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1. VASCO PRATOLINI AUTORE E SCENEGGIATORE: L'OPERA TEATRALE

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Academic year: 2021

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1.

VASCO PRATOLINI AUTORE E SCENEGGIATORE:

L'OPERA TEATRALE

«Un altro genere con il quale avrei voluto esprimermi è il teatro.»        Come lui stesso racconta nell'intervista rilasciata a Luciano Luisi nel marzo del 19881, Vasco Pratolini nutriva una vera e propria passione per il teatro che, fin da

ragazzo,  lo  aveva  affascinato  anche  sotto  forma  di  melodramma2. Nonostante

questo   amore,   lo   scrittore   dichiara   di   aver   prodotto,   per   le   scene,   soltanto «sciocchezze, e solo da vecchio»3, pur avendo, da giovane, fatto «anche il negro –

come si dice – per una famosa attrice di varietà: scrivevo gli sketches, le battute»4.

Per   il   teatro   Vasco   Pratolini   compose   sicuramente   due   opere:   il   dramma Gualtieri  e  Griselda,  riscrittura  dell'ultima  esemplare   novella   del  Decameron, rappresentato a Certaldo Alto il 30 e 31 agosto del 1952 per la regia di Vito Pandolfi; ed Ellis, atto unico pubblicato nel 1963 sulla rivista «Questo e Altro», mai   rappresentato   sul   palcoscenico   e   da   cui   venne   invece   tratto   un   originale televisivo per la regia di Daniele D'Anza, con Tino Carraro e Andreina Pagnani, andato in onda sul secondo Canale Rai il 12 dicembre del 1962, all'interno del programma «Il Giornalaccio»5. Questa può essere considerata la seconda prova in 1 L'intervista, da cui ho ripreso anche le parole poste ad epigrafe di questo capitolo,  è riprodotta, con il titolo Viaggio nella memoria, a colloquio con Luciano Luisi, in Luisi (a cura di) 1988, pp. 49­79. 2 Tanto che aveva voluto a ogni costo entrare a far parte del coro di Firenze, e ci era riuscito, anche   se   con   l'inganno   (in   tondo   le   parole   dello   scrittore,   in   corsivo   quelle dell'intervistatore): «[...] verso i quattordici anni ho pensato di entrare nel coro a Firenze. Ma io non sapevo cantare, e quando ho fatto l'esame di ammissione – sai, si doveva fare la scala – un mio amico che aveva una bellissima voce bianca, Arrigo Corsaro, cantò al posto mio alle mie spalle.» «Insomma, tu cantavi in play­back, si direbbe oggi.» «Proprio così. E fui ammesso, e ho sempre continuato a fingere di cantare muovendo solo la bocca. Ma una sera, travolto  dall'entusiasmo, ho  cantato  davvero.  Il  maestro   ha  fermato   il  coro. C'è qualcuno che stona! Poi ci ha riascoltati tutti e io sono stato cacciato, ma in compenso mi hanno preso tra i figuranti, le comparse, insomma.» Ivi, pp. 54­55.

3 Ivi, p. 55. 4 Ibidem.

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parte   fallita,   dal   punto   di   vista   drammaturgico,   della   produzione   di   Vasco Pratolini, visto che gli scritti teatrali nascono per essere messi in scena. Già alcuni anni   prima,   cercando   di   inseguire   questa   sua   passione,   lo   scrittore   fiorentino figurava   come   autore   di   un'opera   intitolata  L'America   si   chiama   amore,   in cartellone per la stagione teatrale 1955­1956 al Piccolo Teatro di Milano. L'opera non venne mai rappresentata e sembra che questo testo, di cui non  è rimasta alcuna traccia, sia stato bruciato. Abbiamo testimonianza della sofferta gestazione dell'opera in una lettera inviata da Pratolini a Paolo Grassi: «Scrivo a te perché so che Giorgio [Strelher] è tutto preso dalle prove dell'Opera da tre soldi  e non voglio   comunicargli   direttamente   una   notizia   che   non   gli   farà   piacere.   Finita l'America ci ho dato di frego; ora che l'ho finita e distrutta, credo di aver capito come   la   debbo   incominciare.   Giorgio   mi   rimprovererà   che   gliela   dovevo   far leggere, ma io sono forse presuntuoso, ma mi conosco, ho bisogno di sbagliare da solo»6.

Ci fu probabilmente anche un altro tentativo di avvicinamento al teatro da parte di Pratolini, come testimonia una lettera inviata da Strehler a “Giancarlo D.”7, in

cui il direttore del Piccolo Teatro di Milano, parlando del repertorio che stava preparando   per   la   prossima   stagione   teatrale,   scriveva:   «Pratolini   sta incominciando a scrivere, con l'aiuto di Vené, un testo nuovo per il prossimo anno (forse il Quartiere rifatto per il teatro, non una riduzione, forse una cosa nuova)»8.

Anche   se   nel   libro   non   è   precisata   la   data   di   invio   della   lettera,   è   possibile ricavarla da alcune informazioni in essa contenute: Strehler parla infatti di due opere, Arlecchino servitore di due padroni, da rappresentare in estate a Milano e poi in tournèe a Salisburgo, e della riscrittura di  Barbablù  di Massimo Dursi9.

Incrociando questi dati ho ricercato nell'Archivio Multimediale del Piccolo Teatro di Milano la stagione teatrale di cui stanno parlando il regista e l'attore, e sono arrivata alla conclusione che si tratti delle stagioni 1972­1973 (durante la quale ci fu la trasferta della commedia goldoniana nella città austriaca) e 1973­1974, che

6 Cfr. Grassi 1977, p. 189.

7 Si   tratta   di   Giancarlo   Dettori,   attore   teatrale   che   debuttò   al   Piccolo   nell'Arlecchino

servitore di due padroni di Goldoni del 1957.

8 Cfr. Strehler 1974, p. 183.

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vide in scena al Piccolo il dramma di Dursi e che avrebbe dovuto essere arricchita anche dal testo di Vasco Pratolini.    In conclusione, Gualtieri e Griselda ed Ellis sono le uniche due prove teatrali di uno scrittore che, nonostante un'evidente attitudine naturale per le scene10, trovò maggiori sbocchi su quelle cinematografiche. 10 A questo fa cenno lo stesso Vito Pandolfi nell'articolo Il teatro in Pratolini pubblicato su «Teatro d'Oggi», Roma, II, 11­12, novembre­dicembre 1954, p. 37 come introduzione a Lungo viaggio di Natale, riduzione teatrale, curata dallo stesso Pandolfi, dell'omonimo

racconto  di  Pratolini  contenuto  in  Diario  Sentimentale  e che  è stato pubblicato  nella succitata rivista alle pp. 38­41. Sempre alla teatralità contenuta in potenza negli scritti di Pratolini sono dedicati gli interventi di Carlo Lizzani e Giancarlo Bertoncini contenuti in Bartolini   (a   cura   di)   1992,  pp.   17­32.   Anche   Alessandro   Parronchi   parla   di   «una predisposizione di Pratolini al teatro che ha avuto esiti rarissimi ma che pure esiste in potenza, e in certo senso predispone e prepara il contatto e la fusione dell'opera narrativa di Pratolini col cinema». L'intervento, intitolato Saluto a Vasco, si trova in Vannini (a cura

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GUALTIERI E GRISELDA

Gualtieri e Griselda  è il primo testo teatrale scritto da Vasco Pratolini. Fu rappresentato a Certaldo Alto il 30 e 31 agosto 1952 come primo tempo di uno spettacolo intitolato Le Notti del Decamerone11. L'opera fu composta su richiesta

della Pro Loco di Certaldo e del regista Vito Pandolfi, che con quest'associazione aveva   collaborato   già   l'anno   precedente   mettendo   in   scena,   nello   spettacolo intitolato Calandrino in Commedia, le storie di uno dei personaggi più noti e più comici del Decameron.

Nel programma di sala de Le Notti del Decamerone Vasco Pratolini scrive: Ho   accolto   l'invito   dell'Associazione   Pro   Certaldo   e   dell'amico   Pandolfi,   a trarre dall'ultima novella del  Decamerone,  un breve dramma, perché ho sempre amato profondamente il Boccaccio e ho studiato in lui l'arte del narrare che cerco di far mia. Nella novella di  Gualtieri e Griselda  in particolare, ho riconosciuto personaggi che mi sono cari, e che vedo come appartenenti alla stessa famiglia dei miei, vivi ancor oggi nella fantasia popolare dei miei quartieri, tanti secoli fa. Esprimo la mia più viva riconoscenza all'amico Giusto Vittorini, che mi ha fornito consigli e spunti per superare come meglio ho potuto le difficoltà di questa mia prima esperienza teatrale12.

