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Patrizia Lemma Dipartimento di Sanità Pubblica Università di Torino

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Academic year: 2022

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Promozione della salute

Patrizia Lemma – Dipartimento di Sanità Pubblica Università di Torino

L’

inadeguatezza delle definizioni

L’espressione “promozione della salute” viene ufficialmente coniata nel 1974 nel documento citato come il Rapporto Lalonde. Marc Lalonde, Ministro della Salute e dell’Assistenza del governo canadese, in apertura di questo famoso documento sottolineava come, a fronte di un cospicuo incremento dei fondi forniti ai servizi sanitari rivolti alla cura delle malattie, non si fossero rilevati nel Paese sostanziali incrementi nei livelli di salute della popolazione. Proponeva quindi di aprire nuove prospettive nell’impegno dei fondi pubblici che da quel momento avrebbero dovuto sostenere maggiormente quegli interventi, definiti appunto di promozione della salute, in grado di estendere il loro raggio di azione al complesso dei fattori che influenzano la salute.

A partire dai primi anni Ottanta l’espressione comincia poi a venir utilizzata anche dall’Organizzazione mondiale della sanità, che promulga la Carta d’Ottawa (Who, 1986), dove la promozione della salute è definita come il processo che mette in grado le persone di aumentare il controllo sulla propria salute e di migliorarla. Attraverso questo documento, spesso citato ma i cui contenuti vengono altrettanto frequentemente dimenticati, viene sancito che l’incremento dei livelli di salute di una comunità è obiettivo che deve essere perseguito attivamente svolgendo azioni di “advocacy”, cioè di sostegno alle popolazioni perché queste possano affermare il loro diritto alla salute. Tali azioni presuppongono la messa in atto di politiche pubbliche per la salute che, attraverso l’impegno economico, le misure legislative e fiscali e i cambiamenti organizzativi, creino ambienti ecologici in grado di favorire la salute. Un concetto di salute che, abbracciando un punto di vista olistico, viene proposto come uno stato positivo il cui miglioramento deve saldamente poggiare su alcuni requisiti fondamentali: la pace, un reddito, cibo e abitazione, un ecosistema stabile, giustizia ed equità. Nel documento si dichiara inoltre che per condurre una comunità verso una migliore salute ed una maggiore equità, affianco alla costruzione degli ambienti favorevoli alle scelte salutari, è necessario sviluppare le capacità personali utili alla vita quotidiana e rafforzare l’azione delle comunità. Strategie queste che debbono essere implementate contemporaneamente: senza i supporti ambientali, economici, politici e organizzativi, necessari per ottenere il cambiamento sociale, le azioni di educazione alla salute e di supporto alla mobilizzazione sociale sono infatti impotenti nell’aiutare individui e comunità a raggiungere obiettivi di salute; d’altro canto senza l’impegno di un approccio educativo e partecipato la promozione della salute si riduce ad un’impresa di manipolazione sociale.

Più recentemente, nell’ultimo glossario, l’Organizzazione mondiale della sanità ritorna sulla definizione di promozione della salute che viene descritta come il complesso delle azioni dirette non solo ad aumentare le capacità degli individui, ma anche ad avviare cambiamenti sociali, ambientali ed economici, in un processo che, sostenuto dalla partecipazione, aumenti le reali possibilità di controllo, da parte dei singoli e della comunità, dei determinanti di salute (Who, 1999).

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Molti gli autori che hanno sintetizzato, all’interno di definizioni, quegli elementi che si andavano ad individuare come costitutivi degli interventi di promozione della salute (tra i quali Green, Kreuter, 1998; Tones, Tilford, 1994) ma queste risultano prive di un reale significato se non viene messa in luce l’idea espressa dalle diverse parole che le costituiscono. Appare allora utile un breve percorso tra le principali espressioni utilizzate nelle definizioni di promozione della salute per condividere il loro senso.

