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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE

“ La Corte Suprema di Cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni; regola i conflitti di competenza e di attribuzioni, e adempie gli altri compiti ad essa conferiti dalla legge. La Corte Suprema di Cassazione ha sede in Roma ed ha giurisdizione su tutto il territorio dello Stato e su ogni altro territorio soggetto alla sua sovranità.”

Questo è il contenuto dell’art. 65 del R.D. 30 gennaio 1941, n. 12. “Ordinamento giudiziario”.

“Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso il ricorso in Cassazione per violazione di legge.”

Art. 111 comma 7 Costituzione della Repubblica italiana. Il termine Corte di Cassazione nel linguaggio comune è utilizzato tanto per indicare il giudice, quanto il mezzo per proporre la questione di fronte a quel giudice (ricorso per), quanto per l’esito finale del giudizio di quel particolare giudice che svolge quella fase. L’attività della Corte di Cassazione rientra tra le impugnazioni penali ed in particolare tra le impugnazioni penali ordinarie. La Corte di Cassazione viene presentata come giudice di legittimità. Essa, infatti, può verificare soltanto se nel precedente giudizio di merito siano stati commessi errori nello svolgimento del procedimento (errores in procedendo) od errori nell’applicazione delle norme di diritto sostanziale (errores in judicando). La rilevazione di uno dei due vizi comporta l’annullamento (cassazione, appunto) della pronuncia impugnata. Tale annullamento può esaurire la vicenda processuale o rendere necessaria un ulteriore fase volta all’adozione di un

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provvedimento destinato a sostituire, in tutto od in parte, quello annullato. In ogni caso, però alla Suprema Corte è precluso ogni apprezzamento sul fatto.

Si intendono, invece, per impugnazioni straordinarie: la revisione ed il ricorso straordinario per errore di fatto, e trovano la loro trattazione nel libro IX del codice di procedura penale ed in particolare al ricorso per cassazione è dedicato il titolo III.

L’argomento di questa tesi si basa su un esame della natura e dell’attività della Suprema Corte con particolare riguardo ai due esiti del giudizio, nel caso di accoglimento del ricorso, con annullamento senza rinvio o con rinvio.

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CAPITOLO I

LA CORTE DI CASSAZIONE

SOMMARIO: 1. Le origini; -2. Il modello francese nato dalla Rivoluzione. - 3.Il sillogismo quale strumento logico. - 4. Il silenzio che occulta il potere: la mancanza di motivazione delle sentenze. - 5. Teoria della prova e logica del giudizio nell’illuminismo: legalismo sul diritto, antilegalismo sul fatto. – 6. Nasce la Cassation. – 7. Dalla fausse interpretation alla fausse application de la loi. – 8. Dalla falsa applicazione della legge al vizio di motivazione: il c.d. défaut de base légale e la motivazione insufficiente o contraddittoria. Un confine non attraversabile: la motivazione illogica. – 9. Cinquant’anni di braccio di ferro tra giudice di merito e Cassazione. – 10. I moniti che ci vengono dall’evoluzione storica del “modello puro” di Cassazione. Gli opposti inseparabili: jus constitutionis e jus litigatoris. – 11. La funzione di nomofilachia: dall’esistenza al significato della legge. – 12. La transizione dalla Terza istanza alla Corte di Cassazione. – 13. L’introduzione della Corte di Cassazione nel sistema giudiziario italiano.

1- Le origini.

Fin dalle sue più lontane origini l’istituto del giudizio di cassazione si presenta fortemente connotato ideologicamente ed intimamente connesso con l’aspirazione ad un ideale di giustizia che si riteneva potesse trovare piena attuazione solo nella decisione di un giudice superiore e diverso da quello che aveva pronunciato la prima sentenza. L’elaborazione di una disciplina interna di impugnazione della decisione giudiziale si presenta in sostanza da subito in stretto connubio con l’idea di una superiore giustizia garantita dall’esistenza di un tribunale supremo, il quale solo ha i poteri e gli strumenti per riportare il giudicato di ogni altro tribunale ad equitas.

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Tale consapevolezza della necessità di rimedi contro la pronuncia di una sentenza ingiusta, già ravvisabile nella riconosciuta impunità del tribunale regio dell’epoca medioevale, emerge ancora più chiaramente nel corso dell’esperienza giuridica propria dei comuni italiani durante le lotte per l’autonomia rispetto al potere centrale. Le cittadinanze locali reclamavano costantemente la propria legittimità a iuris dicere quale simbolo della loro legittima potestas rispetto all’impero, il quale, di contro, pretendeva di mantenere la competenza a decidere in sede di appello sulle decisioni adottate dai giudici territoriali.

Questo scontro non trovava la sua ragion d’essere solo nella volontà dei comuni di negare all’Imperatore la possibilità di ribaltare la pronuncia dell’autorità locale in nome della propria superiorità nella scala gerarchica; infatti, ciò che si intendeva contestare era proprio l’idea di una prevalenza delle decisioni dell’Imperatore rispetto alle pronunce dei giudici comunali, perché non si ammetteva che il tribunale regio fosse in grado di pervenire ad una composizione della controversia più equa e più giusta rispetto a quella fatta propria dal primo giudicante1.

Nel periodo storico dell’età comunale inoltre si inizia ad elaborare la distinzione che sarà poi centrale per la ricostruzione teorica del giudizio di cassazione fra errores in procedendo ed errores in judicando. In proposito, la dottrina dell’epoca distinse la cosiddetta quaerela iniquitatis avanzata nei confronti di una sentenza viziata da errori di diritto, nel qual caso era possibile rimediare alla critica mediante un diverso giudizio reso in sede di appello contro la prima decisione, dalla c.d. quaerela nullitatis mossa invece contro la sentenza viziata dalla inosservanza di regole procedurali, nel

1V.T. PADOA SCHIOPPA, Storia del diritto in Europa, dal medioevo all’età

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qual caso, vista la gravità della censura, si sarebbe dovuto procedere ad annullamento della pronuncia. In base alla diversa gravità dei vizi che potevano caratterizzare un provvedimento giurisdizionale, distinguendosi in quello che Calamandrei ha chiamato “il momento politico nella valutazione dell’error in iudicando”2 fra l’ipotesi in cui il vizio

della decisione avesse determinato una violazione dello ius constitutionis, e la circostanza in cui si fosse verificata solo una lesione dello ius litigatoris a seguito di un’errata applicazione dello ius scriptum.

Nel primo caso l’intero ordinamento giuridico doveva reagire alla violazione presente nella decisione con annullamento della stessa, mentre nella seconda ipotesi la sentenza si presentava semplicemente come ingiusta, andando a ledere i soli interessi delle parti e meritava perciò solo di essere riformata in sede di appello.

Come è noto, su questa distinzione fra ius constituzionis e ius litigatoris, la dottrina italiana degli inizi del XX secolo fonderà poi la propria teoria del giudizio di cassazione, quale istituto che, mediante l’azione del singolo, persegue l’interesse della collettività all’uniforme ed esatta applicazione della legge3, ed a supporto di tale affermazione sarà richiamata per

l’appunto l’origine assai risalente della diversificazione fra i vari vizi che possono investire la singola decisione giudiziaria. Va detto però che, contrariamente a questa consolidata opinione, la differenza fra errores in procedendo e errores in iudicando per lungo tempo non ha avuto particolare rilevanza nella prassi giudiziaria: lo studio delle fonti, infatti, dimostra come nella pratica si stia continuando a destinare la medesima magistratura ad cognoscendum causam appellationis et

2P. CALAMANDREI, L’error in iudicando nel diritto intermedio, in Riv.

Internazionale Scienze sociali, 1915, 821.

3P. CALAMANDREI, Cassazione civile, in Opere giuridiche, a cura di

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nullitatis, senza cioè che dalla diversa natura della censura mossa alla decisione impugnata potesse conseguire l’individuazione di un diverso giudice del gravame, ovvero derivarne l’applicazione di diverse sanzioni verso la pronuncia gravata.

2- Il modello francese nato dalla Rivoluzione.