La   stampa   espresse   ottimi   giudizi   sull'opera:   Luigi   Squarzina   scrisse   un bellissimo   pezzo   su   «Sipario»   dell'agosto­settembre   195213,   in   cui   utilizzò

addirittura   la   parola  miracolo  per   sottolineare   la   bellezza   di   uno   spettacolo allestito con sole 650.000 lire. Nell'articolo viene messo in luce un aspetto molto interessante   di   quella   che   viene   definita   una   riscrittura   critica   della   novella: Pratolini infatti trasforma Griselda, moglie fedele che si sottomette interamente al marito,  annientando  anche  i  sentimenti  più  elementari  che  animano  gli  esseri umani, in una donna che sottostà agli ordini del consorte soprattutto perché è una contadina e quindi subordinata, a causa del ceto sociale da cui proviene, al signore che   le   dà   ordini.   In   quest'ottica   possono   essere   comprese   a   pieno   le   parole

11 Il secondo tempo, costituito dall'Andreuccio da Perugia riscritto per l'occasione da Carlo Bernari, andò in scena il 5 e il 6 settembre dello stesso anno. Cfr. L'Unità, 9 agosto 1952, p. 3.

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pronunciate, a chiusura del dramma, da Giannucolo, padre di Griselda: «[...] Il resto... Il resto... son capricci di signori... E sia lode a Dio che una volta levatisi cotesti capricci, anche se essi sono costati lacrime e sospiri, tutto vada a risolversi bene»14.

Pratolini dunque riconduce tutta la vicenda ad un capriccio del Marchese di Saluzzo   «le   cui   conseguenze   non   sono   giudicate   moralmente   (sarebbe   stato fraintendere Boccaccio), ma quasi fossero prodotte da una forza della natura, che i contadini   accettano   come   la   grandinata   o   la   pioggia   benefica:   interpretazione felice»15.

In un'intervista rilasciata probabilmente nel 1953 Pandolfi dichiarò che 

Il   Boccaccio,   che   aveva   ispirato   tanti   grandi   autori   stranieri,   […]   ispirava finalmente anche la nostra letteratura. E credo che sia per Pratolini che per Bernari la singolare esperienza, non sia senza frutto, questa volta ci furono pianti per Griselda,   risa   per   Andreuccio,   entrambi   in   grande   abbondanza.   Perfino   le monachelle   di   un   vicino   monastero   assisterono   da   una   loro   finestra,   e   ci raccontarono dopo, che era stata per loro una grande emozione16.

Malgrado ciò, lo sperato connubio tra Pratolini e il teatro non andò a buon fine. Il testo di Pratolini è rimasto inedito fino al 1988, anno in cui fu pubblicato sulla   rivista   «Ariel»   da   Andrea   Mancini   che,   nella  Nota   al   testo17  spiega   le

difficoltà incontrate nello scegliere la lezione da dare alle stampe: il dramma è infatti conservato in quattro copie, chiamate per comodità A, «testo ciclostilato di Gualtieri   e   Griselda,  conservato   nell'archivio   Pandolfi   di   Roma»18;   B,   «testo

dattiloscritto assai diverso da A, che conserva al suo interno le note di regia di Pandolfi»19; C, che è l'esatta copia di B, senza le note di regia, ma con i timbri

dell'Ufficio di Censura Teatrale della Presidenza del consiglio dei Ministri; e D, scrittura   originale   dell'opera,   «con   molte   pagine   autografe   di   Pratolini,   e   le correzioni, ugualmente autografe, di Pandolfi»20. Perché il testo non assumesse i caratteri e la mole di un lavoro filologico, Mancini ha scelto di utilizzare come 14 Cfr. Pratolini 1988, p. 137. 15 Cfr. Squarzina 1952. 16 Cfr. Mancini 1988, p. 113. 17 Ivi, p. 115. 18 Ibidem. 19 Ibidem. 20 Ibidem.

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base la lezione di A inserendo però, tra parentesi quadre, le note di regia di B. In nota   viene   poi   dato   conto   delle   differenze   tra   questo   testo   e   quello   di   D,   il testimone che conserva la lezione originale dell'opera.

Leggendo l'opera si può subito notare che Pratolini è rimasto molto fedele al testo del Decameron, ripreso in alcuni punti addirittura alla lettera; lo scrittore era anzi   intenzionato   a   mantenere   anche   la   cornice   narrativa   del   Boccaccio,   ma Pandolfi intervenne pesantemente su questo aspetto del dramma, eliminando i personaggi della brigata che raccontano la storia21 e lasciando le parti di raccordo

e   di   commento   del   dramma   a  personaggi   secondari   e  anonimi   come   dame   e cavalieri.   Al   regista   sono  dovute   anche   altre   importanti   modifiche,   come l'aggiunta delle sei battute che si scambiano Minuccio e Gualtieri, in cui viene raccontata la storia di Lisa e del re Piero d'Aragona22, ripresa dalla novella VII

della   X   giornata   del  Decameron23;   dalla   stessa   novella   viene   tratto   anche   il

personaggio di Minuccio, cantore aretino, che proprio su richiesta del regista ebbe nel   testo   un   peso   maggiore   di   quello   che   inizialmente   gli   era   stato   dato   da Pratolini24. Egli scandisce le varie parti del dramma con versi tratti soprattutto dalla canzone che compone, su richiesta di Lisa, per il re Piero: «Merzede, Amore, a man giunte ti chiamo,/ Ch'a Messere vadi là ove dimora./ Di'che sovente disio ed amo,/ si'dolcemente lo cor m'innamora...»25; «Mercè ti chero, dolce mio signore,/ Che vadi a lui e donagli membranza/ Del giorno ch'io il vidi a scudo e lanza/ Con altri cavalieri armi portare,/ presilo a riguardare/ innamorata sì che 'l mio cor père.»26; «E per lo foco, ond'io tutto m'infiammo,/ Temo morire, e già non vedo l'ora/ Ch'i parta da sì grave pena dura...»27, ma canta anche la canzone conclusiva 21 Cfr. Pratolini 1988, p. 124. 22 Ivi, p. 117. Come Mancini spiega nella nota, queste aggiunte si trovano in un foglio sparso conservato nell'Archivio Pandolfi a Roma. 23 «Il re Piero, sentito il fervente amore portatogli dalla Lisa inferma, lei conforta e appresso a un gentil giovane la marita; e lei nella fronte basciata, sempre poi si dice suo cavaliere». Cfr. Boccaccio 2006, p. 844. 24 Questo sembra dovuto al fatto che Pandolfi poteva disporre, per interpretare Minuccio, del giovane e già bravissimo attore Mario Scaccia. 25 Cfr. Pratolini 1988, p. 117. Questi sono i vv. 5­8 della canzone in Boccaccio. I versi sono poi ripetuti da Griselda, ivi, p. 127. 26 Ivi, p. 117. Questi sono i vv. 29­34 in Boccaccio. 27 Ivi, p. 119. Questi sono i vv. 29­34 della canzone nel Decameron. Anche in questo caso

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della seconda giornata del Decameron: «Qual donna canterà, se non cant'io...»28

Sempre a Pandolfi sono dovute le numerose note di regia presenti nel testo, messe da Mancini tra parentesi quadre per renderle subito evidenti, didascalie che indicano il luogo in cui si svolge l'azione e i rumori o gli accordi musicali che devono fare da sottofondo alle scene rappresentate. Gli interventi del regista non sono   però   né   molti   né   tanto   invasivi,   ma   probabilmente   necessari   visto   che Pratolini scriveva per la prima volta un testo teatrale e poteva quindi trovarsi in difficoltà di fronte ad aspetti tecnici, per lui del tutto inediti, come le segnalazioni delle musiche o dei cambi scena, oppure indicazioni sul modo di muoversi dei personaggi.  

