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Capitolo 3

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Academic year: 2021

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Capitolo 3

Prostitute, Polizia e Medici italiani

.

Nei capitoli precedenti ho analizzato brevemente il quadro normativo e culturale in merito al discorso e alla gestione del fenomeno prostituzionale nel XIX secolo in quanto pericoloso e meritevole di sorveglianza.

Una cosa è certa: in tutte le costruzioni argomentative la figura della prostituta appare insanabilmente antitetica a quella della donna normale, sia che vengano apportate argomentazioni biologiche, sia che prevalga la concentrazione sull’atto criminoso che non sulla persona. La prostituta emerge dunque come la vera e propria antitesi rispetto a comportamenti e ai canoni fondanti della società vittoriana, un soggetto totalmente diverso e potenzialmente distruttivo per la sopravvivenza dell’ordine sociale e morale. Mary Gibson, analizzando gli scritti di due figure indubbiamente molto diverse fra loro come Giovanni Bolis e di Salvatore Ottolenghi, mette in luce come a mezzo secolo di distanza entrambi fossero eredi di una lunga tradizione culturale sviluppatasi nel corso di tutto l’800 che rimarcava l’opposizione insanabile fra normalità e devianza, fra madre e prostituta.1

Quali erano, dunque, le differenze fra le prostitute e le donne cosiddette oneste? Il loro profilo socio-economico era realmente diverso? Da dove provenivano, quali lavori svolgevano nella società borghese? Erano davvero una categoria diversa?

La natura dei regolamenti ottocenteschi implicava una grande opera di raccolta di informazioni. Se questo aspetto mette lo storico in condizione di compiere le proprie ricerche sulla base un corpus di fonti abbastanza organico, dall’altro lato il rischio è quello di operare su fonti prodotte quasi esclusivamente dai regolamentazionisti e dagli abolizionisti ma non dalle prostitute.

Inoltre, tutta la documentazione presente negli archivi delle questure riguarda solo le prostitute legalmente registrate, laddove tutti i contemporanei lamentano una

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fortissima presenza di prostitute clandestine nelle città.2 Ogni lavoro che affronti questo tipo di tematica, deve quindi tenere in considerazione questo numero imprecisato di clandestine, ma ciò non toglie l’importanza e la completezza di questo tipo di documentazioni rispetto a quelle dei paesi abolizionisti.

Allo scopo di analizzare quello che potrebbe essere definito il ciclo di vita3 delle prostitute nell’Italia fra gli anni 60-90 del XIX secolo, occorre dunque muoversi su un triplice binario rappresentato dal loro inquadramento sociale attraverso le statistiche disponibili, dal loro rapporto con la polizia, dal loro rapporto con la casta medica italiana.

3.1) Le prostitute di Stato e la statistica morale.

Per cercare di dare una visione d’insieme del profilo sociale delle prostitute attraverso le inchieste conoscitive portate avanti dal parlamento, tenterò in forma schematica di descriverne numero, distribuzione territoriale, età, provenienza, mobilità, livello di istruzione, professione precedente, stato civile, situazione familiare.

Gli studi che si sono occupati dell’aspetto culturale della prostituzione italiana di fine 800 – come quelli di Canosa, Gattei, Greco, Villa, Antonini, Buscarini, Turno, Forzoni, Valenzi, fino al lavoro decisamente più elaborato e dettagliato di Mary Gibson, utilizzano in realtà le stesse fonti derivanti in particolare dalle inchieste Nicotera (1875) e Tommasi Crudeli (1883, pubblicata nel 1885, ma relativa al 1881), così come altre fonti prodotte da uffici periferici come quello di Bologna. Altre documenti utilizzati dagli storici, generalmente per confermare i risultati usciti dalle inchieste, riguardano opere coeve ai regolamenti come quelle di Tammeo, Tommasoli, Morelli, Pellizzari, White Mario, Mozzoni e altri. Infine, risorsa a dire il vero poco esplorata fino a questo momento, molte informazioni sono emerse dallo spoglio di alcune testate periodiche specialistiche che avremo modo di commentare.

2

Tammeo G., La prostituzione, p. 256.

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L’obiettivo è dunque quello di ricostruire un’immagine sociale riconoscibile delle prostitute italiane nella seconda metà del XIX secolo, cercando di integrare fonti diverse al fine di fornire un quadro il più completo possibile.

Nella Tab. 1 è presente l’andamento del numero di registrate fra il 1869-1885.

Tab. 1 Prostitute patentate fra il 1869-1908.

Anno 1869 1870 1874 1875 1880 1881 1882 1883 1885 1898 1904

Patentate 8212 8302 9039 9098 10350 10442 9157 8724 8338 5518 5847

Fonti: Tammeo G., La prostituzione, p. 84; Canosa R., Sesso e Stato, p. 104.

E’ possibile constatare, ad uno sguardo rapido della curva delle iscrizioni, che l’aumento del numero delle registrate caratterizza la maggior parte del periodo del regolamento Cavour, sebbene già dal 1882 si manifesti una tendenza alla diminuzione4. Infatti il trend si presenta positivo fra 1869-1881, passando da 8212 a 10442, per poi iniziare una discesa che lo porta a quota 8338 nel 1885. I dati disponibili successivi confermano il declino delle iscrizioni nel corso della seconda metà del XIX secolo, sebbene sia visibile anche un nuovo sensibile aumento nel corso del primo decennio del XX secolo, in ogni caso con un numero di registrate inferiore di circa il 25% rispetto al 1869.

La loro percentuale sulla popolazione totale conferma questa tendenza, passando dallo 0,03% nel 1870 allo 0,04% nel 1882, per poi scendere allo 0,02 nel 1890,5 mentre a livello regionale i dati mostrano come in tutte le regioni italiane la proporzione delle prostitute patentate su 10.000 abitanti diminuisca sensibilmente dopo il 1881. Soltanto la Toscana mostra una tendenza uniforme nel tempo, con un leggerissimo aumento del numero delle patentate fra 1881-85 pari allo 0,13%.6

4 Questo dato sembra invalidare l’idea regolamentazionista secondo cui la responsabilità del declino

della prostituzione patentata fosse imputabile al Regolamento Crispi in virtù del fatto che venisse innalzata l’età valida per entrare in un postribolo da 16 a 21 anni. Se indubbiamente questo provvedimento favorì la clandestinizzazione delle prostitute minorenni e la loro scomparsa dai registri, dall’altro lato la diminuzione precoce delle iscritte testimonia un cambiamento nel modo di esercitare la prostituzione che esula dai regolamenti e che si ricollega al contesto sociale dove la prostituzione part time, quindi necessariamente clandestina, cresce in maniera esponenziale.

5 Gibson M., Stato e Prostituzione in Italia, p. 122. 6

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Sebbene le autorità tendessero a voler concentrare il più possibile il fenomeno, è possibile comprendere la realtà effettiva delle cose nelle Tab. 2 – 3, osservando l’andamento del numero delle case di tolleranza e la percentuale, su base regionale, delle donne registrate e attive dentro un bordello o come isolate relativa al 1881.

Tab. 2 Case di tolleranza in Italia fra il 1875-1908.

Anno 1875 1881 1885 1898 1904 1908

Case di tolleranza

873 1119 916 1115 966 882

Fonti:Annuario Statistico Italiano, Eredi Botta, Roma, 1884, p. 707; Canosa R., Sesso e Stato, p. 105.

Osservando l’andamento incrociato del numero delle registrate e dei bordelli è possibile concludere che, a fronte di un numero tendenzialmente più stabile di case chiuse, segnato persino da una ripresa a cavallo fra i due secoli, diminuisce in maniera stabile il numero delle prostitute presenti in media in ogni casa chiusa. Si passa infatti 10,42 nel 1875, a 9,3 nel 1881, a 4,7 nel 1898, testimoniando la dispersione del fenomeno e il fallimento conseguente delle politiche di regolamentazione volte alla concentrazione delle prostitute.7

Dall’osservazione infine della Tab. 3, emerge come persino nel momento in cui il sistema regolamentazionista funziona a pieno ritmo la proporzione fra le prostitute registrate attive dentro una casa o come meretrici isolate ammonti al 63 e 37%. Eseguendo infatti un semplice calcolo, possiamo capire che la percentuale di prostitute in case tollerate, ad esempio, era del 63% in Piemonte, del 70% in Liguria, del 57% in Lombardia, del 66% in Emilia, del 53% nella sola Roma, 68% in Campania, 62% in Sicilia. Solo la Toscana sembra avere un rapporto più sbilanciato in favore delle case chiuse: se infatti la media nazionale è del 63%, in Toscana le prostitute attive dentro i bordelli sono l’82%.

