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L 11 IIll sseeggnnaallee ffMMRRII

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Academic year: 2021

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1.1 Principi fisici di base

e bioimmagini ottenute con la tecnica di MR (Risonanza Magnetica) possono essere di due tipi: anatomiche o funzionali. In particolare le modalità di ricostruzione delle mappe, anatomiche o funzionali che siano, sono quelle proprie del Magnetic Resonance Imaging (MRI) e si parla di NMR nel caso di tomografie anatomiche, e di fMRI (Risonanza Magnetica Funzionale) quando si tratta di immagini funzionali.

Uno dei punti di forza del MRI sta nel poter basare il contrasto dell’immagine su più fattori, tutti legati però all’interazione della materia con campi magnetici statici, a radio frequenza (RF) e lentamente variabili (i cosiddetti gradienti di localizzazione spaziale).

In effetti, gli atomi con un numero dispari di protoni, neutroni o un numero dispari di entrambi, possiedono nuclei con un momento magnetico proprio (lo spin nucleare, secondo la meccanica quantistica): ciò è vero in particolare per l’ H1 (largamente presente nell’organismo umano,

soprattutto nei tessuti soffici) e per altri elementi con un ruolo biochimico rilevante.

Quando allora questi nuclei si trovano immersi in un intenso campo magnetico statico B0 (dell’ordine del Tesla) i loro momenti magnetici si

allineano col campo esterno separandosi in due popolazioni, quella costituita da spin allineati in verso parallelo, e quella con gli spin tutti

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antiparalleli a B0. I primi sono leggermente in maggioranza corrispondendo

ad uno stato energetico “basso”, mentre i secondi sono in uno stato energetico “alto”. Questa disparità determina la creazione di una magnetizzazione macroscopica netta M allineata a B0 [19] in direzione e

verso (figura 1.1).

Fig. 1.1 Magnetizzazione netta allineata con B0

Si riscontra che gli spin nucleari con le caratteristiche dette presentano un fenomeno di risonanza alla frequenza f espressa dalla Relazione di Larmor, secondo la quale:

f = γ B0

dove γ è una costante caratteristica di ogni specie nucleare ed è chiamata rapporto giro-magnetico.

In pratica se viene attivato un campo magnetico BRF oscillante alla

frequenza f (detta di Larmor) i corrispondenti nuclei assorbono una certa energia dal campo magnetico oscillante, determinando una rotazione macroscopica della magnetizzazione netta (proporzionale alla durata dell’impulso a RF), la quale verrà ad avere una componente non nulla sul piano orizzontale, perpendicolare al campo statico; inoltre gli spin e quindi

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la magnetizzazione subiranno un moto di precessione attorno al campo statico esterno proprio alla frequenza f (fig. 1.2). Nel caso dell’ H1, il più

utilizzato per MRI anatomico di strutture biologiche, γ = 42.58 MHz / T, per cui la frequenza di risonanza magnetica nucleare con un B0 di 1.5 T è

pari a 63.76 MHz, che corrispondono ad un campo magnetico di eccitazione nel range delle RF.

Fig. 1.2 Precessione di fase dei Protoni

Gli effetti indotti da una tale eccitazione si smorzano, una volta rimossa la sorgente a RF, con un processo di decadimento esponenziale che può essere suddiviso in due fasi concettualmente distinte: anzitutto, con una costante di tempo T2 detta di interazione spin-spin (o rilassamento

trasversale) (fig. 1.3), si ha il decadimento del moto di precessione di M intorno al campo statico a causa del progressivo sfasamento degli spin che interagiscono fra loro nelle rispettive componenti orizzontali..

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Fig. 1.3 dipendenza della magnetizzazione relativa da T2

In secondo luogo la magnetizzazione netta torna al suo valore di equilibrio, allineata col campo esterno B0, seguendo una costante di tempo

T1 (detta spin-reticolo) che differisce da T2 e dipende, come quest’ultima,

dal tipo di tessuto sul quale è misurata. Un’ulteriore costante di tempo è quella indicata in letteratura come T2*, che tiene conto sia delle interazioni

spin-spin (come T2), sia di eventuali disomogeneità del campo statico, che

determinano velocità di perdita di fase tra gli spin nucleari disuniformi, a causa di valori diversi di B0, così come mostrato in figura 1.4.