Equità e sviluppo sostenibile

A partire dalla metà degli anni Novanta l’Organizzazione mondiale della sanità ribadisce la necessità di aprire una nuova era per la sanità pubblica “perché gli sforzi organizzati della società rendano possibile lo sviluppo di politiche per la salute pubblica, la prevenzione delle malattie, la promozione della salute e favoriscano l’equità sociale nell’ambito di uno sviluppo sostenibile” (Who, 1996). Con successivi documenti la posizione di questo organismo internazionale si delinea sempre più chiaramente e in essi si sottolinea come, all’interno di questa nuova sanità pubblica, le azioni troveranno come protagonisti diversi professionisti tra i quali quelli che provengono dall’area di cultura medica (Who, 1997). A fianco del più tradizionale obiettivo della prevenzione delle malattie compaiono, per la prima volta quali obiettivi della sanità pubblica, due importanti termini: “equità” e

“sviluppo sostenibile” (Who, 1999).

La capacità di creare sviluppo sostenibile era, già alla fine degli anni Novanta, l’imperativo che si stava affermando in molti settori come la vera sfida dell’inizio di questo millennio. Nel citare questo come obiettivo centrale, che doveva essere perseguito nell’ambito di una nuova sanità pubblica, si voleva sottolineare come i ritmi dell’innovazione tecnologica, e le pregiudiziali preferenze per un predominio delle tecnologie diagnostiche e terapeutiche sofisticate, avessero creato una medicina difficilmente sostenibile, soprattutto in un quadro di ricerca dell’equità. Veniva quindi raccolto il grido di chi affermava da tempo che la ricerca di un progresso sempre crescente, una lotta ambiziosa contro malattie mai definitivamente vinte, entrambe bandiere della medicina degli ultimi cinquanta anni, avessero già raggiunto un tale livello che molti paesi cominciavano a rendersi conto di non poterselo permettere, se non pagando l’alto prezzo di creare ancor più gravi disuguaglianze (Hastings Center, 1997).

Il Rapporto Black è il primo documento che ha compiutamente descritto, nell’Inghilterra degli anni Settanta, le differenze di salute esistenti tra le classi sociali (Townsend e Davidson, 1982). Negli anni successivi si è però messo in evidenza come, praticamente in tutti i paesi industrializzati, sia possibile descrivere gradienti di mortalità e morbosità che trovano le persone appartenenti alle classi sociali più elevate con indici migliori rispetto a quelli che si osservano nelle più svantaggiate (Kunst, 1997). Questo fenomeno, che è purtroppo evidente anche in Italia, viene ben descritto dalla tabella che segue.

Figura 1 – Distribuzione della mortalità in Italia per titolo di studio negli anni 1980-’81 – Uomini 18-74 anni (Costa e Faggiano, 1994).

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L’aspetto che colpisce chiunque si avvicini ad osservare i dati che descrivono il fenomeno delle disuguaglianze nella distribuzione delle malattie, e delle cause di morte, è quello della loro regolarità lungo la scala sociale. A qualsiasi livello ci si ponga, quello inferiore presenta un profilo epidemiologico più sfavorevole rispetto a quello che si osserva al livello sociale immediatamente superiore. Non si sta quindi parlando del rapporto fra povertà estrema e salute: non è infatti sostenibile che ci siano, anche all’interno delle classi sociali intermedie, delle differenze di reddito capaci di generare povertà e di dar ragione, in termini di privazione assoluta, delle differenze osservate. L’altro aspetto che stupisce è la loro regolarità di presentazione, pur al variare delle patologie prese in considerazione.

Entrambe gli aspetti sembrano quasi suggerire che, indipendentemente dalle specifiche cause e processi patogenetici che caratterizzano le diverse patologie, entrino in azione dei meccanismi di predisposizione alle malattie che agiscono in modo diverso lungo la scala gerarchica in cui si articola la società, introducendo una sorta di meccanismo di deprivazione relativa.

Un ultimo aspetto da sottolineare è la costanza del fenomeno qualunque sia l’indicatore, quali la professione o il titolo di studio, che venga utilizzato per definire la posizione assunta dalla persona all’interno della scala delle classi sociali. Si è poi anche dimostrato che tali differenze, con il passare degli anni, persistono e anzi spesso vadano ad ampliarsi (Benzeval e coll., 1995).

