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-Katarzyna e Michał Weintraub, traduzione del colloquio svoltosi in polacco a Berlino

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Academic year: 2021

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Interviste

-Seweryn Blumsztajn, traduzione del colloquio svoltosi in polacco a Varsavia -Lucyna Gebert, trascrizione del colloquio svoltosi in italiano a Roma.

-Kinga Kozak, traduzione del colloquio svoltosi in polacco a Cracovia -Marta Petrusewicz, trascrizione del colloquio svoltosi in italiano a Berlino -Barbara Toruńczyk, traduzione del colloquio svoltosi in polacco a Varsavia

-Katarzyna e Michał Weintraub, traduzione del colloquio svoltosi in polacco a Berlino

-Jacek Kuroń e Adam Michnik, trascrizione delle interviste tratte dal documentario

„Quel marzo polacco“ di Włodek Goldkorn e Rudi Assuntino

-Nelly Norton e Irena Grudzińska Gross, interviste tratte dal mensile „Una città“

Seweryn Blumsztajn, Varsavia

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(l’intervista si è svolta in polacco, quella che segue ne è la traduzione)

C’erano diversi gruppi di persone che provenivano da luoghi diversi. C’era quello tra i quali ero io, tra gli iniziatori dei fatti del marzo, dove c’erano persone che venivano dai Walterowcy. I Walterowcy erano il movimento degli scout inventato da Jacek Kuron. Un movimento molto di sinistra, comunista direi, ma anche molto non conformista, nel senso che Jacek Kuron parlando con noi pian piano ci schiariva la strada che dal comunismo ci avrebbe portato direttamente dell’opposizione. Questo avvenne dopo la sua “Lettera Aperta”

e dopo la sua rivolta contro il comunismo. Il secondo gruppo erano quelli che venivano dal gruppo di Michnik, dove discutevano varie cose. Anche Adam comunque era nei Walterowcy. Era la gioventù dei “cospiratori” dei licei del centro. In generale eravamo ragazzini che provenivamo da un’intelligencja comunista, che era vicina al regime e che in generale usufruiva, per questa vicinanza, di un accesso privilegiato alle informazioni, ai libri, alle edizioni di Kultura di Parigi. C’erano anche persone che provenivano da tutt’altro ambiente, certo. Per esempio Teresa Bogucka veniva da un ambiente cattolico, aveva fatto le scuole cattoliche, era un’intelligencja artistica quella, piuttosto vicina all’ambiente dell’Accademia.

-dove studiava lei all’università?

A Economia Politica

-perché scelse questa facoltà?

Perché Economia Politica? Perché quando andai all’università mi ritenevo marxista, e ad Economia Politica il marxismo era la disciplina che spiegava il mondo; per questo andai ad economia. Anche se in realtà a me soprattutto interessavano le scienze sociali più che l’economia, poi per tutta la vita sono scappato dall’economia. Tra le persone del ‘68 ce n’erano molte a sociologia, a storia… ma anche a economia ce n’erano tante.

-che cosa le sarebbe piaciuto diventare?

Vede, è forse molto difficile da capire, ma io credo che la maggior parte di noi vivesse senza farsi questa domanda. Vivevamo in un sistema come se nessuno di noi non pianificasse il proprio futuro, così allora si viveva. Io credevo che sarei automaticamente diventato un insegnante. Qualsiasi mestiere non scientifico, il lavoro in fabbrica, nel commercio… era lontano da noi, era difficile immaginarsi qualcosa del genere, difficile pensare a cosa avremmo fatto nella vita, a un lavoro normale. Non c’era assolutamente il pensiero che stavamo costruendo la nostra carriera, che pensavamo alla nostra carriera.

Può essere che qualcuno avesse le idee più chiare su questo argomento… io no. Io

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assolutamente non ci pensavo. Abbastanza velocemente però, insieme a ciò che succedeva all’università, fu evidente che non avevamo la possibilità di intraprendere una carriera scientifica, anche prima di finire in prigione nel marzo. E ce ne facemmo una ragione. Io personalmente pensavo di diventare un insegnante, pensavo che avrei lavorato coi bambini, così come mi aveva insegnato Jacek. Là nei Walterowcy ero istruttore, mi piaceva molto.

Durante gli studi ero anche stato a qualche colonia, avevo guidato dei gruppi.

-in Polonia?

Sì, certo, in Polonia. Non ero mai stato all’estero, non mi davano il passaporto. Quindi io mi vedevo come insegnante, e questo non aveva niente a che fare con i miei studi. Ma credevo di essere in grado di farlo, pensavo di essere portato per questo e mi piaceva farlo.

-ricorda il periodo dell’organizzazione della manifestazione?

Che cosa le posso dire… vede, ci sono nella storia delle situazioni nelle quali la gente si mette a organizzare qualcosa con la fiducia che cominciando la rivolta tutto il mondo scoppierà, noi da lì cominciammo. Noi facemmo quella manifestazione. Però la maggioranza di noi era forte della certezza che noi non volevamo quella manifestazione. Uscimmo, come dire, dall’armadio. Sapevamo che quella manifestazione era la nostra ultima parola, sapevamo di non avere altro, era chiaro che quella sarebbe stata la nostra fine, che ci avrebbero buttato fuori dall’università etc, ma che altresì non potevamo permettere che buttassero fuori due compagni senza reagire. Non avevamo altro mezzo che non quella manifestazione. In quella realtà non potevamo pensare niente di così radicale come una manifestazione. Ma assolutamente non credevamo che quella rivolta sarebbe scoppiata in tutta la Polonia; questo era inimmaginabile, completamente.

-completamente? Non ve lo immaginavate?

Completamente. Non pensavamo secondo queste categorie. Assolutamente. Se qualcuno le dice che contava su questo, secondo me mente. Nessuno di noi ci contava. Noi non avevamo alcuna idea di che cosa sarebbe successo dopo. Mi ricordo che nel febbraio o marzo del 1969, ci trasferirono di prigione dalla Rakowicka alla Prigione Karny, io allora ero con Jacek Kuron, potevamo un po’ parlare, tra le grate, in vari modi… entrambi avevamo questa sensazione, non so se ha presente il film “Zorba il greco”, ecco, secondo noi era successo qualcosa che era una catastrofe eccezionale. In questo modo pensavamo. Non credevamo che ci fosse stato qualcosa di consapevolmente proclamato che si era poi sparso e diffuso per tutta la Polonia, no. Vede, nei sistemi totalitari, forse qualcuno lo ha detto o lo ha scritto, le manifestazioni sono inimmaginabili finché non si vedono sulle strade.

Non ci sono tutti quei segnali, quegi indicatori che ci sono in un sistema democratico, non

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c’è una stampa libera, non c’è nulla. Noi quindi allora proprio non ci aspettavamo un cambiamento del genere. Noi semplicemente percorremmo quella strada che ci indicava il partito, con le repressioni etc, comunque sapendo che ci dovevamo impegnare… Fatto dopo fatto però, momento dopo momento, senza alcuna visione d’insieme.

-e con la polizia prima del marzo che rapporto avevate?

Ci seguivano, ci stavano dietro, ci pedinavano spesso. Io sono stato in prigione nel 1965. Così Adam. Nel 1968 non è stata la mia prima volta, la prima volta è stata nel ’65, dopo la prima questione di Kuron e Modzelewski, per tre settimane.

-che esperienza fu? Dopotutto eravate molto giovani.

Vede, son cose che succedono, in galera ci si capita. Eravamo sicuri che ci avrebbero arrestati a marzo, era chiaro. Ma come sarebbe finito, se in galera, se altrove… in ogni modo però devo dire che io personalmente non avevo alcuna visione di cosa sarebbe successo, era una cosa che dovevamo fare e punto.

-e i genitori?

Provarono a protestare, ad opporsi, a mettersi nel mezzo. Non eravamo né i primi né i soli giovani al mondo a fare una rivoluzione contro i propri genitori dopotutto. Ci furono alcuni che fecero cose particolari. Per esempio il padre di Irena Grudzinska provò a chiuderla in casa per non farla partecipare, i miei genitori non lo fecero. Ci furono delle reazioni simili.