Le origini della Suprema Corte trovano le loro radici nel Tribunal de Cassation istituito in Francia dopo la rivoluzione con il decreto 27 novembre 1° dicembre 17904. La

competenza del tribunale era limitata alla sola violazione di forme e contravvenzione espressa alla legge, il valore attribuito alle sue pronunce era esclusivamente rescindente e doveva garantire la pura e semplice applicazione della legge in esecuzione dell’istituto del “référé legislatif” posto sotto il controllo diretto del “corps législatif”. Il tribunale, infatti, una volta cassata la sentenza doveva rimettere la causa al giudice del merito affinché emettesse una nuova sentenza, senza che le ragioni dell’annullamento valessero come principio di diritto condizionanti la nuova pronuncia. In caso di conflitto interpretativo, valeva il principio dell’unico organo dotato di potere interpretativo, vale a dire l’organo legislativo il quale vi provvedeva con la formulazione di un “décret déclaratoire de la loi” vincolante per il Tribunal de cassation (art. 21 legge 1° dicembre 1790 a art. 259 Costituzione del fruttidoro dell’anno III), vale a dire dell’obbligo del giudice di rivolgersi al legislatore quale unica fonte attendibile per la soluzione di questioni o dubbi interpretativi di leggi.

4 Eleonora Savio, Il giudizio di rinvio dopo l’annullamento in Cassazione, Milano,

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Alle radici della Cassazione non c’è solo l’idea di Rousseau della legge come volontà del popolo sovrano, c’è anche l’idea di Montesquieu sulla divisione dei poteri.

La teoria di Rousseau dà valore alla legge, mentre la teoria di Montesquieu stabilisce una netta delimitazione delle competenze tra il potere legislativo e gli altri poteri.

Nell’antico regime, il sovrano disponeva sia del potere legislativo esercitato tramite ordonnances sia del potere giudiziario che svolgeva attraverso le lettres de justice. Un tale potere, indiviso e indistinto, era destinato naturalmente ad essere arbitrario e illimitato, limitazione che poteva essere applicata solo tramite l’introduzione di un altro potere che limitasse, non il potere legislativo, ma piuttosto il potere giudiziario.

L’obiettivo era quindi quello di limitare il potere del giudice in modo tale da essere la bouche de la loi, così che i giudici, come dice Montesquieu, non siano altro che un testo preciso della legge, evitando così che, tramite l’interpretazione libera, diventino a sua volta legislatore.

Il giudice doveva essere inanimato, e doveva annullarsi nella legge, in questo modo si realizzava la certezza del diritto e l’uniformità dei giudizi. Di questo fu il maggior interprete Robespierre in quanto teorico dell’impossibilità giuridica dell’interpretazione. L’unità della giurisprudenza è il riflesso dell’unità della legislazione, dove c’è legislazione non ci può essere giurisprudenza, perché non ci può essere interpretazione5.

Pertanto al giudice non rimaneva che applicare esattamente la legge, ogni altro comportamento sarebbe stato contraddetto dalla Cassation.

5F.M. Iacoviello, La Cassazione penale – Fatto, diritto e motivazione,

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La Cassation “malheur nécessaire”, secondo l’Assemblea costituente, venne pensata proprio per stroncare tale ribellione. La Cassazione, comunque veniva a contraddire tale teoria, invero, non si capiva bene quale natura avesse tale organo.

La funzione di controllo la assimilava al potere esecutivo, il potere di emettere provvedimenti singolari che incidevano sulle sentenze la assimilava ad un organo giudiziario, lo scopo di tutelare il potere legislativo dalle invasioni del potere giudiziario la assimilava ad un organo para legislativo.

Se la divisione dei poteri ha dato origine alla stessa, la Cassazione si è posta in quella terra di confine contesa tra i tre poteri.

La smentita alla teoria di E. Montesquieu non poteva essere più netta.

3- Il sillogismo, quale strumento logico.

La sentenza è un misto di fatto e di diritto, compito della Corte di Cassazione è la valutazione dell’esatta applicazione del diritto e non del fatto, occorreva quindi separare nella sentenza del giudice di merito ciò che è fatto da ciò che è diritto.

Fino al Cinquecento il ragionamento giudiziario ignorava il sillogismo. Fatto e diritto non erano distinguibili ed il processo serviva a scoprire il fatto e contemporaneamente a definire il diritto.

In un sistema siffatto la logica del giudizio è una logica dell’argomentazione, della controversia, del confronto dei punti di vista, qui giudizio di fatto e giudizio di diritto si fondono in una entità unica e indiscernibile, non potendosi distinguere il fatto dal diritto non era immaginabile la Cassazione.

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A partire dal Cinquecento e fino al Settecento si sviluppa un potente filone logico che parte da Pietro Ramo e attraverso Cartesio, Leibniz e la logica di Port-Royal giunge fino all’illuminismo: è la riscoperta del sillogismo aristotelico e la sua applicazione al processo.

Nella sua versione giudiziaria, il sillogismo si compone di due premesse e una conseguenza, la premessa maggiore contiene il diritto, la premessa minore contiene il fatto, la conseguenza deriva dall’applicazione del diritto al fatto. Il sillogismo come forma di giudizio è proprio quel che ci voleva per gli illuministi, perché realizza una sorta di quadratura del cerchio, sottomette i giudici alla legge e consente al processo di raggiungere con un colpo solo verità oggettiva e certezza soggettiva, l’ideale sempre invocato e mai raggiunto di ogni modello storico di processo.

Caratteristica del sillogismo è che se le premesse sono certe, la conclusione non può che essere certa; ora per gli illuministi il diritto e il fatto erano certi, la decisione, di un giudice automa, non poteva non essere certa perché si limitava a dedurre da premesse certe, e da lui non costruite o valutate, le conseguenze uniche e necessarie.

Non c’è che dire il sogno illuministico dà forma nel firmamento delle idee ad un pianeta giuridico di vertiginosa bellezza; un pianeta luminoso, ma deserto.

4- Il silenzio che occulta il potere: la mancanza di motivazione delle sentenze.

Nell’ancien régime e fino all’alba della Rivoluzione, le sentenze non dovevano essere motivate. Le “jugement san motif”, nato come privilegio di potere regio, divenne prerogativa dell’intero potere giudiziario, la motivazione si riduceva ad una formula di stile: ”pour le cas résultant du

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procés”; nessuna indicazione di fatti né di prove. Nessun accenno alla condotta incriminata. Les oracles de la justice non dovevano piegarsi a dare conto delle loro decisioni.

Quel che davvero sorprende è che neppure i pensatori illuministi avvertirono l’esigenza che le decisioni fossero motivate. Non c’è parola in Montesquieu, che pur predica la necessità di una giurisprudenza costante, in modo che si possa giudicare oggi allo stesso modo in cui si è giudicato ieri, non una parola in Voltaire, nessuna in Diderot o in Rousseau.

Il quadro è ben delineato da Condorcet: il processo penale conclude “par un jugement secret une instruction secrète”. Per fortuna la società civile era più avanti dei filosofi illuminati e nel 1789 gli Stati generali chiesero che i giudizi venissero motivati6, ma c’era da farsi poche illusioni. Quella

prescrizione, come risulta dai lavori dell’Assemblea costituente, fu intesa nel senso che i motivi erano necessari solo dove non era possibile citare un testo di legge su cui basare la decisione.

Al fondo c’era l’idea che per giudicare non era necessario fare un ragionamento, i fatti andavano constatati e per farlo bastava il buon senso di cui ogni cittadino è dotato. Il problema del giudizio era, in sostanza, trovare una legge, in questa atmosfera concettuale, l’Assemblea nazionale, con decreto del 1° dicembre 1790 creò il Tribunal de Cassation.

6L’art. 22 del decreto 8—ottobre 1789 (sur la réformation de quelques

point de la jiurisprudence criminelle” impone che “toute condamnation expimera les faits pour lesquels l’accusé sera condamné”). Non si tratta ancora di motivi, ma semplicemente dell’imputazione. In seguito viene emanata la legge del 16-24 agosto 1790 sul l’organization giudiciaire, il cui articolo 15 delinea la struttura che le decisioni giudiziarie dovranno assumere. La prima parte contiene nome e qualità delle parti. La seconda “les questions de fait e de droit qui constituent le procés”. La quarta il dispositivo. Più innovativa la terza parte, che deve contenere “le résultat des faits reconnus ou constatés par l’instruction le motifs qui auront déterminé le juge seront esprimés”.

