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CAPITOLO I IMPAIRMENT OF ASSESTS

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CAPITOLO I

IMPAIRMENT OF ASSESTS

1.1Differenze tra IAS-IFRS e disciplina nazionale

Le discipline di bilancio dei Paesi dell’Unione Europea sono interessate da un processo di convergenza verso gli International Accounting Standars (IAS), da alcuni più correttamente denominati International Financial Reporting Standards (IFRS), emanati dall’International Accounting Standards Board (IASB). Questi principi sono obbligatori per la redazione di bilanci consolidati delle società con titoli quotati; ogni Paese membro dell’Unione Europea ha potuto scegliere di estendere l’obbligo o la facoltà di adozione dei principi contabili internazionali ad altre classi di società.

In Italia il D. Leg.Vo 28 Febbraio 2005 n. 38 ha stabilito che, dal 1° Gennaio 2005, le maggiori imprese italiane, più precisamente le società quotate, le società con strumenti finanziari diffusi tra il pubblico in misura rilevante, le banche italiane, gli altri intermediari finanziari vigilati dalla Banca d’Italia e le imprese di assicurazione, sono obbligate a redigere il bilancio consolidato secondo i principi contabili internazionali emanati dallo IASB ed omologati dall’Unione Europea ai sensi del regolamento Comunitario n. 1006/2002 e dei regolamenti successivi. Per il bilancio d’esercizio l’obbligo decorre dal 1° Gennaio 2006 ma vi è la facoltà di anticiparlo al 1° Gennaio 2005. Per tutte le altre imprese, eccetto le imprese minori legittimate a redigere il bilancio in forma abbreviata per le quali è fatto divieto di applicazione degli IAS-IFRS, è prevista una facoltà di adozione degli IAS-IFRS in luogo dei principi contabili nazionali, se si tratta di imprese obbligate a redigere il bilancio consolidato, o di imprese controllate, collegate o joint ventures di imprese che redigono il bilancio con i principi

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6 contabili internazionali (Commissione per i principi contabili internazionali, 2006).

L’attuazione degli IAS in Italia pone molteplici aspetti problematici. Le società che adottano tali principi devono familiarizzare con regole che, in molti casi, sono molto innovative rispetto alla disciplina nazionale, queste innovazioni non sono limitate ai soli aspetti tecnici ma riguardano la maggior parte dei principi generali che sono la base per costruire il bilancio. Viene richiesta l’introduzione di una serie di misure organizzative a cui numerose imprese italiane di medio-piccole dimensioni non sono abituate, come la formulazione di previsioni economiche e finanziarie e la redazione di budgets e di piani pluriennali.

L’obiettivo di bilancio secondo il Framework e lo IAS 1 è di fornire informazioni relative alla situazione patrimoniale, al risultato economico d’esercizio e alla dinamica finanziaria d’impresa che siano utili ad un vasto insieme di destinatari per assumere decisioni economiche. Più specificatamente viene affermato che i terzi sono interessati a conoscere la capacità dell’azienda di generare flussi di cassa e i tempi nei quali essi si manifesteranno. Per la stima di tale capacità è richiesto l’esame congiunto dello Stato Patrimoniale, del prospetto dei flussi di cassa, del Conto Economico e degli altri prospetti esplicativi. Tali prospetti nel loro complesso devono dare un quadro fedele degli aspetti economico finanziari della gestione aziendale; da tale affermazione appare evidente la centralità dell’aspetto finanziario nella logica anglosassone, contesto nel quale si è sviluppato lo IASB.

Dopo la finalità, il framework cita i due postulati base del bilancio stesso: la competenza economica e il principio del going concern. Inoltre, elenca le caratteristiche qualitative che il bilancio deve possedere: comprensibilità; significatività; rilevanza; attendibilità e comparabilità.

È necessario mettere in evidenza come i postulati dei principi suddetti differiscano da quelli degli articoli del Codice Civile e dei principi contabili dell’Organismo Italiano di Contabilità (OIC). Se pensiamo all’intero quadro normativo di riferimento per il nostro paese, non è semplice districarsi fra i vari

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7 regolamenti. Esistono molti punti di consenso ma anche alcune diversità dovute al differente scopo dei diversi regolamenti.

Tra i motivi che hanno indotto i legislatori europei, e successivamente quelli nazionali, all’adozione di principi standard uguali per tutte le società dei paesi europei (IAS/IFRS), il principale è sicuramente quello di permettere un agevole confronto tra bilanci di società di nazioni diverse e di società operanti nello stesso settore. Ciò rende più trasparente il mercato europeo, borsistico e non, e permette agli investitori istituzionali e agli analisti finanziari di effettuare adeguate valutazioni sulle singole società in relazione ai loro concorrenti.

Osservando il bilancio sotto l’ottica della disciplina italiana, le sue finalità possono essere desunte dall’articolo 2423 del C.c che rappresenta la cosiddetta clausola generale, nonché dall’OIC 11 che approfondisce proprio il contenuto di tale articolo del codice civile e del seguente (2423 bis). Il bilancio del sistema contabile italiano, che s’inserisce in una realtà economica costituita per una gran parte da piccole e medie imprese con una ristretta base azionaria, ha come finalità principale quella di determinare il reddito prodotto nel corso dell’esercizio affinché si possa procedere alla distribuzione dell’utile tra i soci.

La disciplina italiana è caratterizzata da un sistema di codici e da una corporate governance influenzata dagli stakeholders, di conseguenza gli standard contabili sono sviluppati in un ambiente politicizzato che serve un gran numero di portatori di interessi e che include requisiti fiscali; ciò comporta un allineamento dei documenti fiscali con i reporting finanziari (Morricone, 2009).

