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IL DELITTO D’INFANTICIDIO IN CONDIZIONI DI ABBANDONO MATERIALE E MORALE

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IL DELITTO D’INFANTICIDIO IN

CONDIZIONI DI ABBANDONO

MATERIALE E MORALE

INTRODUZIONE

“L’infanticidio è un reato gravissimo e, se le cause prossime possono

apparire degne di pietà, le cause prime sono delle più immorali e riprovevoli individualmente e socialmente”.1 Pietà ed orrore, dunque: forse nessun delitto riesce a suscitare al contempo sentimenti così contrastanti e opposti. L’azione omicida delle “mamme cattive”2

, anch’essa prodotto di “quel grande enigma che è la maternità”3

, è da sempre al centro dell’attenzione socio-giuridica, e da sempre variamente giudicata. Scorrendo le pagine della storia, a ragione si può sostenere che “l’infanticidio è delitto intorno al quale le legislazioni

oscillarono assai, così per stabilirne la nozione, come per misurarne la pena”.4 La fattispecie di riferimento è stata costantemente rappresentata dall’omicidio: sui suoi elementi costitutivi e sulla sua pena base se ne è plasmata la configurazione. L’“asticella punitiva” è stata, tuttavia, innalzata o abbassata a seconda delle istanze e degli interessi volta per volta reputati prevalenti: talvolta la pena è stata inasprita in ragione dell’impossibilità della vittima di difendersi, della facilità ad occultare il reato e del particolare vincolo di sangue intercorrente tra offeso e reo; talaltra è stata mitigata in considerazione del singolare stato psicologico in cui operava l’autore e del fine

1

A. CALABRESI, L’infanticidio (commento teorico-pratico all’art. 369 c.p.), Ferrara, 1899, p. 7.

2

C. CARLONI-D. NOBILI, La mamma cattiva. Fenomenologia ed antropologia del

figlicidio, 1975.

3

G. DI BELLO-P. MERINGOLO, Il rifiuto della maternità. L’infanticidio in Italia

dall’Ottocento ai giorni nostri, Pisa, 1997, p. 9.

4

F. AMBROSOLI, Studi sul codice penale toscano confrontato specialmente

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2

dell’atto criminoso, ossia salvare l’onore proprio o della propria famiglia annientando la causa prima dell’infamia.5

Pertanto, qualora siano le prime considerazioni a imporsi, l’infanticidio non potrà che considerarsi un omicidio aggravato; in caso contrario, godrà di una speciale riduzione sanzionatoria.

Il trattamento penale riservato all’infanticidio si è in questo senso adeguato al mutare della sua percezione etica e morale.6 Da normale strumento di controllo demografico, tipico delle comunità più antiche e pagane, divenne, con la diffusione della cultura cattolica e con il maturare di una diversa concezione della vita umana e dei rapporti familiari, una colpa gravissima e, di conseguenza, uno dei reati più spietatamente repressi. Dal Medioevo fino al Settecento l’infanticidio rappresentò la proiezione giuridica di ciò che era considerata la massima degenerazione umana: il tradimento della vocazione dell’istinto materno, da reprimere con misure estreme, quali la pena capitale applicata nelle sue forme esacerbate e più cruente.7 Se l’uomo, “essere toracico”, era destinato al lavoro, alla lotta e a tutto ciò che implicava l’uso della forza, la donna, “essere addominale”, era destinata “al lavorìo della maternità”.8

“Basta riflettere – scriveva Ferri – alla grandiosità fisica e morale di questa maternità…; basta

riflettere alla quantità enorme di sacrificio organico e psichico

rappresentato dalla gravidanza, dal parto, dal puerperio,

dall’allattamento… e subito si vedrà come la maternità è la sola

5

E. PESSINA, Elementi di diritto penale, vol. II, Napoli, 1883, p. 21. 6

“Non v’è forse, azione umana che, al pari dell’infanticidio, sia stata giudicata,

presso i vari popoli, a seconda del mutare dei tempi, in modi così svariati e, fra loro, così profondamente diversi” (S. SIGHELE, Sull’infanticidio, in Archivio giuridico,

XLII, 1899, p. 177) e “questa varietà di concezioni si è riprodotta pure nei Codici

italiani” (E. PESSINA, Elementi di diritto penale, vol. II, Napoli, 1883, p. 23).

7

F. CANFORA, Infanticidio, in Digesto Italiano, vol. XIII, I, Torino, 1927, pp. 663-726; R. PANNAIN, Omicidio, in Novissimo Digesto Italiano, vol. XI, Torino 1965, pp. 884- 891; C. FIORE, Infanticidio, in Enciclopedia del diritto, vol. XXI, Milano, 1971, pp. 391-402; I. MERZAGORA, Infanticidio, in Digesto delle discipline

penalistiche, 1992, pp. 392-396; L. FERRIANI, La infanticida nel codice penale e nella vita sociale, Milano, 1886, pp. 73-86.

8

V. MELLUSI, La madre delinquente (studio di psicologia morbosa), Roma, 1897, pp. 12-13.

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3

ragione, quasi direi, darviniana, dei principali caratteri fisico-psichici della donna, oltre naturalmente i caratteri anatomici, che ne costituiscono la sessualità”.9

Sebbene le riflessioni provengano da esponenti della Scuola Positiva, notoriamente indulgenti verso le infanticide, come si vedrà nel prosieguo di questo lavoro, tale rappresentazione è sufficiente per comprendere l’identificazione, anche da parte dell’ala scientifica dei penalisti, della figura della donna con la madre (ruolo cui la natura stessa l’aveva predisposta e preparata)10

, con una serie di implicazioni di cui si possono già ora cogliere i riflessi.11

E’ a partire dall’enunciazione dei principi illuministici che emerge una nuova concezione dell’infanticidio, legata, da un lato, alle trasformazioni economico-sociali, al cambiamento della morale sessuale, ad un’inedita visione della donna e della maternità12

, e dall’altro, allo sviluppo delle scienze ausiliarie e alla nascita di scuole penalistiche ideologicamente orientate.

Ciò posto, mi propongo, con questo elaborato, di ripercorrere i tratti salienti dell’evoluzione normativa del delitto d’infanticidio fino ad approdare, in seguito alla riforma apportata dalla legge 442/81, alla fattispecie attuale di cui all’art. 578 c.p. In particolare, mi soffermerò a trattare i requisiti specializzanti della nuova formulazione del reato in esame, mettendo in evidenza la differente pregnanza rispetto alla

9

E. FERRI, a commento del volume di Lombroso-Ferrero, in Archivio di psichiatria,

scienze penali ed antropologia criminale, vol. 14, 1893, p. 484; C. LOMBROSO-G.

FERRERO, La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, Torino 1903, p. 499.

10

R. PERRONE CAPANO, L’infanticidio e l’esposizione d’infante nel loro

significato onto-filogenetico, Napoli, 1899.

11

L’esaltazione del ruolo materno, compiuto anche e soprattutto da esponenti della Scuola Positiva, aveva tutto sommato risvolti ambigui: da un lato, la donna poteva rivendicare di fronte all’uomo la propria dignità e di fronte alla società il diritto ad un rispetto e ad una tutela in virtù di questa sua capacità riproduttiva; dall’altro, la maternità veniva raffigurata come un limite alla sua indipendenza, oltre che costruire una situazione che finiva per gravare la donna di una serie di responsabilità, addossando al suo fallimento educativo la colpa della delinquenza minorile.

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precedente disposizione caratterizzata dalla rilevanza penale della causa d’onore.

Da ultimo, dopo una breve rassegna del delitto d’infanticidio nelle varie codificazioni europee, si cercherà di illustrare le ragioni per cui la suddetta fattispecie possa offrire un possibile modello di tecnica legislativa in vista di una riforma del codice penale.