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La calda passione delle idee aveva creato un algido giudice.

5- Teoria della prova e logica del giudizio nell’illuminismo: legalismo sul diritto, antilegalismo sul fatto.

La prima cosa che gli illuministi fecero fu quella di togliere al giudice il potere di interpretare le norme, rimaneva però un formidabile potere: il potere di accertare il fatto; non bastava ridurre il peso del processo, occorreva rimpicciolire, dentro il processo, il peso del giudice. Il legalismo illuministico avrebbe dovuto comportare un sistema di prove legali, questo portò ad una riduzione della discrezionalità dei giudici nel valutare il fatto.

In tal modo alla legalità del diritto sostanziale avrebbe corrisposto la legalità del processo, l’ultimo meccanismo che poteva escogitare era proprio il principio del libero convincimento, invece, si finì proprio lì.

Un sistema di prove legali era una soluzione improponibile per ragioni storiche e per ragioni logiche, la prova legale era il marchio infamante del vecchio regime. La logica delle prove legali portava alla tortura, e poi quel sistema aveva già mostrato crepe profonde (si pensi, al meccanismo delle pene straordinarie) ed era entrato in crisi con l’espandersi della prova per indizi. Escluse le prove legali, l’alternativa era la giuria.

L’esperienza anglosassone e la fiducia illuministica nella ragione comune a tutti gli uomini spingevano per tale conclusione, ma il sistema della giuria non era un trapianto facile, perché la giuria è un congegno complicato, che per funzionare ha bisogno di una fitta trama di regole di esclusione, regole di inclusione, regole d’uso delle prove.

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Queste regole (che richiedevano una lunga sedimentazione culturale) non potevano attecchire dall’oggi al domani nel processo continentale.

Così si ebbe una giuria senza le regole della giuria, ora però senza queste regole il sistema della giuria presentava un rischio mortale (considerando, oltretutto, che decideva a maggioranza): quello di sostituire all’arbitrio di giudici professionali l’arbitrio di giudici laici.

Il principio di legalità illuministico si fermava sulla soglia della camera di consiglio: oltre quella porta, la valutazione del fatto era il territorio della libertà senza regole. La contraddizione non potrebbe essere più clamorosa: legalismo sul diritto, antilegalismo sul fatto. Alla luce abbagliante della questione di diritto segue la fitta oscurità dell’intime conviction. L’illuminismo crea un premeditato distanziamento tra giudizio di merito e giudizio di cassazione, nel giudizio di merito la razionalità del diritto coesiste con l’irrazionalità del fatto, nel giudizio di cassazione il diritto si depura del fatto. Il diritto senza fatto è pura logica: intelletto senza appetiti, direbbe Aristotele, e come pura logica è pensato il giudizio di cassazione.

6- La nascita della Cassazione.

Con il decreto 27 novembre – 1 dicembre 1790 prende forma nel mondo giuridico la Corte di Cassazione che strutturalmente non è un organo giurisdizionale, ma “établi aupres du Corps législatif”. Dunque, l’ordinamento giudiziario francese è senza vertice, perché il potere è distribuito orizzontalmente tra organi pari ordinati.

Quanto ai suoi poteri di cognizione, la Cassazione “sans aucune pretexte e en aucun cas” non potrà occuparsi del “fond des affaires”, pertanto in nessun caso potrà occuparsi del

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merito della causa. Questa prescrizione segna la decisa rottura con il sistema della Terza istanza: la Corte di Cassazione non giudica il processo, giudica la sentenza resa in dernier resort, cioè in ultimo grado.

L’ambito del sindacato del Tribunal de cassation è scolpito rigorosamente: error iuris solo se c’è “une contravention express eau texte de la loi”, error in procedendo: solo nel caso di violazione di “formes de procedure prescrites sous peine de nullité”.

Dunque, esclusa ogni rilevanza dell’error in iudicando, nonostante fosse stato introdotto l’obbligo di motivazione per tutti i giudici di merito, escluso altresì il controllo sulla “fausse interpretation del la loi” e sull’erronea applicazione del diritto al fatto. L’attivazione del giudizio di cassazione avveniva su impulso del commissaire du roi (la c.d. cassation dans l’intéret de la loi), ma accanto ad esso si riconosceva il potere di attivazione delle parti mediante una demande.

Va aggiunto che inizialmente il Tribunal fu diviso in due sezioni: una che delibava sull’ammissibilità dei ricorsi (la Chambre des requets), sia civili che penali, l’altra che decideva i ricorsi ritenuti ammissibili, successivamente quest’ultima sezione fu divisa in due: una per gli affari civili e una per gli affari criminali. Però si stabilì che i ricorsi in materia penale non dovevano essere previamente sottoposti al vaglio di ammissibilità: nasce così presso la Cassazione la Chambre criminelle con la funzione congiunta di delibare l’ammissibilità dei ricorsi e di deciderli.

Da ultimo, andavano fissati i poteri della Cassazione in caso di annullamento, se l’annullamento derivava da error in procedendo, il tribunale di rinvio era tenuto ad adeguarsi alla statuizione della Cassazione, se l’annullamento avveniva invece per error in iuris, la decisione della Cassazione non

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aveva alcun potere sul giudice del rinvio, che poteva assumere la stessa decisione.

Solo dopo un secondo giudizio di cassazione, se il terzo giudice di merito continuava a decidere nello stesso modo dei primi due giudici, allora era previsto il réferé obbligatoire au legislateur, cioè la Cassazione doveva rivolgersi all’Assemblea legislativa perché desse l’interpretazione autentica della legge. Questa nuova interpretazione era vincolante per la Cassazione e per il giudice di merito.

Nasce la Corte di Cassazione e, di colpo, la storia del processo subisce una vertiginosa accelerazione, nasce un organo che si frappone tra legge e giudice, che si occupa di diritto e non di fatto, che controlla non il processo ma la sentenza, una novità assoluta rispetto alla Terza Istanza.

Ma la nuova Corte era carente soprattutto nel fatto che pur potendo e dovendo curare l’esatta interpretazione della legge a sua volta non aveva nessuna possibilità di interpretazione della norma, in quanto il potere legislativo, temendo che concedere ad essa questo potere avrebbe assegnato alla Corte un potere minaccioso e terribile.

Questo però ebbe un effetto completamente opposto in quanto, ideando il référé obbligatoire, il legislatore attribuì a se stesso il potere giudicante, e la falsa interpretazione fu sfornita di qualsiasi rimedio e rimessa interamente al giudice del merito, pertanto la più insidiosa forma di elusione della legge veniva ignorata.

Il Tribunal de cassation quindi provvedeva a cassare “en case de contravention expres a la loi” rinviando ad un nuovo giudice, e, in caso di doppio annullamento, il caso interpretativo era rinviato al “corps legislatif”, era inoltre tenuto a riferire al “corps legislatif”, con cadenza annuale, delle ragioni che avevano determinato le proprie decisioni. Il Tribunal de cassation aveva competenza anche per gli error in

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procedendo, solo in caso di violazione di “formes de procédure prescrites sous peine de nullité”. Dunque, esclusa ogni rilevanza dell’error in iudicando, nonostante fosse stato introdotto l’obbligo di motivazione per tutti i giudici di merito. Scopo del Tribunal de cassation era dunque quello di privilegiare il ruolo di applicazione della legge in quanto tale e non un suo stravolgimento attraverso una interpretazione personale del giudice, e quindi un sistema che consentisse un controllo sull’esito del processo e quindi sul giudice. Era questo, secondo l’opinione del governo rivoluzionario, un’applicazione del principio di eguaglianza, uno dei tre pilastri della Rivoluzione francese, che si concretizzava tra l’altro nella certezza del diritto e in verdetti dei tribunali giusti e rispettosi della legge.