Contraria a quella suddetta è la finalità propria dei principi contabili internazionali che vogliono mettere in evidenza il reddito potenziale rendendo dunque il bilancio strumento di valutazione delle performance aziendali e dell’operato dei manager.

Diversità dunque: di finalità, di approccio metodologico, nonché di modalità di valutazione delle singole poste. Nell’insieme esse assurgono a un diverso modo di intendere l’intero sistema contabile e il risultato da esso scaturente, il bilancio appunto (Giugno, 2007).

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1.2 Ambito applicativo dello IAS 36

Il tema trattato riguarda la determinazione delle perdite di valore regolata dallo IAS 36 intitolato Impairment of asset, il cui testo italiano, approvato dalla Commissione Europea, è stato pubblicato il 31/12/2004 sul n.1392 della Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, in allegato al Regolamento Comunitario n. 2236 del 29 Dicembre 2004. Esso si applica anzitutto, in tutti i suoi paragrafi, alle imprese che redigono dal 2005 il bilancio consolidato ed il bilancio d’esercizio con i principi contabili internazionali.

Viene inoltre applicato, almeno nelle sue linee generali, anche alle imprese italiane che redigono i bilanci con i principi contabili nazionali. Ciò in quanto l’art. 2427 n.3 bis del Codice Civile stabilisce che, in ipotesi di rilevazione di perdite durevoli di valore sulle immobilizzazioni materiali ed immateriali, le imprese devono determinare l’importo di tali perdite in base a tre parametri costituiti dal “concorso alla futura produzione di risultati economici”, dalla “prevedibile durata utile”, e, per quanto rilevante, dal “valore di mercato” (Commissione per i principi contabili internazionali, 2006).

Si ritiene doveroso premettere che lo IAS 36 si intitola “Impairment test” e in nessuna parte di tale standard, nella versione originale inglese, si fa riferimento alla durevolezza delle perdite di valore. Si ritiene quindi che non si debba prestare attenzione alla attuale traduzione italiana del Regolamento europeo che ha recepito lo IAS 36 che parla di perdita durevole di valore. Tale errata traduzione costituisce un riflesso condizionato della attuale disciplina civilistica italiana sopra illustrata (Azzali, 2006).

Questo principio fornisce le regole contabili che l’impresa deve applicare per assicurarsi che le attività non siano iscritte ad un valore superiore al loro valore recuperabile (Moretti, 2005). Il valore recuperabile è definito come il maggiore tra il fair value al netto dei costi di vendita cioè il valore generato dalla vendita del bene sul mercato (nel seguito solo fair value) e il valore generato dal bene se fosse mantenuto nel ciclo produttivo dell’impresa (nel seguito solo valore d’uso).

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9 Il principio contabile IAS 36 deve essere applicato alle seguenti categorie di attività patrimoniali :

− fabbricati, impianti e macchinari ai quali si applica lo IAS 16;

− attività immateriali, compreso l’avviamento, alle quali si applica lo IAS 38;

− investimenti immobiliari valutati al costo (IAS 40);

− partecipazioni in società controllate, collegate e joint ventures, disciplinate dagli IAS 27, 28 e 31.

1.3 Criteri per l’identificazione delle attività patrimoniali oggetto di

perdita di valore

Il documento IAS 36 richiede che l’impresa, ad ogni data di riferimento del bilancio, valuti se esistono sintomi di riduzione del valore delle attività iscritte in bilancio conducendo un test di impairment. A prescindere dall’esistenza o meno di sintomi, l’impresa è obbligata ad eseguire ogni anno tale test per le attività immateriali a vita utile indefinita, tra le quali vi è sempre l’avviamento e le attività immateriali non ancora disponibili per l’uso.

Lo IAS 36, al paragrafo 12, chiarisce i sintomi dell’esistenza di riduzioni o perdite di valore riconducendone la provenienza a fonti interne o esterne all’impresa. Riassumiamo ora schematicamente quanto esplicato dal principio contabile di cui stiamo trattando:

− fonti informative esterne:

• il valore di mercato dell’attività considerata è diminuito significativamente durante l’esercizio, più di quanto si prevedeva sarebbe accaduto con il passare del tempo o col normale utilizzo dell’attività in oggetto di valutazione;

• si sono verificate variazioni significative di effetto negativo per l’entità durante l’esercizio o si verificheranno nel prossimo futuro nell’ambiente tecnologico, di mercato, economico o normativo nel quale l’impresa opera;

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• i tassi di interesse di mercato o altri tassi di rendimento degli investimenti sono aumentati comportando, probabilmente, un incremento del tasso di attualizzazione utilizzato nel calcolo del valore d’uso di un’attività riducendo perciò il suo valore recuperabile;

• il valore del patrimonio netto contabile dell’impresa, se quotata, è superiore alla sua capitalizzazione di mercato.

− fonti informative interne:

• l’obsolescenza o il deterioramento fisico del cespite risulta evidente;

• si sono verificati, oppure si presume si verificheranno nel prossimo futuro, cambiamenti con effetto negativo nel modo in cui un’attività viene utilizzata, o si presume sarà utilizzata. Tale evenienza si verifica qualora vengano stabiliti ed eseguiti piani di dismissione o di ristrutturazione;

• l’andamento economico di un’attività è, o sarà, peggiore più di quanto previsto. Questo sintomo viene segnalato dal sistema informativo interno all’impresa.