La descrizione del profilo di alcune patologie nelle fasi di transizione epidemiologica, cioè nelle fasi in cui l’andamento di queste patologie è rapidamente mutato, ci permette poi di escludere che tale regolarità nella distribuzione del fenomeno sia riconducibile a un meccanismo di selezione su base genetica. Se si osserva infatti quello che è accaduto nel corso del XX° secolo alla distribuzione delle malattie cardiovascolari si vede che queste, fino all’inizio del processo di sviluppo industriale del dopoguerra, siano andate aumentando soprattutto all’interno delle classi sociali più avvantaggiate. Nel corso della seconda metà del secolo la situazione si è però rapidamente ribaltata, e le classi sociali più svantaggiate hanno assunto il primato, in termini di morbosità e mortalità, per tali patologie (Marmot e coll., 1997). Questi rapidi mutamenti non possono essere sostenuti da meccanismi genetici e trovano quindi spiegazione solo nel rapido modificarsi, all’interno delle classi sociali, della distribuzione degli altri fattori di rischio che sostengono tali patologie. Ne è un esempio l’abitudine al fumo, uno dei fattori di rischio per le patologie cardiovascolari, che negli anni precedenti al mutare del profilo epidemiologico di tali patologie ha rovesciato la sua distribuzione all’interno delle classi sociali: nella prima metà del secolo scorso infatti il fumare era abitudine più diffusa nei maschi di classe sociale elevata ma questi hanno smesso di fumare molto più rapidamente di quelli nelle più basse posizioni della scala sociale, che hanno così guadagnato il primato dell’abitudine al fumo.

Le disuguaglianze nella distribuzione delle patologie, che oggi osserviamo nei paesi industrializzati, non sono quindi un’inappellabile condanna biologicamente determinata, ma una caratteristica delle nostre società che è teoricamente modificabile. Si stima che, annullando le differenze di mortalità tra le classi sociali, riportando quindi tutti ai livelli di mortalità che si osservano nelle posizioni sociali più avvantaggiate, si otterrebbe in Italia, per le patologie tumorali del sesso maschile, una riduzione della mortalità del 24 % (Faggiano e

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coll., 1995). Appare quindi chiaro che, per il prossimo futuro, la vera sfida che dovrà essere raccolta, per ottenere ulteriori miglioramenti nello stato di salute delle popolazioni occidentali, sarà quella della riduzione delle disuguaglianze nella salute esistenti tra le diverse classi sociali. La medicina clinica, sempre meglio equipaggiata per fronteggiare sempre più ampie categorie di patologie, sembra però disarmata dinanzi alla richiesta di contrastare questo fenomeno.

Salutogenesi e ambiente ecologico

L’Organizzazione mondiale della sanità nel 1948 sigla quella che è certamente la più nota definizione di salute: la salute è uno stato di completo benessere fisico, psicologico e sociale, e non solo l’assenza di malattia e infermità. Tale definizione, che ha certamente avuto il pregio di estendere il concetto di salute dalla sola dimensione fisica a quelle psicologica e sociale, sottolineandone l’aspetto multidimensionale, ha però il difetto di rappresentare la salute come uno stato ideale, al quale non si può realisticamente guardare come ad una condizione da raggiungere attivamente: un concetto di salute che si rappresenta quindi come un fine e non come un processo. Verso la fine degli anni ’70 si comincia invece a ragionare intorno a questo processo che viene rappresentato come un continuum di stati che dividono lo spazio tra la salute e la malattia (Antonovsky, 1979): un processo all’interno del quale le persone si muovono, verso la direzione della salute o quella della malattia. Progressivamente quindi il concetto di completo benessere, proposto dalla definizione dell’Organizzazione mondiale della sanità, viene sostituito da quello di equilibrio:

si ragiona della salute come della condizione di miglior equilibrio possibile tra l’individuo e il suo ambiente di vita.

Il concetto di salute come equilibrio ha richiesto però una nuova rappresentazione grafica che mettesse in relazione la malattia e il benessere non più come due poli dello stesso asse, ma come due assi fra loro ortogonali (Downie e coll., 1996), a delimitare uno spazio dove condizioni di bassi livelli di benessere si possono accompagnare ad assenza di malattia e situazioni di relativo benessere sono descrivibili anche in presenza di patologie (figura 2).