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5

CAPITOLO I

EVOLUZIONE STORICA DELLA

REPRESSIONE PENALE

DELL’INFANTICIDIO

Sommario: 1. La legislazione penale dall’età romana al Medioevo; 2. La svolta illuminista e le codificazioni dell’800; 3. L’infanticidio nella legislazione italiana: 3.1. La disciplina nei codici preunitari, 3.2. L’infanticidio nel codice Zanardelli (1889), 3.2.1. Dai lavori preparatori alla formulazione definitiva dell’art. 369 del codice Zanardelli, 3.2.2. La qualificazione giuridica del delitto di infanticidio, 3.2.3. Gli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’articolo 369, 3.2.4. L’infanticidio nel pensiero della Scuola Classica e della Scuola Positiva, 3.2.5. L’infanticidio e la morale sociale, 3.2.6. Proposte di riforma al volgere del XX secolo, 3.3. L’infanticidio nel codice Rocco (1930), 3.3.1. La disciplina del concorso di persone nel delitto d’infanticidio, 3.4. Il concetto di “causa d’onore” quale elemento distintivo nel reato, 3.4.1. (Segue) Il concetto di “causa honoris” nel Codice Zanardelli, 3.4.2. (Segue) Il concetto di “causa honoris” nel Codice Rocco, 3.5. L’ abrogazione della rilevanza penale della causa d’onore (legge 442/81).

1. LA LEGISLAZIONE PENALE DALL’ETÀ ROMANA

AL MEDIOEVO

Per comprendere pienamente l’attuale fattispecie dell’art 578 c.p., è necessario procedere innanzitutto ad un inquadramento storico del reato d’infanticidio.

Partendo dall’etimologia della parola ( infantis caedes), che richiama in senso lato l’uccisione di un infante, è possibile osservare che la portata della mera espressione letterale è più ampia rispetto al significato giuridico del termine infanticidio che si ricollega alla soppressione di colui che è stato appena partorito.13

Sotto il profilo storico-criminologico è spesso esistito una sorta di rapporto di proporzione inversa tra infanticidio ed aborto, poiché, richiedendo questo conoscenze anatomiche non possedute dalla

13

E’ lo stesso Carrara, come si vedrà, a fornire le basi per un’interpretazione restrittiva in quanto “con la parola infante a questo luogo non si esprime l’infanzia in

generale, ma solo un brevissimo periodo di quella, e precisamente la prima aurora della vita estrauterina”. Si veda F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, Parte speciale, vol. I, Lucca, 1872, p. 305.

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6

maggior parte delle donne, l’infanticidio costituì il mezzo principale per rimediare ad una gravidanza indesiderata. Per ciò che riguardava il complesso quadro delle cause dell’infanticidio, quella delle particolari condizioni economiche e sociali della donna, che la nascita di un figlio illegittimo o non desiderato avrebbe aggravato, appariva, assieme all’altra della deformità del nato, preminente, nei tempi passati, rispetto al motivo d’onore. E pur essendo, in ogni tempo, la “cifra

oscura” degli infanticidi ampiamente superiore, per concorde opinione

dei criminologi, a quella di altri reati, sembrava che allo sviluppo della società civile si accompagnasse una parallela diminuzione del fenomeno infanticida, anche se esso continuò a presentare una solida “soglia di resistenza” tale da renderne ottimistica la definizione come “delitto moribondo”.14

Sotto il profilo giuridico, nel mondo romano, come in molti popoli non cristiani, era considerata lecita la soppressione del neonato deforme mostruoso o malato, considerato privo di capacità giuridica (la quale veniva riconosciuta soltanto a coloro che avevano piene sembianze umane) e pareva fosse largamente praticata l’esposizione dei figli, specie se naturali, e solo l’uccisione da parte della madre veniva punita (sarà poi in alcune costituzioni imperiali a essere ricompreso nell’omicidio anche la soppressione da parte del padre o l’esposizione dei neonati). Ciò era espressione dell’esercizio del “ius vitae ac necis” da parte del titolare della patria potestas nei confronti dell’infante, la cui massima espansione si ebbe nell’età classica, che arrivò a ricomprendere anche il potere di vendere i figli, di darli a nossa a scanso di responsabilità verso i terzi per i delitti da loro commessi, di darli in garanzia ai creditori e di castigarli.15

Secondo lo ius sacrum e lo ius gentium il padre era sì obbligato a nutrire ed allevare i figli maschi ed almeno le figlie primogenite

14

F.MANTOVANI, Diritto penale, V ed., Parte Speciale, Vol. I, Padova, 2013, p. 114.

15

A.BURDESE, Manuale di diritto privato romano, Torino, VI ed., 1993, pp. 137 e 261.

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7

recriminando in linea generale la pratica di eliminare i neonati o comunque i figli di età inferiore ai tre anni, ma era comunque consentito sopprimerli qualora fossero privi di un organo o di una forma umana ritenendo che fosse tenuto a farlo subito dopo il parto (a meno che optasse per esporli).

In questo contesto era rinvenibile un primo intervento nei testi XII Tavole, col quale venne affidato ai censori, quali tutori dei mores cittadini, il compito di porre dei freni all’arbitrio paterno.

Sarà nell’età postclassica con l’affermazione del Cristianesimo che l’infanticidio assumerà quei connotati del crimine grave, punito con la pena capitale, che manterrà successivamente per tutto il Medioevo, considerando che la vittima era un essere totalmente indifeso e che il più delle volte veniva commesso per occultare una precedente colpa della madre. Venne così vietato l’infanticidio abolendo definitivamente il potere di “ius vitae ac necis” ed il conseguente potere di esposizione.16

Il reato si presentava come un omicidio aggravato, genericamente assimilato al parricidio e ancora privo di quegli elementi caratterizzanti che saranno formulati dalle codificazioni successive. Se le Decretali di Gregorio IX prescrissero pene severissime per i genitori che esponevano od uccidevano i figli, negli statuti della penisola italica, la pena generalmente prevista era la morte, talvolta con un mezzo più atroce di quello riservato ai casi di omicidio, come la condanna al rogo prescritta nello statuto Aviani del 1403 e in quello Vallis Tellinae del 1511.

Con l’andar del tempo venne abbandonato, in quasi tutte le legislazioni, la prefigurazione dell’infanticidio come rientrante nella

16

Venne data anche un’altra ricostruzione di carattere demografico basata sulla necessità di quel determinato periodo storico di controllare la drastica diminuzione di popolazione provocata da guerre ed epidemie. Secondo questa linea ricostruttiva infatti l’infanticidio veniva tollerato quando si verificava la necessità opposta di frenare l’eccessivo sviluppo demografico. Si veda W.LANGER, Infanticidio, Una

rassegna storica, in T. MC KEOWN, L’aumento della popolazione nell’era moderna, Milano, 1979, p.225.

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8

nozione generale di omicidio, andandosi a delineare come una fattispecie autonoma di reato consistente nell’uccisione della prole appena generata ad opera della madre, facendosi risalire la sua prima configurazione alla Constitutio Criminalis Carolina del 1532, la quale disciplinò l’infanticidio del figlio illegittimo.17

E fu in questo ambito che si discusse se fosse proprio rinvenibile nella Constitutio medesima, una prima forma di mitigazione della pena riservata a tale reato rispetto alle altre forme di omicidio. Ma si riteneva, secondo una tesi prevalente in dottrina, che in realtà la previsione di una pena di morte meno atroce rispetto a quella prevista per l’omicidio non fosse un sintomo chiaro ed univoco in ordine ad un trattamento privilegiato per l’infanticidio.18

Sarà a partire dall’enunciazione dei principi illuministici che emergerà una nuova concezione dell’infanticidio, legata, da un lato, alle trasformazioni economico-sociali, al cambiamento della morale sessuale, ad un’inedita visione della donna e della maternità19

, e dall’altro, allo sviluppo delle scienze ausiliarie e alla nascita di scuole penalistiche ideologicamente orientate.

2.