1.4 Misurazione del valore recuperabile

La regola dettata dallo IAS 36 prevede un confronto tra il valore contabile dell’attività e il valore recuperabile della stessa, nel caso si siano rilevati sintomi che innescano l’impairment test oppure ad ogni esercizio, per il goodwill e le immobilizzazioni immateriali a vita utile indefinita. Qualora il valore netto contabile superi il valore recuperabile l’impresa deve procedere ad una svalutazione dell’attività rilevando una perdita per riduzione di valore.

L’articolo stabilisce che il valore recuperabile deve essere il maggior valore tra il fair value e il valore d’uso. Questa alternabilità nella scelta del valore recuperabile presuppone un comportamento razionale dell’imprenditore, con una logica molto orientata alla massimizzazione del ritorno sul singolo investimento tipica di aziende operanti in mercati molto sviluppati e con un management di estrazione tipicamente finanziaria. Secondo Azzali (2006) il valore recuperabile dovrebbe corrispondere alternativamente o al valore di realizzo diretto, se

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11 l’azienda ha deciso di realizzare direttamente il bene liquidandolo dalla combinazione produttiva; o al valore di realizzo indiretto se l’azienda ha deciso invece di realizzare mediante le vendite dei prodotti generati dall’attività internamente nei processi produttivi. Riteniamo quindi che la svalutazione debba essere preceduta dalla decisione aziendale sulla destinazione del bene, mentre per lo IAS 36 la destinazione interna piuttosto che esterna è sempre intercambiabile a seconda di quella che offre il valore maggiore. La prospettiva è quella, ci pare, di un investitore esterno interessato a massimizzare i flussi di cassa derivanti dalla gestione. Difficilmente questa impostazione è riscontrabile in tutti i contesti imprenditoriali.

Non è sempre necessario procedere alla determinazione sia del fair value che del valore d’uso. Se uno dei due valori risulta già superiore a quello contabile si può riscontrare immediatamente che non c’è perdita di valore, senza dover fare ulteriori calcoli. Inoltre è possibile calcolare solo il fair value se si tratta di beni prossimi alla vendita, per cui detto valore è molto vicino, o coincide, col valore d’uso, in quanto l’unico flusso finanziario previsto è quello derivante dal corrispettivo della vendita. Talvolta, invece, risulta impossibile calcolare il fair value perché nessuno dei criteri previsti dai principi contabili internazionali risulta applicabile; in questi casi, il valore recuperabile si identifica col valore d’uso.

1.4.1 Misurazione del fair value

Precedentemente all’introduzione degli standard contabili emanati dallo IASB, il metodo di valutazione tradizionalmente utilizzato per comporre il bilancio era quello del costo storico. La centralità di questo principio era criticata da molti, i cambiamenti economici o finanziari e le circostanze di acquisizione di un’attività infatti possono far divergere, anche pesantemente, il costo storico dal valore a cui sarebbe possibile scambiare quell’attività attualmente sul mercato, ovvero il fair value.

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12 Sarebbe però sbagliato presentare il fair value come il criterio di valutazione più importante e fondamentale per tutti gli standard proposti dallo IASB. Solo alcuni principi si riferiscono al fair value, come lo IAS 16, 36 e 39 ma senza dubbio lo si può considerare inscindibile dal progetto di diffusione sponsorizzato dallo IASB.

Il fair value dedotti i costi di vendita è dato dal prezzo pattuito in un accordo vincolante di vendita in un’ operazione fra parti indipendenti, rettificato dei costi marginali direttamente attribuibili alla cessione del bene. Se, per quel determinato cespite, non vi è alcun accordo vincolante di vendita, ma esso è commercializzato in un mercato attivo, il valore ricercato è pari al prezzo corrente di mercato alla data di riferimento della valutazione, al netto dei costi di vendita. Deve essere perciò considerato il prezzo corrente dell’offerta; se esso non è disponibile si deve far ricorso al prezzo della transazione più recente, purché non siano intervenuti significativi cambiamenti nel contesto economico fra la data dell’operazione e la data di riferimento della stima.

Se non esistono né un accordo vincolante di vendita né un mercato attivo, si opera per analogia. È considerato, in base alle migliori informazioni disponibili, il prezzo ottenibile in una libera contrattazione fra parti consapevoli e disponibili, tenendo conto dei risultati di transazioni, per beni simili effettuate all’interno dello stesso settore industriale.

I costi di dismissione da sottrarre al fair value sono diversi da quelli già rilevati in bilancio dall’impresa come passività. Esempi di tali costi sono: le spese legali (e notarili); l’imposta di bollo ed altre imposte e tasse connesse alla transazione; i costi di rimozione dell’attività ed i costi incrementali diretti necessari per rendere un’attività pronta alla vendita. Non devono essere considerati, invece, i benefici dovuti ai dipendenti per la cessazione del rapporto di lavoro (come le indennità e i premi per esodi agevolati) ed i costi associati alla riduzione dell’attività o alla riorganizzazione dell’azienda successiva alla dismissione del cespite.

Qualora non sia possibile stimare il fair value può essere considerato il solo valore d’uso. Nella normalità dei casi, è ciò che si verifica, per le

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13 immobilizzazioni immateriali. Inoltre, se si sospetta che il valore d’uso è approssimativamente uguale al fair value, lo si può utilizzare come valore recuperabile.

1.4.2 Misurazione del valore d’uso

Se si intende registrare nel bilancio la potenzialità reale di un’impresa, che è data dalla capacità di essere produttiva, il valore di ogni componente degli assets deve essere valutato, non sulla base di prezzi passati aggiustati da eventuali deprezzamenti o apprezzamenti ma, direttamente sulla base del valore attuale. Detto valore attuale è dato dai flussi di cassa futuri che un asset può specificatamente creare (Bignon, 2009).

