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Quando re Berah ancora felicemente regnava su Sodoma e sulle altre

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Academic year: 2022

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Q

uando re Berah ancora felicemente regnava su Sodoma e sulle altre cinque fiorenti città nella gran valla dei Siddim, adunò un giorno intorno a sé tutta la sua corte e i suoi vari amici. Voleva infatti potersi allietare con loro ascoltando belle storie e racconti avvincenti narrati con buon gusto da novellieri del paese o di terre vicine.

V

enne per primo davanti a loro un cantore cananeo di mezz’età, piuttosto ben in carne, che a lungo descrisse mestamente le sue solitudini, le insicu- rezze che lo laceravano, il suo desolante senso di isolamento tra gli uomini, il suo sentirsi diverso dagli altri e quindi infelice. Parlò con intensità e per molto tempo, di tanto in tanto toccando professionalmente la cetra con le sue eleganti dita grassocce. Quando finì, re Berah gli fece dare due monete d’argento e subito lo esiliò nel gran deserto di Edom, dove in solitudine avrebbe potuto sfogarsi a cantare tutta la sua infelicità agli scorpioni del luogo e agli asini selvaggi.

S

i presentò allora un noto buffone fenicio, che si mise a far sberleffi e boc- cacce mentre recitava un poemetto licenziosamente scurrile, citando a ogni pié sospinto il nome di anatomie sia maschili che femminili, come pure det-

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tagli di congiungimenti carnali di tipo vario. Per cercare di far ancora più ridere, alzava poi le vesti e mostrava a tutti la sue parti intime senza molti rossori. Ben presto il re e suoi cortigiani si stancarono di tale svergognatezza e, senza dargli neppure un denaro di compenso, fecero portare il buffone fenicio nelle cucine del palazzo affinché i cuochi e gli sguatteri lo inforcas- sero per bene con i loro lunghi spiedi di bronzo.

A

lui seguirono due angeli del Signore, piuttosto avvenenti e con un por- tamento radioso. In verità erano venuti a Sodoma per portare un messaggio a un certo Lot nipote di Abramo, che solo da poco s’era insediato in città con le figlie. Tuttavia, sentito del bando di re Berah, avevano di comune accordo deciso di venire a palazzo per raccontare le loro storie. Ciò che avevan da dire sarebbe stato anche piacevole e divertente, ma tanto sgrammaticata era la loro esposizione, tanto ingarbugliate le interpunzioni, tanto sbagliate le pause e in genere il tono del loro dire, che ogni divertimento si perse. Tuttavia re Berah non li punì per la loro inescusabile sciatteria perché, avendo notato che erano entrambi vigorosi e giovanili d’aspetto, volle che si fermassero quella sera a palazzo per poterli conoscere meglio dopo cena.

F

u infine la volta di un giovane moabita, pallido e trasandato anche nelle vesti, e costui iniziò a narrare dettagliatamente la lunga e penosa morte del suo più caro amico, colpito dalla severa dea della Luna con un morbo oscuro e inguaribile. Singhiozzava, il poveretto, nel ricordare tutti i tor- menti, tutte le angosce che insieme avevano patito e il lungo tempo di quella agonia. Re Berah e la sua corte ascoltarono con mesta compunzione e alla fine fecero dare al giovane moabita una manciata di monetine d’oro e lo mandarono in fretta ai vicini pozzi di catrame ribollente, dove la buona dea Astaroth di solito guariva quasi tutte le piaghe del corpo e dello spirito.

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S

i corrucciò allora il re Berah e disse con voce aspra: “E’ mai possibile che non vi sia nessuno sotto il sole di questo paese che sappia raccontare delle novelle piacevoli, divertenti e, perché no, anche stuzzicanti, ma soprattutto ben congegnate e ben presentate, per allietare il re di Sodoma e la sua gente? Possiamo forse io e i miei nobili amici dilettarci ascoltando le solite miserie altrui, immaginarie o genuine che siano, oppure gli strafalcioni di qualche angelico presuntuoso o, ancor peggio, i lazzi a lungo andare poco salaci di un poveraccio di buffone che dimena le sue mani tra le gambe a mò di campana?” E così dicendo sbuffò d’ira e di dispetto.

