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Come punto di partenza è stato richiamato l’inquadramento giuridico delle attività immateriali con particolare riferimento ai segni distintivi delle aziende, ai brevetti ed alle invenzioni industriali.

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INTRODUZIONE

Il presente lavoro si prefigge l’obiettivo di analizzare il tema delle risorse immateriali secondo diverse prospettive tra loro strettamente collegate.

Come punto di partenza è stato richiamato l’inquadramento giuridico delle attività immateriali con particolare riferimento ai segni distintivi delle aziende, ai brevetti ed alle invenzioni industriali.

All’interno dei segni distintivi sono stati separatamente definiti il marchio, la ditta, l’insegna ed i segni distintivi atipici. Del marchio sono state analizzate diverse fattispecie, tra le quali, l’acquisto e la tutela del diritto, la circolazione, l’estinzione e la disciplina internazionale e comunitaria del marchio.

Successivamente è stata trattato il tema delle invenzioni industriali analizzando il diritto patrimoniale che si estrinseca da esso, ovvero il brevetto. Per tale istituto giuridico sono stati trattati i temi delle invenzioni brevettabili ed i loro requisiti, la titolarità dei diritti nascenti dall’invenzione. Sempre al fine di fornire un inquadramento giuridico del brevetto è stato affrontato l’argomento del trasferimento e della tutela internazionale.

Infine è stato trattato il tema delle invenzioni non brevettate e la relativa tutela.

Nel secondo capitolo sono state analizzate le risorse immateriali da un punto di vista contabile e fiscale. In particolare, in apertura è stata data una definizione di immobilizzazione immateriale secondo la dottrina economico-aziendale.

Successivamente è stata evidenziata l’esposizione e la classificazione delle

immobilizzazioni medesime secondo le disposizione del legislatore italiano, interpretate

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e colmate dai principi contabili nazionali emanati dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e dall’Organismo Italiano di Contabilità. Le attività immateriali sono state analizzate separatamente da un punto di vista contabile mettendo il luce la definizione, la rilevazione e la valutazione per ogni singola voce. Parallelamente sono state trattate le disposizioni fiscali relative alla determinazione del reddito imponibile e sono state evidenziati i casi in cui vi è allineamento tra la disciplina fiscale e disciplina civilistica e i casi in cui vi è disallieamento tra le due discipline.

Nel successivo capitolo è stato trattato l’argomento delle attività immateriali secondo i principi contabili internazionali IAS/IFRS e US GAAP. Lo stesso è stato strutturato in modo che per ogni argomento trattato vengono prima presentati i riferimenti IAS/IFRS e poi quelli statunitensi. In apertura di capitolo è stato fatto un cenno sulla strategia di armonizzazione dei principi contabili internazionali, sul quadro istituzionale statunitense e sulla diversa impostazione dei bilanci redatti secondo i principi contabili internazionali.

In ultima analisi, poi il lavoro si è soffermato sul confronto dei diversi modelli contabili

nell’ambito degli intangibles al fine di porre in evidenza analogie e differenze.

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CAPITOLO I

Inquadramento giuridico delle immobilizzazioni immateriali.

1. La nozione di bene immateriale e i temi trattati dal diritto industriale.

Il termine immobilizzazioni immateriali fu proposto per la prima volta da Josef Kohler, giurista della scuola tedesca, il quale, tentando di dare scientificità alla tematica del diritto d’autore e delle invenzioni, propose l’impiego di tale nuova figura concettuale.

Kohler propose, di fronte alla esistenza di leggi vecchie di qualche decennio, che assegnavano diritti di sfruttamento esclusivo alle invenzioni ed alle opere letterarie ed artistiche, di concretizzare la nuova esperienza normativa definendo come bene l’invenzione o l’opera, poi aggiungendo l’aggettivo immateriale in modo da definirlo nello specifico. Infatti, l’invenzione o l’opera non consistono nel meccanismo che realizza il trovato dell’inventore, bensì nella soluzione originale di un problema tecnico o nella creazione artistica.

Sul finire degli anni trenta del secolo scorso, la tematica dei beni immateriali aveva avuto modo di affermarsi tra una vasta comunità di giuristi che si orientarono verso la tutela privatistica degli interessi dell’inventore.

A partire dal secondo dopoguerra e fino ai giorni nostri, i temi trattati dal diritto

industriale, nella loro estensione massima, sono riconducibili alla studio della disciplina

dell’azienda, della concorrenza, dei segni distintivi, dei brevetti per invenzione e per

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modello, delle opere letterarie, artistiche e scientifiche, nonché per alcuni autori, anche alla tutela del consumatore. Al contrario, l’estensione minima di questa materia è riconducibile al diritto della concorrenza, al diritto dei segni distintivi e quello delle invenzioni e dei modelli.

Per quanto riguarda questa trattazione, le tematiche che in questo contesto ci interessano sono relative all’inquadramento delle attività intangibili, degli interessi da tutelare e delle tecniche di protezione, prescindendo dalla tesi estensiva o restrittiva del diritto industriale.

2. I segni distintivi: gli interessi e le tecniche di protezione giuridica.

2.1 La definizione dei segni distintivi.

Nell’esercizio di una attività economica, che sia di produzione e/o di commercio di beni e/o di servizi si ha interesse ad identificarsi rispetto alla concorrenza, sia per ciò che si fa, per dove lo si fa, sia per i beni che si tratta. Si tratta di un interesse che, a prima vista, si potrebbe definire come individuale, andando poi a verificare se si ponga in rilievo un fronte di interessi collettivi.

Il codice italiano del 1942 ha tipizzato i segni distintivi nell’interesse dell’operatore

professionale in ragione della realtà comportamentale ovvero dell’oggetto rispetto al

quale il segno funge da simbolo. Il legislatore del 1942 ha in tale senso definito la ditta

(art. 2563 e 2567 c.c.) come il segno che identifica la persona o l’ente per il ruolo

economico che interpreta; l’insegna (art. 2568 c.c.) come il segno che identifica la

persona o l’ente in quanto operante in un dato luogo; ed infine il marchio come il segno

che identifica i beni o i servizi che produce.

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Questa tipizzazione ha sostituito la distinzione precedente tra nome commerciale e marchio. Il nome commerciale era il nome civile speso nell’esercizio dell’attività professionale e quindi usato in ambito contrattuale e affisso presso i locali commerciali.

Il marchio era ed è il simbolo apposto sui beni prodotti o sui loro involucri.

2.2 Il marchio d’impresa: l’evoluzione storica.

Il marchio ha potuto assumere la sua forma odierna solo con l’espansione del capitalismo industriale ed, in particolare, a partire dalla Rivoluzione francese, la quale ha portato, in tutta Europa, alla abolizione delle corporazioni ed alla proclamazione della libertà dei commercianti di adottare i segni distintivi da essi liberamente prescelti.

Durante l’Ottocento il marchio si è affermato come strumento fondamentale della concorrenza di mercato, in tutto e per tutto conforme con i postulati del liberismo economico. Infatti, il marchio svolge funzioni diverse a seconda del punto di vista in cui ci troviamo. Nella prospettiva micro dell’acquirente, il marchio agevola il consumatore nel reperimento dei prodotti preferiti; in quella macro del sistema economico, premia i produttori efficienti ed emargina quelli inefficienti.

Per questo motivo le direttive fondamentali di protezione dei marchi non hanno tardato ad affermarsi con uniformità nei paesi occidentali, prima a livello nazionale e poi a livello internazionale.

Nel corso del Novecento non sono mancati mutamenti di rilievo nei sistemi di protezione dei marchi, ma una vera e propria trasformazione si è avuta nell’ultimo quarto del secolo. In questo periodo, il marketing ha assunto sempre più importanza;

ogni giorno, i messaggi promozionali sono innumerevoli e tutti rivolti a catturare

l’attenzione dei consumatori. Per questo, all’interno della Comunità europea, si è

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pensato di armonizzare il diritto dei marchi con la direttiva n. 89/104 e con il regolamento n. 40/1994. L’Italia ha dato attuazione alla direttiva n. 89/104 con il D.