Appurato dunque il rispetto quasi sacro con cui Pratolini si accosta alla novella del  Decameron,  è da notare che lo scrittore introdusse, nella sua riscrittura di Gualtieri e Griselda, innovazioni obbligate dalla destinazione teatrale dell'opera, come l'incremento dei dialoghi e del numero dei personaggi secondari: essi sono infatti   importantissimi   per   allestire   quelle   scene   di   raccordo   che   aiutano   lo spettatore a comprendere meglio i passaggi tra le parti salienti del dramma, là dove nel Decameron bastavano invece poche parole del narratore. Uno di questi personaggi è l'Amica con cui Griselda, nella prima scena in cui compare, parla d'amore.   L'Amica   è   un   po'   più   realista   della   figlia   di   Giannucolo:   considera l'amore «roba per Signori»29 e ritiene che a gente della loro condizione il grande

amore porterebbe solo pene; a dimostrazione di ciò racconta a Griselda la storia di Simona e Pasquino30, che Pratolini riprende dalla novella VII della IV giornata del

Decameron. A proposito di questo racconto, Mancini scrive: «Pratolini racconta la storia di Simona e Pasquino […] con la scrittura a lui consueta, quella usata per narrare   le   storie   dei   quartieri   di   Firenze»31.   Non   sono   d'accordo   con

Decameron,  il regista, forse per rendere più vivo il linguaggio, cambia  «infiamo» con

«infiammo» e «non saccio l'ora» con «non vedo l'ora».  28 Ivi, p. 124. 29 Ivi, p. 119. 30 «La Simona ama Pasquino sono insieme in uno orto, Pasquino si frega a'denti una foglia di salvia e muorsi: è presa la Simona, la quale volendo mostrare al giudice come morisse Pasquino, fregatasi una di quelle fogli a'denti similmente si muore». Cfr. Boccaccio 2006, p. 387. 31 Cfr. Mancini 1988, nota 21, p. 119.

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quest'affermazione di Mancini: secondo me infatti Pratolini compie, con la storia di Simona e Pasquino, la stessa operazione compiuta per Gualtieri e Griselda, riscrivendo sì il testo con un linguaggio più moderno e più comune rispetto a quello utilizzato dall'autore delle novelle originali, ma rimanendo sostanzialmente fedele alla storia di Boccaccio. È da notare invece l'uso intelligente e interessante che Pratolini fa delle novelle e dei personaggi del  Decameron, inseriti  ad hoc all'interno del racconto principale per arricchirne la vicenda restando comunque in ambito boccacciano32. Quella di Simona e Pasquino è in realtà la seconda novella inserita in  Gualtieri e Grieselda, essendo la prima quella di Lisa e del re Piero d'Aragona; di questa storia, narrata da Minuccio come esempio di amore totale ed incondizionato di cui può essere capace una donna, il Marchese di Saluzzo si serve per ribadire ai suoi amici, che vorrebbero fargli prender moglie per garantire un erede al marchesato, che una donna non gli porterebbe altro che danno e guai. Dato che questa novella è però stata aggiunta in un secondo momento da Pandolfi, si può azzardare l'ipotesi che il regista, visto l'uso brillante della novella di Simona e Pasquino fatto da Pratolini, abbia deciso di “copiare” l'operazione dello scrittore e di aggiungere altro materiale al testo teatrale con un analogo intervento.  Molto sviluppati, proprio in ragione della destinazione teatrale dell'opera, sono i   dialoghi   dei   primi   incontri   tra   Gualtieri   e   Griselda,   in   cui   si  parla   d'amore mettendo in primo piano il tema dell'obbedienza della moglie al marito; e di Gualtieri e Giannucolo, in cui il Marchese, sottolineando la condizione miserabile in cui vivono il contadino e la figlia, la chiede in moglie ponendo però come condizione imprescindibile per le nozze l'assoluto distacco tra padre e figlia. La scena   seguente,   del   matrimonio   tra   Gualtieri   e   Griselda,   riprende   fedelmente quanto narrato da Boccaccio, con gli amici del Marchese chiamati a testimoni delle nozze e la giovane contadina spogliata dei poveri abiti e rivestita regalmente. Il testo prosegue fedele a quello del Decameron nel raccontare la prima prova a cui Gualtieri sottopone la sua sposa, anche se Pratolini vuole aggiungere un tocco realistico alla connotazione di Griselda, che mancava nella fin troppo statica ed 32 Anche le donne che gli amici propongono a Gualtieri di prendere in moglie sono infatti

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impassibile   figura   boccacciana:   Griselda   accoglie   infatti   la   notizia   della separazione   dalla   figlia,   che   probabilmente   verrà   uccisa,   «dapprima   atterrita, subito   si   rinfranca,   va   verso   la   culla,   prende   in   braccio   la   figlia,   la   guarda lungamente, le parla»33 e non «come che gran noia nel cuor sentisse, senza mutar

viso in braccio la pose al famigliare»34. In più Pratolini aggiunge a questa scena le

parole   amorevoli   e   commosse   che   la   madre   rivolge   alla   bambina   nell'ultimo addio:

Figlia, hai gli occhi di cielo, vedi? Come il padre tuo: azzurri e dolci come i suoi; suoi sono questi lini che ti ricoprono; ma mio è il sangue che ti fa rosse le labbra, mio il latte che ti sostenta: un sangue da pastora... E io gli appartengo... Va... Egli sa come decidere del tuo e del mio destino, ne  è il padrone...  (Un momento di commozione).  Oh, non lui, ma i suoi sudditi ve lo costringono...  (Si riprende). Egli è un nobile e giusto signore... e così vuole... Va', figlia mia...35

Subito dopo Pratolini aggiunge una nuova scena che vede protagonisti l'Amica e il padre di Griselda. L'Amica, forse un po' amareggiata per la perdita della compagna,   che   da   sette   anni,   come   era   nei   patti   stretti   tra   il   Marchese   e Giannucolo, sembra essersi scordata sia di lei che del padre, cerca di insinuare dubbi sulla bontà d'animo di Griselda anche nel cuore del vecchio contadino36,

riportando le voci che corrono sulla vita che la Marchesa conduce e su come viene trattata dal marito; il padre la difende però con tutte le sue forze:

Giannucolo:  Dicono,   dicono...   È   la   servitù   che   lo   dice...   e   i   contadini   che ascoltano e riferiscono per i campi... Tutta gente che ha la lingua più lunga delle orecchie...

Amica:  Ma la servitù ascolta di prima mano, e sono i padroni che parlano... i contadini poi...

Giannucolo:  (Interrompendola)  È gente come me e come te...nata per ubbidire... (Pausa) Ed è invidia per la buona sorte toccata a Griselda37.

L'Amica   però,   forte   della   sua   visione   realistica   della   vita,   continua   il   suo discorso: Amica: La buona sorte! Non la muterei con la mia se è vero quello che dicono... 33 Cfr. Pratolini 1988, p. 125. 34 Cfr. Boccaccio 2006, p. 897. 35 Cfr. Pratolini 1988, pp. 125­126. 36 «Anche il suo viso dovrà essersi rinsecchito, come il suo cuore». Ivi p. 126. 37 Ibidem.

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Anch'io mi sono sposata, ho partorito e mi rompo in quattro dalla fatica, ma i miei figli dormono nel mio letto, e non debbo vergognarmi di avere un padre...

Giannucolo: Griselda non se ne è dimenticata, ne sono sicuro... Amica: Ve ne ha forse dato prova, in sette anni?

Giannucolo:  Era nei patti... Io avevo stretto questi patti col Marchese...  (Ripete) Siamo gente nata per ubbidire...38

Nelle parole di Giannucolo, ripetute quasi come un ritornello, si cela la chiave di lettura con cui va interpretata la riscrittura della novella da parte di Pratolini: le gerarchie esistono e vanno rispettate e dunque i contadini non possono fare altro che obbedire agli ordini e alla volontà dei loro signori e padroni.

Dopo   questa   scena   di   raccordo   Pratolini   riprende   il   testo   di   Boccaccio, narrando la storia della seconda gravidanza di Griselda e la nuova, crudele prova a cui il marchese sottopone la sua sposa. Questa volta però a ricevere l''incarico di potarle via il figlio non è stato un famigliare qualunque, ma Minuccio che, come si   addice   al   suo   mestiere   di   cantore,   può   anche   permettersi   di   muovere   un rimprovero al suo signore, ritenuto fin troppo duro e crudele. Nonostante questa nuova prova, sopportata con fortezza d'animo, Gualtieri decide di saggiare per l'ultima volta l'obbedienza e la pazienza della moglie. Pratolini, a differenza di Boccaccio,   spiega   il   motivo   di   questa   decisione,   che   prende   le   mosse   dalla diffidenza e dalla tensione dovute al fatto di vivere in un mondo diviso in classi: il Marchese teme infatti che Griselda sia solo un'arrampicatrice sociale. Ancora una prova, e poi mi getterò ai suoi piedi... Forse ella sacrifica anche i figli, ma non per amor mio, bensì per mantenersi i suoi agi... Non per devozione sincera, per fedeltà vera, assoluta, ma perché io ho fatto di lei una Marchesa, ed ella teme di poter tornare alla sua casa, al suo gregge, s'io la ripudio... Il ripudio mi assicurerà definitivamente del suo amore... Se ella accetterà anche il ripudio, oh allora...39. Gualtieri illustra agli amici, che Pratolini rappresenta sdegnati, il suo proposito di ripudiare la moglie, e lo fa con parole che sono a dir poco crudeli: Come non s'accoppia il vinello all'ambrato colore e al sapor dolce e forte del Borgogna, così la bassa condizione di questa donna è stato un limite costante alla 38 Ivi, pp. 126­127.