P

er caso davanti al suo trono era presente il vecchio indovino Tripeleph col suo bastone ricurvo e il suo cane parlante. Fattosi coraggio, costui s’avanzò, si inchinò profondamente e parlò in questo modo: “La maestà del mio re non disperi né il suo animo si turbi eccessivamente, perché v’è di sicuro una persona che può aiutarlo in ciò che il suo cuore desidera. Costui è il grande profeta Barakim, che vive solitario in cima alla Montagna delle Mille Lire, nella contrada ancora selvaggia di Stampa Alternativa, al di là dal fiume. Rivolgiamoci a lui, o mio signore, che ha già fatto altri miracoli. Lui di certo saprà cosa fare per noi.”

O

ra il Profeta Barakim era un uomo molto magro e dalla barba sempre ar- ruffata. Dalla sua testa spuntavano due vibranti fasci di viva luce, simili a due minuscole corna mosaiche, segno di intelligenza nativa e del favore de- gli dei. Viveva tutto solo in cima a una grande montagna piena di scritti im- pervi e di gole profonde, lavorando incessantemente a produrre piccoli testi sacri. Due vecchie cornacchie gli portavano ogni mattina sul tardi due pani

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da mangiare e un po’ di affettato. Nient’altro. Per bere attingeva acqua di fonte. Quando davanti a lui arrivarono l’indovino Tripeleph con il suo ba- stone e il suo cane, accompagnato dal re di Sodoma e dalla sua corte - saliti su per il monte con un certo affanno, perché avevano tutti qualche chilo di troppo, chi qua e chi là - il profeta Barakim prima li maledisse, perché erano peccatori, poi, ascoltate le loro richieste, disse: “Si può fare!” E fu così che, dall’alto della Montagna delle Mille Lire, nell’indomita contrada di Stampa Alternativa al di là dal fiume, fu lanciato un appello a tutte le tribù del pa- ese e l’appello diceva:

Chiunque di voi sappia narrare, senza errori, strafalcioni o sciatterie, dei brevi racconti simpatici e gustosi che siano in grado di destare la gioia nei cuori della gente di Sodoma e del loro re, senza però turbarli con le solite lacrimevoli miserie, genuine o presunte, né con oscenità pornografiche del tutto gratuite, ebbene costoro rispondano all’appello, chiunque essi siano, e inviino i loro testi per esser letti e giudicati. Ecco, io nomino giudice sopra di essi il buon Tripeleph, qui presente. E il testo che a suo insindacabile giudizio verrà preferito tra tutti, io di sicuro lo farò inscrivere in uno dei miei volumetti da mille lire cadauno. E se per caso più d’uno tra i raccontini che verranno inviati si distinguerà per eccellenza e non si possa scegliere facilmente tra questi per via della loro qualità, ebbene in tal caso io arriverei forse a pubblicarne più d’uno, anche se fossero cinque come le dita di una mano, in modo che tutto il paese ne goda. Non è detto però che ciò avvenga. E ogni testo non sia superiore alle sessanta cartelle, e ogni cartella abbia trenta righe e ogni riga trenta battute, altrimenti verrà scartato e messo da parte, come il loglio dal grano. E che siano tutti inviati prima della fine dell’anno.”

C

osì disse e stese la mano sopra l’intero paese. E le genti tutte l’udirono, dal mezzogiorno al settentrione, anche gli abitanti delle isole nel mare che ci sentivano poco da quell’orecchio. E in molti ne furono colpiti, tanto che de- cisero di inviare anch’essi un loro testo breve ma divertente che avevano scritto a tempo perso. Da quel giorno le cornacchie, oltre al pane e all’affettato, portarono quotidianamente ai piedi del profeta pacchi e pac- chetti di manoscritti piccoli e grandi. Ed egli, con Tripeleph dal bastone ri-

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curvo, insieme dovettero leggerseli tutti, uno per uno, scartando solo quelli più lunghi di sessanta cartelle di trenta righe di trenta battute, come aveva detto il profeta. E i migliori racconti tra di essi, quelli più avvincenti e scritti con maggior proprietà, furono posati per bene, uno sull’altro, alla loro de- stra, mentre tutti gli altri furono ammucchiati alla loro sinistra. Alla fine fe- cero scegliere al cane...

Fin qui il racconto apocrifo dal Libro dei Libri

Ma se vuoi saperne di più su questa storia,

ora voltami e aprimi bene!

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