Il valore d’uso è il valore attuale dei flussi finanziari netti che la singola attività è in grado di generare durante la sua prevista vita utile, con l’aggiunta del valore attuale del flusso finanziario netto derivante dalla dismissione del cespite alla fine della vita utile. È necessario procedere alla stima dei flussi finanziari futuri in entrata ed in uscita, che derivano dall’uso continuativo del cespite e dalla sua dismissione finale ed applicare ai flussi considerati un tasso di attualizzazione appropriato.

Lo IAS 36 specifica che i flussi finanziari in entrata devono essere riferiti unicamente all’asset oggetto di valutazione, perciò, largamente indipendenti da quelli riferibili ad altri assets. Questa indipendenza non è spesso riscontrabile nella realtà aziendale, si procede quindi con un artifizio. Qualora ci si trovi a trattare con un bene che non produce flussi finanziari indipendenti dalle altre attività, si procede all’individuazione di una Cash Generating Unit o unità generatrice di flussi di cassa (di seguito solo CGU). La CGU è il più piccolo gruppo di beni identificabile, che genera flussi di cassa positivi largamente indipendenti rispetto agli altri beni o gruppi di beni.

Secondo Gravina (2007) il calcolo del valore d’uso è un procedimento complesso perché dipende da molte variabili che, incidono in misura diversa sulla determinazione dello stesso. Per un qualunque cespite l’azienda si attende

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14 che dia risultati positivi, in altre parole ciò significa che i costi sostenuti dall’azienda per introdurre nel ciclo produttivo quel bene, devono essere inferiori ai ricavi che quello stesso bene è in grado di far conseguire all’azienda.

Operativamente l’azienda deve procedere all’individuazione dei seguenti elementi:

− flussi finanziari in entrata: derivanti dagli introiti che consegue l’azienda realizzando uno specifico prodotto con il bene valutato;

− flussi finanziari in uscita: derivanti dagli esborsi, di qualsiasi natura, che sostiene l’azienda per la realizzazione di uno specifico prodotto;

− i flussi finanziari netti relativi alla dismissione del bene;

− tasso di attualizzazione: inteso come valore del denaro che tenga conto degli elementi di rischio strettamente connessi all’attività d’impresa.

Nel calcolo del valore d’uso è inoltre fondamentale tenere conto dei seguenti aspetti:

− aspettative in merito a possibili variazioni dell’importo o del tempo di verificazione dei flussi;

− valore temporale del denaro, pari al tasso corrente d’interesse privo della considerazione del rischio di mercato;

− prezzo per l’assunzione del rischio connesso all’incertezza implicita nell’utilizzo del cespite;

− altri fattori di rischio, connessi all’utilizzo di quel determinato cespite o di una CGU, che tengano conto dei rischi che si affrontano nello svolgimento dell’attività.

L’elemento riguardante l’incertezza nell’ampiezza dei flussi finanziari, che assume un’importanza fondamentale, può essere considerato o riducendo opportunamente i flussi finanziari futuri o aumentando congruamente il tasso di attualizzazione. Il risultato deve riflettere il valore attuale atteso dei flussi, ossia la media ponderata dei risultati prevedibili nei diversi scenari futuri che possono essere previsti (Commissione per i principi contabili internazionali, 2006).

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15 La stima dei flussi finanziari futuri deve essere basata su presupposti ragionevoli e sostenibili; deve essere la miglior stima della direzione aziendale in merito alle condizioni economiche che esisteranno per tutta la restante vita utile del cespite. Devono essere effettuate previsioni dettagliate in base ai piani pluriennali e ai budgets per un periodo minimo di cinque anni o, anche maggiore, se giustificabile. Non si deve tener considerazione dei flussi derivanti da operazioni straordinarie come ristrutturazioni, miglioramenti e ottimizzazioni se non ci sono obblighi di attuazione. Per il successivo periodo di vita utile, le previsioni sui flussi finanziari, devono essere basate su un tasso di crescita stabile o in diminuzione rispetto al periodo analitico, che non deve eccedere il tasso medio di crescita a lungo termine per la produzione, i settori industriali, il Paese o i Paesi in cui l’impresa opera o per il mercato in cui il cespite è inserito.

Ernst and Young (2008) suggerisce, in particolare alle aziende che hanno una storia di management che ha costantemente attenuato o esagerato la stima dei flussi di cassa, di confrontare sempre le precedenti stime con le attuali. I risultati delle variazioni dovrebbero essere studiati ed inseriti nei nuovi budgets, in modo da poter rettificare correttamente le proiezioni.

Il concetto di attualizzazione è legato alla fisiologica differenza di valore del capitale finanziario in tempi diversi. La matematica finanziaria esplica il procedimento di attualizzazione tramite la seguente formula:

n i C VA ) 1 ( + = [1] ossia: n i C VA= ⋅(1+ )− [2]

Nel caso in cui esistano più flussi finanziari da attualizzare la [1] diviene:

n n i C i C i C VA ) 1 ( ... ) 1 ( ) 1 ( 2 2 1 1 + + + + + + = [3] ossia:

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16 n n i C i C i C VA= 1⋅(1+ )−1 + 2⋅(1+ )−2 +...+ ⋅(1+ )− [4] dove:

C = capitale o flussi finanziari futuri; VA = valore attuale;

I = tasso di attualizzazione;

(1+i) = coefficiente di attualizzazione .