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mia vita più intima... Ora lo so, si giace con una pastora una sola volta, per godere del suo frutto appena colto, ma non si può eleggerla in moglie, a meno di non appestare il proprio spirito in un eterno odor di stallo...40. Ancora una volta Minuccio eleva la sua voce a difesa di Griselda, che però lo fa dissuadere dal suo proposito. La donna sopporta dignitosamente le accuse che il marito le rivolge:   Perciò ho deciso, questo è un mio ordine che tu subito eseguirai come donna obbediente e comprensiva, facendo una volta tanto vera virtù dell'astuzia che ti ha dipinto sul viso una maschera di umiltà. È un femminile segreto che ha perduto il suo potere, la tua umiltà contadina! Ho aperto gli occhi, Griselda: e ti caccio come avrei dovuto fare da molto tempo.41. E torna dal padre che la accoglie a braccia aperte: Ti conservai le vesti che lasciasti il giorno delle tue nozze... Era stata, la tua, una troppo improvvisa fortuna, impossibile da credere per gente come noi... [e la veste]. Ogni giorno, con l'alba che spuntava, io mi aspettavo di vederti tornare, finito il capriccio del tuo signore... Mai fu diverso di così, seppure è avvenuto rare volte, nei racconti dei vecchi, che un nobile signore conducesse a nozze la figlia di un villano...42 Anche l'Amica corre a trovare Griselda:

Amica:  Griselda!   Griselda!   Eccola   là...   oh,   cuore   mio,   è   dunque   vero   che   il Marchese ti ha ripudiata...

Griselda:  Non mi ha ripudiata... Ha compreso una semplice verità sulla quale prima,   i   suoi   giovani   anni   non   gli   avevano   permesso   di   meditare:   può   una guardiana di pecore diventare una nobile signora? Può essa generare un erede ai suoi sudditi? Amica: [ironicamente] Oh,... il tuo candore ringiovanisce con gli anni,... E così ti ha cacciata, senza darti nulla, senza... Griselda: Ero andata da lui ignuda... Mi ha rimandato con indosso una camicia... Gli sono ancora debitrice... Amica: Sei matta, altro che debitrice... Dopo tredici anni di matrimonio, dopo... Griselda: Taci, ti prego... (Un lungo silenzio) La colpa è solo mia... Forse non ho saputo farmi amare come io l'amavo...

40 Ivi, pp. 129­130. 41 Ivi, p. 130. 42 Ivi, pp. 131­132.

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Amica: La colpa è tua, come no! Tu sei contenta, e quindi...43 Come nel Decameron, sopraggiunge Gualtieri a chiedere a Griselda di andare a preparare la casa perché possa accogliere dignitosamente la sua nuova sposa; la contadina, obbediente e remissiva come sempre, naturalmente accetta. Al castello Griselda incontra Minuccio, triste da quando la sua signora se ne è andata, e lo incita ad essere felice per l'arrivo della nuova moglie del Marchese. Rimasta sola nella stanza che un tempo fu sua, Griselda si dirige verso l'armadio e prende la sua veste nuziale: «Come in un gioco infantile se la misura addosso, si pavoneggia davanti a uno specchio, rivolgendosi alla sua immagine come se fosse quella della nuova sposa»44.

Proprio   mentre   Griselda   si   guarda   allo   specchio,   avviene   l'incontro   con   la nuova moglie di Gualtieri, che si mostra subito affettuosa nei confronti della contadina a cui chiede, addirittura, di accompagnarla dal futuro sposo. La fine della rappresentazione è sostanzialmente identica a quella del racconto di Boccaccio: Gualtieri svela a Griselda l'inganno e la riprende come sua unica e legittima moglie; Giannucolo è posto in stato di suocero del Marchese. Proprio a lui è riservata l'ultima battuta del dramma, in cui è contenuta la morale del testo, affidata invece nel Decameron a Dioneo. La fedeltà e l'obbedienza incondizionate di Griselda sono tanto esemplari che già alla fine del Trecento fecero dichiarare a Petrarca che l'ultima novella del Decameron  ne   è   in   realtà   la   perla;   questo   lo   spinse   a   farne   addirittura   una traduzione­riscrittura   in   latino   per   renderla   accessibile   anche   in   Europa   e   per innalzarla a livello della teologia, dandone una lettura figurale: la pazienza e la costanza che Griselda dimostra nei confronti del marito sono infatti le stesse che il credente deve mostrare al suo Dio e alle prove che Questi invia per saggiarne la fedeltà45. Anche Pratolini riscrive la novella dandone una nuova chiave di lettura,

trasportando la virtù di Griselda ai suoi tempi, agli anni Cinquanta, e al suo retroterra   culturale   e   politico46.   Griselda   incarna   infatti   la   virtù   del   popolo

43 Ivi, p. 132. 44 Ivi, p. 134.

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contadino,   da   cui   nascerà   poi,   nell'evolversi   della   storia,   la   classe   operaia,   il proletariato47. Questa donna straordinaria sembra quasi essere la madre di tutti i

Metello,   i   Maciste,   i   Faliero   che   costellano   i   romanzi   di   Pratolini:   la rappresentante   esemplare   di   una   classe   sociale   che   per   secoli   ha   vissuto nell'obbedienza   e   nella   rassegnazione   tipiche   di   persone   abituate   ad   essere considerate inferiori e ad essere ghettizzate, ma da cui nascerà il seme della rivolta e del riscatto. Gualtieri è invece il padrone abituato a impartire ordini e ad essere obbedito ciecamente. La felice conclusione, ricompensa per tutte le prove subite da Griselda, sembra invitare a sperare in un miglioramento dei rapporti tra classi sociali che forse, dopo la guerra, sembrava ancora possibile, ma lascia intravedere, attraverso la parole di Giannucolo, anche l'ironia con cui lo scrittore considera i signori e i loro capricci: Gualtieri: Questa mia sposa pastora è nobile e meritevole di portare il mio casato, più di una donna dotata di titoli e di alta educazione... […] Giannucolo: Mio signore... e genero... Tutto ciò che avete detto è cosa che io, umilissimamente, sapevo non da ora... Il resto... Il resto... son capricci di signori... E sia lode a Dio che una volta levatisi cotesti capricci, anche se essi sono costati lacrime e sospiri, tutto vada a risolversi bene.

Alla   fine   dunque   chi   viene   dipinta   come   forte   e   virtuosa   è   la   contadina Griselda,   degna   figlia   del   saggio   Giannucolo,   mentre   Gualtieri,   con   le   sue angherie e le sue crudeltà, esce dal racconto sconfitto, dipinto come un debole incapace di fidarsi del prossimo.  

tempo   con   particolare   riguardo   alla   condizione   operaia.   Qualunque   cosa   riuscirò   a scrivere, sarà sempre di questo che si tratterà. [...]». Cfr. Villa 1973, pp. 29­30. 47 Questo è evidente anche nelle stesse radici familiari di Pratolini: il padre era cameriere in un caffè, la madre sarta, ma i nonni materni, che tanto peso ebbero nella formazione del piccolo Vasco, erano entrambi di origine contadina, pur se da molti anni trasferiti in città. Anche Metello, l'eroe proletario per eccellenza dei romanzi dello scrittore, proviene dal mondo rurale dato che, dopo essere rimasto orfano, è allevato in campagna da una coppia di contadini.

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ELLIS

Nel   1963   Vasco   Pratolini   pubblica  Ellis,   un   breve   atto   unico   ambientato all'interno di un appartamento di Firenze, modesto ma ben tenuto, coi segni del tempo e un certo agio48. L'azione, che coinvolge soltanto tre personaggi, il Marito, la Moglie (un uomo e una donna di cinquant'anni; lui ha il portamento giovanile49, lei invece li dimostra tutti50) e il giovane Cerchiai, si svolge tutta tra il salotto, la camera e la cucina, anche se alcuni dei momenti salienti del dramma vedono i personaggi spostarsi sul balcone, cui si accede salendo un gradino51 dal salotto, e nel corridoio, dove si trova la porta d'ingresso. La descrizione dell'ambiente in cui i personaggi devono muoversi è molto meticolosa e non lascia spazio alla fantasia dello scenografo: la disposizione dei locali che compongono l'appartamento  è infatti ben definita dall'autore dell'opera. Il primo a prendere la parola è il Marito, che si muove sulla scena preparando le valigie sotto lo sguardo pietrificato della Moglie. Sembra preoccupato perché costretto a lasciare la consorte a casa da sola: «E poi, basterà un colpo di telefono. Mica scappo... Ma non posso immaginarmi che tu viva sola»52.