Certo, i nostri genitori avevano paura. Poi alla fine si schierarono dalla nostra parte. Vede, ciò che veramente fu inimmaginabile, e mica sulla scala delle repressioni contro di noi, incredibile fu quella campagna di propaganda, quella fu eccezionale, la campagna antisemita.

-quella fu dopo il marzo

Cominciò prima, sì, cominciò prima del marzo, ma scoppiò poi con violenza con il marzo. Quella fu incredibile, perché nella storia dei regimi comunisti non c’era mai stato niente del genere, mai una campagna così antisemita. Ci furono delle questioni sì, ci fu la Cecoslovacchia con la questione di Slańsky, c’era stata la questione dei medici di Stalin, ma mai una campagna antisemita così ampia e potente. Tutti gli ideologhi che avevano formulato l’internazionalismo… quell’internazionalismo per il quale proprio gli ebrei si erano uniti perché non ci sarebbe stato luogo per l’antisemitismo, perché era vietato. Tutta quella sfera della propaganda del marzo fu in qualche modo incredibile.

-in che senso? Da parte della società o del governo?

Io non le dico quanto quella campagna fu accettata dalla società, questo non glielo

dico. Io stavo in prigione e non le so dire. Le posso solo dire che c’era un solo ambiente che

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era, in maniera compatta, contro questa campagna, era l’ambiente universitario, degli studenti e dei professori. Là la campagna era condannata. Tutto il resto della società erano persone che andavano alle manifestazioni, prendevano parte a quelle manifestazioni e poi andavano via. Le reazioni intorno erano varie. L’antisemitismo in Polonia ha una tradizione centenaria, di tipo cristiano, e in Polonia è sempre stato molto forte. Possiamo dire che una parte della società sotto sotto lo accettava. Ma in quale scala, come… non glielo posso dire.

Erano situazioni molto diverse. In generale le persone trovarono un qualche appoggio negli ambienti a sé più vicini, ma è vero anche che si sentirono soli. La scala di quella campagna era, in senso pubblico, terribile, infida. La lingua poi… è rimasto fino ad oggi, non c’è mai più stato niente di simile, niente di paragonabile. Niente mai, nella vita politica, dai tempi dello stalinismo, niente mai si è ripetuto di così abbruttente come allora.

-come le arrivavano le notizie in carcere?

Là c’era un assoluto isolamento. Nemmeno i giornali ci davano. Nulla. Ci bloccarono i quotidiani per un po’, poi ce li ridettero. Era tutto confinato.

-fino a quando è rimasto in prigione?

Siamo usciti tutti, tranne Jacek e Karol, con l’amnistia dell’anno dopo. Io sono uscito all’inizio di agosto, Adam un mese dopo…

-e com’era allora il mondo? Dopo quell’isolamento

Il mondo… quando si esce di galera il mondo è sempre bello.

-però le persone cominciavano proprio allora ad emigrare

Le persone, le persone… io parlo solo di un certo ambiente che conosco. Era come se dopo il marzo l’enorme ambiente intellettuale polacco fosse stato spezzato, disintegrato.

Quello fu un attacco molto forte. Vede, per esempio, nel 1970, dopo i fatti di dicembre, Jan Józef Lipski provò ad organizzare una lettera di solidarietà degli intellettuali, quelli che erano le autorità morali, con gli operai, ecco allora quelli che di solito firmavano, che non avevano paura, come Słonimski o la Ossowska, non firmarono allora… Poi la svolta dello sciopero, quella sconfitta fu terribile, enorme.

Io tornai ai miei amici, avevo degli amici, avevo il mio ambiente, naturalmente la

situazione era abbastanza strana. I miei genitori erano emigrati, mi avevano aspettato, poi io

decisi che non volevo andare, loro partirono e io rimasi solo. Dopo alcuni amici partirono, ma

l’ambiente era rimasto, non si erano interrotti i contatti, facemmo nuove amicizie. Parlavamo

del carcere, alcuni si erano comportati meglio in carcere, alcuni peggio. Questo per dire che

io non avevo alcun sentimento di solitudine. Se si tratta di prospettive le prospettive erano

quello che erano. Io non avevo alcuna possibilità. Non potevo tornare all’università.

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Cominciai a lavorare in qualche cooperativa di lavoro. Adam e Janek Lityński andarono a lavorare in fabbrica, era una cosa assai dimostrativa. Un anno più tardi più o meno, nel settembre del ’70 presentai le carte al KUL, all’università cattolica di Lublino, come Barbara Toruńczyk, e mi presero, mi misero al secondo anno e cominciai a studiare là, ci rimasi quattro anni e mi laureai. Dopo i fatti di dicembre, quando arrivò Gierek ci fu resa la possibilità a tutti di finire gli studi

-ma non a Varsavia

No, non a Varsavia. Adam studiava al serale di Poznań. Io finii quegli studi, mi laureai, ma non c’era modo di lavorare. Ero stato in galera, ero ebreo ed ero laureato al KUL. I laureati al KUL non avevano speranza di trovar lavoro. Alla fine trovai lavoro per conoscenza, mi assunse un certo signore, un certo direttor Desa, che si occupava di commercio di opere d’arte e lavorai là un anno. Per un anno non avevo lavoro, poi lavorai là un anno e poi cominciò il KOR e mi buttarono fuori per una qualche lettera che scrissi. In tutta sincerità devo dire che la mia carriera professionale è cominciata nel 1989, prima di allora ho fatto varie cose; pubblicavo la rivista del Kor, lavorai nell’agenzia di Solidarność per un anno e quello era un lavoro normale, ma la carriera professionale solo nell’89.

-perché non ha voluto emigrare?

Perché nel ’68 non ho voluto emigrare… Vede, la situazione era un po’ questa, prima cosa non sarebbe stato Gomulka a decidere per me se ero ebreo o polacco, seconda cosa tutta la mia vita, tutto il mio destino era legato alla Polonia, in prigione mi ero impegnato non come ebreo ma come polacco. Qui avevo gli amici, qui c’era la mia biografia, non avevo motivi per emigrare. Gli amici erano qua e là… e poi tutto sommato si arrivò presto al dicembre. Il primo passaporto lo ottenni nel 1981, per la prima volta nella vita, ma… si può sopravvivere senza andare all’estero.

Vede noi, in particolare dopo il marzo ma anche prima, eravamo al margine della società, perché l’opposizione sta al margine della società in questo sistema. Non hanno cosa toglierti, non possono toglierti il passaporto perché non te lo danno, non possono toglierti il lavoro perché hai un lavoro tale che se anche ti licenziano non è un problema, capito? Non hanno cosa toglierti. Questo rende forte l’opposizione anche se la colloca in un certo senso al margine della società.

Molti di quelli che emigrarono si trovarono a vivere le rivolte in occidente.

-decidere di rimanere era una decisione molto dura?

No, è un’esagerazione. Si poteva sopportare se intorno a te avevi gli amici e il tuo

ambiente, allora si poteva vivere. La forza di quei legami era enorme e ti dava la forza per

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sopravvivere, non mi sento di fare alcun martirologio, io me la sono sempre passata bene.

Non mi spaventava la prospettiva di non fare carriera. Carriera, carriera, anche nei paesi comunisti c’era la possibilità di fare carriera, ci sono diversi tipi di carriera, quella scientifica, quella politica, si poteva diventare direttore, diverse cose si potevano fare…

-i walterowcy non c’erano più

No, erano stati sciolti dal partito nel ’62; io ero ancora al liceo.

-e non provaste ad organizzare qualcosa di simile?

No. Ossia avevo contatti con quelle persone, ma gli scout non c’erano più.

-non provaste ad organizzare delle nuove associazioni per i bambini?

Ma, c’erano diversi campi per i bambini, ci andavo. C’erano diverse situazioni per i bambini dei cortili. Ero abbastanza coinvolto allora, mi occupavo dei bambini, anche se poi ne uscii. Allora volevo diventare un insegnante e quindi lo facevo per questo, ma non c’era nulla di ufficiale.

-lei pensa che il marzo sia stato un qualche simbolo politico nella storia polacca?

Senza dubbio si può ammettere, secondo molte e molte relazioni, che l’intera generazione di quei giovani che erano allora all’università, loro si definiscono la generazione del ’68, furono come contagiati dalla politica nel senso che si misero a fare politica.