Nella determinazione del tasso di attualizzazione dei flussi di cassa, la regola prescrive che, il tasso deve essere al lordo delle imposte in quanto tra i flussi di cassa in uscita non sono compresi quelli inerenti il pagamento di imposte dirette, deve riflettere, come già scritto, il valore temporale del denaro e i rischi specifici dell’attività svolta dal cespite o dalla CGU. Se invece del rischio specifico si è già tenuto conto nella determinazione dei flussi di cassa netti, il tasso qui considerato deve essere un tasso “free-risk”, come il tasso dei titoli di stato a media-lunga scadenza.

L’Appendice A dello IAS 36 “Utilizzo delle tecniche di attualizzazione per la determinazione del valore d’uso” fornisce una serie di criteri applicativi sulla determinazione dei flussi e del tasso di attualizzazione, sia con l’approccio “tradizionale” col quale la componente di rischio viene fatta confluire per intero sul tasso, sia con l’approccio dei “flussi finanziari attesi”, nel quale a ciascun importo dei flussi previsti viene associata una probabilità di verificazione. In ogni caso lo IAS 36 specifica che possono essere presi considerazione i tassi impliciti di operazioni similari o, qualora questi non siano disponibili, il tasso di attualizzazione può essere ricavato attraverso il costo medio ponderato del capitale (in seguito solo WAAC) di una società quotata avente un’attività o un portafoglio di attività simili. Infine quando anche tale tasso non risulta reperibile si deve ricorrere a tassi surrogato. Secondo la citata Appendice A i punti di partenza per il calcolo di questi tassi sono: il WACC dell’azienda stessa determinato con la tecnica del Capital Asset Pricing Model (in seguito solo CAPM) ; il tasso marginale applicato sui finanziamenti ricevuti e altri tassi di

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17 mercato aggiustati o meno dal rischio specifico a seconda della sua considerazione nei flussi di cassa netti. Il tasso scelto deve essere rettificato per tenere conto dei rischi legati al Paese, alla valuta ed al prezzo se sono prevedibili rischi politici, di cambio o finanziari di variabilità dei prezzi.

Il tasso di attualizzazione non deve risultare influenzato dalla struttura finanziaria dell’azienda, in quanto si stanno attualizzando i flussi finanziari di un’attività, perciò non sarebbe corretto far variare il valore di questa in base al sistema con cui un’azienda ne ha finanziato l’acquisto.

Le parole utilizzate dall’Appendice A per illustrare i punti di partenza nel calcolo del tasso di attualizzazione, danno l’impressione che possano essere utilizzati alternativamente, per la stima, il WACC e il tasso marginale sui finanziamenti ricevuti.

Husmann (2006) sostiene che i due punti di partenza sopra menzionati siano due concetti completamente differenti e che la loro interazione funzionale sia complessa anche sotto delle semplici assunzioni. Secondo la teoria finanziaria, il WACC è l’unica vera stima per determinare il valore d’uso. Quindi le altre due alternative proposte dall’Appendice dovrebbero essere scartate. Anche se teoricamente le differenze tra WACC e tasso marginale sui finanziamenti ricevuti possono essere trascurate, gli errori nella stima del costo del capitale possono essere rilevanti per aziende con un alto indebitamento. Husmann scrive che se il tasso marginale è usato da tali aziende, la determinazione del valore d’uso è errata perché esso sarà sistematicamente troppo basso.

1.4.3 Approfondimento intorno al Weighted Average Cost of Capital

Nella pratica finanziaria, come già sottolineato, la stima di un tasso di attualizzazione adeguato è effettuata usando il concetto di costo medio ponderato del capitale o Weighted Average Cost of Capital, per l’appunto WACC. Detto costo del capitale di un'azienda ne rappresenta il ritorno complessivo atteso e, in quanto tale, viene spesso utilizzato internamente dai dirigenti della stessa per determinare la fattibilità economica in relazione a opportunità di espansione e di

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18 fusione. È il tasso di attualizzazione da utilizzare opportunamente per i flussi di cassa che hanno un rischio simile a quello dell'impresa nel suo complesso, e per questo viene indicato nel procedimento dell’impairment test. Questo valore deve essere così calcolato:

D E D t Kd D E E Ke WACC + ⋅ − ⋅ + + ⋅ = (1 ) [5] dove:

Ke = costo del capitale proprio; E = valore economico del capitale;

D = valore economico dei debiti di finanziamento; Kd = costo del capitale di terzi;

t = aliquota fiscale applicata agli oneri finanziari.

Solitamente, nella prassi professionale, il valore economico del capitale proprio e del debito finanziario è spesso sostituito dal loro valore contabile. Il costo medio ponderato del capitale è la media dei costi delle varie fonti di finanziamento, secondo il “peso” che esse assumono nella struttura del patrimonio aziendale. Più correttamente dovrebbe essere utilizzato il valore di mercato delle fonti non considerando quindi il loro valore di libro. In aggiunta, altre fonti di finanziamento meno classiche, come le obbligazioni convertibili, le azioni privilegiate convertibili, ecc., dovrebbero essere incluse nella formula se di ammontare significativo, poiché il costo di questi strumenti di finanziamento è solitamente diverso da quello di altre fonti, a causa delle loro caratteristiche supplementari. L’ equazione appena illustrata descrive solamente la situazione in cui capitale proprio e di debito sono omogenei. Se la struttura del capitale comprende altre fonti, ad esempio azioni privilegiate, caratterizzate da un differente costo del capitale, allora la formula deve includere un termine aggiuntivo per ciascuna fonte di capitale aggiuntiva.