7

Come dimostra la Tab. 3, anche il numero di prostitute medio dentro un postribolo varia in base alle regioni. Passiamo dalle 10,19 prostitute per bordello in Piemonte nel 1881, a 3,7 per la Liguria, 7,2 per la Lombardia, 6,2 per Roma, 7,2 per la Campania, 7,6 per la Sicilia.

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Tab. 3 Statistica della prostituzione per il 1881.

Compartimenti Numero dei Postriboli

Prostitute iscritte negli Uffici Sanitari

Prostitute che durante il 1881

In postriboli

Isolate Tot. Furono arrestate e iscritte nei registri

Furono radiate

dai registri Maggiorenni Minorenni Tot.

Piemonte 63 642 377 1019 155 100 255 485 Liguria 67 251 106 357 98 87 185 75 Lombardia 81 590 447 1037 163 76 239 564 Veneto 174 445 140 585 222 109 331 723 Emilia 70 313 177 490 113 69 182 228 Umbria 8 64 33 97 46 22 68 81 Marche 28 95 43 138 15 6 21 134 Toscana 88 397 90 487 106 36 142 323 Roma 54 340 306 646 67 53 120 65 Abr./Molise 28 200 68 268 97 24 121 182 Campania 189 1376 638 2014 472 161 663 1631 Puglie 89 519 290 809 232 16 248 404 Basilicata 9 65 24 89 37 16 53 52 Calabrie 27 241 324 565 292 165 457 519 Sicilia 135 1033 626 1659 498 260 758 718 Sardegna 9 72 90 162 31 6 37 87 Regno 1119 6643 3779 10422 2644 1206 3850 6271

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Secondo i dati raccolti da Giuseppe Tammeo, in base ai quali è possibile ricostruire una mappatura geografica abbastanza precisa della prostituzione patentata negli anni 80, risulta come essasi concentrasse in particolare nelle città più industrializzate del Nord di Piemonte, Lombardia, Liguria, nelle regioni povere del sud ma dotate di importanti città (Campania, Sicilia, Puglia), a Roma (soltanto la capitale aveva un numero di prostitute quasi doppio a quello della Liguria), e nelle realtà intermedie dove, a fronte di centri urbani in forte espansione demografica e non sempre industriale, l’emigrazione dalle campagne e la presenza di militari davano un buon contingente alla prostituzione cittadina (ad esempio la Toscana, l’Emilia, il Veneto con i rispettivi capoluoghi).

La densità delle prostitute nelle aree urbane supera di molto quella della media nazionale, attestandosi in percentuali variabili fra lo 0,11% di Bologna e lo 0,31% di Napoli. In ogni caso, la prostituzione italiana patentata era concentrata quasi per il 50% nei comuni principali della penisola. 8 Come dice Tammeo,

le provincie che hanno il maggior contingente di prostituzione sono: Torino, Genova, Milano, Venezia, Bologna, Ravenna, Firenze, Livorno, Ancona, Roma, Caserta, Napoli, Bari, Foggia, Lecce, Catanzaro, Cosenza, Reggio Calabria, Caltanissetta, Catania, Agrigento, Messina, Palermo, Siracusa, Cagliari . Quelle meno contagiate sono: Bergamo, Como, Treviso, Rovigo, Udine, Vicenza, Reggio Emilia, Arezzo, Grosseto, Lucca, Massa Carrara, Ascoli Piceno, Macerata, Pesaro, Urbino, Teramo, Avellino, Benevento.9

Riporto di seguito un estratto della tabella redatta da Tammeo riguardante la prostituzione patentata in Toscana nel 1885. Se essa presenta una situazione caratterizzata da un numero di prostitute piuttosto basso, colpisce in particolare il caso della città di Livorno, la quale ha il tasso di prostitute per 10.000 abitanti più alto d’Italia.

8 Tammeo G., La prostituzione, p. 194. 9 Ivi, pp. 195-6.

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Tab. 4 La prostituzione patentata in Toscana nel 1885.

Province e compartimenti

Arezzo Firenze Grosseto Livorno Lucca Pisa Siena Toscana

Iscritte 1885 11 226 7 143 8 37 29 461 Per 10.000 ab. 0,44 2,75 0,59 11,51 0,27 1,25 1,36 2,00

Fonte: Tammeo G., La prostituzione, p. 194.

Questo primo affresco globale, come detto, riguarda solo le prostitute pubbliche, mentre la preoccupazione maggiore delle autorità era rivolta verso le clandestine, ritenute la prima cagione di contagio poiché non visitate e sorvegliate.10 Non esistono dati precisi, ma tutte le fonti lasciano pensare che il loro numero dovesse essere almeno uguale, se non maggiore, a quello delle patentate.11

Inoltre la storiografia ha evidenziato come nell’ultimo ventennio del secolo, i risultati delle commissioni parlamentari degli anni 80 e le relazioni di Rocco Santoliquido, successore di Pagliani alla Direzione Nazionale della Sanità Pubblica e ispiratore della riforma sanitaria del 1905, facessero emergere un quadro di sostanziale mutamento nei modi e nei luoghi in cui si esercitava la prostituzione.

In particolare, nella relazione presentata al congresso medico di Parigi del 1900, Santoliquido sostenne che la crisi economica anni 90 era alla base dell’aumento della prostituzione clandestina e che questo, e non la repressione, faceva calare il numero delle registrate. Egli disse che le case chiuse erano un’attività improduttiva e che le donne tendevano a esercitare part time e come forma integrativa di reddito, comunque tenendosi i guadagni.12

10 Se il timore della clandestinità rappresenta un leitmotiv obbligato del pensiero regolamentazionista ,

l’andamento positivo del numero delle iscrizioni fino al 1881 poteva aver in qualche modo placato le ansie dei funzionari testimoniando che gli sforzi del governo portavano a dei risultati. Nel momento in cui però questo numero diminuisce, il timore delle falle nel sistema e quindi della clandestinità ritorna potentemente in auge. Corbin A., Les filles de noce, pp. 42-44.

11

Gibson M., Stato e prostituzione in Italia, p. 126. Se questa è l’opinione della Commissione del 1883, il medico Tommasoli esagerava sicuramente sostenendo che le patentate fossero solo un sesto delle prostitute effettive. Tommasoli P., Prostitution et maladies veneriennes en Italie : Enquete de M. Le

Professeur D. Tommasoli, Traduit de M. le Dr. L. Le Pileur, H. Lamertin, Bruxelles , 1900, p.28.

12 A tal proposito si veda Canosa R., Sesso e Stato, pp. 103-4. Cfr. Gibson M., Stato e prostituzione in

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In ultimo – come dimostra Gibson – è possibile sostenere che, seppur non esistano dati aggregati, una gran parte delle argomentazioni presenti nel corso del paragrafo possono essere facilmente estese alle prostitute clandestine, poiché la provenienza sociale sembra coincidere in modo piuttosto netto. Valgono, d’altra parte, alcune considerazioni che occorre tener presenti scaturite dall’inchiesta del 1883 in relazione alla diffusione della prostituzione clandestina in alcune categorie non appartenenti al proletariato urbano come le insegnanti. Queste componenti, come ad esempio le casalinghe dedite a prostituzione clandestina che non risultavano nelle rilevazioni, sicuramente potrebbero in parte scalfire le evidenze statistiche in merito ad alcuni parametri come lo stato civile o il livello di alfabetizzazione. Tuttavia, in linea di principio, è possibile affermare come clandestine e patentate fossero affini sotto la quasi totalità degli aspetti.

Queste prime considerazioni generali, così come l’attenzione posta sul fenomeno della clandestinità, rappresentano il contesto entro cui iniziare ad individuare le prostitute come gruppo sociale. Come accennato in apertura del capitolo, verranno presi in esame alcuni parametri generali come l’età, lo stato civile, il livello di istruzione, la provenienza e la mobilità, la professione e la condizione familiare.

Nella Tab. 5 riporto le statistiche disponibili sull’età delle prostitute nel 1875, 1881, 1885.

Tab. 5 Età delle prostitute patentate nel 1875-1881-1885.