Ricevettero i manganelli sulla testa e capirono diverse cose. Cominciarono a occuparsi del sistema. Certo si poteva vivere in Polonia anche senza fare politica. Di certo è vero però che fu quella generazione del marzo a fare il KOR, non solo nel senso che erano membri del KOR, ma erano le persone che ci aiutavano. L’intero ambiente dell’opposizione democratica nella maggior parte era costituito dalla generazione del marzo, erano quelli che durante il marzo erano all’università, che ricordavano i fatti del marzo, che si erano distinti nel marzo.

Quindi in questo senso il marzo ha lasciato delle tracce molto importanti. Ogni rivolta in Polonia muoveva le persone alla lotta. Il marzo secondo me è stato un passo importante per l’educazione dell’intelligencja, un-educazione anti-sistema e questo credo che sia stato molto importante.

-e la relazione con la generazione del ’56?

Noi eravamo bambini nel ’56. Quello per noi era il periodo al quale ci rifacevamo esprimendo certi ideali. Non è un caso che organizzammo quell’incontro

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per l’anniversario dei dieci anni dal ’56. Quando studiavamo leggevamo la stampa dell’ottobre. I nostri educatori erano le persone che dopo il ’56 erano diventati professori, tutto il gruppo dei

1 B. si riferisce qui all’incontro organizzato dagli studenti al dipartimento di storia nell’ottobre 1966, dove Kołakowski e Pomian pronunciarono il discorso che costò loro l‘espulsione dal partito.

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nostri maestri, Kołakowski, Bauman, Szacki, Pomian erano persone che proprio dopo l’ottobre avevano ottenuto le cattedre. La nostra università era stata creata dopo l’ottobre, ossia noi all’epoca studiavamo in una “università post-ottobre”, nata su quell’onda di libertà, di disgelo.

-il ’68 è il primo passo di una nuova strada? C’è una cesura con il passato?

Difficile, lei adesso vede questo processo dalla fine, noi allora non lo trattavamo così.

-con il ’68 però ha fine la “lettera” come metodo di reazione con il governo.

No, non è vero. Noi abbiamo continuato a scrivere lettere. Nel 1975 ci fu tutta la questione della costituzione e si scrissero un sacco di lettere. Quindi no. Certo il KOR fu una formula nuova.

Io posso dirle questo, quella nostra rivolta del marzo di certo nasceva dal fatto prima di tutto che da tutte le parti in occidente, in quel 1968, la gioventù manifestava, qui c’è un qualche elemento di universalità, ovvio che il marzo polacco sia diverso dal maggio francese, ma allo stesso tempo qualcosa ci lega, fu una insurrezione di persone nate nei primi anni del dopoguerra, io e Adam siamo del 1946. Erano persone che non ricordavano la guerra, che erano nate dopo la guerra. Il secondo fatto è che da una parte in quella rivolta per insorgere bisognava avere una identificazione con la realtà, ossia quella era la nostra Polonia del post-ottobre, era la nostra Polonia, c’erano un sacco di cose che non ci piacevano ma sostanzialmente la sentivamo come “nostra Polonia”, dall’altra per ribellarsi, oltre al livello dell’identificazione con la realtà, al fatto che bisognava riconoscercisi, bisognava anche avere un certo senso della sicurezza, noi non ricordavamo lo stalinismo, quindi non sentivamo quel pericolo che la gente aveva durante lo stalinismo. Tutto il resto, ossia la libertà, la fine della censura, la democrazia, erano cose naturali. L’inteligencja nei sistemi totalitari ha sempre queste idee, no? Questo è il marzo.

-e oggi?

Oggi sono un uomo anziano. C’è stato il KOR, Solidarnosc. Oggi noi ce ne andiamo, noi della generazione del ’68 consegnamo il testimone. A chi… be’ questa è un’altra questione.

Oggi, per esempio, questa Polonia non mi piace particolarmente.

Lucyna Gebert, Roma

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(l’intervista si è svolta in italiano, quella che segue ne è la trascrizione)

-ci sono state tensioni nella programmazione delle cose da fare?

Non credo, perché le cose da fare erano talmente elementari, c’erano da liberare i compagni, erano slogan, non c’era un’azione programmmatica di presa di potere o cos’altro, era solamente un’azione di resistenza, quindi è difficile parlare di azioni diverse, era semplicemente un movimento non strutturato che si è trovato suo malgrado ad essere un movimento strumentalizzato per delle cose più grandi di loro.

L‘ 8 marzo c’è stato un volantinaggio, qualche giorno prima, dove si diceva venite all’università chiediamo che vengano riammessi i nostri compagni buttati fuori, quindi o uno andava o non andava.

Io pensavo che saremmo stati una cinquantina e invece c’era molto più gente ma non so dire quanta. C’era molta più gente di quanto pensassi. E poi sono arrivati i poliziotti in borghese portati dai pullman.

-non lo avevate immaginato?

Forse qualcuno lo pensava, io non lo pensavo. Io pensavo che all’università eravamo tra di noi. Non uscivamo per strada, eravamo dentro il cortile dell’università.

-perché i cartelli “Wycieczka

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”?

Per dissimulare in questa maniera così grossolana l’evidenza. Forse per non suscitare allarmismi quando passavano per la strada. Dovevano sembrare dei pullman che, apparentemente, portavano gli operai in gita. Erano tutti vestiti uguali, ma questo si è visto dopo, quando sono scesi.

-e i giorni successivi, la lettura dei giornali? Confrontarsi con la realtà di come ufficialmente si ricostruivano i fatti?

Io mi sono ammalata. La sera dello stesso giorno avevo la febbre alta, mi sono scoppiate delle pustole in faccia, una cosa mostruosa. Finché c’è stato il discorso di Gomulka. Ero ancora a letto perché lo sentivo alla radio. È ovvio che siamo stati stravolti da quello che è successo perché nessuno se lo aspettava.

-c’era paura?

Io non avevo paura. Non credo si possa parlare di paura, la paura forse ce l’avevano i genitori. Era l’incredulità di fronte a quello che succedeva, perché era talmente inaudito quello che stavano dicendo e facendo che non ci si poteva credere.

2 Gli autobus avevano ben esposto sul cruscotto il cartello “Wycieczka”, ossia “Gita”.

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-quale reazione vi immaginavate dal governo?

Io non ricordo assolutamente di immaginare cosa poteva succedere. Quello che all’epoca io personalmente provavo era che i miei compagni erano stati cacciati dall’università ingiustamente e dovevano essere riammessi. Non è che si pensava ad una specie di terremoto, come è successo, almeno non io, e non credo neanche gli altri. Forse gli altri hanno cominciato a pensarci quando si sono trovati in galera, io ho avuto la fortuna di non andarci. Anche il fatto di mandare in galera delle persone era totalmente arbitrario, sono finiti in galera persone che non c’entravano nulla.

-ma questo era per creare una situazione di paura.

È passato qualche giorno prima di capire che cosa stava succedendo. Io non ricordo una sensazione di paura, ricordo la sensazione di sgomento. La fine del mondo. Non

“oddio adesso vengono a prendermi”. In realtà questa atmosfera era già un pochino esistente dopo la Guerra dei Sei Giorni, quando hanno cominciato a buttar fuori le persone dal lavoro, e quindo molta gente ha pensato di partire, di usufruire della possibiltà che prima non avevano, perché non si poteva decidere di emigrare e lo accordavano, solo dopo la guerra dei sei giorni hanno creato la possibilità di chiedere agli ebrei il foglio di via.

Per cui questa atmosfera di fine del mondo era preparata un pochino prima. Poi è successo questo e questo ha decuplicato tutte le partenze. Molta gente ha deciso di partire, molte famiglie che avevano i figli in galera volevano partire ma non volevano lasciarli. Per un paio di anni non si è parlato di altro, in realtà, chi parte chi non parte, quali sono le complicazioni collegate con, chi è d’accordo in famiglia chi non è d’accordo.

-come arrivavano le notizie di chi già era emigrato?

Si passavano le notizie tramite le persone. Io dal ‘69 mi sono trovata a Roma e potevo andare e tornare. Sono venuta a Roma perché mi ero sposata con un ragazzo italiano, quindi portavo moltissime notizie, lettere. Queste persone come me che potevano viaggiare erano preziose perché rendevano possibile la comunicazione.