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19 In linea di principio, gli investimenti di un'azienda sono finanziati sia da debito, sia da capitale di rischio. Il WACC è la media del costo di queste fonti di finanziamento, ciascuna delle quali viene ponderata in base al rispettivo utilizzo nella situazione data. Essendo una media ponderata, sintetizza l'ammontare dei rendimenti (dividendi e interessi) che l'azienda deve pagare per ogni euro con cui si finanzia.

Generalmente, il capitale proprio ha un costo e corrisponde al rendimento cui l’impresa rinuncia non investendo i propri mezzi finanziari in attività alternative sotto il profilo del rischio, un rischio operativo correlato alle caratteristiche operative del business dell’impresa e un rischio finanziario connesso alle politiche di indebitamento. Il costo del capitale proprio si identifica quindi nel rendimento atteso di impieghi alternativi sommando i rendimenti di investimenti a rischio nullo a premi per il rischio di mercato.

Il Capital Asset Pricing model (in seguito solo CAPM) è il metodo indicato per stimare il costo del capitale proprio, la formula indicata da tale approccio è la seguente:

(

m f

)

f r r r Ke= +β⋅ − [6] dove:

rf = rendimento di un’attività con rischio nullo;

β = indice di volatilità dell’investimento;

rm = rendimento atteso del mercato;

(rm – rf) = premio per il rischio di mercato; β * (rm – rf) = premio richiesto dall’azionista.

Nella pratica professionale il costo del capitale proprio viene espresso al netto delle imposte ed il costo dei debiti finanziari viene anch’esso detassato moltiplicandolo per il fattore (1-t). È importante sottolineare che lo IAS 36 richiede un tasso di attualizzazione dei flussi finanziari al lordo delle imposte, è

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20 necessario, perciò, esprimere il costo medio ponderato del capitale nel seguente modo: t WACC WACC + = 1 ' [7]

In alternativa, occorre esprimere il costo del capitale proprio Ke al lordo delle imposte ed il costo dei debiti finanziari Kd anch’esso al lordo, cioè senza moltiplicarlo per il fattore (1-t).

1.5 Cash Generating Units

Nel caso in cui il valore recuperabile del singolo cespite non può essere calcolato, cioè quando il valore d’uso è decisamente diverso dal fair value, o come già accennato, quando il cespite non è in grado di generare autonomamente flussi di cassa occorre procedere alla costruzione di una CGU. Essa può coincidere con una business unit che può avere ampiezza variabile e talvolta può essere un’intera divisione operativa, un ramo d’azienda o un azienda stessa.

Questa operazione si verificherà sempre per l’avviamento e per le attività aziendali gestite centralmente, ed anche per le immobilizzazioni materiali ed immateriali, che solo in certe situazioni possono produrre indipendenti flussi finanziari. Solitamente il test di impairment si esegue, per le immobilizzazioni materiali e immateriali, riferendosi a complessi di beni, mentre per le immobilizzazioni finanziarie, a livello di singole partecipazioni, singoli titoli a reddito fisso e singoli crediti.

Lo IAS 36 prevede che la CGU produca beni che sono scambiati sul mercato, questo per poter determinare il value in use, cioè poter identificare i prezzi dei beni dell’unità come entrate di denaro, anche solo potenziali. Il caso che la CGU debba coincidere con un’unità che cede la sua produzione sul mercato non è comunque indispensabile; l’unità può essere configurata come tale anche se

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21 l’output è utilizzato per scopi interni, è sufficiente che beni simili siano scambiati sul mercato.

Nell’identificazione di una CGU vengono presi in considerazione diversi fattori tra cui la modalità con cui il management monitora la gestione o decide sul mantenimento dell’operatività e la cessazione dell’attività e dei beni.

È necessario possedere reports gestionali interni attendibili dai quali poter desumere i flussi in entrata ed uscita delle singole unità generatrici di flussi, sono indispensabili budgets e previsioni di ogni unità; ciò non solo semplifica il procedimento stesso di impairment ma riduce notevolmente i costi da sostenere per ottenere le informazioni necessarie.

Questi aspetti hanno ovvi riflessi sulla contabilità analitica, sulla mappa dei centri di costo, di ricavo e tutto ciò può rendere indispensabile una riorganizzazione su tali sistemi con impatti di rilievo.

È chiaro dunque che la CGU non può essere un mero atto opportunistico di creazione artificiale, ma deve corrispondere ad una business unit che il sistema interno di controllo di gestione dell’impresa può continuamente monitorare nel suo funzionamento, ma soprattutto nei flussi finanziari da essa generati.

È facilmente riscontrabile il grado di discrezione che c’è nell’individuazione di un’unità generatrice di flussi; lo IAS 36 perciò si preoccupa di porre dei limiti di dimensione indicati dallo IAS 14, la CGU non deve essere più ampia di un settore di attività o di un settore geografico.

Il valore contabile di una CGU include il valore contabile degli assets che sono stati attribuiti direttamente ad essa, o allocati secondo ragionevoli e consistenti basi. Salvo eccezioni nella CGU non devono essere inserite passività rilevate in bilancio, crediti commerciali e vari; le eccezioni riguardano il caso in cui il valore recuperabile non possa essere determinato senza tener conto di queste passività, in queste ipotesi il valore contabile della passività deve essere detratto dal valore contabile delle attività patrimoniali incluse nell’unità considerata.

Una volta determinato il valore contabile , come sopra descritto, si procederà al calcolo del value in use, come se fosse un bene singolo. Successivamente

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22 dovrà essere confrontato il valore netto contabile con il valore d’uso: se quest’ultimo risulta inferiore dovrà essere rilevata una perdita di valore. Lo IAS 36 prescrive una gerarchia di attribuzione delle perdite di valore ai singoli componenti della CGU. Innanzitutto la perdita andrà attribuita all’eventuale avviamento, la parte residua andrà ripartita sugli altri beni facenti parte dell’unità sulla base del loro valore contabile; c’è comunque un limite di attribuzione della perdita che è costituito dal valore di realizzo diretto. La perdita di valore relativa ad una CGU non può essere compensata con le perdite relative ad altre e diverse CGUs.