Anno 16-20 21-30 31-40 41-50 + di 50 Regno 1875 2455 4776 1586 234 47 9098 1881 2953 5456 1588 425 - 10.422 1885 2328 4589 1471 - - 8388 % 1875 26,98 52,50 17,44 2,57 0,51 % 1881 28,33 52,35 15,24 4,08 - % 1885 27,76 54,70 17,54 - -

Fonte: Tammeo G., La Prostituzione, p. 84. (per il 1881 si intende oltre i 40 anni; per il 1885 si intende oltre i 30 anni)

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Come dice Tammeo, “i rapporti del 1875, del 1881, del 1885, sono quasi uguali. La differenza nel primo gruppo di età tra i tre rapporti è data da questo: che nel 1875 furono considerate le donne fra i 16-20 anni, nel 1881 quelle da 17 a 20, nel 1885 tutte quelle al di sotto dei 20 anni.”13 L’età media oscillava intorno ai 20 anni (ben oltre l’80 % era compresa nella fascia 16-30) e solo nel meridione esistevano percentuali più alte di minorenni.14

In definitiva, considerando che le donne italiane fra i 16-30 anni rappresentavano circa il 25% del totale della popolazione fra gli anni 60-80, quella categoria forniva un contingente di circa l’80% alla prostituzione.15 Dal 1888, escludendo la fascia 16-20, l’età media risulterà inevitabilmente più alta.

In un contesto dunque caratterizzato per una stragrande maggioranza da donne sotto i trenta anni, non sorprende il fatto che esse risultino in netta maggioranza nubili. I dati raccolti da Tammeo dimostrano ampiamente come fra il 1875-1885 circa l’80% delle prostitute fosse nubile, il 13% maritata, il 7% vedova.16 Questo dato sembra quello che più di ogni altro differenzia le prostitute dalla popolazione femminile in genere, poiché circa il 55% delle donne italiane fra i 15-45 anni d’età nel decennio erano sposate.17 L’analisi storiografica di Gibson - così come quella di Tammeo - ha documentato le cause e le implicazioni contenute in questo dato, sebbene la storica americana sottolinei come, disaggregando i dati e concentrandosi sulla popolazione femminile fra i 15-35 anni, la percentuale delle donne sposate scenda al 44%, pur mantenendo un distacco notevole rispetto alle prostitute.18

Passando ora a considerare il livello di istruzione medio delle prostitute, una premessa necessaria concerne il fatto che dal censimento del 1881 risulta come l’analfabetismo caratterizzasse la maggioranza netta degli italiani, precisamente il 67% in media dai cinque anni in su per ambo i sessi, il 61% dei maschi e il 73% delle femmine.19 Se questo dato evidenzia l’insufficienza delle politiche statali adottate in tema di

13

Tammeo G., La prostituzione, p. 85.

14

Tommasoli P., Prostitution et maladies vénériennes, p. 33.

15

La percentuale sulla popolazione generale è dedotta da Sommario di Statistiche Storiche dell’Italia, 1861-1975, ISTAT, Failli, Roma, 1976, p. 12, tav. 5. Cfr. Tammeo G., La Prostituzione, pp. 87-88, 90.

16

Ivi, p. 97.

17

Ivi, pp. 87-8. Cfr. Gibson M., Stato e prostituzione in Italia, pp. 131 sgg.

18 Ibidem. 19

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educazione scolastica nel primo ventennio unitario20, d’altro canto l’analisi per compartimenti evidenzia una sostanziale differenza regionale e fra aree urbane e rurali.21

Detto ciò, non sorprende come il livello d’istruzione medio delle prostitute fosse più basso di quello della popolazione femminile generale. Se quindi fra le prostitute era più diffuso l’analfabetismo rispetto alle donne in generale, la loro condizione pare abbastanza simile se rapportata alla componente maschile, testimoniando come l’analfabetismo fosse più diffuso fra le donne a prescindere dal fatto che fossero prostitute o meno.

Tab. 6 Livello di istruzione delle prostitute registrate nel 1868-1875-1885.

Istruzione 1868 1875 1885

% Alfabetizzate 12 16,19 25,96

% Analfabete 88 83,81 74,04

Fonte: Tammeo G., La Prostituzione, p. 202.

Le statistiche disponibili relative ai comuni per il 1875 riportate da Gibson, mettono in luce un forte sproporzione fra le varie aree regionali. Se le grandi città del centro nord presentano tassi di analfabetismo femminile sotto il 40%, quelle del meridione sono oltre il 60%. Lo stesso vale, in proporzione, per le prostitute: l’analfabetismo colpisce in

20

Comparando i risultati derivanti dai censimenti del 1861, 1871, 1881, è possibile vedere come l’analfabetismo italiano fosse diminuito di circa il 10% in 20 anni per entrambi i sessi. I tassi generali di analfabetismo passano da 78%, 72%, 67% nei tre censimenti; per i maschi la percentuale passa da 72%, 67%, 61%; per le femmine la percentuale passa da 83%, 78%, 73%. Risulta dunque che, a fronte di un calo dell’analfabetismo del 10%, corrisponda una posizione iniziale di svantaggio femminile pari all’11% e una di arrivo del 12%. Annuario Statistico Italiano, p. LXII.

21

Infatti, osservando i tassi analfabetismo in relazione ai diversi compartimenti, emerge in modo chiaro quanto la realtà italiana fosse, anche da questo punto di vista, fortemente frammentata. Le regioni con il maggior tasso di alfabetizzazione femminile sono la Lombardia e il Piemonte in particolare, seguite da alcune realtà venete con percentuali in media del 35-45% o di poco superiori al 50%. Seguono molte realtà intermedie di Emilia e Toscana in particolare, con percentuali dal 60-75% in linea dunque con la media nazionale. Il maggior tasso di analfabetismo femminile è concentrato in tutte le realtà urbane piccole, medie e grandi del meridione. Esulano in parte da queste considerazioni le metropoli più importanti, Napoli e Palermo, le quali hanno generalmente livelli di alfabetizzazione femminile più alti.

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media circa il 65% delle prostitute delle metropoli del centro nord e oltre il 90% di quelle meridionali.22

Questo stato di cose, per Giuseppe Tammeo, non è frutto del caso. Egli riporta un gran numero di statistiche a sostegno della tesi che postula il legame fra prostituzione ed analfabetismo.23

Fra le caratteristiche salienti della vita delle prostitute, figura senza dubbio l’alta mobilità.

Non sorprende dunque – come non mancano di confermare l’analisi di Gibson - che la provenienza delle ragazze fosse generalmente diversa da quella del luogo in cui esercitavano, specie nelle realtà urbane. Nel 1875, a livello nazionale solo il 50% delle prostitute registrate era originaria della stessa provincia, il 45% di altra provincia italiana, il 5% straniere. Nelle città, come accennato, le percentuali variano notevolmente rispetto alla media nazionale: in tutte le città centro settentrionali la percentuale di prostitute autoctone va dal 15% di Genova al 42% di Milano, attestandosi in media al 28%; nelle città centro meridionali la percentuale è circa doppia nel caso di Roma e Napoli, tripla nel caso di Palermo. Allo stesso tempo la percentuale delle prostitute provenienti da altra provincia italiana segue il trend precedente, attestandosi al 58% al centro nord, circa al 50% a Napoli e Roma, al 25% a Palermo. Le prostitute straniere, che sono solo il 5% a livello nazionale, variano dal 13% al centro nord, al 3,5% di Roma e Napoli allo 0% di Palermo al 30% di Venezia.24 Sembra delinearsi una realtà dove le prostitute del centro nord migrano entro un raggio di poche centinaia di km verso le città in via di sviluppo, verso le metropoli e molto raramente a sud di Firenze; mentre al centro sud la mobilità sembra svilupparsi al massimo verso le città principali, avendo Napoli e Palermo percentuali molto più alte di autoctone.

22 Gibson M., Stato e prostituzione in Italia, p. 134. 23

Nella tabella redatta da Tammeo, vengono elencate le principali città italiane e il rapporto fra tasso di analfabetismo e livello di prostituzione. Il quadro generale è quello di un crescita graduale della prostituzione in relazione al tasso di analfabetismo femminile generale, seguendo una linea ascendente da nord a sud. La Toscana si presenta abbastanza controcorrente, poiché aveva tassi di analfabetismo fra 50-70% e un numero di prostitute per 1000 abitanti molto basso nelle città come Grosseto, Lucca, Arezzo, medio basso nelle città come Pisa (62% analfabete e 1,25 prostitute per 1000 abitanti) e Siena, piuttosto alto a Firenze (2,78 prostitute per 1000 abitanti) e spropositato a Livorno, porto di mare, dove a fronte del 40% di donne analfabete si riscontrano 11,51 prostitute per 1000 abitanti, la percentuale più alta d’Italia. Tammeo G., La prostituzione, p. 205.