-lei aveva il passaporto polacco?

Sì. La legge era molto semplice, una donna straniera che sposava un italiano riceveva automaticamente il passaporto italiano. Me lo hanno rilasciato a Roma. Sono partita con il passaporto polacco e poi qui ho fatto le pratiche, ma poca roba, un mese forse.

-è partita con il passaporto polacco però già come cittadina italiana?

No. per i polacchi io non ero cittadina italiana.

-come han fatto a farla uscire

Perché ero sposata con un italiano. C’era il documento di matrimonio.

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-com’è stato sentire Gomulka?

Ero a casa, a letto. È stato veramente incredibile. L’ho sentito alla radio, forse c’era mia madre, o forse ero sola, non mi ricordo. Ricordo solo che è stata una cosa allucinante

-che cosa ha pensato?

Che eravamo in uno stato nazista. Tutto quel periodo per me è stato il crollo di un mondo, per me, per tutti, ma per me senz’altro e tutti questi fatti erano dei tasselli che contribuivano a questo. Ma il crollo di un mondo non solo perché c’era questa nuova atmosfera del paese, non solo perché i miei amici erano in galera, ma anche per il fatto della gente che partiva, che spariva. Tutto l’insieme creava la sensazione della fine del mondo.

-di quale mondo?

Del mondo nel quale avevamo vissuto prima. Ben protetti, privilegiati, con certe sicurezze.

-che tipo di sicurezze?

Che uno va a scuola, poi all’università e poi trova lavoro. Certo non ci piacevano certe cose. Ma in molti casi erano a livello di gioco, ci incontravamo nel club di Adam Michnik a discutere di come migliorare questo socialismo. Era tutto dentro certi limiti. Anche il fatto che potessimo parlare, noi, ragazzi del liceo che parlavamo di questi argomenti così interessanti, cosÌ importanti e audaci. Questo era possibile perché noi eravamo figli di alcune persone che avevano accesso all’informazione, per cui noi avevamo delle informazioni che magari altri compagni di altre scuole meno centrali non ce le avevano. Era tutto un equilibrio particolare. Certamente avevamo dei privilegi, molti di noi andavano in occidente in vacanza, per un motivo o per un altro. Per cui incontravano l’informazione.

-questa realtà è paragonabile alla vita di una buona borghesia di una capitale?

Sì, il paradigma è quello. Per andare all’estero o si avevano dei familiari che potevano invitarti, e comunque tu dovevi avere anche la possibilità di una raccomandazione per il passaporto che non era facile. Molti ebrei avevano dei familiari all’estero. C’era anche il problema dei soldi, di come avere dei soldi là. Nessuno aveva soldi stranieri, neanche le persone più privilegiate, perché la moneta non era intercambiabile. Bisognava avere o degli amici dei genitori o dei parenti disposti ad accoglierti dalla Polonia. Perché all’epoca si partiva con 5 dollari, che erano più di oggi, ma non granché.

-lei è stata all’estero prima del marzo?

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Sì, ma io avevo una situazione ancora più privilegiata. I miei genitori lavoravano in Turchia, per cui io ho fatto un anno di scuola in Turchia e il primo anno dell’università l’ho fatto in Turchia, quindi quando andavo poi mi facevo un giro. Mio padre guadagnava in moneta occidentale, quindi mi poteva dare dei soldi. Mio padre è stato ambasciatore polacco ad Ankara, per sette anni. Tramite quella strada lì sono potuta andare in Francia, in Italia, In Inghilterra… Ho potuto viaggiare grazie a questo. Era tutto molto complicato, perché anche se tu avevi il padre ministro non era detto che tu potessi passare, che so, un mese in Francia se non avevi dei familiari o degli amici disposti ad accoglierti. Non c’era nessuna possibilità proprio. Per cui questo gruppo di ragazzi un po’ snob, privilegiati, che avevano accesso a tante cose rispetto agli altri che non ce l’avevano, si sono permessi questa contestazione, che naturalmente si basava sul fatto che si aveva l’informazione meglio degli altri, e anche un certo senso di impunità.

-di impunità o di incoscienza?

Impunità. Io penso che vari miei compagni di scuola facevano delle cose pensando che comunque il papà ministro o viceministro li proteggeva quindi loro si potevano permettere delle cose che altri no. Quindi quando io ho visto che questa protezione non c’era più è stato uno shock. Essere totalmente alla sprovvista, in questo senso è stato il crollo di un mondo.

-quegli stessi genitori hanno perso il lavoro

Molti sì. Quindi c’erano tanti crolli di tante cose. Tutto insieme. Io per esempio sapevo pochissimo di quello che succedeva in Polonia. Alcune persone avevano rapporti con persone che studiavano altrove, io no. Io conoscevo soltanto persone che studiavano a Varsavia, ero molto limitata nei miei rapporti.

-lei è partita prima o dopo l’amnistia del ’69?

Io sono partita a febbraio mi sembra, ma poi sono tornata per l’estate. Per i primi tre quattro anni andavo due tre volte l’anno. I miei genitori sono rimasti lì, mia madre è venuta a trovarmi a Roma.

-qual’era l’esperienza di trovarsi in un altro paese?

Quando sono arrivata qua c’erano tutti i miei amici perché aspettavano il visto a Roma.

Bisognava arrivare a Vienna e sottrarsi alle autorità israeliane che prelevavano dai treni…

anche me hanno prelevato, cioè prelevavano il bagaglio per cui uno era costretto a seguirli,

quindi prima di spiegare che io non c’entravo etc… Quindi sono venuta qua e tutti quelli

che sono scappati agli israeliani a Vienna si sono affidati al Joint che li faceva partire per

altri luoghi, soprattutto in America e in Canada. A Roma c’era un’attesa di circa sei mesi

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per ottenere il visto. Quindi non è che mi sono resa conto molto per i primi tre anni di essere emigrata.

-e le relazioni con i coetanei romani?

Mio marito è romano, ma siccome anche lui ha studiato in Polonia era un pochino estraniato. A Roma c’era il ’68. C’era l’autunno caldo. Io sono entrata nel giro di mio marito, ho conosciuto i vari ragazzi della contestazione studentesca. Ho conosciuto un po’

di gente di quell’ambiente che poi hanno chiamato la sinistra extraparlamentare e con loro abbiamo subito cominciato a diffondere la lettera di Kuroń che poi hanno pubblicato Samonà e Savelli. Quindi sì, si facevano delle cose.

-com’era il confronto con la contestazione italiana?

Noi eravamo abbastanza stupiti, insomma non condividevamo tutto questo amore per la Cina che era molto presente. Questo a noi disturbava molto, condividevamo abbastanza l’amore per Cuba. Si cercava di spiegare quello che succedeva là. Ma era poca la gente che era interessata e che riusciva a capire. Perché era uno schema completamente fuori dagli schemi, che qui erano bianchi o neri. Era tutto un tale fermento, quando tutte queste cose succedevano intorno a noi eravamo abbastanza confuse. Non è che avevamo delle idee molto chiare, sapevamo questo ci piace questo non ci piace, ma succedevano talmente tante cose… Le bombe di Piazza Fontana sono del ’69 quindi la violenza era dappertutto.

Io mi sono resa conto dopo tre o quattro anni, quando sono partiti tutti, che ero emigrata, perché io prima andavo e tornavo dalla Polonia quando volevo, loro stavano tutti qua, qualcuno partiva ma qualcun altro arrivava.

-avete mai provato a convincere chi rimaneva di venire via?

No. Io non ho mai ritenuto di influenzare le decisioni delle persone. Non conosco nessuno dei miei amici emigrati che abbia cercato di convincerli. C’era molto rispetto delle decisioni personali.

-il ’68 è la fine dell’esperienza delle lettere, del dialogo con il governo?

Sì. Penso che sia così. Quella fase è forse finita nel ’66, quando c’è stato l’anniversario del ’56 e l’espulsione di Kolakowski.

-ricorda la polemica sulla voce “sterminio” dell’Enciclopedia di PWN.