LA SVOLTA ILLUMINISTA E LE CODIFICAZIONI

DELL’800

E’ solo nel secolo XIX che l’infanticidio, commesso dalla madre subito dopo il parto, trovò l’originaria regolamentazione come reato autonomo caratterizzato da un mite trattamento sanzionatorio (in un primo tempo, rispetto al solo infante illegittimo20 e, successivamente,

17

Secondo una consolidata interpretazione dottrinale la norma di cui all’art. 331 doveva riferirsi alla donna non regolarmente coniugata.

18

E.M. AMBROSETTI, L’infanticidio e la legge penale, Padova, 1992, p. 17. 19

Sul punto cfr. R. SELMINI, Profili di uno studio storico sull’infanticidio. Esame di

31 processi per infanticidio giudicati dalla Corte d’Assise di Bologna dal 1880 al 1913, Milano, 1987, p. 17.

20

(9)

9

anche rispetto a quello legittimo21). Metamorfosi, questa, preceduta e accompagnata da un diffuso movimento di pensiero22 che ne ravvisò la ragione prima nella causa d’onore, pur non trascurandosi la diminuita capacità giuridica della partoriente e le condizioni sociali ed economiche. In sostanza vi fu, durante l’età illuministica, un’ondata di pensiero volta a sanzionare meno severamente il fatto d’infanticidio. A tal proposito Beccaria, nella sua opera “Dei delitti e delle pene” scritta tra il 1763 e il 1764, affermò: “L’infanticidio è parimente

l’effetto di una inevitabile contraddizione, in cui è posta una persona, che per debolezza o per violenza abbia ceduto. Chi trovasi tra l’infamia e la morte di un essere incapace di sentirne i mali, come non preferirà questa alla miseria infallibile a cui sarebbero esposti ella e l’infelice frutto? La miglior maniera di prevenire questo delitto sarebbe di proteggere con leggi efficaci la debolezza contro la tirannia, la quale esagera i vizi che non possono coprirsi col manto della virtù.

Io non pretendo diminuire il giusto orrore che meritano questi delitti; ma, indicandone le sorgenti, mi credo in diritto di cavarne una conseguenza generale, cioè che non si può chiamare precisamente giusta (il che vuol dire necessaria) una pena di un delitto, finchè la legge non ha adoperato il miglior mezzo possibile nelle date circostanze d’una nozione per prevenirlo.”23

E fu così che si pervenne alla definizione dell’infanticidio come “l’uccisione di un bambino nascente o nato di fresco, commessa con

atti positivi o negativi dalla madre illegittimamente fecondata, per il fine di salvare il proprio onore o di evitare sovrastanti sevizie”.24

Prima di soffermarci sui vari indirizzi dottrinali dell’epoca, occorre partire dai due tradizionali e tra loro alternativi riferimenti codicistici

21

Così nel codice austriaco del 1852 e nella legge francese del 1824. 22

In cui ritroviamo vari esponenti pensatori illustri quali Beccaria e Carrara. 23

C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, (Livorno 1764), Milano, 1991, p.85. 24

F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, vol. I, Lucca, 1872, p. 317.

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10

europei25 che avevano, nell’elaborare tale fattispecie di reato, adottato soluzioni opposte. Il codice francese del 1810 aveva liquidato la questione in una disposizione, l’art. 302, con cui si equiparavano parricidio, infanticidio e veneficio, punendoli con la morte, e null’altro prevedendo sul punto.26

Maggiormente articolata, per quella vocazione trattatistica e pedagogica propria dei codici asburgici, la disciplina contemplata nella

Franziskana (1803), forse direttamente influenzata dalle riflessioni di

Beccaria.27

La diversa commisurazione delle pene discendeva sia dalla natura legittima o illegittima della prole che dalla modalità omissiva o commissiva dell’azione. L’art. 122, infatti, puniva con il perpetuo carcere durissimo la madre che volontariamente procurava la morte di un figlio legittimo; il carcere duro da dieci a vent’anni era invece il castigo per la soppressione di un figlio illegittimo, sanzione che si riduceva da cinque a dieci anni nell’ipotesi di deliberata omissione dei necessari soccorsi.28 In quest’ultima ipotesi si operava dunque un’ulteriore differenziazione che non aveva corrispondenze nel caso di uccisione di prole legittima, introducendo una poco motivata sperequazione tra le due fattispecie29. Tali disposizioni furono

25

Così li definiva, con riferimento ai codici francese e austriaco, A. CADOPPI, Il

“modello” rivale del code penal. Le “forme piuttosto didattiche” del codice penale universale austriaco del 1803, in Codice penale universale austriaco (1803), Padova,

2001, XCV-CXLI. 26

Una mitigazione si ebbe nel 1824, in cui si previde l’introduzione dei lavori forzati a vita, ribadita nella legge del 28 aprile 1932.

27

“E il codice Austriaco del 1803 fu il primo in Europa a secondare l’impulso del

pubblicista italiano [Beccaria] sostituendo alla pena di morte il carcere da cinque a venti anni”. Si veda E. PESSINA, Elementi di diritto penale, vol. II, Napoli, 1883, p.

23. 28

La differenza tra carcere duro e durissimo era dato dal sistema di esacerbazioni che accompagnavano la detenzione.

29

Va precisato tuttavia che il codice austriaco cercava da un lato di prevenire l’estremo dell’infanticidio, dall’altro di evitare quanto più possibile che questo, se commesso, restasse impunito. Per questo si obbligavano le donne rimaste incinte “da commercio illegittimo” a chiedere l’assistenza di un’ostetrica, una levatrice, o qualunque altra “donna onesta” nell’imminenza del parto. In caso di doglie improvvise, la donna era tenuta a presentare il cadavere del bambino eventualmente

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11

integralmente riprodotte nell’art 129 della revisione del 1852. Il codice austriaco accolse il principio di speciale tenuità dell’infanticidio considerato nella sua conflittuale psicologica: non compariva infatti alcuna menzione della causa d’onore sulla quale la scienza giuridica italiana fondò il reato.

Escluso, quindi, il Code penal francese del 1810, che, pur riconoscendo una precisa definizione di infanticidio (“meurtre d’un

enfant nouveau-né” ovvero “omicidio di un neonato”), continuò a

prescrivere la pena capitale, nelle varie legislazioni europee pian piano venne meno la previsione di questa sanzione estrema (e il pioniere fu proprio il già citato il codice penale austriaco del 1803 nel quale il delitto di infanticidio costituì un titolo autonomo di reato se consumato per causa d’onore nell’immediatezza del parto illegittimo), la quale fu sostituita con la detenzione, per lo più temporanea, coerentemente con le tesi preminenti, volte a prendere in esame quelle condizioni psichiche e soggettive che potevano incidere, ai fini della complessiva valutazione del disvalore sociale della condotta.

Venne in particolare posta l’attenzione su quel turbamento psichico connesso al parto che, specie se legato al timore del disonore e della miseria, poteva alterare gravemente la capacità di decisione e di autocontrollo della donna.

Fino all’800, la particolare severità con la quale veniva valutato l’infanticidio doveva ritrovarsi nei seguenti elementi:

1) il vincolo di sangue che univa soggetto attivo e soggetto passivo; 2) l’incapacità del soggetto passivo di difendersi, e, quindi, la necessità di una maggiore tutela sociale nei suoi confronti;

3) la presunzione della premeditazione, poiché si riteneva che un infante appena nato non potesse aver dato motivo al delitto e che la

nato morto a persona autorizzata ad esercitare l’arte dell’ostetricia o comunque ad una pubblica autorità.

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12

donna avesse avuto a sua disposizione un lungo periodo di tempo, nove mesi di gravidanza, per riflettere sul suo stato30.

Carrara, il quale portò il primo importante contributo all’elaborazione della nuova fattispecie, criticò tali argomentazioni.

Per quanto riguardava il vincolo di sangue e l’incapacità del soggetto passivo alla difesa, l’autore fece notare come si trattasse di elementi che non presentavano nessuna specialità nei confronti della comune fattispecie di omicidio. Entrambi, infatti, ricorrevano anche nell’uccisione di un nato già cresciuto, non servendo a tal proposito nella qualificazione dell’infanticidio.