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FIG. 1.4 dipendenza della magnetizzazione relativa da T1

Una volta terminata l’eccitazione quindi, il sistema biologico torna spontaneamente all’equilibrio e la componente longitudinale (Mz) della

magnetizzazione tende a recuperare il suo valore di equilibrio M0, mentre la

sopraccitata componente trasversale decade a zero. Il segnale che si rileva nella bobina ricevente tende a zero quasi esponenzialmente (figura 1.5) e viene detto FID (Free Induction Decay).

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Fig 1.5 Vettore Magnetizzazione e segnale FID rilevato alla bobina

In generale l’MRI si basa sulla variazione da un tessuto all’altro di una di queste caratteristiche, o di una loro somma pesata, e della densità di specie chimiche MR-sensibili per ricavarne un segnale di contrasto utile alla formazione di una immagine.

Le fasi quindi della acquisizione dei segnali utili alla successiva ricostruzione dell’immagine sono: accensione del campo esterno statico B0 ,

eccitazione con un campo a RF, acquisizione dei segnali MR di risposta con bobine che fungono da ricevitori, impiegando procedure di eccitazione che consentano di mantenere l’informazione sulla posizione della sorgente del segnale.

1.2

La risposta emodinamica cerebrale e il segnale fMRI

Il caso della fMRI risulta, fermi restando i principi generali, più articolato. Infatti qui la tecnica più applicata è quella che sfrutta un contrasto dipendente dal livello di ossigenazione del sangue. L’obiettivo prioritario è di misurare parametri legati a funzioni fisiologiche che producono risposte

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cerebrali riguardanti l’attivazione di gruppi di neuroni in zone più o meno localizzate, la cui individuazione è il fine ultimo di questi studi.

Data la bassa solubilità dell’ossigeno in ambiente acquoso, il modo con cui esso viene trasportato nel sangue è legato all’emoglobina (Hb), una proteina globulare contenente un atomo di ferro che si ossida (ossi-Hb) quando un atomo di ossigeno gli si lega, e si riduce (desossi-Hb) quando perde l’ossigeno. Quello che interessa ai fini dell’fMRI è che la desossi-Hb è paramagnetica, mentre la ossi-Hb è diamagnetica; quando uno o più neuroni sono attivi determinano una variazione (secondo processi che approfondiremo) del rapporto tra ossi e desossi-emoglobina con conseguente distorsione del campo statico B0. Quest’ultimo reso così

disomogeneo causa una differenziazione delle frequenze di precessione dei nuclei, nonché una perdita di fase più rapida dei loro spin. Allora nell’ipotesi di costruire un’immagine la cui intensità è basata sull’andamento del T2*, si può pensare di ricavare una mappa dell’ossigenazione del sangue

e, per questa via, dell’attivazione di zone del cervello. Ciò che in genere viene fatto per isolare le aree corticali interessanti è di ottenere immagini relative a due diverse condizioni “comportamentali”: quella in cui viene eseguito un task più o meno complesso, e una condizione di riposo; sottraendo le due immagini e analizzandone il risultato con metodi statistici si cerca di rendere visibile il segnale utile e quindi le regioni coinvolte dal compito svolto.

Quindi i cambiamenti dell’attività cellulare del cervello sono associati ai cambiamenti delle richieste energetiche; quanto maggiore è l’attività funzionale di un tessuto cerebrale, tanto maggiore risulta essere il suo metabolismo e, conseguentemente, le sue richieste energetiche. Tale

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aumento di fabbisogno è soddisfatto tramite un sofisticato e ancora non ben compreso processo di modulazione del flusso sanguigno.

Sfruttando queste variazioni emodinamiche prodotte dall’attività neuronale (indotta tramite un qualche stimolo o semplicemente dovuta ai normali processi fisiologici) la Risonanza Magnetica Funzionale è in grado di identificare le aree attivate del cervello. Particolarmente interessante a questo proposito è la tecnica BOLD (Blood Oxygenation Level Dependent contrast) che permette di mappare l’attività funzionale senza l’utilizzo di mezzi di contrasto esogeni, senza l’uso di traccianti radioattivi e con una risoluzione spaziale accettabile. Il mezzo di contrasto utilizzato è, come già accennato, di natura puramente endogena in quanto si sfruttano le variazioni locali di concentrazione dell’emoglobina (HHB) con le sue relative differenti proprietà magnetiche a seconda dello stato in cui si trova.