Era una delle cose che succedevano. Non ricordo di aver vissuto questa cosa peggio

di un’altra. Mio zio era uno di questi cosiddetti enciclopedisti che si è trovato senza lavoro,

quindi la cosa mi è dispiaciuta enormemente. Io era anche molto ignorante, non mi

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rendevo conto della gravità della cosa. Noi eravamo il frutto dell’indottrinamento, per cui non mi era neanche mai venuto in mente che ci fosse qualcosa che non andava nella descrizione ufficiale del campi di sterminio. In quella occasione ho scoperto che c’era qualcosa, è stata un’occasione per imparare qualcosa, non mi ricordo di esser rimasta particolarmente scossa perché io facevo parte di quella forma mentis.

-la fetta della società di intellettuali che scompaiono dal paese?

Sì, erano i nostri professori. Questo è stato pazzesco perché poi hanno messo questi nuovi che venivano chiamati hunbeibìn, che erano quelli della rivoluzione culturale cinese,

“i docenti di marzo”. E anche il corpo docente dell’università diventava molto modesto. Era molto umiliante. Comunque diciamo che queste persone che partivano non sparivano dalla vita intellettuale perché partivano per parlare non per tacere, quindi si leggevano, si ascoltavano, loro pubblicavano, esistevano come voci.

-c’era chi invece non ne voleva più parlare?

Tante persone erano così. Molta gente ha avuto queste reazioni, ne ho conosciuti tanti.

Soprattutto quelli che hanno vissuto la guerra. Adesso che ci sono state tante rivelazioni posso capire meglio questa vecchia generazione come hanno potuto recepire quello che stava succedendo, all’epoca io non sapevo nulla dei pogrom dopo la guerra. Negli anni ‘80 mi sembra si sia cominciato a parlarne, quando si è cominciato a parlarne in maniera ufficiale.

-la campagna antisemita interessa e tocca tutti.

Certo quelli che sono la valanga degli immigrati, per esempio Irena (Grudzińska) lavorava come interprete al Joint e faceva tutte le interviste. Noi non conoscevamo degli ebrei modesti, non sapevamo che c’erano artigiani. Noi conoscevamo solo intellettuali…

Invece venivano in massa da città come Legnica, Wrocław. Calzolai… Quelli di cui si era letto prima della guerra, quelli degli shtetl che si erano salvati e che erano trasferiti in queste città riconquistate dai tedeschi e dopodiché venivano via. Erano persone modeste, c’era anche qualche contadino, per noi era interessante vedere chi era questa gente che partiva.

-quali erano i rapporti con chi vi osservava.

C’erano commenti maliziosi, c’erano commenti di solidarietà, c’era di tutto. La maggior

parte di loro ricorda la Polonia con tale odio, sono così ostili che a volte è anche difficile

sopportarli. Gente della mia età, non i genitori che magari sono stati braccati durante la

guerra. Sono emigrati in vari posti, parlano tutti polacco però sono pieni di rancore. Perché

si considerano delle vittime.

(15)

-c’erano dei libri, degli autori che in particolare amavate?

Si leggeva di tutto, perché appena usciva un libro in Polonia tutti si precipitavano a comprarlo e a leggerlo. Molti scrittori cechi, delle poesie… Diciamo che si leggeva la narrativa europea del XX secolo, tutto quello che veniva tradotto. Io studiavo letteratura francese quindi leggevo soprattutto letteratura francese, però poi tutti si passavano questi vari romanzi. All’epoca la situazione dei libri era tipo caviale, nel senso che se usciva la poesia cinese un determinato giorno si formava una fila davanti alla libreria per comprare la poesia cinese. Si leggeva tutto. Tutto quello che passava il convento.

-e autori polacchi?

Autori polacchi? Chi si leggeva all’epoca… non ricordo, a me non piacevano molto. Si leggeva Schulz, ma dopo. Hłasko prima. Si cercava di leggere quello che arrivava da

“Kultura” di Parigi, che erano molti libri di saggistica, ma anche di autori sconosciuti scritti sotto pseudonimo, che erano libri quasi di pettegolezzi su quello che succedeva in Polonia, ma erano pochissimi, non era facile, dopo che noi siamo partiti “Kultura” aveva molta più circolazione, all’epoca era difficile.

-quale futuro si immaginava, dove voleva vivere, dove lavorare

Pensavo di stare a Varsavia, volevo lavorare all’università. Ero un po’ confusa, diciamo.

A un certo punto si è delineata la possibilità, quando mi stavo laureando, andavo abbastanza bene e la mia professoressa, che era tra l’altro anche lei ebrea, mi aveva detto che le sarebbe piaciuto che io rimanessi all’università però purtroppo non mi poteva proporre per via delle leggi razziali non scritte, e anche questo probabilmente mi ha spinto a sposarmi con Giuliano perché non l’avrei fatto forse in altre circostanze. Per partire, in quelle circostanze.

-e gli altri?

Non lo so. Non si parlava del futuro, si parlava del presente. Si viveva molto alla giornata, non per incoscienza, ma semplicemente perché c’erano molte cose che succedevano. Sinceramente io all’epoca non sapevo cosa mi sarebbe successo dopo. Non avevo dei sogni o dei desideri profondi, o delle immagini che avrei voluto. Sicuramente mi sarebbe piaciuto, come a tanti altri, stare un anno all’estero, ma non era realistico quasi mai.

-qual è il rapporto di oggi con la Polonia, ci va spesso?

Sì, sì, ci vado spesso. È il mio paese. Lo seguo in tutto. Tutti ci siamo sempre occupati

della Polonia da quando siamo usciti. È forse questo che ha fregato le autorità, perché loro

pensavano che la gente si sarebbe tolta di mezzo e basta, invece proprio grazie al fatto che

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un gruppo di gente si è trovato fuori e ha potuto agire liberamente che si è riuscito. Ci occupavamo della Polonia, di tutto quello che succedeva. Se veniva incarcerato qualcuno si facevano delle azioni qua, si traducevano i testi. Poi è nato il Kor quindi abbiamo tradotto tutti i testi del Kor, abbiamo collaborato con Jacek Kuron che ha introdotto questa nuova maniera di agire alla luce del sole, per cui con il telefono da casa sua. Era una cosa automatica, tutti si adoperavano. Io non parlo di questa associazione di sessantottini che si incontrano tutti gli anni, loro non fanno parte di questo trend. Siamo un bel po’ di persone tra i vari paesi in occidente che hanno sempre seguito le vicende polacche. Avevamo rapporto con i sindacati. È venuto qualche volta Adam Michnik che ha voluto prendere contatto con diverse forze di sinistra, con i sindacati. Poi quando è arrivato l’81 la situazione è molto cambiata, perché è nata Solidarność come sindacato, quindi là i sindacati sono diventati l’interlocutore automatico per una serie di cose. Diciamo con una certa sinistra. Per esempio avevamo molti contatti con questo giornale “Reporter” che è durato qualche anno fino a metà anni ’80 e scriveva moltissimo sulla Polonia. Per esempio, Paolo Flores ha sempre pubblicato in tutte le varie sedi che aveva a disposizione le cose sulla Polonia. Ci siamo sempre occupati della Polonia quando c’era da occuparsene, quando bisognava fare qualcosa all’estero per dare pubblicità dei fatti.

-della campagna antisemita non si è parlato molto

Sì che se n’è parlato. Io sono andata anche al PCI a parlarne. Loro lo sapevano.

Diciamo che nelle franche conversazioni tra compagni hanno espresso le proprie idee, ma non ci sono state delle prese di posizioni ufficiali all’esterno perché appunto c’era sempre la questione della cortina di ferro, che non bisogna dire questo non bisogna dire quest’altro. Qualche pressione è stata fatta, ma non credo che sia servito a niente. Loro avevano la loro realpolitik. Naturalmente non condividevano questo tipo di approccio, però se loro dicevano qualche cosa contro il partito comunista di un paese dell’est crollava tutto. Per cui qualcosa hanno detto, qualcosa hanno scritto timidamente, però non è che ci siano stati grandi risultati. Diciamo che molti di noi che si sono trovati in occidente, che avevano un senso, come dire, civile, si sono sempre occupati della Polonia. Questo è un modello. L’altro modello è che tu rifiuti completamente e non ne vuoi più sentir parlare.