Il   distacco   pare   dovuto   a   problemi   di   natura   economica   legati   all'apertura dell'officina avvenuta sei mesi prima, anche se: «[…] il lavoro, l'ho già bene avviato.  Ho avuto  una  “commessa”  che  per un  bel  periodo  mi  permetterà  di respirare»53. Premuroso, l'uomo invita la Moglie a trasferirsi per un breve periodo da Vanda, che poche battute dopo scopriremo essere la figlia della coppia: «Se ti posso dare un consiglio: meglio da Vanda che da Arrigo... Non dico, con questo, che dovresti chiuder casa. Dico: per un po' di tempo. L'aria di Roma... freddo come qui a Firenze, di questa stagione non fa mai... Non è che ti voglio 48 Cfr. Pratolini 1963b, p. 14. 49 Ibidem. 50 Ibidem. 51 Ibidem. 52 Ibidem. 53 Ivi, p. 15.

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allontanare. Ma perché tu ti distragga»54.

Il   dubbio  che   non   si  tratti   di  un   distacco   forzato   ma   breve   si  insinua   nel lettore­spettatore   quando   il   marito,   cupo,   ammette   che   ciò   che   sta   facendo potrebbe effettivamente essere uno sbaglio: «[...] Ma sbaglio rispetto a cosa? (Animandosi) A tutto, d'accordo! Verso di te in primo luogo. Da nascondere il viso! Precisamente. E rispetto al Codice, alle Leggi, allo Spirito Santo!... Ma non c'è altra soluzione. E questa mi sembra la più pulita»55. L'uomo sta commettendo dunque non solo un reato, ma anche un peccato: adulterio.

Contrariamente   a   quanto   si   era   aspettato,   la   moglie   ha   appreso   la   notizia dell'abbandono del tetto coniugale senza urla, senza pianti, ma solo con un penoso silenzio: «(Animandosi.) Vorresti che urlassi, lo so, ti sarebbe più facile infilare la porta e dirmi addio... Dovrei aprire il balcone, immagino, e chiamar gente, chiedere aiuto, correre io in Questura, dai carabinieri, strappandomi i capelli»56. Nonostante la ferita, non riesce ad abbandonare il ruolo che ha avuto per tanti anni accanto a lui: «(Vedendo che lui ammucchia disordinatamente la roba.) Dammi, dammi, te le fo io le valigie.»57  e che ha creato, tra di loro, un legame fortissimo:  «[...] Da

settimane, te le vedevo ronzare sulla bocca, le parole che stasera, alla fine, ti son sortite... […] Non avevamo più nulla da dirci... Né da darci!... Così nulla, ma così nulla, che ci siamo detti tutto senza bisogno di ra/gio/na/re!»58 Lei era al corrente della storia già da tempo: sapeva quando il marito e l'amante si erano conosciuti e addirittura la prima sera in cui erano stati insieme: «[...] La 54 Ibidem. 55 Ibidem. 56 Ivi, pp. 15­16. 57 Ivi, p. 16.

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sera dell'Ascensione! Ho indovinato?»59 Non si è però ancora rassegnata, non riesce a credere che quell'uomo che non ha «mai mescolato il cuore con la ragione»60  sia diventato così debole, che a quell'uomo non dica più nulla la casa: «Davvero non ti dice più nulla... (con un gesto) la casa?» «(Duramente.) No. Ormai mi pesano soltanto a guardarli, questi muri»61. Nelle parole della moglie il dramma familiare si mescola all'analisi sociale:   «[...] Non ci siamo mai mancati di rispetto... Forse è stato questo il nostro torto. Siamo stati una famiglia troppo educata, per essere della gente che lavora. Troppo coltivata. Troppo perbene... I sacrifici, oh già, almeno quelli, non ci hanno mai pesato! Si doveva arrivare a toccare il secolo, in due, per scoprire di avere gli stessi   problemi   dei   signori...   Non   siamo   dicerto   noi,   i   primi!   Tanta   gente   si separa!»62

I divorzi, le separazioni sono dunque problemi dei signori, non della gente comune.

«[...]   Le   nostre   crisi,   quando   ci   sono   state...   le   abbiamo   sempre   risolte lealmente... Una proprio quel giorno al mare... Tu scomparso da un paio d'ore […] E io inchiodata coi bambini, prima sulla sabbia, poi sui binari della stazione... ché arrivasti   quando   il   treno   stava   per   ripartire...   Un'avventura,   no?   Confessata... Aperta e chiusa...»63 Per un tradimento il Marito è dunque già stato perdonato almeno una volta dalla Moglie; e certamente, dato che lei lo ama ancora, avrebbe dimenticato anche questo, se lui non avesse preso la decisione di abbandonarla: «Noi, i nostri drammi... Noi... rispondimi a questo... perché non mi rispondi? Noi, è vero o no che i nostri drammi, per piccoli che possano essere stati li abbiamo sempre superati a furia d'amore? D'amore, d'amore... anche se questa 59 Ivi, p. 17. 60 Ivi, p. 15. 61 Ivi, p. 17. 62 Ibidem. 63 Ivi, p. 18.

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parola oggi mi secca i labbri... D'amore! (La voce le si spenge.) D'amore!»64

Ma il Marito è irremovibile questa volta:

«[…] Se vent'anni fa, o trenta, o all'epoca di “Digerini e Marinai”, sia prima che   dopo,   io   avessi   incontrato   una   donna   come   lei...   ti   avrei   fatto   lo   stesso ragionamento e avrei preso la stessa decisione che ho preso ora»65.

La Moglie rinfaccia al Marito di avere vent'anni in più dell'amante, di essere ingrassato, di avere qualche problema di salute (ha avuto un calcolo ai reni e ha un principio di diabete); e lui:

«(Con   decisione.   Didattico,   quasi;   e   impietoso.)  Uno   ha   l'età   del   proprio cervello, Marisa. E il tuo s'è ingrigito...»66 E poi continua: «Vivere del passato,  è come vivere d'eredità. Infatti! Significa star murati. Mentre il mondo ti si trasforma sotto le mani minuto per minuto... […] Ma finché si vive, se si vuole continuare a vivere, s'ha il dovere, e si deve pretendere il diritto, di ricominciare... siccome le questioni di fondo non si sono spostate di una linea... Il dovere e il diritto di ricominciare dalla parte buona: nuovi! Nuovi, nuovi!»67 E ancora:

«[...]   Non   si   può   essere   dei   morti   che   camminano...   Gente   che   campa   di memoria... […] L'amore è più importante di ogni altra cosa, ma è anche la prima cosa che può venire a mancare... Come una pianta, se non l'annaffi, insecchisce... E una volta secca: “basta volersi bene!”, si dice!... “Subentra l'affetto, la stima...” A parole! “Volersi bene e tenersi compagnia!” (Spietato.) Ecco, sono due anni che noi, tu ed io, ci si tiene compagnia! [...]»68 Il Marito cerca di essere più diretto, più sincero: «(Con rancore quasi, e come per provare a se stesso la propria ragione.) 64 Ivi, p. 19. 65 Ibidem. 66 Ivi, p. 20. 67 Ivi, pp. 20­21.

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Scopriamo la carte, senti... Di me e di lei, sono due anni ormai, e tu hai sempre saputo tutto. […] Sai come l'ho conosciuta, chi è e cosa pensa. Sai che ora è lei che mi tiene l'ufficio, sotto questo aspetto è un po' l'anima dell'azienda... Sai che si chiama Ellis, ha ventisei anni, è vedova di un ferroviere [...]»69 Si arriva così a capire anche a chi si riferisce il titolo dell'opera: è la giovane amante dell'uomo che dà il nome al dramma, pur non comparendo mai in scena. Una presenza­assenza molto significativa e molto pesante. Il Marito rinfaccia alla moglie la sua totale apatia: «[...] tu non chiedevi di meglio che continuare ad accettare in silenzio una situazione che... almeno anni fa... non ti poteva non sembrare schifosa.» LA MOGLIE   «(c. s.)70 Ecco... mi rimproveri di essermi detta che... potevi aver bisogno d'un'amante...»71 La Moglie istituisce un confronto tra lei ed Ellis: «[...] Giovane... vent'anni di meno... Sì, sì, contano, contano! Non ci so dicerto stare più... io... tra le tue braccia... come ci deve saper stare lei! Mi vuoi impedire di dire anche questo?... Giovane... e bella per giunta, e intelligente, sì lo so... che ti aiuta sul lavoro... mentre io te l'ho sempre avversata l'idea di metterti in proprio!... Ma   avversata   perché   capivo   che  tu   “non   chiedevi   di   meglio”   che   d'essere scoraggiato... Perché contravveniva a tutti i tuoi princìpi, diventare un padrone! [...]»72 La Moglie è rimasta troppo legata al passato, non ha saputo progredire come il marito che invece da operaio è diventato addirittura padrone, superando i propri limiti e la propria fede politica; è probabilmente per questo motivo che lui non la ama più: il suo essere remissiva, il suo essere vecchia nel modo di pensare e di agire è diventato ormai insopportabile. Ellis è una ventata di aria fresca, capace di far rinascere Dino, di regalargli una nuova giovinezza: «[...] Non so più come dirtelo... Non mi posso più fermare... Imbiancherei in un minuto»73. Ma Marisa non desiste: 69 Ivi, pp. 21­22. 70 Cioè Distrutta, ma guardandolo in viso, lo interrompe. Ivi, p. 22. 71 Ibidem. 72 Ibidem. 73 Ivi, p. 23.