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Se Tammeo osserva come le donne migrino meno, le rotte migratorie delle prostitute non sembrano molto diverse da quelle che caratterizzavano le migrazioni femminili interne dalla campagna alla città in cerca di lavoro.25 Entrambe hanno percorso, rispetto ai maschi, tragitti molto più brevi che non andavano oltre i paesi europei confinanti e che in gran parte rimanevano entro il nord, centro, sud. Come dice Bruna Bianchi, “la corrente di migrazione femminile era quella che dai comuni rurali conduceva in città più o meno vicine, molto spesso un capoluogo di provincia o comunque città che si andavano espandendo”.26

Questo accenno alle migrazioni femminili rimanda inevitabilmente alla questione lavorativa, quella che Tammeo definiva “la parte più importante della statistica sociale”.27

Per quanto riguarda la condizione del lavoro femminile nell’Italia unita, un primo dato di lungo periodo che colpisce riguarda il calo costante dell’occupazione femminile dal 1881 al 1901. Pierfrancesco Bandettini mostra come la percentuale delle donne sul totale della popolazione occupata, sia passato dal 37,6% nel 1881 al 34,4 del 1901; allo stesso tempo la percentuale delle donne occupate passa dal 40,1% del 1881 al 32,3 del 1901.28 A livello regionale, sebbene in tutti i casi il segno sia negativo, le differenze sono notevoli: se in Sicilia fra il 1881-1921 il 73,9% delle donne si era ritirato dal mondo del lavoro, in Lombardia e Toscana rispettivamente il 30,7 e il 28%, in Piemonte il 13,8, in Emilia il 10,5. Questi trend generali rimarranno tali almeno fino al 1951, quando la percentuale delle donne sul totale degli occupati era del 25,1%.29

Questo declino fu in buona parte dovuto al ruolo delle donne nell’economia italiana. Osservando i dati riportati da Bandettini relativi ai vari settori economici, emerge come

25 Egli dice che nel decennio 1876-86 sono emigrati in media per il 71% maschi e per il 29% femmine e

che le femmine hanno iniziato a spostarsi più tardi rispetto ai maschi. Ibidem, p. 192. Cfr. Sommario di

statistiche storiche italiane, Istat, Roma, 1968, p. 30.

26 In Italia, continua Bianchi, la presenza femminile nei flussi migratori che si svilupparono nel

ventennio 1882-1901 fu così importante che le donne risultarono più numerose nel saldo migratorio dei maggiori centri urbani, tanto al nord quanto al sud. Bianchi B., Lavoro ed emigrazione femminile

(1880-1915), in (cura di) Bevilacqua P., De Clementi A., Franzina E., Storia dell’emigrazione italiana, Vol. 1., Partenze, p. 261. Cfr. Alberoni F. Aspects of Internal Migration Related to Other Types of Italian Migration, in (cura di) Jansen C.J., Readings, in the Sociology of Italian Migration, Pergamon Press,

Oxford, 1970, p. 311 e sgg.

27 Tammeo G., La prostituzione, p. 98. 28

Bandettini P., The employement of women in Italy 1881-1951, in Comparative Studies in Society

History, Vol. 2, No. 3, (apr. 1960), pp. 369-374. In particolare si veda p. 371 e 374.

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la percentuale di donne sul totale degli occupati passi dal 35,9% al 33,1% nel settore primario, dal 45,1% al 33,3% nell’industria, settori che in assoluto assorbivano la maggior parte dell’occupazione femminile.30 Esse poi rappresentano circa il 40% nella categoria del commercio e servizi (in gran parte servizio domestico), con un trend in discesa negli anni successivi, mentre gli unici settori dove si registra un aumento della percentuale di donne sul totale sono la pubblica amministrazione (dal 15,6% al 19% fra 1881-1901) e i trasporti e le comunicazioni (dallo 0,8% al 1,8%).31

Se il maggior numero in assoluto di donne lavorava nel settore agricolo, come del resto la maggioranza della popolazione italiana, nell’ambito industriale prevaleva nettamente la loro presenza all’interno dell’industria tessile e in quella dell’abbigliamento.32 Nell’industria meccanica, al contrario, nel 1901 le donne rappresentano il 2,5% della manodopera totale.33 Con queste premesse, risulta come l’industrializzazione abbia provocato una riduzione marcata dell’occupazione femminile mentre, come dice Bandettini, “finally, social legislation has also contributed to reduce the employment of women”.34

Sul piano salariale, le donne si trovavano in una situazione fortemente svantaggiata rispetto ai maschi.35 Negli anni 80-90 nel settore tessile in media un maschio guadagnava 2-3 lire al giorno mentre una donna 0,60 -0,90 lire al giorno, mentre nell’industria meccanica, il settore con i salari migliori, le paghe femminili ammontavano a circa 2 lire al giorno contro le 7 lire al giorno maschili. In tutta la penisola, il salario medio di una donna oscillava intorno ai 60-80 centesimi al giorno.36 Se dunque i i bassi salari sono una condizione che, come dice Puccini, “potremmo definire organica al lavoro femminile”, sulle donne gravavano anche i compiti

30 Ibidem. 31

Ibidem.

32

Sandra Puccini ci dice che “nel 1876 su 295.000 addetti alle industrie tessili, circa il 58% era costituito da donne, il 27% da fanciulli, il 15% da uomini adulti.” 32 Puccini S., La condizione socio-economica della

donna nella società italiana tra ottocento e novecento, in (a cura di), Ascoli G., Fusini N., Gramaglia M.,

Menepace L, Puccini S., Santarelli E., La questione femminile in Italia dal 900 ad oggi, Franco Angeli, Milano, 1977, p. 12.Questa percentuale era destinata a salire nei decenni successivi, tanto che nel 1901, se solo il 27% delle donne è occupato nell’industria in generale, la loro percentuale sale al 47% nel settore dell’abbigliamento e al 79% in quello tessile, sintomo del fatto che il tessile non rappresentasse più da tempo il centro propulsore dell’industria italiana. Ivi, p. 12. Cfr. Bandettini P., The employement of women in Italy, p. 369.

33 Puccini S., La condizione socio-economica della donna, p. 13. 34

Bandettini P., The employement of women in Italy, p. 370.

35 Puccini S., La condizione socio-economica della donna, p. 14. 36 Ivi, p. 14.

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domestici, e questo spiega in parte la maggiore oscillazione e instabilità dell’occupazione femminile.37 Per tali motivi non sorprende anche la grande presenza nel settore dell’abbigliamento, generalmente svolto a cottimo a domicilio. Se l’occupazione femminile aumenta nel settore terziario, con mansioni ad esempio come insegnante o commessa, i salari non differiscono molto da quelli delle proletarie.38 Una ulteriore caratteristica dell’occupazione femminile italiana nell’ultimo quarto del XIX secolo, è l’età media più bassa di ingresso nel mondo del lavoro rispetto ai maschi.39 Puccini dice che nel 1901 il 26,7% della manodopera femminile industriale aveva meno di 15 anni, e che nel 1904 il 38,7% aveva meno di 20 anni.40

Infine, per completare il quadro generale, praticamente tutte le categorie occupazionali femminili lavoravano in condizioni igieniche e sanitarie tremende, con turni di lavoro che andavano dalla 13 alle 16 ore, e con frequenti periodi di disoccupazione nel corso dell’anno.41

Fatta questa necessaria premessa, resta da vedere quale sia il rapporto fra la prostituzione e il variegato mondo del proletariato femminile.

Questa è la statistica del 1875 in merito alla professione svolta dalle prostitute prima della registrazione è esposta nella Tab. 7.

Tab. 5 Professione delle prostitute registrate nel 1875.

Mestiere Serve, Cameriere Sarte, modiste cucitrici Contadine Lavandaie e stiratrici Tessitrici e filatrici Attendenti cure domestiche Senza occupazione Mestieri diversi Totale Totale 2547 1580 1151 517 610 591 785 1290 9098 % 28,29 17,36 12,66 5,69 6,71 6,50 8,62 14,17 100

Fonte: Tammeo G., La prostituzione, p. 100. Per mestieri diversi si intende ad esempio le ballerine, le donne del mondo dello spettacolo in genere.

37

Ivi p. 15.

38

Pieroni Bortolotti F., Socialismo e questione femminile, p. 57. Cfr. Puccini S., La condizione

socio-economica della donna, pp. 23-24.

39

Questo è dovuto al fatto che spesso dopo il matrimonio si ritiravano dal lavoro. Inoltre l’età, e il sesso influivano direttamente sul salario. Infine perché i maschi ritardavano l’ingresso nel mondo del lavoro in virtù dell’allungamento del periodo scolastico. Puccini S., La condizione socio-economica della donna, p. 16. Cfr. Annuario Statistico Italiano, pp. 891 e sgg.