-e il dialogo con i genitori?

Ma, i genitori era una cosa complicata. Io parlo dei genitori tipo i miei o dei miei amici più vicini. Erano dei comunisti quindi erano stravolti anche loro a vedere dove erano arrivati. Molti avevano paura. Molti non erano d’accordo. Molti erano dei comunisti sinceri.

Hanno perso il lavoro e a quel punto o emigravano o crollavano, o cambiavano idea.

(17)

-si è poi ristabilito un rapporto parlando del marzo?

Mio padre era molto settario. Mio padre adottivo. Non era neanche ebreo ed era dalla parte del potere. Lui era ormai in pensione e quindi non poteva più perdere niente. Mia madre era molto addolorata, lei lavorava ma ormai aveva un lavoro di poca rilevanza, per cui non aveva nulla da temere. Diciamo che con mia madre eravamo d’accordo, non c’era differenza di vedute tra noi. Lei forse era più preoccupata di me perché aveva più esperienza. Lei era soprattutto preoccupatissima che molta gente partiva, lei non avrebbe mai preso la decisione di partire. Si sentiva anche un po’ colpevole di quello che succedeva, in quanto rappresentante di questo establishment. Responsabile nel senso che ha contribuito a costruire questa cosa.

Io nel ’56 invidiavo i miei compagni che partivano. Perché c’era qualcuno nella nostra classe che è partito, e all’epoca l’idea di viaggiare era impensabile. Queste mie amichette che partivano si fermavano per esempio a Parigi per una settimana, mandavano le lettere, le cartoline e anche le foto. E mi piaceva da morire questa cosa. Mi ricordo che mia madre mi fece una scenata una volta quando si accorse di questa mia invidia che invece non era ammisibile.

-comprendevano i motivi di questi che emigravano?

I miei genitori erano ferocemente contari a queste partenze. Anche dei miei parenti sono partiti, mia madre non ha mai approvato questo. Non che rincriminasse o che, poi si scrivevano… soltanto lei riteneva non ci fossero motivi per farlo.

Kinga Kozak, Cracovia

(La conversazione si è svolta in polacco, quella che segue ne è la traduzione)

(18)

Per chi aveva una casa felice e una famiglia felice penso che gli anni sessanta non fossero il periodo peggiore. Naturalmente sia io che la mia famiglia ritenevamo che la Polonia popolare non fosse ciò che sognavamo, non fosse ciò che speravamo. Durante i miei anni del liceo c’erano dei problemi abbastanza seri infatti. In classe mia, ad esempio, avevo tre compagni che volevano studiare teologia. Loro volevano iscriversi là, però avevamo un insegnante che era contrario -tra l’altro poi questo stesso professore da ateo anticlericale che era diventò un fanatico cattolico, ma queste son cose che capitano- ecco, il nome di Cristo all’epoca era popolare come un qualsiasi nome privato, eppure quei miei tre compagni non potevano dire apertamente che volevano iscriversi a teologia; quindi per loro quel periodo del liceo fu terribilmente difficile, dal punto di vista emotivo dico… Era una sorta di lotta, un giovane uomo che deve nascondere i propri desideri. Quando si doveva indicare il percorso di studi loro dicevano che sarebbero andati a filosofia, tutti e tre. Anche per noi era abbastanza difficile assistere a questo, fu per noi un’esperienza.

Invece io ricordo un professore fantastico, di latino e storia. Lui ci insegnava la storia vera, era un uomo particolarmente intelligente, saggio, aperto, non aveva paura, sono sicura che c’erano diverse cose che avrebbe preferito tacerci e invece non lo faceva, ci insegnava la storia reale. Forse per questo scelsi di studiare polonistica, perché grazie a lui mi affascinavano le materie umanistiche.

-discussioni politiche c’erano?

In realtà all’epoca del liceo parlavamo difficilmente in prima persona. Non capitava di

usare formule tipo “io credo”, oppure “secondo me”… piuttosto invece leggevamo,

parlavamo tra di noi, ma erano altri tempi. Io ricordo quelle lezioni di storia che ci

affascinavano, stavamo ad ascoltarlo con un enorme rispetto, sapevamo che ci raccontava

cose che erano veramente successe e ricordo che noi ascoltavamo attenti e in silenzio, ci

fidavamo di lui. Questa era una relazione molto bella. Quei tre compagni poi, due di loro

entrarono a teologia, il terzo finì in un reparto dell’esercito dei più duri, dove gli fecero una

sorta di lavaggio del cervello orribile e quando finì quel periodo e uscì dall’esercito, allora i

suoi due amici erano già forse al secondo anno o al terzo di teologia, lui entrò a teologia

ma era talmente distrutto psicologicamente che non finì mai gli studi, più avanti suonava

l’organo in chiesa, divenne organista, adesso è un prete. Il secondo si laureò, adesso

purtroppo è morto e il terzo invece uscì prima della fine, rimase laico ed ha poi vissuto

normalmente da laico. Questo è forse un esempio importante di come all’epoca fosse

difficile scegliere liberamente la propria strada se questa usciva dai binari della normalità

accettata. Quel professore di storia sapeva di questa loro scelta, so che li seguiva anche,

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proponeva loro delle letture aggiuntive, ma infatti noi di lui ci fidavamo… Più tardi, quando ci fu il ’68 io ero al quarto anno di studi. Allora… mamma mia che agitazioni, discussioni, riunioni, praticamente tutto era in fiamme.

-e il 1966?

Ci fu il millennio, ci fu l’anniversario dei mille anni del battesimo della Polonia

3

. -e l’anniversario dei dieci anni del 1956?

Certo, ma il 1966 era anche il millennio dal battesimo, quindi la nascita del nostro paese. Erano tempi molto difficili. Il ritratto della Santa Vergine fu chiuso, fu “arrestato”…

c’era una cornice vuota che girava per la Polonia. Quello unì profondamente i polacchi. Fu una situazione incredibile. Loro volevano fare del male ai fedeli e invece credo che lo fecero a se stessi. Le persone si unirono in maniera fortissima. Non c’è niente che unisca di più le persone come le situazioni difficili e queste esperienze. Allora la Polonia era veramente unita in maniera incredibile. Ognuno parla dell’ambiente che conosce, io non conosco assolutamente l’ambiente di partito perché i miei genitori non fecero mai parte del partito.

Neppure tra i nostri amici nessuno ne ha mai fatto parte, quindi io non ne ho alcuna esperienza. Io sono sempre stata dall’altra parte. Quelli erano però anni caldi, lo posso dire per certo. Furono anni caldi, di incontri, di discussione, anche di fede, di preghiera.

Discussioni anche organizzative, su cosa fare. Tutta la questione di Wyszynski

4

anche fu incredibile, i polacchi la vissero in prima persona, fu considerata una cosa terribile, tragica, dolorosa e anche questo ci unì profondamente. Molte cose forti ci legavano. Qualcosa però non ci legava… cosa è che non ci legava… be’, è molto chiaro, non ci teneva uniti una lotta comune. Ossia certi ambienti non erano legati tra di loro. Nel 1968 l’intelligencja, gli studenti, dissero basta dissero stop e rimasero soli. Ricordo molto bene un momento, allora tutta l’università era stata gassata, noi piangevamo terribilmente per quei gas, e insieme con un’amica scappammo verso un bar per bere un caffè, un tè, per uscire dal gas e bere qualcosa, andammo al “Cocktail bar” che c’è anche oggi, anche se forse si chiama

“Bajka”, sulla Karmelicka. Là, nella prima sala davanti al muro c’era un operaio, un operaio

3 Nel 966 ha inizio ufficialmente la storia della Polonia con la conversione al cristianesimo e il battesimo del conte Mieszko I, sovrano della dinastia dei Piast, che si insedia tra il fiume Oder e il fiume Bug e al quale si deve l’unificazione delle tribù polacche e di quelle vicine. Il cristianesimo che giunge in Polonia è legato alla chiesa d’Occidente e il destino della Polonia da questo momento in poi rimarrà legato a quello dell’Europa occidentale piuttosto che alla parte orientale. La data ha una rilevanza anche linguistica perché il polacco apparterrà al gruppo delle lingue slave occidentali adottando la grafia in caratteri latini.