La Cassazione, nata nell’atmosfera di mistico rispetto per la legge, si evolve senza leggi e al di fuori delle leggi. Negli interstizi delle leggi la Suprema Corte sviluppa prassi interne, la spinta per tale mutamento è data proprio dall’accensione delle sue contraddizioni. Alla fine di tale cambiamento la Cassazione è divenuta un organo giurisdizionale posto al vertice del sistema, ma non è un ritorno al passato dei Grandi Tribunali, perché il sogno dell’illuminismo giuridico è rimasto il cuore pulsante di questo organismo maturo.

Il contesto culturale in cui si evolve la Cassazione è ben diverso da quello in cui essa nacque, per due ragioni: la prima è che la minaccia di una ribellione del giudice alla legge fu sentita sempre meno incombente, i giudici usciti dalla Rivoluzione erano ben diversi da quelli dell’ancien régime in quanto erano imbevuti del principio di legalità e l’ultima cosa che poteva passare loro per la mente era quella di sfidare il potere legislativo.

La seconda ragione è che stava progressivamente scemando la diffidenza culturale verso un organo

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giurisdizionale di vertice, il Tribunale de cassation si era dimostrato un docile alleato del legislatore.

Rafforzare i suoi poteri o per lo meno le sue competenze non evocava spettri del passato. In questo clima culturale l’illuminismo giuridico dovette affrontare un fenomeno mai prima immaginato: il mito dell’autosufficienza della legge. La legge funziona se non è interpretata, e l’interpretazione non la fa il legislatore, ma il giudice.

Il sistema del référé legislativo aveva dato cattiva prova, perché costringeva il legislatore ad inseguire l’inesauribile fantasia del reale, con un paradosso: il legislatore fa il giudice usando come strumento non la sentenza ma la legge.

Questa consapevolezza aveva portato, dopo i primi tempi della Rivoluzione, a un secondo paradosso, per impedire l’interminabile durata dei processi (che venivano nel frattempo sospesi) e il sovraccarico del potere legislativo, il legislatore finì col respingere puntualmente i référés con la motivazione che non vi era necessità di interpretazione autentica.

Sulla stessa linea il Tribunal de cassation annullava per eccesso di potere, consistente nella denegata giustizia, le sentenze con le quali i giudici sospendevano la decisione, allegando come motivo l’oscurità della legge, così i giudici non potevano interpretare la legge, ma non potevano rivolgersi al legislatore perché fosse lui ad interpretarla.

La Rivoluzione francese era finita in un vicolo cieco. L’introduzione dei codici napoleonici riuscì a rivoluzionare un sistema che si era incartato su se stesso: l’interpretazione giurisprudenziale, prima vietata, ora diventa doverosa. Infatti, il Code napoleon all’art 4 prevede, come forma di denegata giustizia, il rifiuto di giudicare “sous prétexte du silence, de l’obscurité ou de l’insuffisance de la loi”.

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Sopravvive l’inveterata diffidenza verso gli arrets de réglements del vecchio regime nell’art. 5, che fa divieto al giudice di emettere norme di carattere generale.

La codificazione, che doveva essere lo strumento che avrebbe definitivamente escluso l’interpretazione giurisprudenziale, diventa la confutazione irreplicabile che la rende necessaria.

Il Tribunal del cassation divenne poi Cour del cassation (dal 28 fiorile anno XIII)7 e contestualmente fu modificata la

sua funzione la cui evoluzione porta anche a un cambiamento del référé legislatif che nel 1837 cessa di essere applicato in favore di un secondo giudizio da parte delle Sezioni Unite ove si verifichi un secondo ricorso presentato sui medesimi motivi del primo. Pertanto il giudice del merito poteva ancora non essere condizionato dalla decisione della Cour de cassation ma in caso di nuovo ricorso sarebbero state le Sezioni Unite a pronunciarsi in modo da vincolare alla propria interpretazione il nuovo giudizio del merito. Con questa innovazione la Cassazione non è più lo strumento dell’organo legislativo per il controllo sull’interpretazione della legge da parte del corpo giudiziario, ma diviene esso stesso parte integrante dell’ordinamento giudiziario rappresentandone il vertice svolgendo quindi una funzione sia di cassazione delle sentenze non conformi alla legge, ma rappresentando anche una funzione di guida dell’ordinamento giuridico con formulazioni dei principi di diritto vincolanti per i tribunali del merito.

7- Dalla fausse interpretation alla fausse application de la loi.

Una volta che si ammette il controllo sulla falsa interpretazione è inevitabile l’ampliamento del controllo alla

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falsa applicazione. Intesa in duplice senso: sia come erronea applicazione (si applica la legge ad un fatto cui non doveva essere applicata), sia come mancata applicazione (non si applica la legge ad un fatto che invece rientrava nelle sue previsioni).

Concettualmente, invero, la falsa applicazione rientra nella falsa interpretazione, c’è un caso concreto, si tratta di vedere se questo caso è coperto dalla norma, se la norma viene interpretata in un certo modo, essa si applica a quel caso, altrimenti no.

L’applicazione del diritto non è che la qualificazione normativa di un fatto, cioè la cosiddetta sussunzione di una fattispecie concreta sotto una fattispecie legale. Un problema che ben presto si pose all’attenzione dell’illuminismo giuridico fu proprio quello dei limiti della qualificazione normativa del fatto, questa operazione implica un confronto tra fatto e diritto.

Ora, fino a quale limite può spingersi la Cassazione, giudice di mero diritto?

Storicamente possono distinguersi tre periodi:

in una prima fase che va fino al 1820, la Cassazione ha controllato la qualificazione normativa dei fatti senza alcuna restrizione, anche quando si trattava di nozioni non definite dalla legge (come il commencement d’execution nel tentativo).

In una seconda fase che va dal 1820 al 1830 la Cassazione operò un self-restraint elaborando la distinzione tra nozioni definite e indefinite: le prime nozioni erano quelle per le quali c’era una definizione legale (per esempio, il furto o la truffa); le seconde erano quelle per le quali la legge rinviava a norme sociali o al senso comune (esempio, la diffamazione).

Le origini legalistiche della Cassazione si fanno qui sentire: per le nozioni definite entra in campo la legge ed ecco che scatta il controllo della Cassazione, per le nozioni

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indefinite la legge è solo un confine vago ed ecco che la Cassazione si ritrae.

Come scriveva il presidente Barris (presidente della Chambre criminelle), i giudici sono dei veri e propri giurati nelle decisioni di tutto ciò che non è regolato dalla legge e, come i giurati, essi non devono fare altro che seguire le proprie convinzioni.

Il terzo periodo va dal 1831 in poi e segna il ritorno a un controllo generalizzato della Cassazione, a seguito del rifiuto della distinzione tra nozioni definite e indefinite.

Una cosa, dice la Cassazione, è l’accertamento del fatto, per il quale i giudici di merito sono sovrani, altra cosa è la qualificazione normativa di tali fatti: qui si tratta di applicare o no la legge, non di valutare bene o male le prove.

Il passaggio dalla falsa interpretazione alla falsa applicazione è una strada senza ritorno che parte dal diritto e giunge al fatto, nella falsa interpretazione la Cassazione ha a che fare solo con la norma. Rimane dunque giudice del solo diritto. Con il controllo sulla falsa applicazione la Cassazione deve confrontare il fatto con la norma, quindi non è più giudice della sola norma, ma è giudice del rapporto tra norma e fatto.

Come sottolinea il Calamandrei, “l’errore per falsa applicazione della legge” è una novità assoluta nella storia del diritto ed è l’aspetto più originale della Cassazione francese, ma occorrerebbe aggiungere che, con il controllo sulla falsa applicazione, la Cassazione perde l’innocenza originaria di giudice del puro diritto.

La norma giuridica scende dall’empireo e tocca il fatto. La Cassazione è una cittadella di legittimità assediata dal fatto, sarà la motivazione il cavallo di Troia che porta il fatto, con tutta la sua virulenza esistenziale, a irrompere nelle austere aule del giudice del diritto.