40 Puccini S., La condizione socio-economica della donna, pp. 12; 16. 41 Ivi, p. 13.

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77

La statistica del 1881, esposta nella Tab. 8, presenta una classificazione alquanto discutibile, la quale rende difficile distinguere alcune categorie.

Tab. 6 Professione delle prostitute registrate nel 1885.

Condizione sociale

Benestanti Artigiane Operaie Contadine Persone di

servizio

Totale

Totale 262 2165 2333 2033 3629 10442

% 2,51 20,79 22,38 19,51 34,81 100

Fonte: Tammeo G., La prostituzione, p. 101.

Come dice Tammeo,

non sappiamo davvero da quale criterio sia stato condotto il classificatore nella distinzione fra artigiane e operaie; ad ogni modo, quello che ci preme sottolineare è che la gradazione della concorrenza alla prostituzione, secondo le varie classi, è uguale in entrambe le statistiche: prima le donne di servizio, poi le operaie e le artigiane, ovvero la gran massa di donne dedite a tutti i lavori che non siano della terra, poi le contadine, da ultimo le benestanti, non presenti nella statistica del 1875.42

Nonostante il lavoro delle contadine fosse pagato 1/3 di quello maschile il loro apporto alla prostituzione era piuttosto basso. Sebbene dunque moltissime delle prostitute venissero dalle aree rurali, le ragazze contadine vivevano in un contesto socio-culturale dove ad esempio la seduzione aveva un potere vincolante di matrimoni sul seduttore.43 In città la situazione si presenta diversa. Sebbene la fabbrica fosse da molti considerata come il tempio della perversione e dell’anarchia, dalla statistica del 1875 emerge come il settore tessile, ovvero quello che fra i settori industriali più di altri occupava manodopera femminile, perse poche donne in favore della prostituzione, segno che in qualche modo l’ambiente di fabbrica non lasciava completamente sole e isolate le operaie di fronte a eventuali problemi. Allo stesso tempo, come era prevedibile visti i dati sullo stato civile, solo il 6% delle prostitute del

42 Ivi, p. 101.

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1875 si dichiarava attendente alle cure domestiche, ovvero casalinga, in un momento in cui circa il 50% delle donne italiane si autodefiniva così.44

Il settore che più di tutti contribuiva alla prostituzione era quello del servizio domestico, rappresentante circa il 30% delle prostitute registrate fra 1875 – 1881. Questo da un lato dimostra una graduale femminilizzazione del settore che si sviluppa in modo consistente fino almeno alla metà del XX secolo45, dall’altro si palesa uno stato di soggezione e sottomissione particolare delle domestiche rispetto ad altre categorie alle voglie del padrone che, nei casi non rari abbandono o ripudio di un eventuale figlio, spingeva la ragazza nelle maglie della prostituzione.46 In tutte le categorie viste, il bisogno economico e il desiderio di emancipazione e indipendenza corrono di pari passo. Esse emigrano in città sole per lavorare, esponendosi al rischio di incappare nella violazione di un qualche articolo del regolamento ed essere arrestate col sospetto di prostituzione.47

Quello che risulta senza ombra di dubbio concerne il fatto che la prostituzione interessasse per la stragrande maggioranza le classi popolari.48 Ad ulteriore conferma, Tammeo osserva come l’incidenza della prostituzione coinvolgesse l’83 per mille delle donne di servizio, il 21 per mille delle artigiane e operaie, l’8 per mille delle contadine, 1,91 per mille delle benestanti.49

Per quanto riguarda le cause che hanno indotto le registrate a prostituirsi, le due tabelle successive mostrano i risultati per il 1875 e per il 1881.

44 Sarti R., Servizio domestico e identità di genere dalla rivoluzione francese a oggi, in (a cura di) Palazzi

M. e Soldani S., Lavoratrici e cittadine nell’Italia contemporanea, Rosenberg & Sellier, Torino, 2000, p. 10. Pubblicato in http://www.uniurb.it/scipol/drs_quali_diritti_per_la_donna.pdf

45 Ivi, pp. 2-4. 46

Tammeo G., La prostituzione, pp. 102-6.

47

Come notano infatti Scott e Tilly, “the other side of indipendence, however, was vulnerability. Working girls earned low wages and their employment was often unstable. The loss of protections once provided by family, village community, and Church increased a girl’s economic and sexual vulnerability.” Scott J. e Tilly L., Women, Work & Family, Routledge, NYC, 1987, p. 116.

48

Come scriveva White Mario, “la prostituzione nelle infime classi è un mestiere come un altro che non ha nulla di particolare. Esso permette persino di essere una buona madre di famiglia. Di giorno le prostitute vivono come tutte le altre donne, lavorano un po’, poi ciarlano, hanno figli e non sono punto sfuggite dalle non prostitute. Il mestiere notturno è in coscienza loro onesto, come onesto è il furto.” White Mario J., La miseria in Napoli, p. 48.

49

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Tab. 9 Cause della prostituzione nel 1875.

Cause Miseria, mancanza di lavoro Seduzione o abbandono Perdita dei genitori Espulsione dalla casa paterna Eccitamento di genitori o mariti Motivi diversi Totale Prostitute 3384 1590 756 352 459 2557 9098 % 37,19 17,47 8,30 3,86 5,04 28,14 100

Fonte: Canosa R., Sesso e Stato, p. 55.

Tab. 10 Cause della prostituzione nel 1885. Cause Sedotta dall’ amante Sedotta dal padrone Abbandono della famiglia Morte marito e miseria Per soccorso familiari in difficoltà Incitamento della famiglia Incitamento di estranei Lusso Vizio depravazione Totale n. 1653 927 794 2139 393 400 666 698 2752 10422 % 15,86 8,89 7,61 20,52 3,77 3,83 6,39 6,69 26,44 100

Fonte:Canosa R., Sesso e Stato, p. 57.

La causa che induce una donna alla prostituzione, come è facilmente immaginabile, è un indicatore di primaria importanza. E’ possibile osservare come le prostitute fossero spinte ad esercitare generalmente dalla miseria o dalla mancanza di tutela maschile o familiare. Sebbene i criteri usati nelle due statistiche siano diversi, risulta che fra il 1875-1881 almeno il 30% vi fosse indotta dalla miseria, circa il 20% dall’ abbandono da parte di mariti, amanti, famiglie, percentuali variabili intorno al 7% a causa di induzione da parte di vari soggetti, perdita dei genitori.

Osservando le tabelle, sembra che nel 1881 la percentuale delle prostitute indotte da

motivi diversi, sia stata convogliata nella categoria vizio e depravazione. Non si spiega

altrimenti il motivo secondo cui un numero così importante scompaia nel 1881. Quel che più interessa è capire cosa abbia spinto la commissione ad adottare quella categoria interpretativo-terminologica e non la precedente, il motivo per cui vizio e

depravazione, con l’aggiunta di un 6% prostituitesi per lusso, aumentino in modo così

impressionante in soli sei anni nelle cause della prostituzione.

Questo cambio terminologico, forzando indubbiamente i termini della questione, sembra rimandare ad una lenta penetrazione dei saperi lombrosiani all’interno del Ministero dell’Interno e delle questure. Fra le tante testimonianze riportate dalla

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storiografia che evidenziano come i funzionari pubblici fossero inclini ad ereditare la terminologia positivista, i documenti relativi ai cambi di residenza delle prostitute mostrano ad esempio come negli anni 70 le prefetture delle città di partenza dovessero inviare in allegato a quelle di arrivo una scheda in cui venivano annotate le caratteristiche fisiche delle prostitute per una loro eventuale identificazione.

Nei moduli stampati, i funzionari di PS dovevano specificare la conformazione della fronte delle prostitute - se sfuggente o piatta – così come la forma degli zigomi e le caratteristiche fisiche – se fosse virile o meno ad esempio -, il colore di occhi e capelli sottolineando se fossero scuri, secondo una terminologia che rimanda a quella della scuola positiva.

Sebbene l’arco di tempo sia insufficiente per valutare questo livello di penetrazione, l’uscita de L’Uomo delinquente del 1876 poteva aver in qualche modo aperto la via per una evoluzione discorsiva in cui appunto le cause non perfettamente chiare che potevano aver indotto una ragazza a prostituirsi, venissero identificate anche dalla commissione come assimilabili al vizio e alla depravazione in modo sempre più radicale. Se consideriamo il fatto che l’inchiesta sia stata portata avanti sulla base della collaborazione da parte delle questure, le quali compilavano i moduli da inviare al ministero, e che queste fossero inclini ad etichettare, sospettare e iscrivere le donne per motivi decisamente futili che scatenavano le ansie legate alla loro indipendenza, non sorprende il fatto che moltissimi verbali di arresto parlino di spesso vizio, ozio, dissolutezza.