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«[...] (Poi, come concludendo una riflessione)... Vuol dire che ti aspetterò qui, tra   questi   muri,   che   per   me   sono   sempre   leggeri...   Come   quel   giorno   sulla pensilina[...]»74 È giunto il momento del distacco: (Il marito è sulla soglia, ha già aperto la porta sulle scale. La moglie, di nuovo dentro il salotto, gli volta le spalle; è tesa in un'ultima, disperata speranza che lui torni indietro.) […] IL MARITO   […] Ora... Ciao... (Esce, lascia la porta aperta, avendo una valigia per mano.) LA MOGLIE   (A se stessa.) Ciao... A domani... (Si volta. Lui non c'è più... Il volto devastato, lentamente di dirige al balcone. Guarda il marito partire sulla macchina dopo aver collocato le valigie... Rientra. Si siede davanti al tavolo. Sul tavolo la lettera della figlia. La apre. Incomincia a leggerla, scorrendola con gli occhi; e nei brani salienti, con un filo di voce.)75 La lettera di Vanda spegne anche l'ultimo barlume di speranza: «[...] Al contrario della mamma, tu sei rimasto un ragazzo, minore di me e di Arrigo...Le tue ragioni sono soltanto le tue... ecco quello che neanche tu riesci a capire... Specialmente ora che come mi dici, Ellis aspetta un bambino...»76 Marisa rimane impietrita sulla sedia, lo sguardo fisso nel vuoto; non sente il Giovane   Cerchiai   che   la   chiama,   preoccupato   per   averla   trovata   con   la   porta aperta. Questo giovanotto, simpatico, brioso, dalla battuta pronta, non riesce a spazzare via il dolore di Marisa:

GIOVANE CERCHIAI    «(Scherzoso, allegro.)  Che occhioni, maga! Se io non cambio casa, finirà che mi innamoro!

(Si accorge che gli occhi di lei sono sbarrati.) Si sente male?»

LA MOGLIE     «No... perché?...  (Riesce a fargli un sorriso.)  Ha avuto questa impressione?» […] GIOVANE CERCHIAI   «[...] Non volevo mica disturbarla... Da un po' di tempo, la vedo con un viso... e mi sembra che tentare di farla sorridere, sia un dovere... E un piacere... Ma forse... questa volta... era il caso?»77 74 Ibidem. 75 Ivi, p. 24. 76 Ivi, p. 25.

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Solo a questo punto Marisa ha un piccolo vacillamento: appoggia la testa sul petto del giovane, come se cercasse un po' di consolazione, ma torna subito in sé e lo saluta ringraziandolo. (Lei chiude la porta. Faticosamente arriva a metà del salotto. Guarda intorno la casa, che deve sembrarle spaventosamente vuota... Lei, sola, al centro della scena.) Si conclude così questo piccolo dramma familiare, incentrato sulla crisi e sulla rottura di un rapporto coniugale, che Pratolini ha saputo analizzare con grande lucidità. Anche in questo breve atto unico lo scrittore non rinuncia a ciò che rende unica e caratteristica la sua opera: la vicenda è infatti vera, calata nella realtà circostante da tutta una serie di particolari che non sono disseminati nel racconto a caso. Attuale è, nel 1963, il tema del divorzio. Nonostante le profonde trasformazioni sociali avvenute nel secondo dopoguerra, l'Italia rimase infatti a lungo priva di una legislazione in materia di separazione coniugale. Mentre i benestanti potevano rivolgersi al tribunale ecclesiastico della Sacra Rota, oppure far valere, in Italia, una sentenza di scioglimento del matrimonio pronunciata dai tribunali di Paesi stranieri la cui legislatura consentiva il divorzio anche a cittadini di altri Stati, il resto dei coniugi che decidevano di separarsi doveva rassegnarsi al fatto che i nuovi legami e i figli nati da essi non potessero essere riconosciuti come legittimi. Questa situazione balzò alla ribalta soprattutto nel 1965, anno in cui il deputato socialista Loris Fortuna presentò alla Camera dei Deputati un progetto di legge per il divorzio. La battaglia fu vinta solo cinque anni dopo, quando, con la legge Fortuna­Baslini,   il   divorzio   fu   introdotto   nell'ordinamento   giuridico   italiano, nonostante l'opposizione della Democrazia Cristiana. Il testo teatrale di Pratolini ci fa riflettere proprio su questo tema, presentandoci la vicenda di una coppia di gente “normale” che scopre, come dice ironicamente la moglie, di avere in realtà «gli stessi problemi dei signori»78.

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Attuale è pure la riflessione sull'adulterio, che per la donna, ma non per l'uomo, era allora un reato: l'articolo 559 del Codice Penale del 1930 stabiliva infatti che la moglie adultera, insieme all'amante, dovesse essere punita con una pena che poteva   arrivare   fino   ad   un   anno   di   reclusione.   Solo   nel   1968   la   Corte Costituzionale dichiarò l'illegittimità di questo articolo, ritenuto discriminatorio sulla   base   dell'articolo   29   della   Costituzione   della   Repubblica,   che   stabilisce «l'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi». Sicuramente in questo la Chiesa fu più equa dello Stato, visto che il tradimento era ed è considerato peccato per entrambi i coniugi. Dino sa qual  è la sua posizione di fronte a Dio, e se ne rammarica: pur essendo stato comunista, nel suo modo di vedere le cose la fede politica non sembra avere avuto, come corollario, l'esclusione di quella cristiana. Il suo è probabilmente il tipico comunismo di chi, come Maciste, il personaggio di Cronache di poveri amanti,  non ha letto Marx e  Il Capitale, ma è entrato nel Partito per seguire il proprio cuore e ciò non esclude, a priori, la fede religiosa; se poi questa sia vera e profonda o solo una mera convenzione è un altro discorso79.

Altrettanto attuali sono i riferimenti a Firenze e alla realtà sociale di quegli anni.   Nel   testo   sono   infatti   disseminati   tanti   piccoli   indizi   che   offrono   al lettore­spettatore la visione di un mondo vero, vivo, reale, con i suoi pregi e i suoi difetti; interessanti sono in questo senso i richiami al mondo del lavoro, con la menzione di importanti aziende fiorentine, come la storica pasticceria «Digerini e Marinai», in cui Marisa lavorava prima di sposarsi, e la «Pignone», importante

79 Nell'intervista   concessa   a   Luciano   Luisi   viene   affrontato   anche   il   tema   religioso.   Ne riporto qui alcuni passi (in corsivo le parole dell'intervistatore, in tondo quelle di Vasco Pratolini): «Ma tu non sei credente, vero?» «No.» «Però nei tuoi scritti, per esempio nel

tuo articolo su Campana, dici che ti sei fatto il segno della croce, e altrove nomini spesso il nome di Dio.»  «Qui il discorso ci porta dalla morte all'al di là. E allora ti  do un

argomento, fallo tuo. Come finisce “Cronaca Familiare”?» «Pensavo a quello quando ti ho posto più esplicitamente la domanda. Finisce con il trionfo dei poveri di spirito, come dice l'annunzio del Cristo.» «Una consegna all'al di là, un credo nell'al di là, addirittura, perché io pensavo in quel momento, era evidente, a Gesù.» «In quel momento, allora, hai avuto fede?» «Sì. In quel momento sì.» «Ma poi?» «(Riflette a lungo, in silenzio). Sarebbe crudele da parte mia, e vergognoso, dire di cose mie parlando di mio fratello, ma la verità è che anche quando scrivevo ero schiavo di una convenzione, capito?» Cfr. Luisi (a cura di) 1988, pp. 58­59. «Tu non esisti senza gli altri. Per me gli altri sono tanti me stesso e viceversa. Anche coloro che in un certo senso disprezzo, no?» «Dunque: ama il prossimo tuo come te stesso.» «Sì, c'è qualcuno... Cecilia, per esempio, dice che io sono un cattolico che non ha il coraggio di riconoscersi tale. Non è vero. Comunque non sono praticante.»