Lgs. 4 dicembre 1992, n. 480. In seguito ha apportato alcune modifiche alla legge sui marchi con il D. Lgs. 19 marzo 1996, n. 198, in attuazione degli accordi del negoziato multilaterale che hanno portato alla istituzione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Infine, con il D. Lgs. n. 30 del 10 febbraio 2005 è stato adottato il Codice della proprietà industriale.

L’ambito di applicazione della disciplina in tema di marchi registrati è determinata dalla regola della territorialità. Tuttavia, le imprese domestiche hanno interesse ad ottenere tutela per i propri marchi non soltanto in Italia ma su tutti i mercati nei quali possano introdurre i propri beni, esattamente come le imprese straniere desiderano potersi valere dei marchi impiegati nel paese di origine per estendere il proprio raggio d’azione anche nel nostro paese. Il marchio nazionale è regolato dagli artt. 2569-2574 c.c. e dal Codice della proprietà industriale, che nella sezione I del Capo II (artt. 7-28) ha sostanzialmente ripreso la normativa posta dalla legislazione previgente (R.D. 21 giugno 1942, n. 929). In particolare, la Sezione sui marchi contempla, secondo un preciso ordine tendente a ricondurre ad unità tutte le previdenti disposizioni, le sole norme sostanziali che definiscono l’ambito, l’esistenza e l’esercizio del diritto di marchio.

Il marchio internazionale, invece, è disciplinato dalla Convenzione di Unione di Parigi del 1883 per la proprietà industriale e dall’Accordo di Madrid del 1891 sulla registrazione internazionale dei marchi.

2.3 Le tipologie dei marchi: di fabbrica e di commercio, di prodotti e di servizi, generali

e speciali.

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Il marchio d’impresa è il segno distintivo dei beni o dei servizi prodotti o venduti dall’imprenditore. In tale nozione sono implicite due distinzioni cui anche il codice fa riferimento. La prima distinzione da fare è fra marchi di fabbrica e di commercio. I primi contraddistinguono i prodotti fabbricati da un imprenditore; i secondi i prodotti distribuiti da un intermediario.

La seconda distinzione è da ricollegarsi alla l. 24 dicembre 1959, n. 1178, che ha introdotto nel nostro ordinamento la categoria dei marchi di servizio, in ottemperanza agli obblighi internazionali del nostro paese. L’art. 3 del provvedimento recita che tale marchio contraddistingue non beni ma servizi e precisamente “l’attività di imprese di trasporti e comunicazioni, pubblicità, costruzioni, assicurazioni e credito, spettacoli, radio e televisione, trattamento di materiali e simili”.

Non è invece di origine legislativa la distinzione fra marchi generali e marchi speciali.

Il marchio generale contraddistingue la generalità della produzione dell’impresa; quello speciale distingue particolari tipologie di prodotti aventi determinate caratteristiche.

Volkswagen è il marchio generale che contraddistingue tutte le vetture prodotte dall’omonima casa automobilistica; Golf, Polo ecc. sono i marchi speciali che contrassegnano i singoli modelli di vettura. I marchi generali ricollegano direttamente i prodotti all’impresa, ed infatti spesso coincidono con la ditta. I marchi speciali viceversa non evocano direttamente un’impresa determinata, che talvolta può restare anche ignota nella sua identità al consumatore; essi comunicano un messaggio di altro tipo, attinente alle caratteristiche dei prodotti contraddistinti dal medesimo segno.

Da punto di vista della struttura del segno, si può distinguere tra marchio semplice, che

è costituito da un unico elemento di fatto e marchio complesso, che invece, è costituito

dall’unione di più elementi.

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Infine, dal punto di vista del titolare del marchio si distingue tra il marchio individuale, che è quello individuato da un singolo imprenditore e il marchio collettivo, che svolge la funzione di garantire l’origine, la natura o la qualità di determinati prodotti o servizi ed è destinato ad un uso plurimo da parte di tutti coloro che si assoggettano all’osservanza degli standard qualitativi fissati dal titolare ed ai relativi controlli.

2.4 I requisiti di validità del marchio.

Per poter costituire oggetto di tutela come marchio, il segno deve presentare certi requisiti che sono detti requisiti di validità del marchio, in quanto la loro mancanza determina la nullità dello stesso. Essi sono: la capacità distintiva, la novità, la verità e la liceità.

A) La capacità distintiva.

Il marchio è dotato di capacità distintiva (da molti detta originalità) se è idoneo a

identificare i prodotti contrassegnati tra tutti i prodotti dello stesso genere immessi sul

mercato. Secondo il disposto dell’art. 13 C.p.i., le categorie che non possono fungere da

marchio, perché astrattamente inidonee a distinguere sono: le denominazioni generiche

del prodotto o del servizio e le indicazioni descrittive del prodotto (o del servizio) o

delle sue qualità. A rigore, dunque, il requisito della originalità è rispettato quando si

utilizzano o segni dotati di un significato che nulla ha a che fare con il prodotto da

contraddistinguere o segni addirittura privi di per sé di valore semantico (nomi di

fantasia).

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Nella pratica è frequente che l’imprenditore per far presa sul pubblico, adotti come marchio una parola, che pur non coincidendo con la denominazione generica o con la descrizione del prodotto, abbia però la capacità di “richiamare” in qualche modo il prodotto stesso o le sue capacità.

La giurisprudenza, con notevole indulgenza, ha ammesso la validità di questo tipo di marchio (c.d. marchio espressivo), purché l’elemento descrittivo in esso contenuto sia accompagnato da elementi di differenziazione costituiti da aggiunte di suffissi o prefissi, distorsioni della parola, particolari combinazioni. Sono stati ritenuti validi, ad esempio, il marchio Bergamon per prodotti medicinali a base di bergamotto e quello Amplifon per apparecchi acustici.

Il marchio espressivo è definito, sotto il profilo della tutela, marchio debole. Essendo, infatti, la sua capacità distintiva affidata soltanto alle modifiche o combinazioni di fantasia di elementi descrittivi o generici, basteranno lievi varianti per escluderne la confondibilità con altri marhci. E’ stata così esclusa la confondibilità tra il marchio Bergamon ed il marchio Bergasol; tra il marchio Amplifon ed il marchio Udifon.

Si definisce, all’opposto, forte, il marchio che non rivela niente del tipo di prodotto che contraddistingue, ed è tale in genere il marchio di pura fantasia. La sua tutela è particolarmente intensa: si dice infatti che essa si estende al tipo, sicché modifiche anche notevoli non basteranno ad evitare la contraffazione, qualora lascino sussistere l’identità sostanziale del tipo. Il marchio Bonnj, ad esempio, è stato considerato contraffazione del marchio Buondì.

La distinzione tra marchi deboli e forti non è però sempre agevole nella pratica e si può

anche verificare che un segno, originariamente dotato di scarsa capacità distintiva,

diventi “forte”, in seguito all’uso che ne è stato fatto e grazie ad un’intensa e riuscita

pubblicità. Si parta, in tal caso, di acquisto da parte del segno, nella percezione del

pubblico, di un secondary meaning (da generico a specifico).

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Attualmente il testo del Codice della proprietà industriale riconosce che il seconday meaning:

- può far acquistare carattere distintivo ad un segno che originariamente ne era privo, rendendone così possibile la registrazione come marchio (art. 13, comma 2, C.p.i.);

- può trasformare un marchio originariamente privo di capacità distintiva e perciò nullo, in un marchio valido (c.d. riabilitazione, art. 13, comma 3, C.p.i.).

B) Novità.

Il secondo requisito di validità del marchio è la c.d. novità o novità estrinseca. Per assolvere appieno alla sua funzione distintiva, infatti, il marchio deve essere diverso dai marchi altrui preesistenti, non deve, pertanto, essere già noto al mercato. L’art. 12 C.p.i.

chiarisce, in negativo, cosa debba intendersi per nuovo.