Un ultimo parametro importante per delineare il profilo sociale delle prostitute, sarebbe quello relativo alla condizione familiare di partenza, se fossero orfane o meno. Purtroppo non esistono statistiche ufficiali prodotte dalle commissioni, sebbene alcune fonti inducano a pensare che circa il 70% delle prostitute fosse orfana di almeno un genitore.50

Il profilo sociale delle prostitute che emerge da questa breve rassegna di dati , sebbene non coincida con quello delle donne in genere, è simile a quello del proletariato urbano femminile più derelitto, provenendo in genere dalle professioni più malpagate come quelle domestiche, avendo livelli di istruzione molto bassi, essendo soggette a

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forte mobilità, entrando giovanissime nel mondo del lavoro, quasi tutte nubili e moltissime orfane.51

3.2) La prostituzione e la Pubblica Sicurezza.

La storiografia prostituzionale ha ampiamente messo in luce il lato cosiddetto empirico che ha caratterizzato l’operato della Pubblica Sicurezza nell’Italia liberale.52

Nel tentativo di delineare le caratteristiche proprie del sistema di polizia italiano ottocentesco, emerge come uno stato di fatto ordinario quanto gli aspetti arbitrari e violenti sia delle polizie preunitarie che di quella unitaria incidessero sulla popolazione, con un conseguente grave danno d’immagine lamentato da molti.

Nel momento in cui vengono restaurate le monarchie italiane, sebbene anche durante il periodo francese il modello poliziesco non corrispondesse ai canoni del liberalismo, i vari sistemi polizieschi si orientano verso atteggiamenti fortemente repressivi e autoritari. Se ad esempio la polizia austriaca nel Lombardo-Veneto utilizzava frequentemente la violenza come prassi consolidata negli arresti e negli interrogatori, costruendo un imponente dispositivo per la raccolta di informazioni, nel mezzogiorno e nello Stato Pontificio la situazione era probabilmente uguale se non peggiore.53

Anche nella Toscana granducale del 1815, dice Alfredo Oriani, Ferdinando III

ricondusse il governo delle leggi leopoldine contro ogni innovazione repubblicana e napoleonica. Secondo le tradizioni della propria casa, il granduca fu mite e cominciò con un’amnistia generale; (…) ma una polizia vigile e destrissima, chiamata per ironia buon

51

Un quadro simile si presentava ancora attuale a metà degli anni 70 del 900. A tal riguardo si veda (a cura di) Apruzzi I., Rauen B., Salvini D., Schnabl E., La moglie la prostituta: due ruoli, una condizione, Guaraldi, Rimini-Firenze, 1975, pp. 17; 121-30.

52

Come dimostra un opuscolo di Salvatore Ottolenghi, ancora alla fine del secolo in Italia era aperto il dibattito in merito ai metodi, alla prassi e alla formazione dei funzionari e delle guardie di PS. Ottolenghi S., Polizia empirica e Polizia scientifica, in «Rivista di Polizia Scientifica», Anno I, Fasc. II, Palermo, 1897, pp. 1-12.

53

Relativamente alla polizia austriaca si veda Bolton King E., Storia dell’Unità d’Italia 1814-1871, Editori Riuniti, Roma, 1960, Vol. 1, p. 83. Per quanto riguarda invece i governi pontificio e borbonico, un’importante testimonianza circa il sistema repressivo di amministrazione poliziesca è offerto da Alfredo Oriani in Oriani A., La lotta politica in Italia. Origini della lotta attuale (476-1887), Società anonima editrice “La Voce”, Firenze, 1921, Vol. 2, pp. 64 sgg.

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governo, finì per avvelenare la pubblica coscienza, insidiandone tutti i pensieri. (…) E la Toscana apparve allora modello di Governo.54

Infine, come prevedibile, lo stato sabaudo non rappresentava un’eccezione. Dopo la sconfitta di Napoleone, scriveva Angelo Brofferio,

la polizia si ricostituiva anch’essa all’antica foggia. Si nominava una poliziesca direzione chiamata Buon Governo: e doveva essere così buono da non conoscere altra legge che l’arbitrio e la violenza. Il Piemonte era governato soldatescamente, la amministrazione civile e giudiziale divennero una scienza di caserma.55

In breve, alla vigilia dell’unità d’Italia, il sistema penale si muove nel quadro di un contesto dove i rapporti fra la polizia e la magistratura erano fortemente sbilanciati a favore della prima, e dove la prassi seguita da polizia e carabinieri non disdegnava la violenza diretta negli arresti e negli interrogatori, minacce, false promesse, tentativi costanti di aggravare la posizione degli arrestati.56

Questo modello poliziesco fu esteso al nuovo stato unitario, aggiungendo al problema dell’immagine pubblica delle polizie preunitarie anche la percezione diffusa che quella piemontese fosse la polizia di uno stato invasore.

Se il funzionario bolognese Giovanni Bolis, come Ricasoli pochi anni prima, sosteneva che

reminiscenze di governi dispotici e di atti odiosi all’ombra dei medesimi consumati dalle antiche polizie, mantengono ancora nel popolo una falsa idea di questa istituzione: l’impiegato di PS non ispira in generale ancora quel rispetto e quella confidenza che pur merita altamente, 57

il magistrato Bartolomeo Fiani diceva come allo stato attuale la PS sia oggetto di “antipatia e di odio generale e si presenta agli occhi del popolo come un magistero di prepotenza e come arma terribile del dispotismo”.58

54

Oriani A., La lotta politica in Italia, Vol. 1, pp. 363-4.

55

Brofferio A., Storia del Piemonte dal 1814 ai giorni nostri, Tipografia Fontana, Torino, 1849, Vol. 1,Parte 2, p. 42. Cfr. Oriani A., La lotta politica in Italia, Vol. 1, p. 365. Egli dice che l’unica istituzione napoleonica conservata fu la polizia, affidata a gendarmi feroci e irresponsabili.

56

Canosa R., Storia della polizia dal 1945 a oggi, Il Mulino, Bologna, 1976, p. 13. A tal proposito si vedano in particolare le pp. 48-66 dedicate alla prassi della polizia unitaria.

57

Ivi, cit., p. 14.

58 Fiani B., Della polizia considerata come mezzo di preventiva difesa. Trattato teorico pratico

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83

L’opinione di Bolis, come dimostra tutta la parabola penale dell’Italia liberale fino a tutti gli anni 90, non corrisponde evidentemente a verità, dimostrando altresì che il modello poliziesco nazionale rimase sempre ancorato al tipo che viene generalmente definito burocratico, in opposizione al modello britannico detto di auto

amministrazione passiva.59

Il quadro generale dell’ordine, della sicurezza pubblica e dei poteri di polizia dell’Italia post unitaria, rimanda ad un contesto in cui la giustizia penale e amministrativa viene posta in essere attraverso una prassi e misure di polizia consentite dalle leggi di PS, le quali possono essere facilmente contrarie a determinati diritti riconosciuti sulla carta ma aggirabili in questo modo. “Le libertà che la legislazione dell’Italia liberale concedeva con una mano - dice John Davis - erano deliberatamente revocate o applicate a discrezione con l’altra.”60 Sono soprattutto le dinamiche del sospetto ad esporre un gran numero di soggetti al rischio di incappare in provvedimenti disciplinari di varia natura, le quali “se non sono un resultato di fondate considerazioni, diventano fonte di arbitrio e vessazioni, elevando non senza ragione le pubbliche lagnanze.”61

3.3) La Polizia dei Costumi.

Le forze di Pubblica Sicurezza dello stato italiano, di cui la Polizia dei Costumi rappresentava una sezione speciale, vennero istituite con una legge dell’11 luglio 1852 con compiti di polizia di sicurezza, ordine pubblico, polizia giudiziaria e controllo della prostituzione62. I problemi che si presentarono fin da subito, a detta di molti specialisti, riguardavano il numero e l’inquadramento militare del personale.