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azienda metallurgica che nel 1953, essendo stata pesantemente danneggiata dai bombardamenti   subiti   dal   capoluogo   toscano   durante   la   Seconda   Guerra Mondiale, rischiò la chiusura. Questo sollevò una mobilitazione popolare non solo per la perdita dei posti di lavoro che la cessazione dell'attività avrebbe provocato, ma anche perché tale fabbrica era ormai divenuta un simbolo di Firenze. Essa fu rilevata   e   salvata   da   Enrico   Mattei   che   ne   rinnovò   le   strutture   orientando   la produzione principalmente verso macchinari e apparecchiature per l'industria del petrolio e della petrolchimica: proprio qui lavora Arrigo, il figlio della coppia, in attesa di entrare a far parte della ditta paterna.

Secondo   Bertoncini   «La   natura   del   rapporto   fra   marito   e   moglie,   come   si disegna nella circostanza rappresentata, richiama […] le prose de  Le Amiche  o, comunque, quelle relazioni sentimentali di simile natura, nelle quali la figura femminile è ritratta in una vicenda di sconfitta, a causa non tanto di una propria responsabilità   (che   nel   caso   presente   è   sottratta   alla   gestione   della   donna,   e semmai imputata ad un'inevitabile legge di natura), quanto di un difetto morale dell'uomo [...]»80. Non sono d'accordo con questa interpretazione perché Marisa ha, secondo me, una responsabilità importante nella vicenda che porta Dino a prendere questa decisione: non ha infatti saputo progredire, non è stata al passo con i tempi, ma è tornata quasi ad essere una bambina di due anni che deve essere tenuta per mano. Lei lo ha sempre amato, ma dopo trent'anni di matrimonio, quando il rapporto era stanco a causa della lunga convivenza, Marisa non ha saputo ridargli slancio e anzi, errore imperdonabile, ha pensato che Dino potesse «aver bisogno di un'amante»81. Dino ha invece un animo giovane e non riesce più a stare accanto a sua moglie; ha trovato una nuova compagna, capace di renderlo felice, in Ellis donna giovane, bella e intelligente che lo ha sostenuto nel progetto di mettersi in proprio, idea che la moglie ha invece sempre avversato «perché contravveniva a tutti i tuoi principi, diventare padrone!»82. Proprio qui sta uno dei punti nodali dell'opera, che si pone alla fine del percorso di evoluzione della poetica e delle idee di Vasco Pratolini.  Ellis  viene pubblicato infatti nel 1963,

80 Cfr. Bertoncini 1987, p. 103. 81 Cfr. Pratolini 1963b, p. 22. 82 Ibidem.

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quando   lo   scrittore   ha   già   dato   alle   stampe   i   suoi   romanzi   principali83:   essi

segnano un percorso di mutamento del pensiero che si ripercuote anche su questo breve atto unico.

Uno   dei   motivi   ricorrenti   nella   narrativa   dello   scrittore   è   «la   condanna immancabile nei riguardi di chi cerca di uscire dall'ambiente di origine, tentando, a suo esclusivo profitto, di salire un gradino nella scala sociale, quasi che lo scrittore volesse ammonire che è unicamente nell'ambito del proprio ambiente di nascita che bisogna lottare per un effettivo miglioramento»84. Questa condanna

colpisce, nel  Quartiere, Gino per cui «il crimine è un mezzo per soddisfare la cupidigia   e   l'arrivismo,   e   in   definitiva   il   desiderio   di   apparire   «diverso»   e superiore agli occhi dei suoi coetanei»85 e che, dopo aver commesso un omicidio,

muore in carcere distrutto dal senso di colpa; ne Le ragazze di Sanfrediano Bob, che   è   posto   in   ridicolo   «perché   vuole   elevarsi,   rispetto   ai   suoi   simili,   vuole raggiungere   economicamente   e   socialmente   la   “rispettabilità”   borghese,   e   lo scrittore, sempre in polemica con la classe sociale che non sia quella sua d'origine, lo mette alla gogna e lo costringe a riconoscere e accettare la sua umile nascita addirittura attraverso l'irrisione e la beffa più amara»86; ne  Lo Scialo  Giovanni

Corsini,   giovane   ambizioso   appartenente   alla   classe   operaia,   ma   che   aspira   a diventare borghese, prima tenta di fare carriera in politica, iscrivendosi al Partito Socialista,  ma  poi,  non  riuscendo  in  quest'intento,  arriverà  a condurre  piccoli loschi   traffici,   sostenuto   dai   fascisti,   al   solo   scopo   di   ottenere   un   vantaggio economico. A più riprese, nel corso dell'opera, tenta di giustificarsi convinto che, nonostante il suo agire, le idee rimangano sempre le stesse, ma non capisce che ormai si è prodotta una profonda frattura fra idee e azione e che è proprio così che

83 Ellis  è stato pubblicato nel 1963, lo stesso anno in cui Pratolini dava alle stampe  La

costanza della ragione; tre anni dopo sarà la volta di Allegoria e Derisione, la terza parte di Una Storia Italiana e ultimo romanzo pubblicato dall'autore. 84 Cfr. Villa 1973, p. 118. 85 Ibidem. 86 Ivi, p. 78. Analogo il giudizio su questo personaggio espresso da Alberto Asor Rosa: «Bob è un prodotto dei tempi, una degenerazione della vitalità popolare, un tipo da condannare e da  combattere.  […]   è  un personaggio   negativo,  traviato   da  certi   aspetti  della  società moderna (il cinema, l'adulazione femminile, la condizione impiegatizia etc.). Contro di lui agisce  il   residuo   dell'antica  polemica  anti­borghese   di   Pratolini:   Bob   è   ai   suoi  occhi ridicolo, pietoso e condannabile soprattutto perché le sue ambizioni piccolo­borghesi lo

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nasce il tradimento. Anche Metello rischia di diventare un traditore di classe nel momento stesso in cui tradisce la moglie: durante lo sciopero del 1902, a cui egli fu uno dei primi ad aderire, allaccia una relazione con la giovane e bella Ida, sua vicina di casa, esosa87  e frivola; l'Idina appartiene alla piccola borghesia perché è sposata con Cesare, un padrone che ha ereditato il laboratorio dal padre, un datore che ha sotto di sé addirittura tre lavoranti. Dapprima disprezzati88, mentre lo sciopero mette a dura prova la pazienza e la resistenza di tutti, il muratore inizia a vedere l'Idina sotto una nuova luce e se ne invaghisce «sempre di più, tanto da darlo a vedere, pensava,   e  riflettendoci  gli  sembrava   impossibile  che   Ersilia   non  se  ne  fosse accorta»89. Alla fine si consuma il tradimento e l'infedeltà verso la moglie si

traduce presto  anche in  infedeltà verso la  propria  classe e verso i compagni: manca alle riunioni e alle manifestazioni e per causa sua, che preferisce incontrare l'amante piuttosto che lottare a fianco dei colleghi, lo sciopero rischia di fallire. Ida infine, rimessa in riga dalla sanfredianina Ersilia, partirà per la villeggiatura al mare e Metello, recuperata la ragione, riprenderà la lotta che si concluderà con la capitolazione   dei   padroni.   Neppure   l'ingegner   Badolati,   che   subdolamente propone a Metello di diventare caporale, riuscirà più a traviare il muratore: «[...] Un caporale deve avere il cervello sveglio, io mi debbo fidare. Dev'essere forte di carattere, di salute e nel mestiere. Non c'è bisogno che te lo insegni. Se io son fuori, e non c'è il mio sostituto, li dirige lui i lavori. Ricopre lo stesso posto dell'assistente, e piglia all'incirca la stessa paga.» Metello si guardò le mani, temeva di sentirsele tremare, poi rialzò la testa, disse: «Se non avessi trent'anni appena, porrei la mia candidatura. Ma è che sono troppo giovane, e a quest'età è ancora difficile cambiar pelo»90. In  Ellis  invece il tradimento si è ormai consumato, sia quello coniugale che quello di classe; anche qui i due peccati camminano di pari passo: Dino ha tradito 87 Utilizzo il corsivo proprio come fa Vasco Pratolini nel romanzo ogniqualvolta Metello definisce così la ragazza. 88 «È un imbecille e un borghese» dice Metello a Ersilia parlando di Cesare. Cfr. Pratolini 2006b p. 243. 89 Ivi, p. 247. 90 Ivi, p. 356.