I beni comuni, per i quali non si è potuto procedere ad un’allocazione diretta, devono confluire in unità generatrici di flussi di cassa di secondo livello. Si tratta di CGUs costituite da una porzione o un intero bene comune e da altre CGUs. Dopo aver condotto il test di impairment sulle unità di primo livello si procede ad effettuare il test delle CGUs di secondo livello.

1.5.1 Corporate asset

I corporate asset sono dei cespiti riconducibili all’azienda nel suo complesso, comprendono attività di gruppo o divisionali. Le caratteristiche distintive di queste attività aziendali sono identificabili nell’impossibilità, per questi asset, di generare flussi in entrata, largamente indipendenti dalle altre attività o gruppi di attività.

Questi cespiti non possono generare, quindi, flussi finanziari autonomi e sono attività strumentali per tutto il complesso aziendale; tali beni devono, perciò, essere allocati alle CGUs. Per questi asset un flusso finanziario autonomo può essere generato solo se l’impresa ne ha deciso la dismissione.

I loro valori contabili non possono essere totalmente imputati all’unità generatrice di flussi finanziari in oggetto.

Per una corretta attribuzione dei corporate asset alle unità generatrici di flussi, prima si deve verificare se è possibile allocare sulla base di ragionevoli criteri di

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23 riparto anche solo una porzione del valore di tali beni alle singole unità; in seguito si può procedere ad effettuare il test di impairment a livello di CGU.

La perdita per riduzione di valore deve essere contabilizzata come illustrato per le CGUs, prima viene attribuita all’avviamento e poi agli altri asset contenuti nell’unità secondo il loro valore contabile.

1.6 Trattamento della perdita di valore

Abbiamo già avuto modo di capire che la normativa dettata dallo IAS 36 richiede che se, e solo se, il valore recuperabile di un’attività è inferiore al valore contabile della stessa, l’azienda deve procedere a rilevare una perdita di valore dell’asset. La riduzione di valore è definita impairment loss. Da un punto di vista contabile, una perdita per riduzione di valore, deve essere rilevata come costo nel conto economico, a meno che l’attività non sia iscritta ad un valore rivalutato secondo il modello della rideterminazione del valore previsto dallo IAS 16 e 38 (revaluation model).

L’adozione del revaluation model prevede che, periodicamente, l’impresa effettui un riallineamento del valore del bene al suo fair value, senza comunque escludere il procedimento di ammortamento. Questa verifica periodica può portare al rilevamento di una rivalutazione da imputare ad una riserva del patrimonio netto, ammesso che non ci siano state precedenti svalutazioni computate, invece, direttamente a conto economico. Questo differente trattamento tra svalutazioni e rivalutazioni, è giustificato dal fatto che le rivalutazioni rappresentano utili non realizzati, perciò non possono confluire nei ricavi con il rischio di essere distribuiti.

Quando un cespite sottoposto a impairment test ha prodotto una perdita di valore e tale cespite è stato valutato secondo il revaluation model, la svalutazione farà rilevare innanzitutto una diminuzione dell’eventuale riserva di rivalutazione, se questa è inesistente o poco capiente potrà essere determinato un costo da far confluire a conto economico.

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24 L’impairment loss è rilevata per una CGU, secondo le stesse regole previste per i singoli cespiti cioè, se e solo se, il valore recuperabile è inferiore al valore contabile. In quest’eventualità la perdita deve essere ripartita fra tutte le attività che compongono la CGU nel seguente ordine: dapprima la perdita viene fatta confluire sul valore dell’avviamento riducendone il valore contabile, anche fino a zero; la parte rimanente viene attribuita pro quota sugli altri asset facenti parte della CGU, secondo il loro valore contabile. Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, la perdita di valore di una CGU non può essere compensata con le perdite relative ad altre e diverse CGUs. Un’azienda non può, comunque, ridurre il valore di un asset al di sotto del fair value, del valore d’uso e sotto lo zero se ambedue i valori sono negativi.

In conclusione, l’impresa, applicando i principi contabili internazionali, deve procedere alla rettifica del costo storico dell’attività, anche se tale perdita non è durevole, e conseguentemente deve procedere a ripartire l’ammortamento del cespite per il periodo di vita utile residuo alla luce del nuovo valore.

1.7 I ripristini di valore dopo una precedente svalutazione

Successivamente alla svalutazione di un’attività dovuta ad una perdita per riduzione di valore, l’impresa deve valutare, a ogni data di chiusura, se vi è indicazione che tale perdita, rilevata negli anni precedenti per un’attività diversa dall’avviamento, possa non esistere più o possa essere ridotta.

Per l’avviamento è previsto che la svalutazione non possa mai essere ripristinata, in quanto lo IAS 36 ritiene che una rivalutazione di questo asset equivarrebbe a riconoscere un “avviamento interno”, che non è derivato da acquisizioni; ciò ai sensi dello IAS 36 non è contabilizzabile.

Quindi, se esiste indicazione che la svalutazione non abbia più motivo di esistere, l’entità deve riconsiderare la vita utile, il valore residuo e il metodo di ammortamento.