La medesima osservazione si poteva fare in merito alla presunzione di premeditazione, in quanto era rinvenibile sia se il reato era commesso nei confronti di un bambino di un giorno che di un bambino di un mese.31

In particolare, nei confronti dell’infanticidio, che si andava caratterizzando come delitto d’impeto, non sembrava possibile parlare di premeditazione, poiché la madre, anche quando era a conoscenza del suo stato, veniva quasi sempre sorpresa dal parto e non era nelle condizioni più opportune per poter riflettere ragionevolmente sulla sua situazione.

Si trattava, come si può evincere da queste ricostruzioni, di una modificazione radicale della concezione del reato, che partiva da riflessioni di portata generale quali la trasformazione del concetto di pena e lo sviluppo della scienza penalistica. L’affievolimento della pena per l’infanticidio si inseriva, infatti, in quel generale processo di mutamento dell’economia del castigo in seguito al quale, “la pena

pubblica ed atroce, percepita come moltiplicatore del reato piuttosto

30

R. SELMINI, Profili di uno studio storico sull’infanticidio, Milano, 1987, p.17. 31

F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, V ed. , Parte speciale, vol. I, Lucca, 1881, p. 339.

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13

che deterrente, cessa di intervenire sul corpo del condannato per trasferirsi sulla sua anima”.32

La madre che uccideva il figlio appena partorito, pur continuando ad essere considerato dall’opinione pubblica come un gesto atroce, non veniva percepita più come pericolosa per una società avviata verso notevoli trasformazioni economiche e sociali e per un diritto volto ad ampliare gli oggetti di tutela, funzionali a quelle stesse trasformazioni. Così la dottrina ottocentesca, dopo aver rifiutato pressoché unanimemente la vecchia configurazione dell’infanticidio come omicidio aggravato ed aver ripudiato la sua rigorosa repressione penale, spostò il suo interesse sul terreno dell’elaborazione della fattispecie tramite una riflessione articolata e complessa.

Innanzitutto, occorre evidenziare che, se, da una parte, si accentuava il ruolo preminente della famiglia e quindi del sentimento materno, dall’altra, andava incrementandosi il senso dell’onore cosicché la maternità veniva tutelata solo se si realizzava all’interno del matrimonio. Lo status di figlio naturale, accettato e riconosciuto nelle epoche precedenti, veniva man mano sostituito da quello di figlio illegittimo. Nel momento in cui vi era il disconoscimento delle responsabilità paterne, si verificava la perdita della condizione di figli naturali acquisendo quella di figli di genitori ignoti privi, di conseguenza, dell’identità sociale e personale.

Nel secolo XVIII scomparve la tradizionale tolleranza della Chiesa nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio e le istituzioni civili incoraggiarono le madri ad abbandonare l’infante per evitare il pubblico scandalo.

Questa opposizione al riconoscimento dei figli illegittimi si ritrovava nello stesso Codice napoleonico del 1804, il quale esaltava una struttura gerarchica familiare basata sull’autorità paterna e sulla potestà maritale a difesa dell’istituzione famiglia creatasi in costanza di

32

M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, 1976, p. 110.

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14

matrimonio. Anche il primo codice civile italiano del 1865, seguendo la stessa impostazione, vietò, nei casi di filiazione illegittima, l’indagine sulla paternità, ammettendola solo nel caso di concepimenti seguiti a rapimenti o a stupro, lasciando intatta la possibilità in capo al figlio di ricercare la madre nonostante il divieto di poter ricorrere a testimoni al fine di obbligarla al riconoscimento, prevedendo inoltre il disconoscimento dell’esistenza civile e anagrafica dei neonati illegittimi, i quali venivano affidati di fatto alla carità delle opere pie, al fine di difendere il decoro e l’onore delle famiglie legittime.

Nei primi tempi, quindi, la mitigazione della pena predisposta per il reato d’infanticidio riguardava solo la soppressione della prole illegittima, con l’unica distinzione tra la donna che agiva per motivi egoistici e quella che agiva al contrario per difendere il proprio onore. Carrara ravvisava la specialità di tale delitto nella necessità di eliminare le tracce dell’infante e della notorietà del fatto, la quale al contrario non sussisteva nel momento in cui veniva ucciso un figlio la cui nascita era già di pubblico dominio, predominando a tal punto il mero animus necandi.

In secondo luogo, nel momento in cui la condotta del soggetto attivo era posta in essere al fine di cagionare la morte di colui che costituiva la causa del disonore in cui era caduta la madre, l’intera società, nel momento stesso in cui attribuiva primario rilievo a valori quali quello dell’onore e dell’onestà, doveva farsi carico del problema assumendosi parte della responsabilità del delitto.33

Infine, il problema che maggiormente interessava i penalisti di fine 800 era quello della specialità del reato. Dopo aver rifiutato la qualificazione del delitto nel senso dell’aggravamento, ci si chiedeva se l’infanticidio dovesse appartenere alla famiglia degli omicidi o se dovesse andare a costituire una fattispecie autonoma.

33

A. STOPPATO, Infanticidio e procurato aborto. Studio di dottrina, legislazione e

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15

A sostegno della prima tesi si affermava che in entrambe le fattispecie di reato il diritto leso, e di conseguenza il bene giuridico oggetto di tutela, era il medesimo.

Viceversa a favore del secondo orientamento si sosteneva che i due reati si distinguevano in ordine alla particolare causa a delinquere che connotava la specialità dell’infanticidio, da individuarsi nell’intento di salvare l’onore dal pregiudizio derivante dal pubblico scandalo e da valutarsi unitamente allo stato di alterazione psicologica della donna, la quale agiva in una situazione particolare e in assenza di premeditazione.34

Per i penalisti dell’epoca, il diritto alla vita, oggetto di tutela nel reato d’infanticidio, presentava comunque una valenza diversa rispetto allo stesso diritto violato dal comune omicidio, perché il danno prodotto verso l’ordine sociale era inferiore. Infatti la soppressione di un infante appena nato, soprattutto in una situazione di alti tassi di illegittimità, di abbandoni e di mortalità infantile, non andava ad incidere sulla società come altri omicidi.

Quindi, ragioni di politica criminale di portata sociologica, nonché una più attenta riflessione sulle motivazioni profonde che accompagnavano tali gesti estremi, consentirono una lenta e graduale costruzione della figura criminosa dell’infanticidio, che poteva dirsi parzialmente conclusa già alla fine dell’800.35

34

F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, V ed. , Parte speciale, vol. I, Lucca, 1881, p. 166.

35

Così come ha affermato lo stesso Selmini: “Nei decenni successivi, infatti, se si

esclude la più scientifica e dettagliata configurazione della causa honoris, tutti gli altri elementi del reato rimangono pressocché invariati. La dottrina del 900 non porta nessuna innovazione al concetto d’infanticidio, né dal punto di vista giuridico, né da quello sociologico, limitandosi spesso ad un richiamo delle posizioni dei penalisti dell’800” R. SELMINI, Profili di uno studio storico sull’infanticidio,

(16)

16

3. L’INFANTICIDIO NELLA LEGISLAZIONE

ITALIANA

3.1. LA DISCIPLINA NEI CODICI PREUNITARI

Anche nell’Italia prima del 1861 emergeva nei codici preunitari, nonostante le diverse configurazioni del delitto, la tendenza alla mitigazione della pena alla madre infanticida, soprattutto se spinta ad agire da un particolare movente ravvisabile nella difesa dell’onore, pur se – forse per l’influsso del codice napoleonico36, che, come già detto, comminava anche per l’infanticidio la pena di morte – in termini di maggior severità rispetto ai coevi codici di lingua tedesca (così, ad es., il codice sardo del 1859, che prevedeva la facoltà della conversione della pena capitale).