Figura 2 – La relazione fra malattia e benessere: una rappresentazione grafica (Downie e coll., 1996).

Molti gli sforzi di ricerca per far luce su uno di questi assi, quello della “patogenesi”, che diviene sempre più noto. Già a partire dagli anni ’80, con sempre maggiore precisione, viene infatti descritto l’insieme di fattori, definiti “fattori di rischio” che, combinandosi fra loro nel tempo, porta il soggetto ad ammalarsi delle diverse patologie e, parallelamente, cresce il ruolo assegnato alla “prevenzione”. Minori gli sforzi di ricerca e riflessione che sono stati invece profusi per conoscere il secondo asse: per delineare cioè quei fattori che portano il soggetto verso il benessere in un processo che, in analogia con quello che ci parla dello sviluppo delle malattie, è stato definito di “salutogenesi” (Antonovsky, 1996). Lo sguardo non si concentra più sui soli fattori di rischio delle malattie ma si amplia, cercando di mettere

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a fuoco le diverse “risorse” di cui il soggetto ha bisogno non solo per rispondere alle necessità di tipo fisiologico, ma anche a quelle di tipo culturale, sociale e di altro tipo ancora:

risorse che rappresentano una sorta di capitale sul quale fondare la propria salute. Alle riflessioni sui determinanti delle malattie si affiancano quindi quelle sui determinanti della salute. Ragionare in termini di salutogenesi richiede però di superare la logica lineare, per la quale le diverse categorie di risorse possono da un soggetto essere accumulate o dissipate come entità separate, per entrare in quella sistemica.

Il concetto di “ambiente ecologico” (Bronfenbrenner, 1981), come insieme di strutture che rappresenta il sistema di riferimento di ogni essere umano, sottostà a tutte le riflessioni di senso dell’agire per promuovere salute. Il modello delineato dall’autore (figura 2) vede il soggetto inserito, contemporaneamente, in un certo numero di sistemi sociali diretti, o microsistemi, che caratterizzano la sua quotidianità in una relazione faccia a faccia e che, se per esempio prendiamo un adolescente, sono normalmente rappresentati dalla famiglia, la scuola, i pari. Tali microsistemi non sono però per un individuo entità separate ma, grazie all’insieme di legami che si possono venire tra loro a creare, vanno a costituire il suo mesosistema. Rappresentano poi l’esosistema quegli elementi di contesto a cui il soggetto non partecipa attivamente, ma che influenzano la sua salute, quali per esempio i servizi sanitari o i media. L’organizzazione sociale, della città come della regione e della nazione, e istituzionale, con il complesso delle leggi ed il sistema di welfare, forniscono poi il quadro di insieme delle politiche messe in campo per produrre salute, e delineano il suo macrosistema di riferimento.

Figura 3 - ambiente ecologico (Bronfenbrenner, 1981)

Ogni soggetto è quindi portatore di risorse interne (potenzialità fisiche, psicologiche, cognitive, ecc.), sorta di capitale sul quale fondare la propria salute, in continua interazione con le risorse presenti nei diversi livelli del sistema del quale si trova a far parte, attraverso dinamiche complesse, e per niente scontate, che rispondono al principio della causalità reciproca. Le risorse, infatti, da elementi statici, che possono o meno essere presenti come fattori interni ed esterni, assumono una forte valenza dinamica, e la salute si viene così a delineare come il risultato delle possibilità, e capacità, che una persona ha di gestire l’incontro o lo scontro fra le diverse risorse, che possono fra loro potenziarsi o, al contrario, entrare in contrasto.

Empowerment e resilienza

Tra i principali elementi che funzionano da catalizzatori, modulando l’interazione dinamica che si genera tra il soggetto ed il suo ambiente ecologico, troviamo le dimensioni del controllo e della scelta. Quanto più una persona si sente autonoma, e percepisce quindi di avere il controllo della propria vita, tanto più sarà in grado di scegliere ed utilizzare le possibilità che gli verranno offerte nelle diverse aree del contesto in cui è inserito, attutendo l’effetto negativo che potrebbe essere svolto da alcuni fattori, e potenziando la sua dote generale di risorse utili. Entra quindi in gioco, nel promuovere la salute degli individui, come

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delle comunità, quel processo attraverso il quale i soggetti accrescono il controllo sulle azioni e decisioni che riguardano la propria vita, e che nella letteratura anglosassone è detto di

“empowerment” (Who, 1999).