Ai sensi dell’art. 12 C.p.i. non sono nuovi:

a) i segni divenuti di uso comune “nel linguaggio corrente o negli usi costanti nel commercio” (art. 12, 1° comma, lett. a), C.p.i.). Per segni di uso comune si intendono quelle parole e/o figure correntemente adoperate nella prassi del mercato o nella vita quotidiana con riferimento a prodotti di qualunque tipo: si pensi a parole come “super”, “extra” ecc;

b) i segni “identici o simili ad un segno già noto come marchio o segno distintivo di

prodotti o servizi fabbricati, messi in commercio o prestati da altri prodotti o servizi

identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza tra i segni e dell’identità o

affinità fra i prodotti o i servizi possa determinarsi un rischio di associazione fra i

due segni….” (art. 12, 1°comma, lett.b) C.p.i.);

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c) i segni identici o simili ad un marchio già noto come ditta, denominazione o ragione sociale, insegna e nome a dominio aziendale, adottato da altri nell’ambito di attività imprenditoriali identiche o affini (art. 12, 1° comma, lett. c) C.p.i.);

d) i segni identici o simili ad un marchio già registrato da altri in Italia, o qui efficace in seguito a domanda depositata in data anteriore, per prodotti o servizi identici o affini (art. 12, 1°comma, lett. d) C.p.i.);

e) i segni identici o simili ad un marchio che goda di rinomanza, anche se registrati per prodotti o servizi non affini, qualora ritraggano dalla notorietà del marchio anteriore un indebito vantaggio o arrechino allo stesso un pregiudizio (art. 12, 1° comma, lett.

f) C.p.i.);

f) i segni identici o simili ad un marchio già efficace in Italia in forza di un diritto di priorità, o di una valida rivendicazione di preesistenza (art. 12, 1° comma, lett. e) e lett. g) C.p.i.).

L’assenza del requisito della novità del marchio è suscettibile di una sanatoria. Tale sanatoria, definita anche convalida del marchio è prevista all’art. 28 C.p.i. che dispone

“l’incontestabilità del marchio da parte del titolare del diritto anteriore ove questi, per

cinque anni consecutivi, abbia tollerato, essendone a conoscenza, l’uso di un marchio

posteriore uguale o simile”; il 2° comma, inoltre preclude in tal caso l’azione di nullità

anche ai terzi. La norma risponde all’esigenza di consolidare situazioni di fatto da

tempo esistenti, facendo ad esse corrispondere una situazione di diritto eliminando così

uno stato di incertezza. Se così non fosse, il titolare del segno anteriore potrebbe

astenersi in mala fede dall’agire fino a quando il marchio successivo non abbia

acquistato credito e clientela sul mercato e, a quel punto, agire per farne dichiarare la

nullità ed acquisirne l’avviamento.

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La legge però esclude espressamente la convalida ove si provi che il marchio posteriore sia stato domandato in malafede; non è di ostacolo alla convalida, invece, una malafede sopravvenuta (al deposito della domanda).

Infine è da aggiungere che la convalida non consente al titolare del marchio convalidato di opporsi all’uso del marchio anteriore. Questo è un caso in cui l’ordinamento consente l’uso contemporaneo di marchi confondibili da parte di imprenditori diversi.

C) Liceità.

Il terzo requisito di validità dei marchi è generalmente definito come il requisito della liceità. A tale espressione vengono ricondotte più ipotesi, tra loro eterogenee, previste dalla legge. Sono in particolare, privi del requisito della liceità:

a) “i segni contrati alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume” (art. 14, lett. a) C.p.i.). Tale requisito è ritenuto particolarmente importante dal legislatore in quanto deve sussistere no solo all’atto del deposito della domanda di registrazione ma per tutta la vita del marchio; l’art. 26, lett. b) C.p.i., infatti, prevede che il marchio decade quando diventa appunto “contrario alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume”;

b) “gli stemmi e gli altri segni protetti da convenzioni internazionali”: si pensi ad esempio ad segno “Croce Rossa” (art. 10, 1° comma, C.p.i.);

c) “gli stemmi e gli altri segni che rivestano un interesse pubblico, a meno che

l’autorità competente non ne abbia autorizzato la registrazione” (art. 10, 1° comma,

C.p.i.).

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D) Verità.

Il requisito della verità del segno, anche detto della non decettività è espresso dall’art.

14 , lett. b) C.p.i., ai sensi del quale non possono costituire valido marchio “i segni idonei ad ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei prodotti o servizi”.

La norma in esame è destinata a trovare una scarsa applicazione in quanto normalmente ciò che è ingannevole non è il marchio di per sé, ma l’uso che di esso si fa. L’unica fattispecie sicuramente riconducibile alla norma citata è quella in cui vi è una netta contraddizione tra il messaggio comunicato dal marchio e le caratteristiche dei prodotti per i quali è stato registrato.

2.5 Il fatto costitutivo dell’acquisto del diritto di marchio: la registrazione.

L’art. 19 C.p.i., come l’art. 22 L marchi, mantiene separate la qualifica di imprenditore da quella di titolare del marchio registrato. Ciò implica che può ottenere la registrazione per marchio d’impresa anche chi non abbia alcuna intenzione di utilizzarlo per prodotti propri, e si proponga solo di concedere a terzi la facoltà di utilizzare il marchio per contrassegnare i loro prodotti.

L’art. 19, 3° comma C.p.i. prevede la possibilità che anche le pubbliche amministrazioni siano legittimate alla registrazione di marchi.

La regola generale, secondo cui chiunque può registrare un marchio, subisce dei limiti

in relazione a certe categorie di segni, la cui registrazione è riservata a determinati

soggetti o a chi ne riceva l’autorizzazione.

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La prima ipotesi da considerare concerne l’uso come marchio del ritratto altrui. L’art. 8 1° coma , C.p.i. detta al riguardo, un regime di preclusione molto severo in quanto subordinato al consenso del ritrattato e, dopo la sua morte , al consenso dei congiunti più vicini, fino al quarto grado.

Meno limitativo del regime dettato per i ritratti altrui è quello che la legge prevede per i nomi altrui. L’art. 8, 2° comma C.p.i. infatti, prevede una generale libertà di inserimento del nome altrui nel marchio ponendo come unico limite il fatto che l’uso

“non sia tale da ledere la fama, il credito o il decoro dell’interessato”.

La terza ipotesi da considerare riguarda l’uso del segni notori. L’art. 8, 3° comma dispone che “i segni notori possono essere registrati come marchio solo dall’avente diritto o con il consenso di questi o dei soggetti di cui al 1° comma”.

Questa è una delle norme con le quali il legislatore si è più distaccato dalla funzione distintiva del marchio, per prendere in considerazione un tipo di valore che i segni notori presentano. Si tratta del valore di suggestione che, dovuto alla grande notorietà di cui godono tali segni, al loro legame con personalità di grande spicco, al loro richiamo ad avvenimenti di grande rilievo, si traduce in una capacità di vendita del prodotto che prescinde dai dati di qualità e di prezzo del prodotto stesso.

2.6 Il procedimento di registrazione del marchio.

Il diritto esclusivo sul marchio è conferito dalla registrazione che consiste nel rilascio di

un attestato, da parte dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi, al termine di una

procedura che si articola in più fasi.

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A) Deposito della domanda.

Tale procedura ha inizio con il deposito della domanda presso l’Ufficio o presso una Camera di Commercio. Il contenuto della domanda è prefissato dalla legge, in Particolare è necessario che essa:

- abbia ad oggetto un solo marchio;

- contenga un esemplare del marchio, o in caso di marchio figurativo, la sua raffigurazione;

- menzioni i prodotti o i servizi che il marchio è destinato a contraddistinguere.

B) Fase dell’esame.