Partendo dall’art. 300 del codice dei delitti e delle pene per il Regno d'Italia del 181037, è possibile osservare che esso allargò per la prima volta il concetto legislativo d’infanticidio oltre i confini rappresentati dalla soppressione del neonato per mano della madre.

36

In dottrina non mancavano linee di pensiero che tendevano ad ipotizzare che nell’ideazione della disciplina sull’infanticidio, fosse stata fonte d’ispirazione anche il progetto Luosi, il cui art. 433 sembrava anticipare le soluzioni in seguito adottate, prevedendo una mitigazione per la madre e per i correi. Sull’incidenza di questo “modello” si veda A. CAVANNA, Codificazione del diritto italiano e imperialismo

giuridico francese nella Milano napoleonica. Giuseppe Luosi e il diritto penale, in Scritti (1968-2002), vol. II, pp. 833-927, in particolare 925-926. Un’intuizione la cui

eco è stata ripresa anche nella storiografia successiva. In realtà la dottrina prevalente tendeva a individuare nel codice austriaco del 1803, per quanto riguarda espressamente l’infanticidio, il primo codice che assecondò le istanze dell’illuminismo e la richiesta di attenuazione della pena; su questa falsariga si plasmarono tutti i “codici liberali”, progetto Luosi compreso, riprodotto quasi letteralmente dal testo napoletano del 1808.

37

CODICE DEI DELITTI E DELLE PENE PER IL REGNO D’ITALIA DEL 1810 disponeva: “La morte volontariamente data ad un infante appena nato, si qualifica

infanticidio.” (art. 300): “Ogni colpevole di assassinio, di parricidio, d’infanticidio e di veneficio sarà punito colla morte; salva la disposizione particolare contenuta nell’articolo 13, relativamente al parricidio.” (art. 302).

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17

Differentemente, il codice penale del Granducato di Toscana del 1853 all’art. 31638

, il codice criminale e di procedura criminale per gli Stati Estensi del 1855 all’art. 35139

e il regolamento gregoriano del 1832 all’art. 27640

ravvisavano la fattispecie delittuosa nell’uccisione, da parte della madre, della propria prole illegittima; mentre il codice penale sardo del 1859 (art. 52541) e il parmense del 1820 (art. 30842), seguendo la definizione del codice francese del 1810, lo definivano, più genericamente, come l’uccisione del fanciullo “di recente nato”. Nel Sud della Penisola, dove erano in vigore le leggi penali del 1 settembre 1819, emanate sotto il dominio borbonico, l’infanticidio costituiva, invece, un omicidio qualificato, che veniva punito con la

38

CODICE PENALE DEL GRANDUCATO DI TOSCANA DEL 1853 disponeva: “Quella, donna, che, nel tempo del parto , o poco dopo di esso ha dolosamente o

colposamente cagionato la morte della sua prole, illecitamente concepita, è rea d'infanticidio” (art. 316); “L'infanticidio doloso si punisce con la casa di forza: a) da dieci a quindici anni, se la donna si determinò al delitto, prima che fosse sorpresa dai dolori del parto; e b) da cinque a dieci anni, negli altri casi.” (art. 317);

“Quando per altro l'infanticidio doloso sia stato commesso, per evitare sovrastanti

sevizie, si decreta la casa di forza: a) da cinque a dieci anni ,se la donna si determinò al delitto, prima che fosse sorpresa dai dolori del parto; e b)da tre a sette anni, negli altri casi.” (art. 318); “Se la prole, cui fu cagionata la morte, non era vitale, l' infanticidio doloso si punisce con la carcere da sei mesi a due anni.” (art.

319); “L'infanticidio colposo fa incorrere nella carcere da due mesi ad un anno, se la

prole era vitale” (art.320).

39

CODICE CRIMINALE E DI PROCEDURA CRIMINALE PER GLI STATI ESTENSI DEL 1855 disponeva: “la morte di un infante neonato, e concepito

illegittimamente, procurata dalla madre all’oggetto di occultare il parto, è infanticidio” (art. 351); “1. La madre infanticida sarà punita colla morte. 2. Qualora però essa abbia commesso l’infanticidio o per sovrastanti sevizie, o per salvare la vita, sarà punita coi lavori forzati da dieci a venti anni. 3. Chiunque avrà cooperato dolosamente all’infanticidio sarà punito colla morte.” (art. 358).

40

REGOLAMENTO SUI DELITTI E SULLE PENE DI GREGORIO XVI DEL 1832 disponeva: “È punito colla morte di esemplarità: (…) 7. l'infanticidio; solo

quando lo abbia commesso la madre, onde occultare per sentimento d'onore un parto illegittimo, è punito colla reclusione in vita.”(art. 276).

41

CODICE PENALE PER GLI STATI DI S.M. IL RE DI SARDEGNA DEL 1859 disponeva :”L’omicidio volontario di un infante di recente nato è qualificato

infanticidio.” (art. 525); “I colpevoli dei crimini di parricidio, di venefizio, d’infanticidio, e di assassinio sono puniti colla morte.” (art. 531, I); “La pena dell’infanticidio potrà essere diminuita da uno a tre gradi riguardo alla madre che lo abbia commesso sulla prole illegittima” (art. 532).

42

CODICE PENALE DEGLI STATI DI PARMA, PIACENZA ECC. ECC. DEL 1820 disponeva: “L'uccisione di un bambino nato di fresco è infanticidio, ed è punita

di morte. La pena dell' infanticidio potrà essere ridotta al primo o al secondo grado immediatamente inferiore alla pena di morte nel solo caso in cui la madre sia stata indotta a commetterlo nella sua prole illegittima, e rimanga provato ch'essa ,non aveva altro mezzo, con cui salvare la vita, o l'onore.” (art. 308).

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18

morte, se commesso su un infante di recente nato e non ancora o battezzato o iscritto nei registri dello stato civile. La causa d’onore veniva contemplata in modo indiretto, come circostanza attenuante (la pena era ridotta al terzo grado dei ferri, per una durata da diciannove a ventiquattro anni), sempre presunta quando il reato veniva commesso su prole illegittima (artt. 349, 352 n. 2, 387)43. Sarà importante, come vedremo in seguito, la definizione della recente nascita attraverso i due requisiti del battesimo e dell’iscrizione nei registri, l’ultimo dei quali sarà ripreso dall’art. 369 del codice Zanardelli.

Più complessa era la disciplina formulata nel codice toscano del 1853, nel quale si prevedeva un effettivo trattamento privilegiato abolendo la previsione della pena capitale. In primis venne formulato l’infanticidio come fattispecie autonoma di reato e quindi distinta da quella dell’omicidio comune. L’art. 316 infatti recitava così: “quella donna

che, nel tempo del parto o poco dopo di esso, ha dolosamente o colposamente cagionata la morte della sua prole, illecitamente concepita, è rea d’infanticidio”. E partendo da questa norma di

carattere generale, era possibile individuare un’ampia casistica entro cui il crimine poteva essere variamente commesso.

Si ebbe così la distinzione tra infanticidio doloso e colposo (artt. 316-320), il primo punito con la casa di forza da dieci a quindici anni se la donna si era determinata al delitto prima che fosse sorpresa dai dolori del parto, da cinque a dieci anni negli altri casi, riconoscendole quindi un’attenuazione di pena per aver agito senza premeditazione. Una simile impostazione recepiva a livello normativo la convinzione, sostenuta dalla medicina legale, che la partoriente vivesse una particolare condizione di debolezza fisica e di alterazione psichica,

43

Si trattava di una presunzione legale: provata l’illegittimità della prole, si desumeva il fine di salvare l’onore. Si veda G.B IMPALLOMENI, I delitti contro la

persona, in Completo trattato teorico e pratico di diritto penale secondo il codice unico del Regno d’Italia, pubblicato da P. COGLIOLO, vol. II, Milano, 1889, p. 291.

Cfr. anche V. COSENTINO, Breve commentario al codice penale italiano, Napoli, 1866, pp. 375-376.