Questa espressione viene spesso discussa come se facesse riferimento ad un concetto astratto mentre molti sono gli autori che sottolineano la concretezza di questo processo. Labonte (1990; 1993) individua le specifiche aree di intervento intorno alle quali si debbono organizzare le azioni professionali necessarie a favorire lo sviluppo sociale di una comunità. La prima è quella delle azioni a sostegno delle persone attraverso servizi, diversi a seconda delle diverse tipologie di bisogni per rispondere ai quali sono stati costruiti, ma i cui operatori si sentano impegnati a supportare l’operazione di individuazione, e presa di coscienza, delle potenzialità individuali. La seconda area di intervento è quella tesa nell’azione di sviluppo dei piccoli gruppi, che rappresentano la struttura chiave nel processo di crescita della comunità, in quanto sono veicolo di identità ed emancipazione, luogo nel quale esercitare coerenza, capacità e controllo, che rappresentano gli elementi su cui si incardina il processo di evoluzione. Organizzare la comunità, aggregando le forze messe in campo dai piccoli gruppi, con l’attenzione rivolta all’analisi dei problemi e delle opportunità, e non alla conflittualità, rappresenta la terza area di lavoro. Occorrerà poi costruire le coalizioni, quarta area di azione, che richiederà l’impegno a fornire informazioni e capacità per saper interagire con le strutture politiche e poter influenzare le loro scelte.

Lukes (1974) sottolinea poi un ulteriore elemento di concretezza: il cuore del processo di emancipazione, a cui il termine empowerment allude, è infatti rappresentato da un nucleo enumerabile di capacità. Riconoscere in se stessi le capacità di controllare i problemi all’ordine del giorno nella propria vita, quella di modificare la condotta di altri che sono a noi simili, e quella di dare forma alle proprie percezioni e al malcontento, riconoscendo l’esistenza di uno scopo nelle cose, sono i requisiti essenziali intorno ai quali si costruisce il processo di empowerment. Tale processo poggia quindi sulla percezione di essere in possesso di un potere, ma questa si può tradurre in realtà solo attraverso l’esistenza dei necessari strumenti strutturali ed economici: in una sintesi tra la prospettiva psicologica e gli imprescindibili elementi di carattere politico.

Il concetto di salute, come risultato del miglior equilibrio possibile con il proprio ambiente di riferimento (figura 1), acquisisce quindi una terza dimensione: quella che riferisce dei più o meno alti livelli di empowerment. Lavorare per promuovere salute, in un ottica di saluto genesi, vuol dire allora considerare la relazione fra i fattori/risorsa tanto più efficace quanto più l’ambiente ecologico in cui il soggetto è inserito funziona come sistema coerente: è infatti questo che sosterrà il soggetto nel processo di costruzione di empowerment conducendolo a sviluppare un maggiore grado di “resilienza”. Questa espressione mutua il suo significato dalle scienze dei materiali, dove è usata per indicare la proprietà di resistere alla sollecitazione dinamica, senza spezzarsi, e riprendendo una forma efficace per la funzione. Nelle scienze sociali ed umane tale termine sta quindi ad indicare la capacità dell’essere umano di affrontare le avversità della vita e di superarle positivamente trasformato, rimandandoci alla possibilità, che può essere attivamente perseguita, che ogni soggetto possa ritrovare e ricostruire un equilibrio di salute e benessere, anche in situazioni di forte criticità.