In primo luogo, è noto come nel 1895 vi siano circa 5000 uomini in organico, di cui ad esempio 600 a Napoli e 300 a Milano, per popolazioni intorno al mezzo milione di abitanti.63 “Eppure la questione è tutta li. - dice Codronchi - La polizia è fatta dai

59

Il modello burocratico, che inizia a delinearsi verso la fine dell’antico regime in Francia, e che si consolida malgrado gli stravolgimenti in maniera coerente fino ai primi decenni del XIX secolo acquisendo la sua forma definitiva, si caratterizza per la selezione del personale per via burocratica, per il frequente inquadramento militare, per la notevole centralizzazione, per la forte discrezionalità affidata ai funzionari nominati e i frequenti abusi Canosa R., Storia della polizia dal 1945 a oggi, p. 16.

60 Davis A. J., Legge e ordine. Autorità e conflitti nell’Italia dell’800, Franco Angeli, Milano, 1989, p. 238. 61

Fiani B., Della polizia considerata come mezzo di preventiva difesa, p. 89.

62 Fried R.C., Il prefetto in Italia, Giuffrè, Milano, 1963, pp.40-1.

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funzionari subalterni, dagli agenti, dalle guardie; sono essi che scoprono gli autori dei reati, non i prefetti né i questori.”64 Le forze di PS erano dunque esigue.

Ma un problema ancor più pressante è quello relativo al loro inquadramento.

E qui spontanea si presenta la domanda - dice ancora Codronchi - se gli agenti civili debbano essere ordinati militarmente. La risposta negativa è non meno spontanea. In tutti gli Stati di Europa si sono istituiti degli agenti civili per affidar loro la polizia delle città. L'agente civile nelle città, l'agente militare nelle campagne: è questo un assioma in fatto di polizia. (…) Le conseguenze di questi errori furono il dualismo e le due polizie, l'alta e la bassa, come le definisce il volgo. 65

Queste due polizie ripropongono la stratificazione sociale e culturale dentro le forze di PS, e da quella bassa provenivano in gran parte gli agenti della buoncostume che presidiavano il territorio.

Sia i funzionari che le guardie di PS prendevano ordini direttamente da Roma, che controllava la corretta applicazione del codice penale, delle leggi di PS e dei regolamenti speciali come quello sulla prostituzione. Se il prefetto era il naturale intermediario fra il potere centrale e le sedi periferiche, esso era coadiuvato e spesso scavalcato dalla figura del questore, stemperando di fatto la forte centralizzazione prevista dalla legge. Infatti la Polizia dei Costumi era in stretto contatto con la questura prima che con la prefettura, la quale riceveva le relazioni trimestrali sull’andamento degli Uffici Sanitari e anche gli esposti e le lamentele sia di prostitute che di cittadini. La Buoncostume, fino al 1888, agiva in simbiosi con gli Uffici Sanitari, ultimo anello della catena amministrativa che partiva dal Ministero dell’Interno. Gli uffici erano guidati da un funzionario di PS, da un direttore medico e da personale medico e di PS. Non era facile selezionare il personale adatto alla sorveglianza del meretricio.66 Proprio per la natura stessa del settore, insieme a fattori imposti come il celibato forzato, il basso grado d’istruzione delle guardie e la provenienza sociale simile a quella del proletariato cittadino,67 le guardie di PS erano frequentemente soggette a cambi di

64

Codronchi G., Sul riordinamento della pubblica sicurezza, in «Nuova Antologia», 1895, p. 217.

65

Ivi, pp. 218-9.

66 Già Parent-Duchâtelet aveva sostenuto, come abbiamo visto nel capitolo 2, quali fossero le qualità

morali necessarie per un buon agente della police des moeurs. Lo stesso Regolamento Cavour , all’art. 3, esplicita la necessità di regolare condotta e onestà.

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personale a causa di denunce da parte di prostitute, a volte di tenutarie, altre volte di donne sottoposte a trattamenti ingiustificati, infine accuse di collusione.

Achille Breda, capo del sifilicomio di Padova, dice che

la scaltrezza, la prudenza, l’imparzialità nella ricerca e nella misura del rigore, lo zelo puro e disinteressato, formano un assieme di doti rarissime che difficilmente si possono applicare in due, e da due sole guardie, alle quali in un comune di 70.000 abitanti si affida questa delicatissima missione, di rispettare e far rispettare la salute e l’onore. Le altre città non sono in condizione migliore. Il regolamento ci concede le guardie scelte fra le più distinte per attività, per regolare condotta e onestà; ma che vuol dire se in fondo ogni pianta da il frutto che può e se certune ne danno poi in tanta avarezza!68

E’ noto come molti dei regolamentazionisti e dei giuristi fossero preoccupati per le conseguenze che a volte seguivano agli abusi o le denunce. A questo riguardo il Ministero dell’Interno emanava degli istruzioni per i funzionari di PS volte a spronarli ad agire in modo da non farsi odiare dalla popolazione, nelle quali non mancava di specificare la condotta propria della polizia dei costumi.

La sorveglianza della prostituzione - dice la circolare - richiede le maggiori cure da parte dei funzionari di PS. Nell’esercizio di queste particolari attribuzioni essi debbono trovar modo di schivare i pericoli che possono derivare dalla soverchia facilità o dal soverchio rigore. Essi non debbono usare uniforme, ma vestire borghese; debbono, se scelti fra le guardie, o altro corpo, formare un drappello separato, ed essere perfettamente istruiti de’ criteri direttivi delle loro esplorazioni, perché un’incauta sorpresa non abbia a gettare nel disonore una famiglia od offendere altrimenti i cittadini.69

Nonostante i buoni propositi, le guardie di PS destinate alla sorveglianza della prostituzione, se già la PS era di per se una forza esigua, erano una percentuale ridotta sul totale degli agenti. Nel 1897, ad esempio, un rapporto della Direzione di Sanità Pubblica dice che vi fossero attivi venti agenti della buoncostume a Roma, undici a Napoli, sette a Bologna, quattro a Venezia, quattro a Palermo, Torino, Milano, tre a Firenze e Genova.70

68

Breda A. La profilassi delle malattie veneree e in Italia, in Giornale Italiano delle Malattie veneree e

della pelle, 1883, p. 239.

69

Istruzioni per funzionari di Pubblica Sicurezza, Eredi Botta, Firenze, 1867, pp. 60-2.

70 Gibson M., Stato e prostituzione in Italia, p. 157. I dati sono confermati, almeno per Milano, da quello

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In ogni caso nella maggioranza dei casi la polizia ha potuto esercitare la sua autorità nella più totale libertà, mantenendo ben saldo il controllo sulla prostituzione per quasi trenta anni. I direttori degli uffici sanitari inviavano relazioni periodiche sull’operato degli agenti e dei medici visitatori che - bilancio permettendo - comportavano incentivi economici per lo zelo e la professionalità dimostrate71.

3.4) La sorveglianza sulle prostitute.

I rapporti fra polizia e prostitute erano particolarmente tesi in virtù dello stretto regime di sorveglianza, invadenza, discrezionalità e interpretazione delle norme che prevedeva il regolamento del 1860 nei confronti della polizia dei costumi. Essa regolava la vita delle prostitute attraverso vari passaggi: iscrizione, arresto, visite coatte e ricoveri, ispezioni a sorpresa, richieste di cambi di residenza, cancellazione dalle liste.

L’iscrizione poteva avvenire in due modi: spontaneamente o d’Ufficio. La polizia preferiva chiaramente che le prostitute si registrassero spontaneamente agli Uffici Sanitari, ma l’osservazione dei dati disponibili mette in mostra come un grossa percentuale delle iscrizioni avvenisse d’ufficio. Una prima serie di fonti che conviene osservare contenuta nella Tab. 11 di cui riportiamo un estratto generale, mette in mostra gli effetti dell’introduzione del Regolamento Cavour a Milano nel 1860 registrati dall’Ispettore Sanitario Giambattista Soresina.

ufficio almeno 12- 14 guardie scelte fra le più intelligenti, oneste e pratiche della città, mentre il numero di 4 0 5 di cui solitamente può disporre è insufficiente. Cfr. «Annali Universali di Medicina», Anno 1862, Vol. CLXXXI, Serie IV, Vol. XLV, luglio, agosto, settembre 1862, Milano, 1862, p. 230.

71

L’aspetto della necessità di incentivare economicamente il personale meritevole, era condiviso in tutto il panorama regolamentazionista. Negli Annali Universali di Medicina, ad esempio, si legge che “sarebbe desiderabile che l’Ufficio Sanitario potesse gratificare in congrua misura quegli agenti che si dimostrassero più zelanti nella ricerca delle prostitute clandestine, nell’accertamento delle prove relative, ritenuto che per giungere alla suaccennata conoscenza, quegli agenti sarebbero forzati a visitare località dove le spese non potrebbero evitarsi.” Ivi, p. 231.

