’educazione, che attraverso risposte standard soddisfa dei bisogni pur legittimi, tra-lasciando anche quell’impegno culturale diffuso di sviluppo comunitario di cui, in definitiva, ogni servizio educativo si deve fare carico.

Benedetti assume come fondante della professionalità questa costitutiva tripartizione rela-zionale e la sviluppa parlando di competenze che l’educatore spende24:

– in relazione ai bambini: attraverso gli scambi quotidiani, la vicinanza, l’osservazione, il tono e la punteggiatura che qualifica le azioni di cura, che mai debbono ridursi in routinaria ri-petizione di azioni (il gioco, il cambio, il pranzo, il riposo…) ma debbono riconoscersi per la portata intenzionale dell’agire educativo, il cui fine è sempre la realizzazione unica e singolare del bambino;

– in relazione alle famiglie: già Brazelton sosteneva che “il bambino ce la farà se ce la fa-ranno i suoi genitori”25 e tale affermazione risulta un monito per chi lavora con l’infanzia, in

quanto ribadisce come l’inserimento di un bambino piccolo in una comunità infantile necessiti prima di tutto di una relazione di accettazione e di scambio con la sua famiglia, attraverso un fiduciario affidamento del piccolo al personale che in quella struttura opera;

– nel rapporto con i colleghi: la dimensione comunitaria (piccola o grande, dalle situazioni di nidi integrati alla scuola dell’infanzia, alle piccole realtà di servizi domiciliari che accolgono un massimo di 5 bambini) prevede che gli attori siano plurimi, ciascuno con un suo ruolo defi-nito, finalizzato ad una armoniosa cooperazione non solo a livello organizzativo ma soprattutto relazionale. È infatti indispensabile che la comunità di lavoro sia dedicata ad una cura

educa-tiva dell’intero contesto, che risulti una struttura solida ed accogliente dal punto di vista della fi-losofia del servizio per poter poi riversare questi importanti a-priori nelle scelte organizzative,

metodologiche, pratiche.

Questi tre grandi ambiti relazionali che identificano lo specifico dell’educatore della prima infanzia, necessitano di un completamento competenziale, che troviamo ben sinteticamente espresso da Fortunati26.

L’Autore parla, infatti, di:

1) competenze culturali e psico-pedagogiche; 23 A. Infantino, Op. cit., p. 22.

24 S. Benedetti, Op. cit., p. 125.

25 B. T. Brazelton, Il bambino a zero a tre anni. Guida allo sviluppo fisico, emotivo e comportamentale del bambino, Milano, Fabbri, 2003, p. 411.

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2) competenze tecnico-professionali; 3) competenze metodologiche e didattiche; 4) competenze relazionali;

5) competenze riflessive.

In merito alle prime tre, ci limitiamo soltanto a dire che esse dovrebbero scaturire come esito di un percorso formativo accademico ben delineato (in molti atenei è attivo già da diversi anni il corso di laurea, interno a Scienze dell’educazione, per gli educatori dei servizi all’infan-zia), giacché come esprime lo stesso Fortunati, è importante che gli operatori reperiscano nel sapere scientifico “un riconoscimento identitario che dovrebbe rafforzare la loro immagine so-ciale”27, ancora oggi, molto spesso, sbiadita e confusa. Se rispetto le competenze relazionali

già si detto riconoscendo la priorità della tripartizione in cui esse si esplicano (relazione con bambini, genitori, colleghi), qualche parola va ancora spesa nei termini della riflessività. Il con-cetto è, ormai, consuetamente accolto come fondante la professionalità in ogni settore educa-tivo, ma la particolare declinazione che in questo contesto esso assume merita un’attenzione dedicata.

L’esercizio di riflessività (in quanto capacità di analisi delle attività condotte sulla base della progettazione educativa, dei loro esiti, della loro valutazione) chiama in causa l’unitarietà delle équipe di lavoro relativamente a quanto dichiarato nella progettazione pedagogica del servizio, e quindi nelle esplicita adesione valoriale in essa contenuta, rispetto alla fascia d’età cui il ser-vizio si rivolge. La conoscenza del bambino da 0 a 3 anni, con le importanti differenze che ciascuna delle fasi di crescita internamente comporta, deve orientare intenzionalmente l’at-tività educativa, ovvero garantire che le disposizioni caratteristiche di ciascuna tappa evolutiva vengano assunte a finalità nel progetto pedagogico e successivamente possano misurarsi con la realtà contestuale attraverso la predisposizione di obiettivi educativi, calibrati, raggiungibili e capaci di significare il percorso di sviluppo di ogni bambino. La riflessività, insomma, non ha a che fare con una valutazione narrativa e soggettiva del percorso di vita di ogni bambino, ma si pone invece su un versante deontologico, rispetto al quale l’intero gruppo di lavoro si trova impegnato a valutare gli esiti del percorso educativo proposto e realizzato: il lavoro educativo con la prima infanzia, dunque, comporta degli obblighi etici nei confronti dei bambini e della lo-ro realizzazione come persone.

Chiudiamo in qualche modo il cerchio, rispetto a quanto detto in apertura di contributo, con questo ultimo pensiero. Se è da un’idea di persona che bisogna prendere le mosse per edu-care i bambini molto piccoli, è su questa stessa idea di persona che vanno valutati gli inter-venti educativi. La professionalità educativa implicata nei servizi alla prima infanzia svolge un ruolo complesso e faticoso, impegnato a “parlare di libertà, di singolarità di valore personale dell’uomo, e necessariamente anche del bambino, orientando la sua educazione al conse-guimento della propria singolare forma di umanità”28. È anche grazie alla professionalità

edu-cativa che possiamo oggi parlare di una nuova cultura dell’infanzia: “perché l’infanzia esista,

27 Ivi, p. 105.

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non bastano i bambini a garantirla. Ci vuole un’idea, perché senza un’idea di infanzia, l’infan-zia non c’è”29.

5. Bibliografia di riferimento

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Brazelton B. T., Il bambino a zero a tre anni. Guida allo sviluppo fisico, emotivo e

compor-tamentale del bambino, Milano, Fabbri, 2003

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Dalle Fratte G. (a cura di), L’agire educativo. Ragioni, contesti, teorie, Roma, Armando, 1995

Fortunati A. (a cura di), Il sistema integrato dei servizi educativi per la prima infanzia, Az-zano San Paolo, Edizioni Junior, 2009

Galardini A. L. (a cura di), Crescere al nido, Roma, Carocci, 2012

Infantino A., Il lavoro educativo con la prima infanzia. Tra progetto pedagogico e scelte

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Scurati C., Volti dell’educazione, Brescia, La Scuola, 1996

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Received February 15, 2016 Revision received February 22, 2016 Accepted March 9, 2016

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