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19

definita mania o follia puerperale44, degenerante in una patologia psichiatrica. Era inoltre previsto l’infanticidio commesso allo scopo di evitare “sovrastanti sevizie” e quello commesso su un infante nato vivo ma non vitale45 (art. 319), reato non punibile nell’ipotesi colposa, ipotesi nella quale la pena scendeva da sei mesi a due anni. L’infanticidio colposo prevedeva invece il carcere da due mesi ad un anno per l’uccisione di prole viva e vitale (art.320).

Il codice dimostrava così l’attenzione del legislatore per il dibattito che nell’800 aveva variamente articolato la fattispecie in parola. Basti pensare alla previsione della madre come unico soggetto attivo, all’importanza assegnata al requisito della vitalità e all’ipotesi delle sovrastanti sevizie che contribuiva ad attenuare la mancanza di un’esplicita previsione di un infanticidio per causa d’onore.

Anche il codice sardo emanato nel 1859, che in astratto equiparava l’infanticidio all’omicidio comune, prevedeva tuttavia la possibilità di riconoscere circostanze attenuanti in favore di chi avesse soppresso il figlio illegittimamente concepito. L’art. 525, come modificato dal decreto luogotenenziale del 1861, così formulava la fattispecie: “l’omicidio volontario è qualificato per infanticidio quando è

commesso in persona di un fanciullo di recente nato e non ancora battezzato o iscritto nei registri dello stato civile”. La pena prevista

rimaneva quella capitale, ma con la possibilità concessa al giudice di diminuirla se il crimine fosse stato commesso su prole illegittima. “In

questo codice l’infanticidio è quindi un’ipotesi di omicidio aggravato, salva la discrezionale facoltà per il magistrato di diminuire la pena nel caso previsto dall’art. 532. Il requisito della causa honoris fa così la sua comparsa in modo indiretto, come ipotesi eccezionale e separata della norma sul reato, della quale non integra ancora gli estremi. È

44

A. STOPPATO, Infanticidio e procurato aborto, Verona-Padova, 1887, pp. 36-56. 45

Un requisito che, come vedremo, impegnerà in accesi dibattiti dottrina e giurisprudenza.

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20

evidente l’arretratezza di questa formulazione nei confronti delle modificazioni dottrinali del periodo sul delitto”.46

In merito alle condizioni del soggetto passivo, si richiedeva, prima delle modifiche apportate dal provvedimento del 1861, che l’infante fosse “di recente nato”. Questo criterio era necessario per specificare che il delitto doveva essere commesso all’atto della nascita o del successivo stato di puerperio della madre. Il codice, però, non offriva elementi precisi per chiarire il concetto di “recente nascita” e questo contribuì a creare ulteriore confusione su un problema a lungo dibattuto in dottrina e controverso in giurisprudenza. Basti prendere in considerazione le legislazioni precedenti le quali, nei vari sforzi interpretativi per darne una definizione, ricorrevano ai criteri cronologici più diversi, che andavano dalle poche ore fino ai 30 giorni. Inoltre, a fronte di una formulazione così generica, i commentatori del codice invitavano ad una certa rigidità nell’applicazione della diminuzione di pena, alla quale si doveva ricorrere solo in presenza di tre condizioni: la prova dell’illegittimità dell’infante ucciso; lo scopo di evitare il disonore ed, infine, la dimostrazione che l’imputata non aveva commesso dei precedenti attinenti alla condotta morale e sessuale. “Non è però chi non veda quanto poteva divenire pericolosa

la libertà lasciata al giudice, specie se si pensi che l’infanticidio era, com’è tuttavia, di competenza della Corte d’Assise, in cui il magistrato che ha la scelta nell’applicazione della pena è diverso da quello che è chiamato a decidere il fatto”.47 L’obbligo di considerare tale circostanza si ebbe, poi, con le modifiche introdotte dal decreto luogotenenziale del 17 febbraio 1861, in occasione dell’estensione del testo sabaudo alle province meridionali.

Nelle disposizioni parmensi del 1820 (art. 308) si riscontrava un chiaro riferimento all’onore, le quali mitigavano la morte, ordinariamente comminata, con i lavori forzati a vita o a tempo nei soli confronti della

46

R.SELMINI, Profili di uno studio storico sull’infanticidio, Milano, 1987, p. 45. 47

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madre spinta all’infanticidio verso la propria prole illegittima a patto che fosse provato che la donna non aveva avuto altro mezzo con cui salvare l’onore o la vita.

Anche il Regolamento gregoriano in vigore dal 1832 concedeva la reclusione a vita (anziché la morte) alla madre che uccideva il frutto di “un parto illegittimo per sentimento di onore” (art. 276).

Il codice estense del 1855 si avvaleva in parte dell’esperienza legislativa toscana nell’attenuare il rigore della pena capitale prevista per l’infanticida con i lavori forzati da dieci a venti anni nell’ipotesi in cui il reato fosse derivato dalla necessità di salvare la vita o di far fronte a “sovrastanti sevizie” (art. 358), formula presente nella normativa del 1853 all’art. 318. Si trattava di disposizioni valide per la sola madre (la norma comminava infatti la morte a chiunque avesse cooperato dolosamente all’infanticidio): anche in esse la causa d’onore era virtualmente compresa dal legislatore nel concetto di illegittimità della prole.

Era, però, soprattutto la determinazione del concetto d’infante, e conseguentemente l’individuazione del momento temporale in cui risultava applicabile la disciplina prevista per l’infanticidio, a creare una differenziazione non solo etimologica, ma anche concettuale di configurazione del reato.48

Non vi era dubbio alcuno che non vi fosse coincidenza tra il valore giuridico e quello meramente semantico dell’espressione “infante”. Per il diritto, infatti, l’infanticidio non designava l’uccisione di un bambino in genere, o, per la precisione, di colui che non sapeva parlare, ma di un neonato (qualunque significato si voglia dare all’espressione). Tanto bastava a differenziare l’infanticidio dal

48

Rilevava Ambrosoli quanto fossero ancora lontane le legislazioni “dal mettersi

d’accordo; e non poco hanno cooperato gli scrittori a introdurre tante a sì rilevanti diversità.” Si veda F. AMBROSOLI, Studi sul codice penale toscano confrontato specialmente coll’austriaco, Mantova, 1857, p. 128.

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figlicidio e dall’aborto, oltre che dal comune omicidio.49

Ne era consapevole Carrara, allorchè precisava come si fosse fatto ricorso ad un linguaggio figurato e improprio, dal momento che “la parola

infante non esprime la infanzia in generale, ma solo un brevissimo periodo di quella, e precisamente la prima aurora della vita estrauterina”.50

Sulla stessa scia si poneva Sighele, per il quale il vocabolo, “che nel suo significato più generale e comune denota ogni

e qualunque uccisione d’infante, è stato adoperato giuridicamente a designare l’uccisione di certi infanti, compiuta da certe persone”.51