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8- Dalla falsa applicazione della legge al vizio di motivazione: il c.d. défaut de base légale e la motivazione insufficiente o contraddittoria. Un confine non attraversabile: la motivazione illogica. Per sbarrare l’accesso del fatto in cassazione gli illuministi avevano posto una norma che non dava scampo (art. 3 decreto 27 novembre-1 dicembre 1790) : “Sans aucun pretexte et en aucun cas, le tribunal ne pourra connaitre du fond des affaires”. Questa norma perentoriamente sanciva la souvranité du juge di fond rispetto al fatto, il fatto era un territorio riservato in cui la Cassazione non poteva mettere piede.

C’era una curiosa coincidenza storica: nello stesso periodo in cui prende figura il tribunal de cassation, si introduce per legge il principio che tutti i giudizi devono essere motivati. Nella sua definitiva stesura (art. 7 della legge 20 aprile 1810), essa dice “tout jugement ou arret doit contenir les motifs propries à justifier la décision”.

Originariamente si ritenne che tale norma sanzionasse solo un vizio di forma: la mancanza grafica della motivazione, diremmo noi, così intesa, la norma non minacciava la linea di confine tra Cassation e giudice del fond.

Ben presto questa norma subì un’interpretazione radicalmente diversa: da vizio formale divenne vizio sostanziale. Infatti, una volta ammesso il controllo sulla qualificazione normativa del fatto, si poneva un problema, il giudice del merito doveva indicare tutti gli elementi di fatto per consentire alla Cassazione di controllare se la qualificazione giuridica del fatto, compiuta da tale giudice, fosse corretta.

La Cassazione non poteva farlo direttamente, altrimenti sarebbe diventata un giudice di merito. Se il giudice du fond

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ometteva di indicare i fatti necessari per risolvere la questio iuris, si sottraeva al controllo della Cassazione e diveniva sovrano non solo nel fatto ma anche nel diritto.

La Cassazione, coordinando ingegnosamente il proprio potere sul controllo sulla falsa applicazione di legge, con l’obbligo di motivazione del giudice di merito, elaborò la provvidenziale categoria del “défaut de base légale”: se la sentenza impugnata non contiene una descrizione completa dei fatti costitutivi del reato, il controllo della Cassazione sull’applicazione della legge è impedito. Non potendo annullare per falsa applicazione di legge (perché magari l’applicazione potrebbe essere corretta), “annulla per difetto di base legale”

Dunque, la completa descrizione del fatto è la precondizione legale per il controllo sull’applicazione del diritto. Una volta stabilito questo avamposto nel territorio del fatto, non fu difficile per la Cassazione estendere la sua zona di controllo.

Se la ricostruzione del fatto era imprecisa o incompleta, non poteva parlarsi di mancanza di motivazione (secondo l’originaria interpretazione dell’art. 7) e, quindi, non c’era il vizio formale, ma la motivazione era insufficiente ai fini del controllo sull’applicazione del diritto al fatto. In questo modo, l’insufficienza o l’imprecisione della motivazione in fatto divenne sindacabile in Cassazione, non come vizio di motivazione, bensì come violazione di legge in quanto ostacolo al controllo sull’applicazione del diritto.

La figura del défaut de base légale fu un eccellente alibi che servì alla Cassazione per sottrarsi all’accusa di compiere incursioni nel fatto; di fatto, la motivazione insufficiente o incompleta fu inserita nell’orbita dell’errore di diritto e partendo dal controllo sul diritto, giungeva al controllo indiretto sui fatti sostanziali.

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Tale controllo divenne sempre più evidente quando la Cassazione compì un passaggio ulteriore: quando iniziò ad annullare le sentenze per contraddizione dei motivi.

Il canone della contraddittorietà prima fu usato nei casi di contrasto tra i fatti ricostruiti dal giudice di merito e la qualificazione normativa ad essi data, cioè quando la qualificazione normativa era “en opposition flagrante” con i fatti accertati.

Successivamente fu inteso come contraddittorietà nella ricostruzione del fatto, con questo argomento: i motivi contraddittori si annullano l’un l’altro, pertanto la contraddittorietà dei motivi è assimilabile alla mancanza di motivi.

In questo modo la Cassazione pretende dal giudice di merito non solo una constatazione precisa e completa dei fatti, ma anche una valutazione dei fatti alla stregua di un ragionamento coerente.

Si tratta di un passaggio cruciale perché, attraverso tale meccanismo, la Corte raggiunge il punto più avanzato del controllo sul merito del processo.

La Cassazione francese, proprio per la rigorosa fedeltà alle sue origini illuministiche, non ha mai ammesso come motivo di ricorso il vizio di motivazione. Soprattutto la Cassazione ha escluso il proprio sindacato sul vizio logico perché si riteneva che il controllo su quel vizio avrebbe invaso la sovranità del giudice del merito, e questo spiega perché la giurisprudenza francese, diversamente da quella tedesca ed italiana, non elaborò alcuna forma di controllo sui criteri di inferenza scelti dal giudice di merito nella motivazione in fatto (le cosiddette massime di esperienza).

Per l’illuminismo francese il vizio logico era merito del processo, ma, attraverso le tecniche del difetto di base legale, della motivazione insufficiente o incompleta e dei motivi

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contraddittori, la Cassazione ha fatto potentemente sentire il peso del suo controllo sul giudice del fond.

9- Cinquant’anni di braccio di ferro tra giudice di merito e Cassazione.

L’istituzione del Tribunal de cassation ovviamente pose il problema dei rapporti di tale organo con i giudici di merito.

Al riguardo gli illuministi avevano le idee chiare: a) il Tribunal de cassation non doveva essere il vertice dell’ordinamento giudiziario; b) le pronunce del Tribunal non dovevano in alcun modo incidere sul processo e condizionare la decisione dei giudici di merito.

La paura era che, sotto sembianze più accattivanti, risorgesse l’ordinamento giudiziario del vecchio regime con al vertice i potentissimi Parlements.

Gli illuministi furono di parola, alle origini il Tribunal de cassation non era un organo giurisdizionale e tanto meno era un organo di vertice. Questa sua struttura era conforme alla sua funzione: sanzionare le invasioni del potere giudiziario nel campo del potere legislativo.

Una funzione meramente negativa: la Cassazione aveva solo il potere di cassare, non altro; non poteva decidere la controversia neppure in diritto, non poteva dare direttive al giudice del merito. Questi era sovrano nel fatto, ma anche nel diritto.

Un sistema siffatto aveva un grosso inconveniente: nonostante gli annullamenti, il giudice di merito poteva imperturbabilmente continuare a decidere allo stesso modo. A conti fatti, era il giudice di merito che si imponeva sulla Cassazione.

Dopo un primo annullamento, il giudice di rinvio poteva riemettere la stessa sentenza, e lo stesso poteva fare dopo un

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secondo annullamento. L’ulteriore ricorso veniva deciso dalla Cassazione a Sezioni riunite, anche in questo caso la sentenza delle Sezioni Unite non era vincolante per il giudice del rinvio.

Ci vollero cinquant’anni perché il braccio di ferro istituzionale tra giudice di merito e Cassazione si risolvesse a favore di quest’ultima.

Infatti, l’art. 2 della legge del 1 aprile 1837 introdusse una contestatissima norma: “Si le dexième arret ou jugement est cassé pour les memes motifs que le premier la cour ou le tribunal auquel l’affaire est renovée se confermera à la decision de la Cour de cassation sur le point de droit jugé par cette Cour”. In questo modo si fissa per la prima volta l’obbligo giuridico per il giudice di rinvio di piegarsi al punto di diritto deciso dalla Corte: vincolo che scatta però solo con il secondo annullamento deciso dalla Cassazione a Sezioni Unite.

Quella riforma fu tribolata perché fu vista come il tradimento delle origini della Cassazione. Essa assume una decisa natura giurisdizionale, mina la souveraineté del giudice di rinvio, dà un’importanza gerarchica all’ordinamento processuale, ponendosi al vertice di esso.

Di qui una strisciante tensione tra giudice di merito e Cassazione, di qui la nascita di strategie contrapposte.

Il giudice di merito tende a sottrarsi al controllo prediligendo la motivazione in fatto rispetto a quella di diritto. La Cassazione tende a dilatare il controllo in diritto ampliando a tutti quei presupposti di fatto, necessari per la pienezza dell’esame del diritto.