4 Il cardinale Stefan Wyszynski (1901-1981) ebbe sempre forti problemi con le autorutà comuniste, in questo caso la prof. Kinga si riferisce al suo arresto tra il 1953 e il 1956. Nel 1965 ci fu uno scandalo quando non gli fu permesso di andare in Italia. Lui fu regista e ideatore del pellegrinaggio del millennio 1966.

(20)

di Huta

5

, della fabbrica “Lenin” perché allora si chiamava così, stava lì e aveva una mazza in mano, una mazza di quelle da baseball, era ubriaco e piangeva come un bambino, diceva che lo avevano obbligato ad andare là, che gli avevano dato quella mazza e gli avevano intimato di picchiare gli studenti.

-piangeva per il gas?

No, no, piangeva perché era infelice. Era arrabbiato. Gli sembrava terribile che qualcuno gli avesse ordinato di picchiare degli studenti… Era vero che quell’unione mancava e soltanto molto più avanti, ai tempi di Solidarnosc la vittoria si ebbe proprio perché gli operai e gli intelletuali si unirono. Finché gli ambienti rimanevano separati non si poteva vincere, ma così era. Gli operai ricevettero la vodka, le mazze e gli fu intimato di fare ordine, l’ordine che ci doveva essere in una giusta cittadina socialista come era Huta.

-come vi arrivavamo le informazioni da Varsavia?

Ma sa… le persone giravano, si muovevano, cosa non era in termini di contatti, di informazioni…

-lei abitava con i genitori?

Sì, con i genitori. Anche se all’epoca stavo spesso al Wojek, che era allora la casa dello studente femminile, spesso ci dormivo anche. Perché era quella la sede dove succedeva tutto, dove si cospirava, si decideva, si organizzava. Là c’erano le riunioni, là si parlava fino a tarda notte, succedeva tutto là. Arrivavano da altre università, da altre città, si discuteva con loro, ci raccontavano quello che succedeva da loro.

-invitavate anche professori, ricercatori?

No, tutto succedeva tra studenti. Ricordo un momento quando lo ZOMO entrò all’università, io ero su via Golebia 12 e gassarono… io ero al secondo piano e mi ricordo perfettamente, lo vedo ancora oggi come fosse un quadro, dalla finestra del secondo piano vedevo che quelli dello zomo circondavano gli studenti e li bastonavano, e lanciavano il gas. Lo vedo ancora oggi. Vidi un nostro amico, uno straniero, non era polacco, che si voltò verso di loro e gridò qualcosa, non lo disse in polacco ma nella sua lingua e fu come se li avesse paralizzati, si arrestarono come congelati e non sapevano più cosa fare, perché era chiaro che nemmeno loro volevano uno scandalo internazionale, no? Questa fu un immagine incredibile. Quel momento nel quale lui gridò qualcosa, loro si paralizzarono, fermarono le mani e lui scappò. Lo vedo ancora oggi, era un biondino, magro, alto, forse norvegese, sicuramente del nord-europa.

-la manifestazione partì dal museo nazionale…

(21)

Sì, esatto, partimmo davanti al Wojek. Ricordo che il rettore dell’università era all’epoca un mio professore, era anche il direttore di polonistica, fu il primo rettore di partito di tutta la storia dell’università perché fino ad allora non c’era mai stato un comunista, mai un membro del partito era stato rettore, posso dire che lui era un ideologo, lui ci credeva, era un uomo sincero. Da lui andò una delegazione, gli disse che cosa gli studenti stavano organizzando, dove avevano intenzione di incontrarsi, ed esattamente che cosa volevano fare, lui allora disse loro “Io sono con voi”. Questa fu una cosa molto importante, io credo che si debba sottolineare che un uomo con una tale posizione, un uomo che non lo aveva fatto per la carriera, perché lui non si era iscritto al partito per fare carriera, no, lui lo aveva fatto perché credeva che si potesse fare qualcosa di importante, un uomo del genere che dicesse che era con gli studenti, questa fu una cosa che ci colpì nell’anima. Quell’ “io sono con voi”, fu una frase importantissima.

-quale reazione vi aspettavate dalla polizia?

Non lo so. Io credo che loro non si immaginassero una tale quantità di studenti per le strade, credo che non se l’aspettassero e forse questa cosa li spaventò anche. Perché tutto era incredibile. E credo anche che all’epoca eravamo molto uniti, sì, eravamo decisamente molto uniti. Ed era molto chiaro chi era da quale parte.

-che cosa voleva fare lei nella vita?

Non ci pensavo. Assolutamente non mi ponevo il problema, e anche questo devo riconoscerlo come un pregio di quel mio professore. Io non mi ponevo per nulla il problema di dove sarei andata a lavorare e cosa avrei fatto, certo, sapevo che mi sarei laureata, che avrei finito polonistica, questo fin dal liceo, fin da quando presi la decisione di fare l’esame di ammissione ed entrai qui a polonistica. Molto velocemente scelsi la specializzazione, non scelsi né letteratura né altro, ma mi interessai subito di linguistica, mi affascinava la lingua, terribilmente. Scrissi la tesi con quel mio professore che era anche rettore della facoltà ed era il direttore del mio dipartimento, scrissi una tesi sui cognomi presenti nei libri antichi parrocchiali della chiesa di Wieliczka, ossia era un lavoro di antroponimia. Dopo aver discusso la tesi quel professore, il rettore, mi invitò nel suo studio e mi fece la domanda “Dove andrà a lavorare?” io gli risposi che non ne avevo idea, che non lo sapevo.

Era l’onomastico di mio padre, me lo ricordo ancora oggi, il 27 giugno discussi la mia tesi

di laurea. Lui sorrise e disse “molto bene, perché io lo so, la prego di compilare e

presentare queste carte perché lei lavorerà qui” e fu così che cominciai a lavorare

all’università, era il 1969. Semplicemente. È molto importante sapere questa cosa, che una

persona così importante, il rettore, un uomo di partito che sapeva perfettamente che io non

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avevo mai avuto niente in comune con quella sua visione del mondo comunque mi propose un lavoro, e questo non solo a me, ma anche ad altri ad esempio che insegnano in questo dipartimento. Questo significa che per lui non era tanto importante l’etichetta, la tessera… in quei tempi c’erano anche persone di questo tipo, che offrivano delle opportunità non soltanto per questioni di partito. A volte lui scherzava con noi e commentava questioni di partito dicendo che era “una massa nera”. Lui morì prima della nascita di Solidarnosc e un collega col quale lavoravo mi disse “Signora Kinga, grazie a Dio è morto perché non sarebbe sopravvissuto a questi cambiamenti”. In effetti per lui sarebbe stato un fallimento personale, una disfatta ideologica. Allora anche l’autonomia universitaria fu violata perché lo ZOMO entrò dentro l’università e questo non era mai successo. Con il gas poi… fu terribile. Sul terreno dell’università c’era sempre stata una autonomia, tranne che in tempo di guerra, ma per il resto l’università aveva sempre goduto dell’autonomia, e in quel marzo venne meno. Questo sembrò impossibile, l’unico potere era il potere del rettore, e invece… lui era un rettore, un ideologo, eppure si comportò inn maniera umana e molto sensibile.

-fu anche picchiato per questo

Veramente? Non lo sapevo… strano che non lo abbia mai trovato. Lui ci ha sempre detto che era con noi.

-lei si ricorda dei cambiamenti all’università? Diverse persone emigrarono, se ne rese conto?

Precisamente nel nostro dipartimento di polonistica nessuno se ne andò. Rimanemmo tutti. Se ci furono delle partenze, all’inizio erano soltanto delle partenze “di servizio”, andavamo a studiare all’estero per l’università e poi rientravamo. È vero che alcuni dei miei colleghi poi rimasero all’estero, è vero, ma queste sono cose successe più avanti.

-mi riferisco all’emigrazione di polacchi ebrei Nel mio ambiente non c’era nessuno.

-non ha mai avuto amici di origine ebraica? Compagni di classe?