Le indicazioni circa il venir meno totale o parziale della perdita di valore, sono sostanzialmente simili a quelle utilizzate per verificare l’esistenza di una

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25 riduzione durevole di valore, tranne per il fatto che, ovviamente, sono di segno opposto, comportando un aumento, e non una diminuzione, del valore recuperabile. Gli indicatori esterni includono significanti e favorevoli cambiamenti nel valore del bene e nelle condizioni di mercato. Gli indicatori interni, invece, si manifestano nella rivalutazione dell’impiego e delle performance del bene. Un’ inversione nella valutazione, comunque, non può essere riconosciuta soltanto se causata dal passare del tempo o da un miglioramento delle condizioni generali del mercato.

La regola generale pertanto dispone che, se vi sono segnali che inducono l’impresa a ritenere che la perdita per riduzione durevole di valore possa essere totalmente o parzialmente rettificata, la direzione aziendale deve operare una nuova stima del valore recuperabile.

Il ripristino di valore, non potrà essere integrale, e deve riflettere un incremento del valore del servizio offerto dall’attività o dal gruppo di attività. È dovuto ad una modificazione delle stime utilizzate, cioè nel criterio utilizzato per la misurazione del valore recuperabile. Si tratta di una modificazione nell’importo dei flussi, nella loro collocazione temporale o nel tasso di attualizzazione, se si è scelto il valore d’uso; o infine può essere causato da un cambiamento nella stima del fair value se per il calcolo del valore recuperabile si è optato per tale stima.

La regola trova un limite nel fatto che l’accresciuto valore contabile di un’attività, dovuto al ripristino, non deve superare in ogni caso il valore contabile, al netto dell’ammortamento o della svalutazione, che si sarebbe determinato se non fosse stata rilevata alcuna perdita di valore dell’attività negli esercizi precedenti.

Da un punto di vista contabile, un ripristino di valore di un’attività deve essere rilevato come ricavo nel conto economico, a meno che l’attività non sia iscritta ad un valore rivalutato secondo il modello previsto dallo IAS 16. In questo caso, il ripristino di valore deve essere trattato come una rivalutazione. Tuttavia, anche in quest’ultimo caso, se una riduzione di valore precedente era stata fatta

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26 confluire a conto economico, come costo, il ripristino di valore deve essere rilevato come ricavo in bilancio.

Per una cash generating unit, il ripristino di valore deve essere ripartito proporzionalmente fra il valore contabile delle attività che la compongono, escluso ovviamente l’avviamento, e rilevato contabilmente come previsto per i singoli cespiti. Se rimane un importo residuo non allocato ad un dato cespite, esso è ripartito proporzionalmente fra i valori contabili degli altri cespiti.

1.8 Informazioni integrative da fornire in bilancio

Lo IAS 36 richiede una notevole quantità di informazioni da fornire nelle note di bilancio, specialmente quando il test ha riguardato asset “delicati” come l’avviamento o altri intangibile asset a vita utile indefinita.

Per ciascuna classe di beni in bilancio devono essere indicate:

− le svalutazioni e rivalutazioni registrate nel conto economico e l’indicazione delle voci in cui sono state riepilogate;

− le svalutazioni e rivalutazioni imputate direttamente al patrimonio netto;

− le svalutazioni e rivalutazioni di ripristino riferite ad cespiti sottoposti al revaluation model.

Se la svalutazione o rivalutazione del singolo asset o della CGU è rilevante per l’intera azienda, in Nota dovranno essere rilevati:

− le circostanze che hanno determinato la svalutazione o la rivalutazione;

− la natura e il segmento al quale il bene rivalutato appartiene;

− per ogni CGUs, una descrizione dell’unità, l’entità della svalutazione per classe di asset e per segmento;

− il modo in cui sono stati determinati il valore recuperabile e il valore di realizzo diretto o indiretto, se questi coincidono.

1.9 Impairment test delle immobilizzazioni finanziarie

L’impairment delle attività finanziarie è così disciplinato:

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− sulle partecipazioni in imprese controllate, collegate e in joint ventures deve essere applicato lo IAS 36, a meno che non sia applicabile lo IAS 39;

− sulle altre attività finanziarie deve essere applicato lo IAS 39.

Per l’impairment test delle partecipazioni in imprese controllate, collegate e in joint ventures si applicano criteri analoghi a quelli fino ad ora illustrati. Nella determinazione del fair value però non c’è un mercato attivo di riferimento perché, anche se si tratta di azioni quotate, le quotazioni dei mercati finanziari sono riferite sempre a partecipazioni di minoranza e non tengono conto dei premi di controllo.

Se si tratta di azioni non quotate o di partecipazioni non azionarie, è complesso reperire informazioni su transazioni avvenute, perciò si preferisce il calcolo del valore d’uso, tramite l’attualizzazione dei flussi finanziari. In questo caso lo IASB indica come metodologia preferibile il Discounted Cash Flow, ben noto nella teoria delle valutazioni di aziende e di partecipazioni di controllo, col quale si determina il valore dell’attivo lordo dell’azienda attraverso l’attualizzazione del Free cash flow di una serie di esercizi futuri e del valore finale al termine del periodo di valutazione analitica e si detrae poi il valore di mercato del debito finanziario o, più semplicemente, il valore contabile della posizione finanziaria netta ottenendo così l’equity value, ossia il valore del patrimonio netto. Da tale valore, che è pari al 100% della partecipazione, si passa poi al valore della partecipazione di controllo o di collegamento applicando premi di maggioranza o sconti di minoranza, come indicato dalla dottrina aziendalistica.

Il valore dell’attivo lordo e del patrimonio netto dell’azienda può essere determinato anche con l’impiego di appropriati “multipli di mercato”: multipli di società quotate comparabili o di transazioni comparabili.

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