In pratica un qualsiasi stimolo sensoriale, motorio o cognitivo, produce un aumento localizzato dell’attività neuronale. Ciò induce una locale vasodilatazione che genera, a sua volta, un rapido aumento del volume e flusso sanguigno. Sebbene la causa di tale fenomeno non sia nota con chiarezza (potrebbe comunque essere regolata dall’azione di metaboliti ad azione vasodilatatoria quali l’adenosina, oppure dall’azione diretta dei neuroni sulla muscolatura vascolare) il risultato finale è comunque una variazione positiva di flusso, con conseguente aumento della concentrazione dell’emoglobina ossigenata. Parallelamente questo eccesso di emoglobina ossigenata inviata nelle regioni attivate, riduce la quantità di desossiemoglobina all’interno della zona di tessuto celebrale interessato (figura 1.6 ).

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Fig. 1.6 Variazione di concentrazione di HHB in un vaso afferente

La presenza di maggiori quantità di ossiemoglobina nei capillari genera microscopiche disomogeneità magnetiche con conseguente variazione nel decadimento del segnale MR.

Tali cambiamenti vengono registrati dal sensore a radio frequenza dello strumento e utilizzati per acquisire i dati cercati.

1.3 Possibili fonti di rumore

Il quadro sopra presentato risulta complicato dal fatto che vanno anche considerati gli effetti negativi sull’omogeneità microscopica del campo statico (e quindi sulla corretta acquisizione ed interpretazione dei dati) dovuti al diametro dei vasi, alla loro orientazione e all’ ematocrito, ma anche il rumore e gli artefatti di movimento. Anzi si può affermare che la sfida più ardua, da un punto di vista tecnologico, della fMRI riguarda proprio la necessità di limitare rumore ed artefatti in rapporto all’ampiezza della risposta fMRI, correlata all’attivazione delle zone corticali investigate.

In un sistema fMRI al rumore termico di stampo squisitamente elettronico (in primis dovuto alla bobina di ricezione e ai preamplificatori) e al rumore di quantizzazione associato alla conversione A/D, si deve

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aggiungere quello, pure elettromagnetico, causato da ioni ed elettroni che permeano l’organismo umano; in più ci sono segnali ricevuti che correlano pesantemente con i cicli respiratori e cardiaci e che sono un disturbo peculiare della Risonanza Funzionale [19].

Un problema notevole nella ricostruzione delle immagini è poi riconducibile ai movimenti della testa: questi, anche se microscopici (100 µm), possono indurre disturbi di intensità del 4% superiore a quella del segnale utile, mascherando di conseguenza ogni eventuale attivazione.

Vi sono poi evidenze di artefatti molto lenti, dei segnali di deriva, la cui origine non è unanimemente riconosciuta, ma che non essendo presenti in soggetti non viventi sono sicuramente attribuibili a meccanismi biologici.

Un’ultima sorgente di rumore è data da eventi neuronali spontanei e non controllabili, come quelli generatesi durante lo svolgimento di medesimi compiti assegnati a individui diversi e in cui le condizioni psicofisiche ed emotive del paziente giocano un ruolo essenzialmente imperscrutabile ed ineliminabile.

Per combattere questi fenomeni è necessario quindi innalzare il rapporto segnale-rumore (SNR) usando, oltre ai metodi tipici che intervengono sulla parte hardware del sistema, approcci che agiscono sulla risoluzione spaziale e su quella temporale ma anche su altri fattori. In particolare per la fMRI si usa un B0 elevato e si accresce il volume del voxel (elemento volumetrico di

dimensione finita in cui è suddivisa l’immagine acquisita fig. 1.7) per abbassare la risoluzione spaziale e si allunga il tempo di acquisizione dell’immagine. Invece per la riduzione del rumore legato ai cicli cardiaci e respiratori, devono essere sviluppati metodi nuovi, ad hoc, ad esempio basati su tecniche di acquisizione rapida: in questo modo i movimenti

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fisiologici possono essere “congelati” in ciascuna acquisizione così da relegare il loro contributo di rumore ad una incongruenza dei dati all’interno di una stessa immagine, e non tra immagini successive. Ancora è possibile mediare su un grande numero di scene cercando di ridurre così gli effetti di movimento, oppure correggere i dati in fase di ricostruzione delle immagini avendo prima raccolto informazioni sull’attività cardiaca e polmonare del soggetto.