Ricevuta la domanda, l’Ufficio esamina preliminarmente la regolarità formale della stessa. Riconosciuta tale regolarità, procede poi all’esame di alcuni soltanto dei requisiti sostanziali di validità. In particolare, tale esame non verte sul requisito della novità. Il controllo della novità del marchio, perciò è devoluto come fatto puramente eventuale, limitato al caso di impugnazione del marchio stesso da parte di terzi, all’autorità giudiziaria ordinaria.

C) L’intervento dei terzi interessati.

Entro sessanta giorni dalla pubblicazione della domanda di marchio sull’apposito

Bollettino dei marchi, qualsiasi interessato può, indirizzare all’Ufficio Italiano Brevetti

e Marchi, osservazioni scritte, specificando i motivi per i quali il marchio dovrebbe

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essere escluso d’ufficio dalla registrazione. Tali osservazioni, se ritenute pertinenti e rilevanti dall’Ufficio sono comunicate al richiedente che può presentare le proprie deduzioni entro il termine di trenta giorni dalla comunicazione.

Entro novanta giorni, invece, dalla stessa pubblicazione può essere presentata opposizione alla registrazione del marchio. Legittimati all’opposizione sono: il titolare di un marchio anteriormente registrato, chi ha depositato domanda di registrazione di un marchio in data anteriore o che rivendica una priorità o una preesistenza, le persone, gli enti e le associazioni che possono far valere la tutela dei nomi notori di cui all’art. 8 C.p.i..

Con l’opposizione possono farsi valere gli impedimenti alla registrazione del marchio previsti dall’art. 12, 1° comma, lett d) ed e) C.p.i. per tutti o per una parte di prodotti o servizi per i quali è stata chiesta la registrazione, e la mancanza del consenso alla registrazione da parte degli aventi diritto di cui all’art. 8.

In pratica, attraverso tali previsioni, si realizza una seconda modalità di esame in contraddittorio davanti agli organi dell’Ufficio e si anticipa la possibilità della verifica del requisito della novità, rimessa, altrimenti, alla mera eventualità dell’impugnazione davanti all’autorità giudiziaria.

D) Fase della decisione.

L’Ufficio, compiuto l’esame, decide sulla domanda, accogliendola o respingendola. Nel

primo caso, l’Ufficio procede alla registrazione del marchio e all’emissione del relativo

attestato. Nel caso in cui, invece, l’Ufficio rifiuti la registrazione, il richiedente può

ricorrere, entro trenta giorni, alla Commissione dei Ricorsi, la quale, se accoglie il

ricorso, ordina all’Ufficio di procedere alla registrazione del marchio.

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E) Effetti della registrazione.

La registrazione, come già detto sopra, conferisce al richiedente il diritto di esclusiva sul marchio. La registrazione e congiuntamente il diritto di esclusiva ha efficacia per dieci anni che decorrono dalla data di deposito della domanda, Essa, può essere rinnovata alla scadenza, anche più volte, dal titolare stesso o dal suo avente causa, il che rende il diritto di esclusiva potenzialmente perpetuo.

Il diritto di esclusiva riguarda soltanto i prodotti o i servizi indicati nella registrazione stessa e quelli ad essi affini, tale limite non vale per i marchi che godono di rinomanza.

Per quanto riguarda, infine, l’ambito territoriale del diritto, questo si estende a tutto il territorio nazionale, prescindendo dall’ambito effettivo di utilizzo dello stesso.

2.7 La circolazione del marchio.

A) Cessione del marchio.

Si ha cessione del marchio quando il titolare (cedente) si spoglia definitivamente di tale titolarità a favore di un altro soggetto (cessionario).

La disciplina antecedente al D.Lgs. n. 480/1992 si preoccupava di assicurare che il

marchio, nonostante il trasferimento, continuasse ad adempiere alla propria funzione

distintiva, ponendosi quale indicatore della provenienza del prodotto da un’impresa che

presentasse rilevanti elementi di identità rispetto a quella originaria. A tal fine, il

vecchio testo dell’art. 2573 c.c. e dell’art. 15 L. marchi permetteva la circolazione del

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marchio solo in coincidenza con la circolazione dell’azienda, o di un ramo particolare di essa. Si parlava, quindi, di cessione vincolata.

Il D.Lgs. n. 480/1992 ha radicalmente mutato tale disciplina affermando il principio della libera cedibilità del marchio, non più connessa a quella di altri elementi aziendali ed inoltre riconoscendo la legittimità della cessione parziale del marchio. Tale cessione parziale prevede che lo stesso sia trasferito anche solo per una parte dei prodotti o servizi per i quali è stato registrato. Tali principi sono stati confermati dall’attuale normativa introdotta dal Codice, che si occupa del trasferimento del marchio all’art. 23

1

.

B) Licenza di marchio.

A norma degli artt. 2573 c.c. e 23 C.p.i., il marchio, oltre che trasferito a titolo definitivo, può anche essere concesso in licenza a terzi.

Con il nome di licenza si indicano i contratti con i quali il titolare del marchio pur conservandone la titolarità, attribuisce l’uso e il godimento a terzi. Il Codice della proprietà industriale ha espressamente confermato la previsione per cui la licenza può essere:

- con o senza esclusiva;

- totale o parziale, relativa a tutti o solo ad una parte dei prodotti o servizi per i quali il marchio è registrato;

- riferita all’intero territorio dello Stato ovvero soltanto a parte di esso.

Le licenze esclusive di marchio sono caratterizzare da un dato strutturale unitario: un solo imprenditore ha la facoltà di usare il marchio per un determinato tipo di beni. Il

1

La dottrina prevalente ritiene che la cessione parziale del marchio sia ammissibile anche quando vi sia

affinità tra i prodotti per i quali il diritto di marchio rimane al cedente e quelli per i quali passa al

cessionario. La previsione di licenze anche non esclusive fa pensare che l’unico limite alla frazionabilità

del diritto di marchio è costituito dal divieto di inganno del pubblico, previsto dall’art. 23 C.p.i..

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titolare del marchio può rinunciare totalmente alla sua presenza sul mercato, ed in questo caso la licenza esclusiva è anche totale; ovvero può affidare lo sfruttamento economico del marchio a più licenziatari, conferendo a ciascuno di essi il diritto di usare il marchio solo per parte dei prodotti o dei servizi per i quali è stato registrato, concedendo in tale ipotesi una licenza esclusiva parziale.

In caso di licenza non esclusiva, invece, due o più imprenditori immettono sul mercato, con lo stesso marchio, gli stessi prodotti. In tale situazione si pone il problema di evitare che il pubblico sia ingannato dalla presenza di prodotti all’apparenza identici ma in realtà qualitativamente difformi. E’ per questa ragione che l’art. 23 C.p.i. subordina la liceità delle licenze non esclusive alla condizione che il licenziatario si obblighi espressamente ad usare il marchio per contraddistinguere prodotti o servizi uguali a quelli corrispondenti messi in commercio con lo stesso marchio dal titolare o dal altri licenziatari.

C) I contratti di merchandising.

Sono denominati contratti di merchandising quei contratti con il quali il titolare di un marchio notorio concede a terzi la facoltà di usare il marchio per prodotti notevolmente diversi dai propri

2

.

In passato tali contratti erano oggetto di dubbi in quanto, mancando anche per il titolare di un marchio notorio il diritto di esclusiva per prodotti non affini ai propri, non era facile giustificare come egli potesse concedere a terzi un diritto che non aveva. Dopo la riforma del 1992, invece, la validità di tali contratti sembra certa in quanto il titolare di

2

Vengono ricondotti al merchandising anche quei contratti con i quali il creatore di un personaggio di

fantasia della letteratura, del cinema o dei fumetti consente, dietro corrispettivo, che quel personaggio o

l’immagine grafica che lo rappresenta, venga usato come marchio di prodotti altrui.

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un marchio che gode di rinomanza vanta oggi un diritto di esclusiva, nell’uso del marchio, non più limitato all’affinità merceologica.