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la classe operaia perché ha aperto una propria attività ed è diventato padrone, e questo è stato possibile grazie al sostegno di Ellis, la donna con cui tradisce la moglie. Pratolini non sembra però voler mettere in cattiva luce il traditore, in questo   caso;   sono   cambiati   i   tempi,   sono   cambiate   le   idee:   siamo   negli   anni Sessanta,  in   pieno  boom   economico,  e  lo   scrittore,   da  rigoroso  analista   della storia, non può che vedere il mondo evolversi rapidamente sotto i suoi occhi. Ciò che spinge Dino a tradire non è solo la speranza di un miglioramento dal punto di vista economico e sociale, ma è anche la delusione nata dal fatto di essere stato a sua volta tradito dal Partito e da tutto ciò in cui aveva creduto e per cui si era battuto, sopportando anche cinque anni di confino:

Dicevi:   Stalin.   Be',   Stalin   è   morto,   Marisa.   È   morto   ed   era   un   criminale. Probabilmente si scoprirà che ha fatto un'infinità di bene al suo popolo, e anche a noi. Anzi, lo sappiamo fino ad ora... ma lo stesso dobbiamo persuaderci che era un criminale... […] E noi, ignoranti o no, coltivati o no, gli abbiamo tenuto di mano. Sia nel bene sia nel male...91. In queste parole si coglie tutta la delusione politica non solo di Dino, ma anche di Pratolini stesso che, come molti altri comunisti, non poté restare indifferente di fronte   ai   fatti   di   Polonia   e   di   Ungheria   del   195692.   Pratolini   dunque,   non

condannando Dino e il suo salto di status, sembra giustificare la sua scelta proprio

91 Cfr. Pratolini 1963b, p. 20.

92 Le conseguenze della destalinizzazione in Polonia e in Ungheria furono molto gravi. Alla fine di giugno del 1956, nel centro polacco industriale di Poznań, si verificarono scioperi e manifestazioni   di   massa   appoggiate   dal   clero   cattolico.   La   calma   fu   ristabilita   da Wladislaw Gomulka, un comunista antistalinista che garantì ai polacchi la libertà religiosa e il riconoscimento dei Consigli operai, assicurando contemporaneamente ai Sovietici che il Paese non si sarebbe allontanato da loro.   Più drammatica la situazione ungherese: nell'ottobre del 1956 grandi manifestazioni di operai e di studenti imposero il governo del comunista antistalinista Imre Nagy che, al contrario del collega polacco, proclamò la neutralità   del   suo   Paese   e   l'uscita   dal   Patto   di   Varsavia.   I   Sovietici   intervennero militarmente per riprendere il controllo sull'Europa orientale e nel novembre di quell'anno l'Armata Rossa occupò Budapest, costringendo più di centomila ungheresi a fuggire, a meno di non voler fare la fine del loro leader che, dopo essere stato catturato e processato, fu fucilato, nonostante le ripetute richieste di aiuto che aveva inviato ai paesi occidentali e che erano cadute nel vuoto. Cfr. Desideri ­ Themelly 2004, pp. 1054­1056. Vasco Pratolini fu molto colpito da questi  avvenimenti, su cui scrisse anche un articolo,  Libertà nel

socialismo, per «Il Punto» del 17 novembre 1956. L'articolo fu poi ristampato, a distanza

di   pochi   giorni,   sul  «Corriere   d'Informazione»  con   il   titolo  Vasco   Pratolini   parla

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in virtù della grave delusione politica subita dai militanti comunisti e socialisti negli anni Cinquanta e Sessanta. 

Il cambiamento è legato anche ad un altro tema fondamentale della poetica pratoliniana,   che   andava   definendosi   maggiormente   proprio   negli   anni   di composizione di Una Storia Italiana: il rapporto tra passato, presente e futuro. In Ellis  Dino dice chiaramente alla moglie che «vivere del passato è come vivere d'eredità»93;  un concetto  analogo   è  quello  espresso  da Metello  che  scrive  dal

carcere ad Ersilia:

«[...] Perciò ho stabilito» concludeva «che il passato bisogna scordarselo, ce lo portiamo dietro ma non ci deve pesare. I morti che ci hanno fatto del bene, si ricompensano guardando in faccia i vivi. Ci si dovrebbe semmai più ricordare dei loro sbagli che delle loro cose indovinate. È coi vivi che siamo alle prese»94.

Troviamo   un  analogo   atteggiamento   nei   confronti   del   passato   in   Bruno,  il protagonista de  La costanza della ragione, che rifiuta non solo il passato in cui vive la madre Ivana95, ma anche Millo, l'amico di famiglia che sostituisce la figura

paterna, perché uomo che appartiene al passato; e in Valerio, protagonista di Allegoria e Derisione, romanzo che inizia significativamente con queste parole: «Il   presente   vince   sempre».   Lo   scrittore   protagonista   dell'ultimo   romanzo   di Pratolini ricerca il proprio passato e le proprie origini per potersi liberare di essi, vivere nel presente e guadagnarsi un futuro. Bisogna dunque partire «dall'orto di casa», come dice Bruno ne La costanza della ragione, per crescere e svincolarsi da quel passato che ci tiene murati. L'immagine utilizzata in questo caso è molto importante: il motivo del muro rientra infatti, secondo Sabatina Matarrese, «nel campo semantico riferentesi a immagini di chiusura, isolamento e solitudine»96. Nell'utilizzare quest'immagine lo scrittore indica qualcosa di concreto, un ostacolo insormontabile   vero   e   proprio.   Per   Dino   i   muri   di   casa   sono   diventati   una prigione, un peso insopportabile da portare sulle spalle; sono pareti che non gli dicono più nulla e che semmai lo separano dalla sua nuova vita, proprio come i 93 Cfr. Pratolini 1963b, p. 20. 94 Cfr. Pratolini 2006b, pp. 377­378. 95 Legata all'improbabile speranza che il marito disperso in guerra possa far ritorno a casa. 96 Cfr. Matarrese 1973, p. 260.

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ricordi.   Il   muro   e   il   passato   sono   d'intralcio   al   progresso.   Dino   ha   scelto   di cambiare vita, di andare al di là del muro, superando i propri limiti e le proprie idee, senza negare il passato, ma rifiutandosi di vivere nel ricordo, di essere un morto che cammina, «Gente che campa di memoria... Altrimenti, ogni giorno che passa,   s'alza   tale   una   montagna   di   rifiuti   che   poi,   non   c'è   gru   capace   di rimuoverli...»97. Quasi la stessa immagine usata da Bruno: «Ma è dall'orto di casa che ci si incammina per il mondo; se non si spazza, il lercio accumulato sotto i piedi ci seguirà, passo passo, dovunque andiamo»98. Marisa ha invece scelto di rimanere al di qua dei muri, «che [...] son sempre leggeri»99, ad aspettare, falsa illusione, il ritorno del marito. In quest'opera Vasco Pratolini porta alla ribalta un uomo che ha subito un «duplice fallimento, politico e sentimentale»100, a causa della sua incapacità di mescolare cuore e ragione. La sconfitta non  è però vissuta da Dino come un trauma, ma come una rinascita e una possibilità di rinnovamento: la separazione tra sentimenti e razionalità, che è una caratteristica del modo di agire e di pensare di Dino, ed è anche ciò che lo porta a sbagliare, è infatti un pregio per i personaggi pratoliniani101. Il fallimento è dunque solo apparente: Dino sbaglia per ciò che è

passato,   ma   consegue   una   grande   vittoria   per   il   futuro,   avendo   ritrovato quell'amore che per Pratolini è «salvezza e crescita anche ideologica»102. «Le idee che abbiamo diminuiscono di significato se non c'è l'amore»103  e, cambiando le idee, si deve cambiare anche l'oggetto del desiderio, a meno che il vecchio amore non muti divenendo, in un certo modo, nuovo. Non si può «lottare con tutta la scienza e la freddezza necessarie, se non si ama anche fisicamente qualcuno»104: Dino aveva perso la capacità di lottare non amando più fisicamente Marisa; con Ellis ritrova lo slancio necessario per combattere, ma come nuovo è l'amore, così 97 Cfr. Pratolini 1963b, p. 21. 98 Cfr. Pratolini 2002, p. 289. 99 Cfr. Pratolini 1963b, p. 23. 100Cfr. Bertoncini 1987, p. 103. 101Lo è, per esempio, in Faliero di Un eroe del nostro tempo e in Millo de La costanza della ragione. 102Cfr. Memmo 1977, p. 79. 103Bruna ripete le parole che Faliero le disse dopo averla baciata per la prima volta. Cfr. Pratolini 2006c, p. 173. 

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