Alla fine la Cassation realizza il suo disegno colonialista, chi plasma giuridicamente il fatto è la Cassazione, non il giudice di merito.

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Il giudice di merito conserva la sovranità sul giudizio in fatto, ma anche qui la Cassation trova il modo di fare micidiali incursioni.

10- I moniti che ci vengono dall’evoluzione storica del “modello puro” di Cassazione. Gli opposti inseparabili: jus constitutionis e jus litigatoris.

A dire il vero, di “modelli puri” di Cassazione ce ne sarebbero due: il modello “puro” di Cassazione non giurisdizionale e quello un po’ meno puro di Cassazione giurisdizionale.

Entrambi i modelli si sono avverati storicamente, in successione tra loro, nella sua versione strema, (cioè il “modello puro”) la Cassation avrebbe la sola funzione di accertare la ribellione del giudice al potere legislativo.

Queste dovrebbero essere le caratteristiche di un siffatto modello: nessun rapporto della Cassazione con il processo; irrilevanza dell’error in iudicando; divieto di interpretazione; divieto di applicazione del diritto al fatto.

Non è evidentemente questo il modello di Cassazione che ci interessa, troppo primitivo e troppo rozzo, esso mira alla coesistenza di una doppia sovranità: quella del legislatore e quella del giudice di merito.

La Cassazione come organo supremo ha senso solo se riesce ad imporre al giudice di merito una sovranità limitata. La Cassazione deve garantire non solo il potere, ma anche il cittadino contro gli abusi del potere giudiziario.

Quest’ultima garanzia non è necessaria solo dove, secondo l’originaria illusione illuministica, il potere giudiziario fosse un “potere nullo”, ma quando, come ben presto si vide, questo potere è tutt’altro che nullo la Cassazione deve cambiare pelle e funzioni.

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Ecco dunque un altro “modello puro”: quello della Cassazione giurisdizionale, cioè giudice dell’impugnazione.

Il modello è centrato su queste caratteristiche: rilevanza dell’error in procedendo (sia in fatto che in diritto); rilevanza dell’errore di diritto, sia sotto il profilo della falsa interpretazione, sia sotto quello della falsa applicazione; irrilevanza dell’error in iudicando.

È questo il modello che probabilmente aveva in mente Calamandrei. È un modello complicato, che richiede congiuntamente varie condizioni concettuali: che il diritto sia riconducibile alla legge; che regga la distinzione tra legittimità e merito; che il ragionamento giuridico rientri negli schemi del sillogismo.

Si dice: questo modello si è storicamente avverato, ha funzionato e funziona, come dice la Cassation francese.

In realtà le cose non stanno proprio così. Una singolarità della Cassazione è che le norme che ne disciplinano i compiti sono poche e laconiche: è una normazione non per regole ma per principi. Questo ha permesso alla Cassazione di evolversi nel corso dei decenni con una sequenza di continue autoriforme, tutte cospiranti verso una precisa strategia: l’espansione del proprio controllo sulle sentenze di merito.

Dunque, storicamente il modello puro di Cassation è diventato sempre meno puro. Come è stata possibile questa rottura degli argini della legge proprio da parte di chi doveva presidiare la legge?

Il vizio non è nella Cassazione, ma nei principi che l’hanno fondata. Il propellente che ha mosso il continuo cambiamento della Cassazione è la coesistenza forzata tra jus constitutionis e jus litigatoris. Non possono vivere da soli, ma vivono male insieme.

Lo jus constituzionis riguarda l’esistenza e il significato della legge in astratto.

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Lo jus litigatoris riguarda la ricostruzione del fatto e l’applicazione della legge al fatto così ricostruito.

Il disegno originario di Cassazione aveva una forma dualistica: ricorso per cassazione e giudizio di cassazione. Il ricorso era espressione dello jus litigatoris e azionava il giudizio di cassazione, che invece mirava a realizzare lo jus constitutionis.

Dunque, lo jus litigatoris come strumento e lo jus constituzionis come fine. In realtà, lo strumento non è coerente con il fine: lo jus litigatoris mira ad ottenere una pronuncia che incida nel merito, lo jus constituzionis è indifferente al merito.

Lo jus constitutionis risponde ad un’esigenza di legalità, laddove lo jus litigatoris risponde ad un’esigenza di giustizia.

Dunque, mentre lo jus litigatoris non è indifferente alla legalità, lo jus constituzionis è indifferente alla giustizia.

Ora, è difficile costruire un giudizio di impugnazione che declassi lo jus litigatoris ad una specie di interesse legittimo, che riceve tutela solo se coincide con lo jus constitutionis.

Un giudice, per quanto voglia simulare indifferenza per il contenuto della decisione di merito, di fatto non è insensibile ad esso ed è fatalmente spinto verso di esso dalla pressione dei ricorrenti.

Alla Cassazione doveva interessare solo la legalità.

In realtà, fin dalle origini non le è stata estranea un’esigenza di giustizia.

11- La funzione di nomofilachia: dall’esistenza al significato della legge.

Il modello francese influenza particolarmente gli stati europei, rigenerati dalla restaurazione, che si vennero a trovare nella situazione di dover rinnovare i loro organismi, sia a

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livello di costituzione sia a livello giudiziario, in particolare l’influenza maggiore nella nostra penisola si ebbe sull’organizzazione giudiziaria del Regno di Sardegna che riprende la tipologia di tribunale di Cassazione introdotta dalla rivoluzione francese.

Per quanto riguarda la Corte di Cassazione si previde (sempre sull’onda del modello napoleonico) che essa mantenesse «l’esatta osservanza delle leggi», senza divenire giudice del merito (come era in alcuni ordinamenti preunitari, ad esempio a Milano, dove il tribunale di terza istanza fu soppresso nel 1865). Ma l’unificazione del sistema giudiziario avvenne in modo incompleto, furono mantenute le corti esistenti: Torino (con un breve passaggio a Milano dal 1859 al 1865) e poi ancora Firenze, Napoli e Palermo e nel 1875 fu istituita la Corte a Roma, che sarebbe presto divenuta la più importante, in quando le sarebbe stata attribuita la funzione di decidere sui conflitti di competenza e di giurisdizione (legge 12 dicembre 1875, n. 2837). Nel 1888 la competenza in materia di giurisdizione penale sarebbe stata unificata e attribuita sempre a Roma; mentre solo nel 1923 le sarebbe stata assegnata anche la materia civile.

La Revisione, invece nasce come organo giurisdizionale volto al perseguimento di esigenze di giustizia sostanziale. Di conseguenza essa conosce nel merito della questione e decide della causa senza operare rinvii, Di norma, ma non sempre, negli ordinamenti che presentano tale tipologia di Corte Suprema vige il principio della doppia conforme in virtù del quale non sono impugnabili in terza istanza le decisioni di secondo grado in toto confermative di quelle di primo grado.

Storicamente tali organi supremi costituivano diretta espressione del potere giurisdizionale riconosciuto al sovrano. Dunque la differenza essenziale rispetto alla Cassation concerne la stessa finalità perseguita: la Revisione è uno

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strumento di estrinsecazione del potere giurisdizionale spettante al sovrano e non un mezzo per arginarlo8. A ben

vedere, quindi, è un organo di giustizia e non di nomofilachia9.

12- La transizione dalla Terza istanza alla Corte di Cassazione.

In Francia la nascita della Cassation nasceva dalla Rivoluzione, ma in Italia non essendoci stata nessuna rivoluzione non c’era alcuna esigenza di rompere con il passato, ne di tutelare il potere legislativo dagli assalti del potere giudiziario. Le armate napoleoniche portarono, tra le altre novità, anche un’inedita figura di organo supremo.

Non fu una innovazione senza traumi in un territorio all’interno del quale si era ormai abituati ad un organo di vertice completamente diverso. La Terza Istanza, la quale consisteva, pur nelle molteplici varianti dovuta alla storia della penisola, in un organo giurisdizionale di ultimo grado che perseguiva la giustizia della decisione, avendo la possibilità di conoscere nel merito la questione controversa nell’impossibilità, di regola, di ammettere dinanzi ad essa nuovi mezzi di prova. La Terza istanza poteva decidere direttamente la causa, salvi i casi di nullità o incompetenza. L’altra caratteristica era la non ricorribilità di fronte al

8 V. G. Gorla, I grandi Tribunali italiani fra i secoli XVI e XIX: un capitolo

incompiuto della storia politico giuridica d’Italia, in foro it., 1969,630.