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Tab. 9 Andamento delle iscrizioni nell’Ufficio Sanitario di Milano nel 1860.

Anno 1860 Iscrizioni volontarie di prostitute di altri luoghi Iscrizioni volontarie di prostitute milanesi Iscrizioni d’Ufficio Totale Totale 42 58 419 519 % 8,09 11,17 80,74

Fonte: Soresina GB., Relazione Statistica del primo anno della prostituzione disciplinata in Milano, 1860, in «Gazzetta Medica Italiana – Lombardia», n. 17, 28 aprile 1862, Serie V, Tomo I, p. 151.

Se, come emerge dalla relazione di Soresina, nel novembre 1859 erano inscritte solo 50 prostitute a Milano, nello stesso mese giunse in città Casimiro Sperino che spronò i funzionari all’applicazione del Regolamento, portando in un solo mese a registrare altre 106 prostitute per un totale di 156 alla fine del 1859. Nel solo mese di gennaio del 1860 furono registrate 133 prostitute, 519 nell’arco dell’anno che, sommate alle 156 precedenti, portano il numero complessivo delle registrate a 67572. Questo aumento vertiginoso delle iscrizioni a ridosso dell’approvazione del Regolamento Cavour, testimonia probabilmente uno stato d’eccitazione della PS in virtù delle novità introdotte che le conferivano tanti poteri. Colpisce soprattutto notare come la stragrande maggioranza delle registrazioni fosse avvenuta per atto d’ufficio, ben l’80% delle registrazioni effettuate nel corso dell’anno. Siffatta proporzione, dice Soresina, è significante per “dimostrare la ripugnanza di quelle scioperate di sottoporsi al freno salutare della disciplina, e per provare quanto debba riescire faticosa l’opera dell’Ufficio Sanitario.”73

Le statistiche presentate da Soresina, che operava in un contesto medico e burocratico noto per lo zelo regolamentista, descrivono tuttavia una situazione di passaggio dall’anomia alla disciplina dove sicuramente la polizia, a fronte di solo 50 iscritte pochi mesi prima, non deve aver avuto problemi ad iscrivere un gran numero di prostitute che già conosceva in pochissimo tempo. Il fatto però che l’aumento delle iscrizioni caratterizzi soprattutto le fasi iniziali del Regolamento, è testimoniato dal trend in

72 Soresina GB., Relazione Statistica del primo anno della prostituzione disciplinata in Milano, p. 63. 73 Ivi, p. 151.

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crescita proprio anche di una città minore come Rimini, dove si passa da 13 iscritte nel 1860 a 23 nel 1861, per raggiungere quota 68 nel 186474.

Nel successivo rapporto di Soresina che descrive la prostituzione milanese dal 1861 al 1866 emerge come il numero di registrazioni tenda a stabilizzarsi dopo il 1863 sotto quota 400, per raggiungere quota 242 nel 1866. Quello che invece colpisce è il numero delle registrazioni d’ufficio conseguenti ad arresto per clandestinità: si passa dall’80% del 1860 a circa il 60% fra 1862-64, per balzare a oltre il 90% nel 1865-66. Osservando la tabella riportata dall’ispettore sanitario nel suo resoconto, risulta come nel 1865-66 il numero delle nuove registrazioni coincida col numero delle meretrici clandestine registrate d’ufficio.75

In altre realtà italiane coeve, come la Bologna di Gamberini, fra il 1863-64-68 la maggioranza delle iscrizioni avvenne su base volontaria. Rispettivamente, nel triennio, su 185, 224, 135 iscrizioni effettuate 61, 91, 64 lo furono in seguito ad atto d’ufficio, corrispondenti al 32%, al 40%, e al 47% del totale.76 Bologna manterrà queste percentuali per tutto il periodo del regolamento Cavour, le quali oscilleranno toccando il massimo delle registrazioni forzose nel 1871 con 85 unità, pari al 54% circa, attestandosi in media al 30% circa nel corso del trentennio.77 Osservando i dati riportati nella Tab. 3 è possibile calcolare e confermare questo stato di cose a livello nazionale nel 1881, con il 37% delle iscrizioni avvenute in modo forzoso e il 63% spontaneamente.78

In sostanza è evidente come, nonostante tutto, le iscrizioni volontarie fossero un numero elevato. Del resto, è probabile che influisca il fatto che la clandestinità

74

Serra V., Risultanze pratiche del Sifilicomio di Rimini, 1865, estratto da «Lo Sperimentale» e riportato in «Annali Universali di Medicina», 1866, Aprile, Serie 4, Vol. 60, Fasc. 586, p. 196.

75

Soresina G.B., Brevi cenni statistici sulla prostituzione in Milano dall’anno 1861 all’anno 1866

inclusivo, in «Giornale Italiano delle malattie veneree e della pelle», Anno II, Vol. IV, Milano, 1867, p.

183.

76

Gamberini P. Terzo rapporto politico-amministrativo-clinico della prostituzione di Bologna per l'anno

1864, in «Annali universali di medicina» , 1865 giugno, Serie 4, Volume 56, Fascicolo 576, p. 675. Le

statistiche per il 1868 sono riportate in Settimo Rapporto politico-clinico-amministrativo della

prostituzione di Bologna per l’anno 1868, in «Giornale Italiano delle malattie veneree e della pelle»,

Anno IV, Vol. II, Milano, 1869, p. 245.

77

Gibson M., Stato e prostituzione in Italia, p. 169.

78

Dalla tabella è desumibile anche una notevole disparità interna, laddove regioni come Liguria, Abruzzo, Basilicata, Sicilia si situano intorno al 50% di iscrizioni forzose; Veneto, Umbria e Calabria fra il 70-85%. Se le Marche, Sardegna e Roma hanno percentuali ben al di sotto della media nazionale, le regioni più urbanizzate come Piemonte, Lombardia, Emilia, Toscana, così come la Campania e la Puglia, hanno percentuali oscillanti intorno alla media nazionale. In questo panorama però, città come Napoli e Palermo avevano una percentuale di iscrizioni forzose del 73 e 68%.

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comportasse una precarietà generale anche maggiore rispetto a quella di una prostituta registrata.

Se in caso di registrazione volontaria le pratiche si svolgevano con una discreta rapidità, in caso di registrazione forzosa la questione si faceva più controversa, poiché la possibilità e la discrezionalità relativamente agli “errori” metteva la polizia in grado di registrare arbitrariamente donne innocenti condannandole alla professione.79 Gli arresti però, anche se frequentemente arbitrari, non sempre portavano alla registrazione e, almeno nel caso di Bologna, fra il 1864 – 1886 furono registrate il 33% delle donne arrestate per sospetto, il 17% inviate al sifilicomio, il 50%, soprattutto molte minorenni e maritate, ammonite e rilasciate.80 Altre donne arrestate, o per intervento delle famiglie o per benevolenza del funzionario, dopo accertamento sanitario positivo, venivano rilasciate senza registrazione.

Generalmente le prostitute, sebbene in percentuale maggiore della popolazione femminile, non venivano arrestate per violazioni del codice penale ma per violazioni della loro legislazione, rappresentando a fine secolo meno del 2% dell’intera popolazione carceraria femminile. 81

La scarsa influenza della prostituzione sulla criminalità in genere è confermata anche da Tammeo nella sua opera, nella quale riporta estese serie di dati che smentiscono l’assoluto legame paventato da tutti gli esperti fra prostituzione e la criminalità. In regioni come il Veneto, ad esempio, a fronte di un alto numero di reati vi sono pochissime prostitute.82 Egli dimostra come neanche i reati contro la famiglia e il buon costume siano direttamente collegati alla prostituzione. Anche solo volendo esporre quelli relativi alla Toscana, emerge come la presenza di prostitute non fosse un diretto indicatore della criminalità locale. Il caso di Livorno e Grosseto colpisce in particolare: due città con un numero diversissimo di prostitute ma con un altissimo tasso di reati conto la morale, fra i più alti d’Italia.83

79

Gibson M., Stato e prostituzione in Italia, pp. 172-3.

80

Gattei G., La sifilide: medici e poliziotti intorno alla “Venere politica”, p. 762. Cfr. Gibson M., Stato e

prostituzione in Italia, p. 177.

81

Ivi, p. 179.

82 Tammeo G., La prostituzione, p. 210. 83

Ivi, p. 214. La media dei reati contro il buon costume ogni 100.000 abitanti nel nord Italia oscillava fra 8-15; nel mezzogiorno la media è oltre 20. In particolare le città calabresi hanno il più alto tasso di reati contro il buon costume (oltre 35 per 100.000 abitanti).

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