49

Il figlicidio (o liberticidio) non solo non partecipava dell’attenuazione di pena riservata all’infanticidio, per la mancanza delle condizioni richieste, ma, al contrario, godeva nei codici ottocenteschi di un trattamento simile a quello riservato al parricidio. L’aborto, invece, si sostanziava nell’interruzione volontaria di una gravidanza e riguardava il feto, un ”organismo umano non ancora nato”. Si è tuttavia assistito, nel tempo, ad un uso disinvolto del termine “infanticidio”, con rilevanti ripercussioni di ordine pratico. Basti pensare ad alcune indagini statistiche condotte nel XIX secolo: fino al 1890 sotto la voce “infanticidio” erano rubricati il figlicidio, il feticidio, l’aborto e perfino l’esposizione di infante, figure certo collegate, ma non sovrapposte né sovrapponibili giuridicamente. “Per pochi altri

reati la quota che compare nelle statistiche giudiziarie è così lontana dalla realtà quanto si verifica rispetto al reato di infanticidio ”. Si veda G. TAGLIACARNE, Infanticidio, abbandono d’infante, e procurato aborto nella vita sociale, studiati sulle nostre statistiche della criminalità, in Giornale degli Economisti e Rivista di Statistica, agosto-ottobre 1925, p. 5. Si veda anche A. STOPPATO, Infanticidio e procurato aborto, Verona-Padova, 1887, pp. 11-16 ( per il quale i dati erano falsati

dal fatto che un gran numero di infanticidi si compivano nell’ombra); A. SPALLANZANI, I reati d’infanticidio e di procurato aborto secondo le statistiche

giudiziarie italiane, Roma, 1931: le statistiche, per l’autore, ricomprendevano nella

nozione d’infanticidio l’uccisione di qualsiasi bambino al di sotto di un anno, distinguendo poi ulteriormente tra infanti con più o meno d’un mese di età, con evidente sfasamento tra la nozione giuridica e la nomenclatura nosologica valida per le statistiche. Per la buona parte dell’Ottocento si disponeva quindi di dati non attendibili, che rendevano l’infanticidio reato difficilmente quantificabile: a seconda del tipo di approccio metodologico, risultava essere ora un reato di rara eccezionalità, ora di inaudita frequenza. Di pratica molto diffusa parlava Langer, il quale, tuttavia giungeva a tali conclusioni considerando anche l’esposizione o l’abbandono dei bambini una forma legalizzata d’infanticidio. Si veda W.L. LANGER, Infanticidio:

una rassegna storica, in T. MC KEOWN, L’aumento della popolazione nell’era moderna, Milano, 1979, p. 225 e, più in generale pp. 225-238). Per Mura Succu

questi dati statistici avevano valenza più sociologica che giuridica, in quanto svelavano appieno la lotta della miseria contro i pregiudizi sociali. Si veda T. MURA-SUCCU, L’infanticidio nella legge penale e nella medicina legale, Sassari, 1884, p. 36.

50

F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, Parte speciale, vol. I, Lucca, 1872, pp. 304-305. L’autore precisava che, se vi era universale concordia su tale concetto, sussisteva invece diversità nella formula con cui si era voluto esprimerlo.

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Come già visto, per il codice napoletano il reato si integrava se commesso su fanciullo nato di recente e non ancora battezzato o iscritto nei registri di stato civile (art. 349); per quello di Parma si doveva trattare di un bambino nato di fresco (art. 308), per quello sardo di un infante di recente nato (art. 525)52, per quello estense di un infante neonato (art. 351); mentre vi erano codici (come quello austriaco e quello toscano) che preferivano prescindere da tale nozione per spostare l’attenzione sulle condizioni della partoriente distinguendosi tra “uccisione avvenuta nell’immediatezza del parto” o

“subito dopo il parto”, lasciando alla libera valutazione del giudice

l’accertamento, nei singoli casi concreti, della possibile riconduzione del gesto criminoso allo stato di eccitamento e di turbamento emotivo della madre nelle ore o nei giorni immediatamente successivi alla nascita del bambino.

A ragion veduta il codice napoletano, il cui contenuto fu trasfuso nell’art. 525 di quello sardo con il provvedimento del 1861, aveva imposto criteri di carattere formale, quale la mancata iscrizione del neonato nei registri di stato civile. Le ragioni di tale previsione erano intuitive: il fatto materiale dell’iscrizione, dando pubblicità alla nascita del bambino, escludeva virtualmente l’unica vera causa attenuante, ossia il fine di occultare la nascita per ragione di onore. L’art. 525 modificato non richiedeva né che soggetto attivo fosse la madre né che la prole fosse illegittima: chiunque poteva essere chiamato a rispondere di infanticidio a patto che l’omicidio volontario si fosse consumato su un fanciullo di recente nato non ancora iscritto nei pubblici registri o non battezzato.

L’infanticidio andò così gradualmente assumendo un’identità propria, cui far corrispondere sanzioni meno severe rispetto a quelle comminate al comune omicidio ogni qual volta fosse sorretto da una specifica

causa sceleris, identificata, per l’appunto, nel motivo d’onore.

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All’appuntamento con l’unificazione penale, il nostro Paese si presentò con il dualismo normativo espresso dai codici piemontese e toscano, che riassumevano ed esprimevano le diverse istanze e concezioni che avevano attraversato la scienza e la legislazione italiana del XIX secolo.

3.2. L’INFANTICIDIO NEL CODICE ZANARDELLI (1889)

3.2.1. Dai lavori preparatori alla formulazione definitiva dell’art. 369 del codice Zanardelli.

Il percorso di elaborazione del reato d’infanticidio, prima di approdare alla formulazione definitiva del 1889, fu lungo e tortuoso, a causa delle oscillanti teorie sostenute dai diversi estensori dei progetti preliminari, e ripercorrerlo sarà fondamentale per comprendere sia il grado d’influenza degli immediati antecedenti normativi sia, al contrario, l’indipendenza mostrata dal testo definitivamente approvato rispetto alle concezioni che ne ispirarono lo stesso iter formativo.

Durante i lavori preparatori al codice del 1889 si ripresentò l’annosa questione a proposito della definizione da assumersi per la fattispecie del delitto suddetto, schierandosi, da un lato, coloro che lo qualificavano come titolo autonomo di reato e, dall’altro, coloro che lo consideravano un omicidio qualificato, a loro volta distinti in chi propendeva per qualificarlo in senso positivo, diminuendone la pena, e chi in senso negativo, aggravandola.

Sulla formulazione del primo progetto del 1868 (Progetto Pisanelli), considerato “un esempio di civiltà ed italianità”53

, pesarono i rilievi mossi da Carrara, il quale intendeva riversare nell’incarico legislativo affidatogli alcuni convincimenti da lui maturati in sede dottrinale.

53

B. PAOLI, Saggio di una storia scientifica del decennio di preparazione del codice

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La Sottocommissione Ambrosoli, Arabia, Tolomei presentò alla Prima commissione un articolo, il 325, che traeva la principale ispirazione dal codice toscano (così anche il progetto promosso nel 1873 da Giovanni De Falco, coredattore del progetto Pisanelli e nominato poi guardiasigilli). Esso faceva coincidere l’infanticidio con l’atto della madre che nel parto “o fin che dura la condizione del parto” toglieva volontariamente la vita al proprio figlio illegittimo54, sia mediante una condotta attiva che omissiva, al fine di salvare l’onore o sottrarsi a sovrastanti sevizie. L’attenuante veniva estesa ad eventuali complici della madre.

Ambrosoli, ponendo a confronto codice toscano e austriaco, non aveva mancato di sottolineare come fosse “dottrina generale e accertata che

la donna nel parto si trova in uno stato psicologico di minore imputabilità, e talora perfino di vero furore”. Ciò bastava a giustificare

la minor pena rispetto all’omicidio: un’eccezione che doveva “valere

unicamente per la madre, e per la durata del parto”.55 Ciò a conferma di quanto il giurista lombardo aveva già espresso in precedenza, accogliendo alcuni orientamenti giurisprudenziali austriaci che consentivano l’applicazione del regime dell’infanticidio commesso in un lasso di tempo successivo al parto, purché sussistesse nella donna quello stato di alterazione d’animo e di mente provocata dall’esperienza appena vissuta.