9 P. Calamandrei, La Cassazione civile, cit., vol. I,

G. Spangher, Rito accusatorio: per una nuova riforma del sistema delle impugnazioni penali, in S. Mannuzzo e R. Sestini (a cura di) il giudizio di Cassazione nel sistema delle impugnazioni, Roma, 1992, p.237 ss. il quale parlando del ruolo della Corte di Cassazione richiama il contrasto tra funzione nomofilattica e terza istanza “rappresentato dalla attribuzione al Supremo Collegio da un lato, sia dei giudizi di pura legittimità sia di quelli di merito – da intendersi come potere di formulare gli adeguati giudizi di valore- e, dall’altro dei giudizi di merito – da intendersi come potere di definire l’intera causa formulando i relativi giudizi storici deducendoli dagli atti del processo”.

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consesso, in caso di doppia conforme, che conferiva, quindi alla sentenza carattere di definitività.

Storicamente questi tribunali supremi10 sono espressione

del potere giurisdizionale riconosciuto al sovrano, e pertanto non servono a salvaguardare il potere del sovrano dagli attacchi dei giudici, ma anzi sono lo strumento attraverso il quale il sovrano esercita la sua giurisdizione, e pertanto come sintetizzato da Calamandrei, sono organi di giustizia e non di nomofilachia, fungendo come Corti di secondo appello.

I fautori della Terza istanza esaltavano i suoi lati positivi soprattutto perché: offriva alle parti un’ulteriore grado di merito, evitava che si dovesse fare una valutazione e una distinzione tra questio iuris e questio facti; evitava le lungaggini derivati dal rinvio ai giudici inferiori, visto che decideva nel merito. Infine, con la clausola della doppia conforme otteneva tre importanti risultati: innanzitutto limitava notevolmente il numero delle impugnazioni in terzo grado, secondariamente valorizzava il giudizio di primo grado in quanto, se la Terza istanza decideva conformemente alla decisione di primo grado, era questa a prevalere sulla sentenza di appello; infine impediva che una condanna, ingiustamente subita in secondo grado divenisse definitiva, quando l’imputato aveva ottenuto un’assoluzione in primo grado.

L’ingresso nel sistema della Corte di Cassazione portò ad una forte critica da parte dei sostenitori della Terza istanza, in quanto la distinzione tra fatto e diritto era ritenuta artificiosa e processualmente non sostenibile poiché la Corte di Cassazione era ritenuto un giudice con una competenza monca, in quanto il perseguire il solo fine della legalità portava a non raccogliere le istanze di giustizia, che la Terza istanza, considerato giudice completo, riusciva ad interpretare assieme

10 G. Gorla, I “Grandi Tribunali” italiani fra i secoli XVI e XIX : un capitolo

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al controllo di legalità. Infine la caratteristica di garantire l’uniformità della giurisprudenza era realizzata dalla Corte di Cassazione attraverso un modulo verticistico e burocratico che finiva per soffocare gli apporti di conoscenza ed esperienza dei giudici dei gradi inferiori.

Naturalmente coloro che erano favorevoli all’introduzione della nuova Suprema Corte non potevano che avere una visone diametralmente opposta. La prima critica riguardava la doppia conforme, che dove non esisteva portava ad un enorme accumulo di processi di terzo grado, ove esisteva, limitava la libertà di giudizio dei giudici di terzo grado in quanto, laddove ritenessero errate sia la decisione di primo grado che quella di secondo la loro discrezionalità era limitata alla scelta di una delle due senza poterne adottare una diversa. La seconda critica riguardava l’opportunità se non proprio la pericolosità di un giudizio di terzo grado, in quanto, nel processo penale la convinzione del giudice sul fatto si forma “dall’orale svolgimento del processo”11. Pertanto se era già poco

giustificabile l’appello, figuriamoci un terzo grado di merito. Vi era poi una terza critica particolarmente dura che evidenziava la necessità di un terzo grado di giudizio che assicurasse la certezza del diritto e l’uniformità della giurisprudenza, organismo di vertice che era completamente assente e che avrebbe dovuto occuparsi solo di diritto.

Infatti la Terza istanza nel trattare merito e diritto contemporaneamente tendenzialmente perdeva la qualità di organo “faro” nell’interpretazione del diritto finendo con l’emettere un giudizio che finiva per valere tra le parti.

La soluzione finale fu favorevole alla Corte di Cassazione, in quanto con il cambiamento di clima creato dalla Rivoluzione francese, la Terza istanza come longa manus del

11 BENEVOLO, Cassazione e Corte di cassazione (penale), in Digesto italiano,

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sovrano non aveva più ragione di esistere e nel clima di separazione dei poteri si affermava il positivismo giuridico che riduceva le fonti del diritto alla sola legge.

Nonostante ciò la Corte di Cassazione non riuscì a colmare il vuoto lasciato dalla Terza istanza, in quanto quest’ ultima aveva come obiettivo la giustizia e la legalità, la Corte di Cassazione invece aveva come suo unico obiettivo la legalità e dimostrava una completa insensibilità alla giustizia. La Terza istanza è giudice del processo e non della sentenza, la Corte di Cassazione non è giudice né del processo, né della sentenza, ma giudica della legalità della sentenza. L’una svolge una funzione di giudizio l’altra si limita al controllo.

Nonostante l’aver sostituito la Terza istanza, per la Corte di Cassazione si ebbero subito problemi e difficoltà: il distinguere tra fatto e diritto, sua caratteristica principale se praticabile, consente la sua tenuta, altrimenti crolla. Senza considerare che la difficoltà di cambiamento di mentalità da parte dei giudici, portò ad una contaminazione culturale le strutture giuridiche della Corte di Cassazione, sotto molteplici aspetti: in primo luogo, le sentenze della Corte di Cassazione italiana hanno, fin dal primo momento rifiutato la struttura argomentativa della frase unique, adottando uno stile di giudizio meno geometrico e più discorsivo; in secondo luogo, la Corte di Cassazione italiana ha privilegiato una metodologia interpretativa più legata allo scopo che al testo della norma; in terzo luogo, la Corte di Cassazione italiana ha recepito non il modello originario della Cassation francese, ma il modello evoluto dopo oltre settanta anni di sperimentazione12; in

quarto luogo, al di là del formale ossequio all’insindacabilità del libero convincimento del giudice, la Corte di Cassazione

12Questo spiega perché per la Cassazione italiana non si è mai posto

realmente il problema del controllo sulle qualificazioni normative indefinite: fin dall’inizio ha ritenuto che le competesse tale controllo.

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ha avuto la vocazione, tipica della Terza istanza, a fare incursioni nel fatto, facendo rientrare il vizio di motivazione nella violazione di legge, trasformando il fatto in diritto, in quanto, attraverso la qualificazione normativa del fatto, operazione di diritto, compiva una valutazione del fatto.

Questa è stata una operazione che ha consentito alla doppia conforme, nonostante mai si sia ricorso ad essa nelle motivazioni ufficiali, di avere un peso determinante nella prassi, consentendo quindi alla Terza istanza di mantenere la sua influenza sul nuovo istituto.

13- L’introduzione della Corte di Cassazione nel sistema giudiziario italiano, cenni storici.

L’art, 122 del r.d. n. 2626 del 6 novembre 1865, regolante l’ordinamento giudiziario, così recitava: «la Corte di Cassazione è istituita per mantenere l'esatta osservanza delle leggi da parte degli organi giurisdizionali» senza distinguere tra Cassazione civile e Cassazione penale, dava alla Corte una funzione unificatrice nell’interpretazione della legge e nel rispetto del principio di diritto enunciato dalla medesima.