2.8 La disciplina internazionale e comunitaria del marchio.

Le esigenze del commercio internazionale richiederebbero una protezione del marchio estesa al di là del territorio nazionale.

Gli ordinamenti moderni, tuttavia, incentrandosi sul principio della territorialità, limitano l’efficacia della registrazione al territorio dello Stato concedente.

Conseguentemente, chi voglia operare con lo stesso marchio in più mercati nazionali dovrà depositare una domanda di registrazione del marchio presso l’Ufficio di ogni Stato (depositi plurimi) e ciascun diritto di marchio sarà soggetto alla sua disciplina nazionale. Tale situazione crea consistenti costi e problemi di gestione, per risolvere i quali sono stati raggiunti due importanti accordi internazionali: la Convenzione di Unione di Parigi e l’Arrangement di Madrid.

A) La Convenzione di Unione di Parigi.

Alla Convenzione di Unione di Parigi per la protezione della proprietà industriale,

firmata il 20 marzo 1883, riveduta ed integrata già molte volte, aderiscono 157 nazioni,

tra cui l’Italia che ha provveduto a ratificarla con L. 28/4/1976, n. 424. Particolarmente

rilevante è l’art. 4 che, per agevolare le procedure di deposito plurimo, stabilisce che

chi abbia depositato un marchio in uno dei Paesi aderenti all’Unione, potrà presentare,

(21)

entro 6 mesi, una domanda di registrazione alla data della prima domanda (c.d. priorità unionistica).

B) L’Arrangement di Madrid.

All’ Arrangement di Madrid sulla c.d. registrazione internazionale dei marchi, sottoscritto il 14 aprile 1891 e già più volte revisionato, aderiscono circa 50 Stati, tra cui l’Italia che ha provveduto alla ratifica con la L. 28/04/1976 n. 424.

L’Arrangement di Madrid, con le successive integrazioni e modifiche, sostituisce il

deposito plurimo con un sistema di deposito e di registrazione potenzialmente idoneo a

valere in tutti gli Stati aderenti. Chi deposita una domanda di registrazione di marchio

presso l’Ufficio nazionale potrà, infatti, chiedere a quest’ultimo il deposito del marchio

stesso presso l’Ufficio Internazionale per la protezione della proprietà industriale

(OMPI), sito a Ginevra. Questo a sua volta, provvederà alla registrazione del marchio,

che da quel momento avrà valore in tutti gli Stati aderenti per i quali sia stato richiesto,

come se il marchio fosse stato depositato direttamente in ciascuno de quei Paesi. La

registrazione da parte dell’OMPI, resta comunque soggetta per un anno ad eventuale

rifiuto da parte degli Stati a cui è stata richiesta l’estensione del marchio. Il marchio

così registrato (c.d. marchio internazionale) rappresenta una sorta di fascio di marchi

nazionali ciascuno dei quali è tutelato, nel Paese cui appartiene, in base alla disciplina

interna. I diversi marchi nazionali ottenuti con la registrazione internazionale,

dipendono per i primi 5 anni dal marchio depositato nel Paese d’origine,

successivamente diventano indipendenti. Pertanto, se entro il primo quinquennio, si

annulla il marchio nazionale di base, vengono meno anche gli effetti a livello

internazionale. Dopo tale periodo, la sorte del marchio internazionale si evolve rispetto

(22)

alla sorte del marchio nazionale da cui deriva. Infine, la registrazione internazionale dura venti anni ed è rinnovabile.

C) Il marchio e la normativa comunitaria.

Le regole dei marchi nazionali, attribuendo al titolare del marchio un diritto di esclusiva limitato al territorio nazionale, sono potenzialmente confliggenti con il Trattato CEE, il cui obiettivo è la creazione di un mercato comune europeo. Nel corso degli anni, quindi, per superare tale contrasto, gli organi comunitari hanno contribuito alla formazione di un vero e proprio diritto comunitario dei marchi d’impresa. Tale obiettivo è stato raggiunto con il Regolamento n. 40/94, il c.d. marchio comunitario, entrato in vigore il 1° aprile 1996. I principi che delineano l’istituto comunitario sono l’unitarietà e l’autonomia. Attraverso l’unitarietà, il marchio comunitario attribuisce al titolare un’esclusiva la cui efficacia è unica per l’intero territorio dell’Unione Europea

3

. Con il principio di autonomia viene stabilito che il marchio comunitario è disciplinato esclusivamente dal Regolamento, mentre le norme nazionali si applicano solo in quanto richiamate espressamente dallo stesso Regolamento. La disciplina sostanziale del marchio comunitario corrisponde in gran parte a quella della nostra legge marchi.

Quindi, sono atti a costituire un marchio comunitario gli stessi segni descritti dall’art. 7 C.p.i. e, quanto ai requisiti di validità, vengono in rilievo anche in tal caso quelli della liceità, della capacità distintiva e della novità

4

.

3

Il marchio comunitario, pertanto, non costituisce, a differenza del marchio internazionale, un fascio di diritti nazionali diversi ed autonomi, ma un titolo di proprietà industriale sopranazionale.

4

Tuttavia nel Regolamento, tali requisiti sono espressi come impedimenti alla registrazione e sono inoltre distinti in impedimenti assoluti e relativi. Gli impedimenti assoluti, di cui all’art. 7 del Reg. CE n.

40/94, corrispondono sostanzialmente all’elenco risultante dagli artt. 9, 10, 13, e 14 C.p.i. e possono essere fatti valere da chiunque vi abbia interesse. Gli impedimenti relativi, di cui all’art. 8 Reg. CE n.

40/94, corrispondono, invece, all’elenco dell’art. 12 C.p.i. e consistono nella mancanza di novità del

segno. Gli impedimenti relativi possono essere fatti valere solo da parte di titolari di segni anteriori.

(23)

La registrazione del marchio comunitario che si effettua presso l’Ufficio per l’Armonizzazione nel Mercato Interno (UAMI), conferisce al titolare un diritto di esclusiva sostanzialmente equivalente a quello offerto dalla registrazione di un marchio italiano. La posizione del titolare si esprime in termini negativi, come diritto a vietare ai terzi determinati comportamenti. La tutela accordata è assoluta quando ci si trova di fronte all’uso di un segno identico a quelli per cui esso è stato registrato, mentre è subordinata alla sussistenza di un rischio di confusione per il pubblico nel caso di segni identici o simili adottati per prodotti o servizi identici o analoghi.

Per la giurisprudenza comunitaria non vale ad escludere il rischio di confusione il fatto che i due prodotti obiettivamente provengano da diversi paesi di origine. La possibilità di confusione può essere esclusa solo dalla prova certa che il pubblico dei consumatori abbia la consapevolezza che i prodotti provengano da imprese diverse.

La registrazione del marchio comunitario vale dieci anni ed è rinnovabile per periodi di dieci anni.

Il rifiuto di registrazione di una domanda, la decadenza, o l’annullamento del marchio comunitario lasciano impregiudicata la possibilità di registrare lo stesso marchio con singole domande nazionali presso i Paesi UE nei quali non si applica il motivo del rifiuto, della decadenza o dell’annullamento.

2.9 Gli altri segni distintivi.

2.9.1 La ditta

Nozione e fonti normative

(24)

La ditta è il segno distintivo che contraddistingue l’impresa nel suo complesso ed è necessario nel senso che, in mancanza di diversa scelta, esso coincide con il nome civile dell’imprenditore. Le funzioni della ditta sono quelle di identificare il titolare dell’impresa industriale (definita anche “nome commerciale”) e quella di individuare l’impresa nei rapporti con i fornitori, le banche, i distributori, il pubblico e il mercato.

Nel sistema vigente, con la spersonalizzazione dell’attività d’impresa, ha assunto maggior rilievo la seconda funzione che attribuisce alla ditta un preciso ruolo concorrenziale, avvicinandola così agli altri segni distintivi, ed in particolare, al marchio. Si può dire che la ditta tende a confondersi con il marchio. Sono infatti sempre più numerose le imprese che usano lo stesso segno sia come marchio che come ditta (si persi a “Fiat”, “Barilla”, Ferrero”).