Per combattere i segnali di deriva molto lenti e minimizzare i movimenti della testa si adottano poi accorgimenti molto particolari di ancoraggio della medesima a supporti modellati e sagomati per ogni paziente.

FIG. 1.7 Voxel di spessore Thk

1.4 Risoluzione spaziale e temporale della fMRI

Appare chiaro che essendo basata sulla rilevazione indiretta dell’attivazione neurale attraverso modificazioni metaboliche ed emodinamiche, la tecnica fMRI-BOLD presenta limiti di risoluzione spaziale e temporale.

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Nell’acquisizione delle immagini fMRI il campionamento deve essere tale da garantire una fetta ogni 2 o 3 secondi almeno: ciò consente una risoluzione nettamente inferiore rispetto a quella del MRI anatomico, ma sufficiente per estrarre informazioni sulla funzionalità cerebrale.

La risoluzione spaziale ottenibile con la tecnica MRI è teoricamente dell’ordine di 100 µm [19], ma tale limite non è tuttavia raggiungibile nella pratica dove ci si limita all’ordine di 1-2 mm. Quanto precedentemente detto ci aiuta a capire che la limitata risoluzione spaziale è principalmente dovuta al fatto che la concentrazione di HHB varia anche nelle vene di deflusso del sangue e pertanto le variazioni di segnale BOLD non sono limitate al parenchima celebrale sede dell’attivazione, ma si ritrovano anche a distanza da esso. Inoltre le variazioni di segnale possono derivare dal così detto effetto “inflow”, fenomeno legato all’aumento di flusso nei vasi arteriosi, che non ha relazione con il segnale BOLD a livello del microcircolo. Questi effetti possono essere parzialmente eliminati utilizzando appropriati parametri della sequenza MR e magneti ad alto campo. Sono in corso studi che integrano le conoscenze e le immagini relative alla vascolatura cerebrale con i dati BOLD. Ciò consentirà di associare con maggior precisione il segnale fMRI alle strutture capillari responsabili dell’irrorazione neuronale.

I segnali fMRI necessitano di un certo intervallo di tempo per generarsi dopo l’istante di inizio (onset) dello stimolo (fig. 1.8 più avanti). Generalmente tale ritardo vale 2÷4 secondi, ma risulta influenzabile dal tipo di stimolo e dalle condizioni soggettive in cui si trova il paziente.

La risoluzione temporale è invece di circa 100 ms (come limite inferiore) e ciò è dovuto alle latenze fisiologiche dei meccanismi emodinamici

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implicati. Risulta chiaro quindi che una caratterizzazione efficace dell’attività funzionale non può basarsi unicamente sulla valutazione dell’intensità della risposta emodinamica (come fino ad ora si è fatto), bensì deve tenere conto delle caratteristiche temporali dell’attivazione. Ciò naturalmente può aprire nuovi scenari per studiare (assolutamente in maniera non invasiva) i così detti aspetti di “cronometry” e cioè la successione temporale dei processi-eventi mentali (nel loro sviluppo gerarchico) che avvengono nei fenomeni percettivi-cognitivi [20].

1.5 Un modello lineare

Un recente sviluppo nelle tecniche di imaging fMRI consiste nel valutare la risposta ad una successione di stimoli di prova (event-ralated) tattili, visivi e acustici a seconda delle aree corticali che si vogliono investigare. Infatti, in relazione al modo, alla frequenza, alla forma, all’intensità con cui gli stimoli sono presentati vengono eccitate specifiche aree corticali, la cui attività neurale può essere così evidenziata dal segnale BOLD. Il problema resta comunque valutare la forma, l’ampiezza oltre che la localizzazione della risposta fMRI e per far ciò, critica è la scelta del modello della risposta che ci si aspetta.

Un’assunzione tipica è quella di considerare il segnale fMRI in qualche modo proporzionale all’attività neurale media in ogni voxel [21], in modo tale che la relazione che lega le due quantità può essere caratterizzata completamente e semplicemente dalla risposta emodinamica (HRF) nel voxel in esame. In altre parole sfruttando le proprietà dei sistemi lineari invarianti (LTI) si cerca di sviluppare un modello lineare della risposta

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fMRI osservata, che è anche correllata con la variazione temporale di intensità della risposta neuronale. In figura 1.8 è rappresentata un’ipotetica risposta emodinamica evocata da un breve impulso caratteristico di una certa attività neuronale.