Su questo profilo si tornava nella seduta del 18 aprile 1868, giustificando proprio con le argomentazioni appena esposte la scelta di

54

Si faceva qui riferimento all’illegittimità della prole (come era accaduto per quasi tutti i codici preunitari) e non del concepimento (come invece previsto dagli artt. 316 del codice toscano e 351 di quello estense). Sembrerebbe una discrepanza meramente lessicale, ininfluente giuridicamente. In realtà la differenza emergeva se si considerava il caso di una donna coniugata fecondata prima della celebrazione del matrimonio: il figlio era presunto legittimo (e non si sarebbe potuto quindi applicare nei suoi confronti la definizione di prole illegittima), pur essendo stato in realtà frutto di un “concepimento illegittimo”. Si veda E. BRUSA, Intorno al nuovo progetto di

codice penale italiano. Osservazioni e proposte in ordine alla circolare indirizzatami in nome del presidente della commissione compilatrice, in Monitore dei tribunali,

1867, p. 1069. 55

F. AMBROSOLI, Studi sul codice penale toscano confrontato specialmente

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estendere il trattamento punitivo più mite a un periodo più ampio, facendolo coincidere con il perdurare dello stato di prostrazione fisica ed emotiva della donna.56

Le argomentazioni di Ambrosoli trovarono solo in parte sostegno nella persona di Carrara. Questi, esponendo le opinioni degli scrittori circa la nozione del reato, disse che “taluni considerano la pressione morale

che sulla partoriente illegittima esercita il timore della vergogna; e per essi l’infanticidio non può verificarsi che sopra un neonato illegittimo, e solo quando il fine della uccisione di infante è quella di salvare l’onore proprio o della famiglia, a cui la madre appartiene. Ogni altra uccisione di infante rientra nella categoria degli omicidi comuni”.57 Il giurista, quindi, propose di considerare e disciplinare come ipotesi attenuata di omicidio il solo infanticidio per causa di onore, senza distinzione tra madre di prole legittima o illegittima, senza particolare insistenza sulla condizione psicologica della donna e limitando il più possibile il lasso temporale di azione (“nel parto o

poco dopo” esso, come era già nel codice toscano), poiché “la forza della pressione morale del sentimento d’onore perde di intensità man mano che si allontana il momento del parto e si aprono altre vie per nascondere il neonato”.58

Caduto il rilievo dato allo status di illegittimo e attribuita rilevanza esclusiva alla causa d’onore, si decise di estendere il trattamento sanzionatorio previsto per l’infanticida anche ai familiari se mossi ad agire dal solo scopo di evitare il pubblico disonore.

56

“Trattandosi di una disposizione che prende le sue ragioni non tanto dalla minore

importanza della creatura, quanto dalla minore imputabilità della madre, si accolse il suggerimento dei medici legali, adottando quella locuzione scientifica che appunto serve a fissare il punto, di caso in caso, in cui cessa nella partoriente lo stato anormale che giustifica la disposizione speciale sull’infanticidio”. Si veda Il progetto del codice penale pel Regno d’Italia, vol. I, verbale n. 86, seduta del 18

aprile 1868, Firenze, 1870, p. 535. 57

G. CRIVELLARI, Il Codice penale per il Regno d’Italia, vol. I, Roma, 1889, p. 535.

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Il progetto del codice penale pel Regno d’Italia, vol. I, verbale n. 86, seduta del 18 aprile 1868, Firenze, 1870, p. 536.

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Fu nella seduta del 4 gennaio 1870 che si preferì recuperare gli estremi presenti nel codice napoletano prima e nel testo sardo modificato poi. L’infanticidio veniva ricompreso tra gli omicidi aggravati (una sorta di omaggio al passato) per la particolare barbarie di un atto che spegneva la vita di un essere incapace di suscitare sentimenti diversi dalla benevolenza.

Il reato era dunque qualificato come l’omicidio volontario di un infante non ancora iscritto nei registri di stato civile commesso entro i primi cinque giorni dalla nascita (art. 285)59: soluzione che anticipava quella poi accolta nella redazione finale.60 Se il reato era stato commesso in un periodo successivo al termine fissato, trovava applicazione la disciplina sull’omicidio. Nella seduta del 7 gennaio si decise di limitare la scusante a chi avesse agito per salvare l’onore proprio o della moglie, della madre, della figlia o della sorella (art. 347), ritenendo eccessivo e pericolosamente vago (e perciò fonte di incertezza interpretativa) il richiamo generico alla famiglia come possibile beneficiaria del trattamento sanzionatorio attenuato.61

Si mantenne tale impostazione anche nei progetti successivi, con lievi modifiche (rivolte più che altro alla determinazione della pena) che tuttavia non incidevano né scardinavano la ratio del sistema.

59

la redazione successiva escluse il riferimento numerico, preferendo la più generica formula “entro i primi giorni dalla sua nascita”.

60

Il progetto del codice penale pel Regno d’Italia, vol. II, verbale n. 49, seduta del 4 gennaio 1870, Firenze, 1870, p. 335.

61

Il progetto del codice penale pel Regno d’Italia, vol. II, verbale n. 49, seduta del 4 gennaio 1870, Firenze, 1870, p. 347. Di nuovo Ambrosoli interveniva sul punto, rilevando che la nozione di infanticidio era stata dedotta “dal doppio elemento che

consiglia di aumentare la pena, cioè dall’impotenza della vittima a difendersi e dalla facilità di occultare il reato … Ben diverso dalla nozione è il computo delle cause scusanti che nella maggior parte dei codici si vollero inopportunamente innestare nella definizione stessa dell’infanticidio, riferendolo alla sola madre e al solo tempo del parto o immediatamente successivo. Il progetto, distinguendo accuratamente le due cose, ha rimandato le disposizioni speciali di attenuazione al capo che ne tratta in generale per tutte le specie di scuse, scemando poi la pena quando l’infanticidio è commesso per salvare l’onore”. Si veda Sul progetto del codice penale e del codice di polizia punitiva pel Regno d’Italia. Rapporto della commissione nominata con decreto 3 settembre 1869 a Sua Eccellenza il Ministro Guardasigilli, Firenze, 1871,

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28

Il 24 febbraio 1874 fu elaborato un progetto di codice penale da parte del guardasigilli Paolo Onorato Vigliani62, al quale Carrara attribuì il merito di aver chiesto la collaborazione degli studiosi di ogni dove, dando vita ad un vero e proprio “plebiscito di criminalisti italiani”.63

Nel progetto del 1874, sulla linea degli orientamenti già delineati, si desumeva che il reato d’infanticidio si distinguesse dal comune omicidio per la maggiore responsabilità dell’agente; infatti la facile consumazione e le condizioni favorevoli ad un veloce occultamento del delitto (dato che la nascita dell’infante era ancora ignota al resto della società), portavano a far presumere la premeditazione durante i mesi della gravidanza.

La stessa configurazione della fattispecie si ripresentò, poi, nel Progetto Mancini del 1876, il quale costituì l’ultimo (rilevante in materia di infanticidio) tentativo di elaborazione di un codice penale prima dell’entrata in vigore del Codice Zanardelli. Quando il guardasigilli Pasquale Stanislao Mancini subentrò a Vigliani nella carica, adottò inizialmente il progetto redatto sotto la carica del predecessore, e ne affidò la revisione ad una commissione di alto profilo intellettuale, che lo sottopose all’esame delle assemblee legislative.

Non di scarsa rilevanza, furono i rilievi espressi da Buccellati in ordine al requisito della vitalità del neonato. Costui, nel distinguere il reato di aborto dall’omicidio a causa dell’assenza di vitalità del soggetto

62

L’accuratezza e perspicacia del progetto Vigliani furono lodate dallo stesso Carrara, il quale non mancò di affermare che “se il progetto di codice penale

presentato al Senato dallo illustre Guardasigilli Vigliani, fosse uno di quei tanti progetti che fecondati all’uggia del codice penale francese e nati senza vertebra non hanno diritto a vivere, né speranza di vita, sarebbe vanità formarne argomento di studi. Ma il progetto Vigliani è un progetto serio, è il riassunto dei tentativi fatti in Italia negli ultimi dieci anni, è ricco di alcune bellissime idee; moltissime cose eccellenti contiene; e molte che, quantunque altri potesse desiderarle migliori, pur sono accettabili. Esso ha tutta la probabilità di divenire il tipo del futuro codice penale unico della penisola; che tanto si vagheggia quasi complemento della nostra unificazione”. Si veda F. CARRARA, Pensieri sul progetto del codice penale italiano del 1874, Firenze, 1874, p. 5.

63

F. CARRARA, Pensieri sul progetto del codice penale italiano del 1874, Firenze, 1874, p. 6.

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