Con legge 06/12/1888 n. 5825 fu istituita un’unica Corte di Cassazione penale con sede a Roma, abbandonando la vecchia suddivisione regionale che aveva dato origine a interpretazioni controverse, mentre per la giurisdizione civile erano rimaste in funzione le Corti di Cassazione regionali con tentativi da parte del Parlamento di procedere all’unificazione anche per detto settore, tanto che con legge 12 dicembre 1875, n. 2837, si era provveduto a creare una quinta sezione con sede a Roma con lo scopo di decidere in merito alla soluzione dei conflitti di competenza tra le corti regionali e tra tribunali ordinari e speciali. La nuova organizzazione centralizzata andava a sostituire le precedenti Sezioni e aveva competenza

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per l’intero territorio nazionale. Inoltre con la successiva legge 31 marzo 1877 n. 3761 si attribuì alla Sezione la competenza esclusiva in ordine ai conflitti di attribuzione tra autorità giudiziaria e amministrativa.

Scopo dell’unificazione sia nello Stato post unitario che sotto il regime fascista, era di consentire alla Corte di svolgere un ruolo di sostegno e uniforme interpretazione della legge, nello Stato liberale, e di attuazione dell’autorità politica di regime nel periodo fascista.

Nonostante tali premesse, l’aver costituito un unico organismo ha favorito la formazione di orientamenti unitari autonomi rispetto all’ordinamento legislativo e agli indirizzi politici che il regime fascista avrebbe voluto imporre.

Nel territorio italiano, l’istituto della Corte di Cassazione era stato, in origine, disciplinato in maniera decisamente diversa da parte dei singoli stati preunitari: mentre infatti, il Regno di Sardegna aveva adottato sul punto una legislazione evidentemente debitrice di influenze francesi, in Toscana le funzioni di Cassazione erano svolte da una Consulta, nello Stato pontificio erano attribuite alla Rota e alla Segnatura, mentre a Napoli operava il Sacro Regio Consiglio13.

Questa situazione, venuta momentaneamente meno a seguito delle conquiste napoleoniche, si protrasse anche dopo la Restaurazione successiva al Trattato di Vienna e fece sentire la sua influenza anche al momento della unificazione dello Stato nazionale.

L’originaria presenza nel territorio italiano di una pluralità di organi giurisdizionali gerarchicamente sovraordinati, spinse infatti il legislatore nazionale ad ammettere, ancora dopo il 1861, la presenza di più Corti di Cassazione, in contrasto con il modello francese ed in evidente contraddizione con quello

13Per approfondimento di tali istituzioni, P. CALAMANDREI, La

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che da sempre si era ritenuto essere lo scopo istituzionale dell’organo, cioè l’unificazione della giurisprudenza.

L’aspirazione all’unicità dell’istituto ed al suo concentramento nella capitale nazionale non poteva tuttavia tardare a manifestarsi e tale esigenza spinse dapprima il legislatore a riconoscere alla Corte di Cassazione di Roma la titolarità di speciali funzioni (si pensi, ad esempio, alla disciplina interna di decisioni a Sezioni Unite, nell’ipotesi prevista dall’art. 547 c.p.c. del 1865, o, in maniera ancora più emblematica, all’attribuzione alla Corte romana della competenza esclusiva in materia penale) per poi giungere alla definitiva individuazione della Corte di Cassazione quale organo unitario con sede in Roma, come disposto dalla l. 24.3.1923, n. 601, coerentemente al pensiero politico dell’epoca che esaltava l’autorità dello Stato nazionale centralistica.

Il nuovo giudice di Cassazione, introdotto nel periodo fascista era chiaramente l’erede dell’omonimo organo giurisdizionale francese. Al pari di quanto accadeva nell’ordinamento giuridico transalpino, anche nel nostro paese il dato caratterizzante di questo istituto era rappresentato dall’autonomia di tale fase del processo rispetto ai gradi precedenti, e alla natura assolutamente diversa della deliberazione giudiziale ivi espressa: infatti, la decisione della concreta controversia fra le parti in lite, nelle due componenti di esame del fatto e risoluzione della questione di diritto, si affermava doversi ritenere conclusa con l’appello, mezzo di impugnazione a carattere illimitato e generico tramite il quale poteva giungersi finanche a rinnovare l’originaria decisione emessa in primo grado, mentre il ricorso per Cassazione era un mezzo di impugnazione straordinario, nel cui ambito si faceva luogo alla scissione del giudizio di diritto dal giudizio

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di fatto, o meglio, all’isolamento della legge dal giudizio, alla sua astrazione programmatica dal caso concreto.

Da tale impostazione conseguiva poi la presenza nella struttura del giudizio di Cassazione di tre elementi caratteristici ed indefettibili, ovvero l’intervento necessario del pubblico ministero, la possibilità di un ricorso nell’interesse della legge ed in assenza di qualsiasi rilevanza per le parti, ed infine il contenuto negativo del giudizio di legittimità con il conseguente rinvio della causa ad altro giudice per la sua compiuta definizione tanto sotto il profilo dell’accertamento in fatto che in ordine allea qualificazione giuridica dell’accaduto. A proposito di tale ultima considerazione, il cosiddetto contenuto negativo della decisione della Corte di Cassazione (che secondo l’impostazione “Calamandrei”14 , imponeva alla

Corte di Cassazione di pronunciare esclusivamente una statuizione meramente negativa, senza una corrispondente affermazione positiva della legge nel caso concreto) stava ad indicare “l’estraneità dell’affermazione positiva al giudizio sul caso concreto, che si doveva intendere totalmente riservato al giudice del caso concreto, il quale riprendeva la sua posizione, cioè manteneva la sua pienezza di giudizio in diritto e in fatto”.

Tanto era autonoma la posizione del giudice del rinvio rispetto al precedente dictum della Corte di Cassazione, che il primo organo, al pari di quanto si è detto avvenire in Francia, non era affatto vincolato dalla decisione di legittimità per cui “poteva far sua la valutazione della Cassazione ma poteva anche non farlo e se non lo faceva non commetteva errore, ma semplicemente giudicava15”.

14 P. CALAMANDREI, La Cassazione civile, cit., 1111.

15 Solo quando la sentenza veniva cassata una seconda volta il giudice di

rinvio era vincolato alla decisione della Corte di cassazione, ma solo perché questa si pronunciava a Sezioni Unite e ciò dimostra come “il legislatore volendo non invadere il campo riservato al giudice, ma

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Si può concludere questo breve esame delle vicende storiche della Corte di Cassazione, riconoscendo come in origine l’istituto sia stato in effetti concepito sul presupposto di una assoluta scissione fra decisione della concreta vicenda giudiziale ed esame della legittimità della relativa pronuncia sulla regiudicanda. La realtà e la prassi, però, hanno presto dimostrato la caducità di tale impostazione, non essendo il legislatore dell’età moderna praticamente mai riuscito, sul piano funzionale, a sottrarre la Cassazione al giudizio: come è stato efficientemente detto, la pronuncia sulla legge è infatti necessariamente una pronuncia sulla validità del giudizio e quindi è, direttamente, una decisione sul caso concreto, sia pure nei limiti istituzionalmente stabiliti.

Dei suggerimenti provenienti da questa dottrina e soprattutto dei vincoli derivanti dal concreto ed effettivo atteggiarsi del giudizio di Cassazione nell’esperienza quotidiana ha dovuto alla fine tener conto anche il legislatore, che ha ormai abbandonato la visione di una Corte di Cassazione quale supremo interprete di una legge fissa e immutabile nel suo significato ed assolutamente indifferente rispetto alle dinamiche della cosiddetta law in action.

A partire dalla metà del XX secolo, quindi, il giudizio di legittimità, tanto nell’ambito del rito civile che in sede penale, è venuto ad assumere la veste di un mezzo di impugnazione ordinario, esperibile liberamente dalla parte soccombente nei gradi precedenti, e nel cui ambito è possibile procedere ad un esame sufficientemente ampio della decisione resa dai giudici di prime cure: in questo modo l’istituto ha assunto la conformazione che mantiene, sia pur con atteggiamenti ambivalenti, tanto da parte del legislatore che da parte della giurisprudenza, ancora oggi.

costituire una fonte di produzione giuridica, sia pure operante nei limiti del caso concreto” (ancora SATTA, Corte. Cit. 802).

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