Fig. 1.8 Modello lineare della risposta fMRI

Questo modello tiene conto delle due fasi in cui si può suddividere la risposta BOLD; la prima fase è un evidente incremento dell’intensità del segnale dovuto all’afflusso di sangue ossigenato circa 2 secondi dopo il verificarsi della stimolazione, mentre la seconda fase tiene conto di un decremento d’intensità, dopo il raggiungimento di un picco di risposta, tale da portare il segnale sotto la linea base. Quest’ultimo fenomeno è imputabile ad un accentuato consumo metabolico atto a ripristinare le condizioni ioniche pre-sinaptiche.

Vista sotto un altro aspetto la figura 1.8 non è altro che la rappresentazione della risposta impulsiva o meglio della funzione di trasferimento del nostro sistema-voxel. Ciò ci permette di anticipare la risposta a stimoli più complessi semplicemente (supponendo, cosa non

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banale, che la funzione di trasferimento sia la stessa in tutti i voxel sotto esame) convolvendo questi ultimi con la risposta fMRI stimata. Una buona stima di quest’ultima è fornita da Cohen in [22] in cui l’autore propone una forma parametrica media, interpolata da dati sperimentali, del tipo:

) / exp( t b kt SI = a − (1.1) dove a = 8.60 b =0.547

mentre k è aggiustato in modo da ottenere un’ampiezza di risposta unitaria (figura 1.9).

FIG. 1.9 Risposta fMRI stimata

La funzione SI in figura 1.9 è stata conseguita “fittando” i dati ottenuti dalla corteccia visiva a partire da uno stimolo a flash della durata di un secondo.

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A questo punto per avere una stima a priori di una risposta ad un qualsiasi protocollo di stimoli, basta eseguire la convoluzione matematica del protocollo stesso con la (1.1). Un esempio dell’affidabilità di tale stima è mostrato in figura 1.10 in cui una serie di stimoli visivi periodici alternati ad una situazione di riposo (entrambi della durata di 20 secondi in modo da ottenere un paradigma del tipo Off-On-Off-On-Off) sono convoluti con la risposta impulsiva di figura 1.9.

Fig. 1.10 Risposta fMRI a un treno di stimoli visivi

La bontà del modello si può valutare anche dal fatto che la risposta stimata presenta il tipico ritardo (di qualche secondo), rispetto all’istante d’inizio della stimolazione, dovuto alla latenza emodinamica che è peculiare della situazione reale.

Infine va considerato il fatto che, in accordo al modello lineare invariante sopra proposto, è possibile stimare la risposta ad un lungo paradigma di stimolazione semplicemente tramite la somma temporale della risposta ad

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uno stimolo più breve e la medesima risposta ritardata. In figura 1.11 è mostrato l’esempio di come si riesca a “predire” la risposta ad uno stimolo di 12 secondi tramite la semplice somma della risposta ad uno di 6 e la medesima risposta ritardata di altrettanti secondi.

Fig. 1.11 Somma temporale delle risposte fMRI

E’ ovvio che tutto ciò rientra all’interno di una semplificazione matematica e nulla garantisce sul fatto che in realtà la linearità del modello venga meno a causa dell’istaurarsi, ad esempio, di fenomeni inibitori o adattivi. Alcuni autori [23] infatti, sostengono che anche l’attività sinaptica inibitoria possa modulare la risposta emodinamica essendo legata essa stessa a cambiamenti del fabbisogno metabolico e alla riduzione dell’attività neuronale.

I processi adattivi invece sembrano istaurarsi soprattutto durante stimoli eccitatori prolungati e ripetitivi, nel corso dei quali nel paziente si innescano processi psichici di previsione del compito che portano ad una

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diminuzione, rispetto al previsto, della risposta emodinamica all’interno del voxel. E’ chiaro quindi che in presenza di questi fenomeni la modelizzazione lineare puo’ risultare non soddisfacente e quindi spesso si interviene sui paradigmi eccitatori variandone le caratteristiche e soprattutto allungando il periodo di interstimolo.

Figura

Fig. 1.1    Magnetizzazione netta allineata con B 0
Fig. 1.2    Precessione di fase dei Protoni
Fig. 1.3    dipendenza della magnetizzazione relativa da T2
FIG. 1.4    dipendenza della magnetizzazione relativa da T1
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