La normativa in tema di ditta è formata da quattro articoli del codice civile: gli artt.

2563 – 2566. Tale normativa è integrata, per quanto riguarda l’aspetto sanzionatorio, dagli artt. 2599-2600 c.c. e, per quanto riguarda l’aspetto sostanziale, dalla disciplina del marchio, pur in assenza di un preciso rinvio del legislatore.

La formazione e l’uso esclusivo della ditta.

L’art. 2563, 1° comma c.c. dispone che la ditta “può essere liberamente formata dall’imprenditore”. Nella scelta della propria ditta, l’imprenditore incontra due limiti specifici espressamente enunciati:

a) il principio della verità: ai sensi dell’art. 2563, 2° comma c.c. la ditta in qualunque

modo sia formata, deve contenere almeno il cognome o la sigla dell’imprenditore,

salva l’ipotesi della ditta derivata. La norma vuole offrire al pubblico la possibilità

di identificare la persona dell’imprenditore, ma pregiudica essa stessa tale obiettivo.

(25)

Infatti, da un lato il legislatore consente di inserire nella ditta una sigla che può non avere alcun significato e, dall’altro, consente l’uso di un a ditta derivata (trasferita) che conterrà il cognome o la sigla del precedente titolare.

b) Il principio della novità: l’art. 2564 c.c. esige che la ditta non sia uguale o simile ad altra già usata da un imprenditore concorrente.

La dottrina più recente ritiene che la ditta, per essere tutelata, debba rispondere anche ai requisiti della liceità e della capacità distintiva, espressamente richiesti dalla legge solo per i marchi. Inoltre, l’art. 14 C.p.i. vieta che la ditta contenga indicazioni idonee a trarre in inganno il pubblico.

Per quanto riguarda l’uso della ditta, il titolare ha il diritto all’uso esclusivo e lo acquista proprio attraverso l’uso stesso. L’uso della ditta è in primo luogo la spendita del segno nei rapporti d’affari e secondariamente nella pubblicità.

Ai sensi dell’art. 2564 c.c. il diritto in esame non riceve una protezione assoluta, tant’è che ai fini della contraffazione non basta l’identità o la confondibilità tra i segni, occorre anche che i due imprenditori siano in rapporto concorrenziale tra loro per l’oggetto e per il luogo in cui la ditta è esercitata.

L’art. 2564 c.c. prevede, a carico di chi violi l’altrui diritto alla ditta, un obbligo di integrazione o modificazione della propria ditta con indicazioni idonee a differenziarla dalla concorrente. Tale obbligo ricade su chi ha adottato per secondo la ditta che si confonde con l’altra: rileva, quindi, il principio della priorità dell’uso.

A tutela della ditta, inoltre, si applicano le sanzioni dettate in materia di concorrenza sleale di cui agli artt. 2599-2600 c.c. e relativi all’inibitoria, alla rimozione degli effetti, al risarcimento del danno e alla pubblicazione della sentenza.

2.9.2 L’insegna

(26)

Nozione

L’insegna è un segno distintivo privo di definizione normativa, cui il legislatore ha dedicato una sola norma, l’art. 2568 c.c., il quale rinvia al 1° comma dell’art. 2564 c.c.

dettato per la ditta.

Secondo alcuni l’insegna contraddistingue i locali in cui si svolge l’attività d’impresa;

secondo altri essa contraddistingue l’intero complesso aziendale.

Nella pratica, spesso, l’insegna coincide con la ditta e quindi, per il progressivo avvicinamento della ditta al marchio, viene a coincidere con quest’ultimo.

Requisiti

L’insegna è un segno distintivo facoltativo. L’unico requisito espressamente richiesto è quello della novità (art. 2564 c.c. richiamato dall’art. 2568 c.c.). L’insegna, pertanto, non potrà essere uguale o simile a quella utilizzata da altro imprenditore concorrente, con conseguente obbligo di differenziazione qualora possa ingenerare confusione nel pubblico. In dottrina, come anche per la ditta, è opinione comune che debbano essere rispettati anche gli altri requisiti di liceità, verità e capacità distintiva.

Quanto alla tutela si ritiene generalmente che l’ambito geografico di protezione

dell’insegna debba essere inteso in modo alquanto restrittivo. In ogni caso non si può

trascurare la notorietà acquisita dal segno riconducendo, pertanto a tale fattore

l’estensione territoriale della tutela.

(27)

2.9.3 I segni distintivi atipici.

La categoria dei segni distintivi atipici ha un’estensione inversamente proporzionale a quella che si dà ai segni tipici. Nel sistema vigente, poiché i segni tipici coprono un campo molto vasto, essa risulta confinata in un ambito piuttosto ristretto.

Nell’esperienza giurisprudenziale, si individuano come segni atipici:

- l’emblema, che indica un segno puramente figurativo, usato in funzione di ditta;

- lo slogan;

- le particolari divise indossate dal personale di certe imprese.

In mancanza di una normativa speciale, tali figure atipiche sono regolate esclusivamente dall’art. 2598 n. 1 c.c. che vieta gli atti di concorrenza sleale per confusione. Come si è già avuto modo di sottolineare, il Codice della proprietà industriale ha reso la disciplina in esso contenuta applicabile, ricorrendone i presupposti di legge, a tutti i segni distintivi diversi dal marchio registrato.

3. Le invenzioni: gli interessi e le tecniche di protezione giuridica.

3.1 La definizione delle invenzioni industriali.

Tra i molti significati che può assumere il termine invenzione, quello rilevante

nell’ambito del diritto industriale è da rintracciare nell’uso, ovvero se il termine

invenzione richiami un’innovazione delle cose e/o dei comportamenti, un’innovazione

capace di soddisfare un bisogno materiale. Tale significato può essere pensato come un

dispositivo meccanico, un circuito elettrico, una sostanza chimica, una sequenza di

operazioni ecc.. Quindi è possibile affermare che un’invenzione nel termine giuridico

(28)

“è un enunciato che ha la funzione di comunicare come si ottiene un risultato utile per la civiltà materiale, rivendicando il carattere innovativo del risultato e/o del come ottenerlo”

5

.

Al contrario si può escludere dalla definizione di invenzione “qualsiasi enunciato che non comunica come si fa qualcosa, ma solo lo stato di qualche cosa (per esempio:

l’esistenza di un elemento ignoto o di una proprietà ignota di un elemento noto (scoperta), una regolarità fenomenica, un’interpretazione di dati della percezione empirica o strumentale)”.

Secondo la definizione data da Galgano, “le creazioni intellettuali sono idee creative nel campo della cultura e della tecnica tutelate nel nostro ordinamento come espressione originale della personalità umana. Non essendo cose corporali, sono definite dalla dottrina “beni immateriali””.

Le creazioni intellettuali si distinguono in due grandi categorie:

- opere dell’ingegno;

- invenzioni industriali.

Le opere dell’ingegno “sono quelle idee di carattere creativo che appartengono al campo delle scienze, della letteratura, della musica, delle arti figurative, dell’architettura, del teatro e del cinema” (art. 2575 c.c.), tutelate dal diritto d’autore.

L’invenzione industriale, invece, va intesa come “la soluzione concreta nel campo della produzione economica, di un problema tecnico, per effetto di una creazione della mente umana, eccedente le normali conoscenze in applicazione della tecnica contemporanea”

(ROTONDI).

Sull’invenzione industriale, intesa quale bene immateriale da non confondere con il bene materiale nel quale si estrinseca, sono riconosciuti al suo autore diritti morali e

5

In Diritto industriale, proprietà intellettuale e concorrenza di Auteri, Floridia, Mangini, Olivieri, Ricolfi

e Spada.