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Progettazione, partecipazione ed alleanze

Costruire attivamente salute, attraverso un complesso di azioni dirette non solo ad aumentare le capacità degli individui, ma anche ad avviare cambiamenti sociali, ambientali ed economici, è processo che richiede attenta progettazione. La necessità, ogni qualvolta si progettino interventi tesi alla modifica dei livelli di salute e di qualità della vita di una popolazione, di ricercare la sua partecipazione è sottolineato non solo dalla definizione di promozione della salute della Organizzazione mondiale della sanità (Who, 1999) ma da tutta la letteratura degli ultimi decenni. Ed ecco che i due termini “partecipazione” e

“progettazione” si intrecciano fra loro sempre più: tanto che al variare del modo di interpretare il coinvolgimento della comunità (il ruolo che gli si assegna e le finalità per cui viene ricercato) si modifica la maniera in cui le diverse fasi della progettazione vengono interpretate e condotte (dalla rilevazione dei bisogni sino alla valutazione di impatto) (Lemma, 2005).

La partecipazione non è infatti un fenomeno di tipo tutto o nulla ma si esprime in modi diversi in relazione agli obiettivi che gli operatori si propongono, e alle conseguenti azioni che vengono svolte per attivarla (Adams, 1989). Quando vengono messe in atto conduzioni direttive l’attenzione al coinvolgimento della comunità si traduce operativamente come necessità di richiedere informazioni per individuare problemi e determinare quanti ne sono interessati: gli strumenti utilizzati saranno quelli informativi correnti e ad essere interrogati saranno i “testimoni privilegiati”. Il dialogo sarà diretto dagli operatori, che stabiliranno con i cittadini una comunicazione prevalentemente unidirezionale, con un’univoca distribuzione di responsabilità.

Quando la progettazione si costruisce attraverso la collaborazione tra i professionisti ed i membri della collettività l’analisi dei bisogni riconosce invece la necessità di partire dalla negoziazione intorno alla natura stessa del problema, che non potrà che emergere dall’esperienza quotidiana di chi vive nella comunità, la cui soggettività andrà esplorata e presa in considerazione: questionari ed interviste a singoli verranno sempre più affiancati, e spesso sostituiti, dalle tecniche di interrogazione dei gruppi. Più la progettazione guarderà all’obiettivo di avviare processi di emancipazione, in un agire “con” la comunità, più gli operatori dovranno svolgere un’azione “di supporto”, che sarà ancora tesa alla messa a fuoco dei problemi, ma che orienterà il suo interesse sulla individuazione delle risorse, strutturali e umane, da cui il cambiamento potrà prendere avvio. La stessa interrogazione dei singoli e dei gruppi affiancherà allora, all’obiettivo di raccogliere informazioni e percezioni, quello di costruire contatti e relazioni che rendano possibile la creazione di quelle alleanze su cui il processo di cambiamento potrà poggiare (Hart e Bond, 1995).

Passando ai livelli più alti della scala della partecipazione gli operatori modificano quindi progressivamente il loro ruolo nei confronti della comunità: da dirigenti dell’azione di cambiamento a responsabili della crescita della comunità nelle sue capacità e possibilità di cambiare.

Anche Guttman (2000), nell’esaminare il ruolo che nella progettazione degli interventi per promuovere salute viene giocato dal coinvolgimento della comunità, discute sulla possibilità che la partecipazione possa essere utilizzata nella direzione di considerarla strategica o invece il reale obiettivo dell’agire (figura 4).

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Figura 4 – Le diverse tipologie di interventi classificati in base all’uso che viene fatto della partecipazione (Guttman, 2000).

Professionisti guidati dalla convinzione che i comportamenti correlati alla salute non siano atti isolati, ma risultino dal complesso delle influenze e delle relazioni che si creano all’interno della società, possono perseguire la partecipazione come una necessità strategica per ottenere dalla comunità l’adesione, altrimenti difficile, ai progetti tesi alla riduzione di quei fattori di rischio comportamentali che sono riconosciuti alla base degli ancora elevati livelli di morbosità e mortalità. E’ quello che accade negli interventi che Guttman individua come tesi al “chiedere la collaborazione” della comunità.