(29)

patrimoniali. Il diritto morale riconosciuto all’inventore è il c.d. diritto di paternità, cioè il diritto ad essere riconosciuto come autore dell’invenzione per il solo fatto di averla creata. Esso è concepito dalla legge come un diritto di personalità, è quindi, un diritto imprescindibile, irrinunciabile. (artt. 2577, 2° comma, 2582, 2° comma, 2589 c.c.).

Il diritto patrimoniale si estrinseca , invece, nel c.d. diritto al brevetto. Con tale espressione, si intende il diritto a pretendere dalla autorità amministrativa competente, ove l’invenzione sia dotata dei requisiti prescritti, il rilascio del brevetto. Tale diritto è trasmissibile. Con il rilascio del brevetto si perfeziona, in capo al soggetto indicato come titolare, il diritto esclusivo all’utilizzazione economica dell’oggetto brevettato, entro i limiti e alle condizioni stabilite dalla legge. Il diritto di sfruttamento economico è un diritto trasmissibile.

3.2 Il brevetto.

Sono molte le definizione che vengono date alla parola brevetto. In termini generali, esso si può definire come l’attestato amministrativo con il quale si attribuisce all’inventore il diritto esclusivo di godere, per un tempo determinato, dei risultati di una nuova invenzione. Il brevetto copre soltanto le innovazioni tecnologiche, cioè le innovazioni qualificabili come invenzioni industriali che si presentano come soluzioni originali di un problema tecnico. Restano scoperte, perciò, le innovazioni di tipo commerciale e di tipo organizzativo.

Il sistema brevettuale italiano è regolato, nei suoi aspetti essenziali, dal codice civile

(artt. 2584 – 2594 c.c.) e, dettagliatamente, dal Codice della proprietà industriale, alle

sezioni IV (invenzioni) e V (modelli di utilità).

(30)

La nuova codificazione ha sostituito il R.D. del 29 giugno 1939, n. 1127, cosiddetta

“legge invenzioni”, e numerosi altri provvedimenti che, negli anni, hanno modificato la disciplina, adeguandola alle diverse Convenzioni internazionali.

3.3 Le invenzioni brevettabili ed i loro requisiti.

3.3.1 Le invenzioni brevettabili.

La definizione di invenzione brevettabile si ricava a contrario dall’art. 45 del C.p.i., nel quale sono elencate, al 2° comma, le realtà non definibili come invenzioni.

Esse sono nell’ordine:

a) “le scoperte, le teorie scientifiche e i metodi matematici”:

- la scoperta non attiene al campo della creazione ma a quello della conoscenza, in quanto consiste nel conoscere o nel rivelare qualcosa di reale che prima era ignoto;

- le teorie scientifiche sono modelli di spiegazione della realtà senza alcun fine pratico;

- i metodi matematici rimangono anche essi su un piano puramente teorico trattandosi di modelli di ragionamento di natura teorica;

b) “i piani, i principi e i metodi per attività intellettuali, per gioco o per attività commerciali e i programmi per elaborati elettronici”;

c) “le presentazioni di informazioni” (ad esempio gli allestimenti di tabelle, formulari ecc.);

d) ai sensi del 4° comma dell’art. 45 C.p.i. infine, non sono brevettabili neanche i

metodi per il trattamento chirurgico o terapeutico del corpo umano o animale

nonché i metodi diagnostici;

(31)

e) l’ultimo comma dell’art. 45 esclude anche la possibilità di ottenere un brevetto per nuove razze animali e per i procedimenti biologici volti all’ottenimento delle stesse.

3.3.2 I requisiti di brevettabilità.

I requisiti per richiedere il brevetto dell’invenzione sono tradizionalmente quattro:

l’industrialità, la novità, l’originalità e la liceità.

In merito al primo requisito, l’industrialità, è l’attitudine dell’invenzione ad avere un’applicazione industriale. Per l’art. 49 C.p.i., si può riconoscere all’invenzione il requisito dell’industrialità quando “il suo oggetto può essere fabbricato o utilizzato in qualsiasi genere di industria, compresa quella agricola”.

Per quanto riguarda la novità, un’invenzione è considerata come tale ai sensi dell’art.

46, 1° comma C.p.i. quando “non è compresa nello stato della tecnica”. Con l’espressione “stato della tecnica”, si intende “tutto ciò che è stato reso accessibile al pubblico nel territorio dello Stato o all’estero prima della domanda di deposito di brevetto, mediante una descrizione scritta od orale, una utilizzazione o un qualsiasi altro mezzo” (art. 46, 2° comma C.p.i.).

Il requisito dell’originalità ha la funzione di selezionare, tra tutto ciò che è di nuovo, ciò che si differenzia in maniera qualificata dallo stato della tecnica. Dal testo vigente dell’art. 48 C.p.i. risulta che l’originalità equivale a non evidenza dell’invenzione per il tecnico medio del settore. Tale requisito consente, quindi, di distinguere l’invenzione da quello che è semplice progresso tecnico.

Infine, il requisito della liceità è disciplinato dall’art. 50 C.p.i.. La mancanza di tale

requisito preclude la brevettabilità di alcuni trovati che sarebbero da considerare

(32)

invenzioni ai sensi dell’art. 45 C.p.i.. Per il 1° comma “non possono costituire oggetto di brevetto, le invenzioni la cui attuazione sarebbe contraria all’ordine pubblico o al buon costume”.

Il 2° comma dell’art. 50 C.p.i. dispone che “l’attuazione di un’invenzione non può essere considerata contraria all’ordine pubblico o al buon costume per il solo fatto di essere vietata da una disposizione di legge o amministrativa”. Il rispetto dell’ordine pubblico e del buon costume devono essere valutati con riferimento a tutto l’ordinamento o, comunque, ai valori da esso promulgati. Si è voluto in tal modo evitare che si arrivasse ad esprime un giudizio di illiceità tenendo conto di una sola norma di legge.

3.3.3 Tipi di invenzioni.

Le invenzioni possono essere raggruppate in varie categorie.

Le più importanti sono:

- Invenzioni di prodotto e invenzioni di procedimento: si ha una invenzione di prodotto quando la stessa ha ad oggetto un prodotto materiale, quale uno strumento, una macchina, un composto chimico. L’invenzione, però, non è il prodotto in sé, ma il prodotto in quanto rivolto ad un certo uso.

L’invenzione di procedimento, invece, consiste in un’idea non materiale quale ad esempio una tecnica di produzione di beni o di realizzazione di un servizio.

- Invenzioni derivate: le ipotesi riconducibili a tale gruppo sono accomunate dalla caratteristica di derivare da una precedente invenzione.

Si tratta delle invenzioni di perfezionamento, di combinazione, di traslazione. Ai

sensi dell’art. 2587 c.c., quando l’attuazione di un’invenzione implica

(33)

l’utilizzazione di una precedente invenzione, quella dipendente può essere legittimata solo dal consenso del titolare del relativo brevetto. Il titolare dell’invenzione dipendente è favorito dalla legge che gli consente di ottenere una licenza obbligatoria nel caso in cui il titolare del brevetto anteriore non sia disposto a concedergli una licenza volontaria, purché la nuova invenzione rappresenti un importante progresso tecnico di considerevole rilevanza economica (art. 71 C.p.i.).

3.3.4 Il procedimento di brevettazione.

Il diritto esclusivo di utilizzare l’invenzione nasce con il rilascio del brevetto che è l’atto di accertamento costitutivo della Pubblica Amministrazione con cui si conclude una procedura che si articola in varie fasi.

Tale procedura ha inizio con il deposito della domanda, effettuato dallo stesso avente diritto o da un mandatario abilitato, presso l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi

6

.

La data di deposito della domanda di brevetto funge da criterio di soluzione del conflitto tra più inventori e segna anche il momento di decorrenza del termine ventennale di efficacia del brevetto.

Il deposito della domanda dà il via alla fase dell’esame. Nel nostro ordinamento, il sistema brevettale è un sistema senza esame. L’ufficio si limita ad accertare, oltre alla regolarità formale della domanda, la ricorrenza del requisito della liceità. Non ha il compito di esaminare l’industrialità, la novità e l’originalità del trovato.