Quella che si organizza è spesso un’azione che affianca alla consultazione della comunità quella della costruzione di “alleanze” che vengono definite “top-down” (Sidell, 1997). In esse la rete che si crea coinvolge organizzazioni, gruppi e istituzioni, che si impegnano a collaborare per modificare le condizioni sociali ed ambientali in modo da raggiungere obiettivi favorevoli alla salute della comunità. L’insieme delle agenzie che stringe questa alleanza mantiene sia il controllo della distribuzione delle risorse, come della presa di decisioni, ma coinvolge nelle sue azioni i diversi rappresentanti della comunità. Tali alleanze non configurano entità autonome ma sono il frutto della consapevolezza, da parte di istituzioni e agenzie poste sul territorio, del sovrapporsi dei propri obiettivi e della opportunità di utilizzare al meglio le spesso scarse risorse evitando conflitti e sprechi. La partecipazione dei rappresentanti della comunità tende però a coinvolgere i soli gruppi sociali privilegiati, e l’estensione oltre questa stretta cerchia tende a fallire per la difficoltà ad individuare altri soggetti sociali che possano univocamente essere considerati come rappresentanti delle istanze di un gruppo. Spesso poi un’altra difficoltà che si frappone a tale estensione è data dal fatto che questa si dovrà dimostrare funzionale al ruolo che le rappresentanze amministrative e politiche locali, che si impegnano nel progetto, vogliono giocare. Per lo più ci si attrezza a raggiungere predefiniti obiettivi, fregiandosi inoltre della ottenuta partecipazione alle scelte da parte della comunità.

Gran parte degli interventi rivolti alla comunità, sia di tipo sanitario che sociale, sono però strutturati per offrire risposte ad ipotizzati bisogni, senza che la partecipazione sia enfatizzata né come obiettivo né come strumento necessario al raggiungimento dei propri obiettivi. L’azione è centrata sul solo “erogare servizi”, spesso proposti senza la necessaria attenzione all’adesione fra la percezione del bisogno da parte della comunità ed il tipo di offerta che viene organizzata. Rientrano in questa area tutti i servizi sanitari che promuovono interventi di prevenzione primaria, come le vaccinazioni, o secondaria, come il Pap-test, ma anche i cosiddetti sportelli di ascolto che nelle scuole secondarie si propongono di contrastare il disagio adolescenziale. Nella convinzione che questi servizi rispondano ad una reale necessità l’impegno verso la comunità si traduce nello sforzo di aumentarne l’uso, anche attraverso interventi educativi che migliorino l’informazione o modifichino credenze e percezioni che ne ostacolano l’impiego.

Quando la ricerca dell’autonomia e dell’autodeterminazione della comunità rappresentano invece gli elementi centrali, che da soli giustificano gli interventi, allora la

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partecipazione diventa l’obiettivo da perseguire: come accade negli interventi che

“sostengono la crescita” della comunità, o in quelli che invece ne “sostengono la mobilizzazione”. Nel primo caso prevale il fornire appoggio alle azioni che sono il frutto della crescita della comunità nella sua capacità di partecipare alle scelte che la riguardano: si parla in questo caso di “alleanze bottom-up” (Sidell, 1997). Si tratta, per esempio, di strutturare facilitazioni che comprendano, ma non si esauriscano, nella concessione di fondi per i gruppi che organizzino attività allo scopo di perseguire autodefiniti obiettivi. Nella costruzione di queste alleanze è però generalmente scarsa l’attenzione che, istituzioni e agenzie del territorio, rivolgono al monitoraggio della reale inclusione dei gruppi marginali nelle attività sostenute dalla rete. Come è scarso il supporto che esse offrono alla comunità perché in questa si sviluppino quelle capacità che sono utili all’organizzazione delle attività, comprese quelle di negoziazione o di relazioni pubbliche.

Questi ultimi aspetti prevalgono invece nel caso in cui l’attenzione dei professionisti sia centrata sulla mobilizzazione della comunità: gli interventi pongono allora l’enfasi sul processo di sviluppo sociale attraverso il quale gli individui, e i gruppi, assumono sia il controllo della propria vita che la capacità di modificare gli ambienti sociali e politici in cui vivono. Progettare interventi, attraverso un approccio che pone il coinvolgimento della comunità come l’obiettivo che giustifica l’agire, vuol dire quindi dare scarso rilievo ai problemi che hanno solo soluzioni di tipo medico, e richiede invece di concentrarsi su quelle azioni e capacità che permettano la costruzione, nella realtà locale, di nuove opportunità utili a promuovere la salute della comunità nel suo complesso.

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