L’ufficio, compiuto l’esame suddetto, decide sulla domanda, accogliendola o respingendola. In caso di accoglimento, l’Ufficio concede il brevetto e procede alla

6

Il contenuto della domanda di brevetto è rigorosamente prefissato dalla legge. In particolare, è

necessario che la domanda abbia ad oggetto una sola invenzione (principio dell’unita dell’invenzione) e

sia corredata da una sufficiente descrizione dell’invenzione e da eventuali disegni.

(34)

registrazione dell’invenzione del Registro dei brevetti per invenzioni industriali, la registrazione ha carattere costitutivo del diritto ma i suoi effetti retroagiscono al momento della domanda.

Se, invece, la domanda è rigettata dall’Ufficio, il richiedente può ricorrere entro sessanta gironi alla Commissione dei Ricorsi (art. 135-136 C.p.i.).

3.4 Il contenuto del brevetto ed i suoi limiti.

3.4.1 Limiti temporali e spaziali del brevetto.

Il brevetto attribuisce il diritto di esclusiva sull’invenzione per un periodo di tempo limitato, che nel nostro paese è fissato in venti anni, salvi i termini diversi previsti dalle normative brevettali speciali.

Il termine, non prorogabile né rinnovabile decorre, ai sensi dell’art. 60 C.p.i., dalla data di deposito della domanda di brevetto. Quindi, il diritto di brevetto si estingue oltre che con la scadenza del termine, per la dichiarazione di nullità, la rinuncia del titolare, ai sensi dell’art. 78 C.p.i. e per il verificarsi di determinare cause di decadenza

7

.

Il diritto di esclusiva del brevetto ha efficacia solo nell’ambito dello Stato che lo ha rilasciato (principio di territorialità). L’inventore che voglia sfruttare l’invenzione in un mercato plurinazionale dovrà, quindi, richiedere ed ottenere il brevetto in più Stati (brevetti paralleli) e ciascun brevetto sarà regolato dalla sua legge nazionale.

7

Con il termine decadenza il legislatore indica alcune ipotesi di cessazione anticipata del diritto di

brevetto rispetto al termine di scadenza. Sono cause di decadenza la mancata od insufficiente attuazione

dell’invenzione protratta per un biennio oltre la concessione della licenza obbligatoria; il mancato

pagamento della tassa annuale di brevetto e lo scavalcamento per priorità previsto dalla Convenzione di

Parigi. Secondo tale regola il brevetto perde i suoi effetti a seguito del deposito in Italia di una domanda

di brevetto, per la stessa invenzione, da parte di chi ha depositato, nell’anno precedente, una domanda di

brevetto in un altro Stato aderente alla Convenzione di Unione.

(35)

3.4.2 Il contenuto del diritto di brevetto.

L’esclusività attribuita dal brevetto al suo titolare riguarda la realizzazione del prodotto o del procedimento coperto dall’invenzione, la sua utilizzazione e la sua commerciabilità. Si tratta di facoltà indipendenti tra loro, per cui commette un illecito (contraffazione) il terzo che realizza anche una sola di esse. Tutto questo è espressamente statuito dall’art. 66 C.p.i.. Tale norma specifica che “se il brevetto riguarda un prodotto”, è vietata non solo la produzione dello stesso ma anche usare, commercializzare, vendere o importare il prodotto in questione. La stessa norma prevede inoltre che se il brevetto “riguarda un procedimento”, è vietata non solo la riproduzione dello stesso, ma anche usare, commercializzare, vendere o importare i prodotti ottenuti con lo stesso procedimento.

L’esclusiva del commercio trova un limite nel principio dell’esaurimento (art. 5 C.p.i.), in base al quale il diritto del titolare si esaurisce una volta che il prodotto è stato posto in vendita. Dopo il primo acquisto, i prodotti diventano materia di libero commercio per cui il titolare del brevetto non può impedire o subordinare al proprio consenso la rivendita dei prodotti. Se, però, il primo atto di messa in vendita è illegittimo, il principio di esaurimento non opera ed ogni successivo atto di circolazione è illegittimo a prescindere dall’eventuale buona fede del terzo acquirente.

3.5 La trasferibilità del brevetto.

(36)

L’art. 2589 c.c. statuisce che “i diritti nascenti dalle invenzioni industriali, tranne il diritto di esserne riconosciuto autore, sono trasferibili”. Per quanto concerne, in particolare, i diritti di brevetto, gli atti traslativi tra vivi sono riconducibili a due modelli diversi che sono la cessione e la licenza. Tali contratti sono a forma libera; l’adozione della forma scritta è imposta dalla esigenza della trascrizione che condiziona l’opponibilità dell’atto a terzi, secondo le disposizioni degli artt. 138 e 195 C.p.i..

3.5.1 La cessione del brevetto.

Si ha cessione del brevetto quando il titolare si spoglia della titolarità dell’attestato a favore di un altro soggetto. La cessione si realizza tramite qualunque contratto capace di produrre effetti traslativi ed è soggetto alle regole del tipo contrattuale adottato. Il contratto di cessione rimane fermo anche nel caso in cui il brevetto venga successivamente dichiarato nullo.

Ai sensi dell’art. 77 C.p.i. la retroattività della sentenza di nullità fa salvi i contratti aventi ad oggetto l’invenzione che siano già stati eseguiti.

3.5.2 La licenza di brevetto.

La licenza di brevetto è il contratto con il quale il titolare del brevetto (licenziante), pur

conservando tale titolarità, concede ad un terzo (licenziatario), dietro corrispettivo, il

diritto di utilizzare l’invenzione brevettata. La licenza, in assenza di prescrizioni

legislative, è un contratto atipico il cui contenuto è rimesso all’autonomia delle parti.

(37)

Una delle clausole più rilevanti in esso contenute, è la clausola di esclusiva con la quale il licenziante si priva del potere di attuare l’invenzione e di concedere altre licenze a terzi. Il contratto prevede a carico del licenziatario, l’obbligo di pagare il corrispettivo che può essere fissato in una somma a forfait o con pagamenti periodici (royalties), il cui ammontare è normalmente calcolato come percentuale sui guadagni realizzati nell’attuazione dell’invenzione brevettata. La durata della licenza solitamente è fissata dalle parti ed in genere coincide con al durata del brevetto.

Ai contratti volontari, appena esaminati, si affiancano anche alcune ipotesi di licenze obbligatorie, attraverso le quali si impone al titolare del brevetto il rilascio delle licenze a soggetti terzi. La licenza obbligatoria è quindi considerata come uno strumento di repressione dei possibili abusi da parte del titolare del brevetto.

Il legislatore italiano ha previsto alcune specifiche ipotesi:

- Per mancanza o insufficiente attuazione dell’invenzione. L’art. 70 C.p.i. legittima il rilascio della licenza obbligatoria qualora, per cause dipendenti dalla volontà del titolare del brevetto, manchi o risulti insufficiente ai bisogni del Paese l’attuazione dello stesso per oltre un triennio (onere dell’attuazione dell’invenzione). L’art. 70, 3° comma C.p.i. prevede la possibilità che la mancata attuazione sia dovuta a cause indipendenti dalla volontà del titolare del brevetto.

- Per le invenzioni indipendenti. L’art. 71 C.p.i. prevede l’ipotesi di licenza obbligatoria quando il titolare del brevetto rifiuti di dare licenza a chi voglia ottenere una invenzione dipendente. Il diritto ad ottenere la licenza obbligatoria sussiste solo quando la seconda invenzione costituisce un importante progresso tecnico di notevole rilevanza economica rispetto alla precedente.

- Il legislatore ha inoltre previsto una generale possibilità di espropriazione del

brevetto “nell’interesse della difesa militare del Paese o per altre ragioni di pubblica

utilità”(artt. 141 – 143 C.p.i.).

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