Ai tempi della scuola avevo dei vicini di casa. Dall’altra parte della strada dove vivevo

con la mia famiglia c’era un palazzo dove abitava una famiglia di ebrei, morirono nel 1981 o

1982. Avevano una figlia. Gestivano una rilegatoria nel centro di Wieliczka. Loro erano

molto amici dei polacchi, molto amici di tutti. Non ci furono mai fraintesi tra vicini. Anzi, ed

era una cosa buffa, venivano ad ogni funerale, battesimo, ad ogni cerimonia che accadeva

in paese. Lei diceva che quando andava in chiesa durante la messa, quando tutti si

inginocchiavano anche lei si inginocchiava perché “altrimenti”, diceva; “sembrerei un fungo

(23)

sotto la pioggia”. Me lo ricordo molto bene, disse proprio così. Sua figlia Anna frequentava le lezioni di religione, era l’unica ebrea di tutta la scuola e quindi seguiva le lezioni come tutti gli altri, ci fu un problema durante la seconda classe quando tutti gli altri dovevano fare la comunione, allora la madre la portò via. Andarono via da Wieliczka da qualche parte per quel periodo. Avevano dei parenti in Australia, e forse loro le chiedevano che cosa succedeva qui, come lei educava sua figlia. Quella Anula era terribile, aveva un’amica a scuola -e sono ancora in contatto anche se lei oggi vive negli Stati Uniti- e per Pasqua rubò da lei un uovo benedetto, lo portò a casa sua e disse al padre “mangia! Te schifoso ebreo”.

Poi finì gli studi e ricordo che era a casa mia, e che disse a mia madre che lei era nata ebrea e sarebbe sempre stata ebrea, questo lo disse che era già adulta, pensava diversamente allora. Finì farmacia qui a Cracovia, abita negli Stati Uniti oggi, ha una farmacia in New Jersey e abità là. Si sposò con un medico ebreo di Wilno, ha un figlio che parla perfettamente polacco. I suoi genitori e i suoi nonni sono qui al cimitero ebraico di Cracovia e lei spesso viene. Quando nel 1978 diventò papa Woityla successe un’altra cosa. Noi avevamo un televisore, ma era piccolino, loro invece ne avevano uno enorme, grande, bello, di quelli portati dall’estero, e ci invitarono a casa loro per vedere la cerimonia, noi tutti, insieme ai vicini di casa, io andai con mio fratello, i miei genitori non vollero lasciare la nonna sola in casa e non vennero. Loro erano tutti eleganti, vestiti con gli abiti migliori, con la più alta concentrazione, il più profondo rispetto guardammo tutta la celebrazione dal Vaticano. Dopo, nella stanza accanto avevano preparato un rinfresco, il caffè, dei biscotti, una qualche torta… tutto era molto elegante, raffinato ed era rispettosamente piacevole che una famiglia ebraica volesse che noi potessimo vedere tutta quella celebrazione in uno schermo grande, a colori, e anche per loro era qualcosa di santo…

-perché anche loro erano polacchi

Certo, anche loro erano polacchi, esattamente. Io credo che questo parlare di ebrei e polacchi come se ci fosse un antagonismo, io non ci credo, non è vero… tutto dipende dalle persone. Questo è qualcosa che io ho vissuto, ne sono stata testimone e posso confermarlo in ogno contesto. Era così. Erano periodi assurdi, succedevano cose strane.

Fu una bella relazione con loro, lo è sempre stata. Quando capita qui ci vediamo sempre e parliamo come se fosse partita ieri, del resto lei viene abbastanza spesso perché qui hanno ancora il condominio, il negozio, varie cose…

-quando partì questa sua amica?

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Lei emigrò in maniera un po’ particolare. Non ricordo bene in che anno, ma prima andò in Australia da una zia che aveva là. Quella zia non aveva figli, aveva una farmacia e voleva che sua nipote andasse assolutamente là, a Melbourne credo. Lei per un po’ rimase in Australia e poi da là non so nemmeno se direttamente, ma si trasferì negli Stati Uniti, rimase per un periodo a New York e poi si trasferì in New Jersey. Non credo che sia andata là dalla Polonia, probabilmente lo fece direttamente dall’Australia. Penso anche che la sua partenza in Australia fosse in qualche modo spinta dai suoi genitori perché potesse vivere per un po’ in una famiglia ebraica, perché lei qui in Polonia era sola. Le famiglie eran là in Australia, sia da parte di padre che di madre

-erano emigrati dalla Polonia?

Sì, sì, dalla Polonia, ma molto molto tempo prima, era una vecchia storia, io non conoscevo nessuno di quelli che vivevano in Australia, non avevo mai visto nessuno.

-lei emigrò dopo il marzo?

Certo, sì, dopo il marzo.

-quale significato ha secondo lei il marzo nella vita polacca?

Vede, credo che abbia un significato notevole. Noi allora sentimmo per la prima volta che era importante lottare per qualcosa, combattere tutti insieme per qualcosa, che c’erano questioni per le quali valeva la pena battersi. Non successe per esempio che perdessimo la fiducia, perché alla fine non ottenemmo nulla, ma non perdemmo la fiducia in un reale cambiamento, anche se fu un processo molto lungo quello che portò ad un cambiamento concreto. Io credo che quell’ambiente fosse molto forte.

-molti studenti emigrarono da Cracovia

6

?

Non lo so. Bisognerebbe leggere degli studi che se ne occupano -ma non ricorda se saltavano agli occhi dei cambiamenti?

No, no. Solo che io parlo del mio ambiente che era quello umanistico, quindi diverso rispetto agli altri. Del mio anno per esempio, è solo un esempio, ma non emigrò nessuno.

Dei miei seminari non emigrò nessuno. Come le dicevo prima più tardi le persone rimanevano all’estero, ma allora no. Del mio anno rimasero tutti.

-il marzo non cambiò la sua vita.

6 Non ci sono studi sull’emigrazione degli studenti di Cracovia, negli archivi si è trovato il numero, ma mancano i nomi. Lo storico Julian Kwiek ha curato la pubblicazione dei documenti e, attualmente, questo è l’unico testo sul marzo a Cracovia; Marzec 1968 w Krakowie w dokumentach.

(25)

Forse ci cambiò emotivamente. Questo credo di sì. Ma non ci scoraggiò, assolutamente, nessuno di noi pensò che era meglio andare via, lasciare tutto… io credo che piuttosto fosse la prima prova di forza, e molto forte anche.

-era mai stata all’estero prima del marzo?

No. Soltanto più tardi. Andai nell’81, nell’agosto, andai negli Stati Uniti, ma andai con l’universirtà e fu un viaggio di servizio. Andai a lavorare all’università a Detroit. Alcuni miei colleghi fecero lo stesso viaggio e poi rimasero là, e vivono fino ad oggi da emigrati. Ma questa è tutta un’altra storia, un’altra situazione.

Vede mi è difficile parlare, ma ci sono delle persone che dovevano emigrare, erano le persone di origine ebraica e loro ricevettero i biglietti, furono forzati a partire. Però c’erano anche altre persone che non dovevano emigrare ma per le quali fu un’occasione buona per andarsene. Sono stata in contatto con questi polacchi, alcuni emigrarono perché era un’occasione, erano perseguitati, avevano dei problemi…

-le frontiere erano aperte solo per chi dimostrava origine ebraiche

Certo loro furono spinti a farlo, ma poi c’erano altre persone per le quali fu un’occasione, andarono all’estero e poi rimasero là, sapevano che qua li cercavano, li tormentavano e non vollero tornare. Vede, io non sono uno storico, né un sociologo, non vorrei fare dei torti a qualcuno dicendo qualcosa di errato.

-si parlava di queste partenza?

Naturalmente. Vede, i polacchi non hanno mai paura di parlare. Non hanno mai paura di raccontare degli aneddoti politici sul tram, i polacchi non hanno paura di parlare.

Naturalmente se ne parlava. Parlavamo di quello che succedeva, del perché succedeva, di cosa potevamo fare perché qualcosa cambiasse.. le normali conversazioni notturne di un polacco. Molto importante era la questione della lealtà tra le persone, poter parlare con gli amici, che non tradissero la parola data, che non andassero a raccontare tutto alla polizia, anche queste erano cose molto importanti. Noi parlavamo molto.

-in casa anche? Coi genitori?

Certo, certo. Mio padre era un patriota.

-che lavoro facevano i suoi genitori?

Mio padre aveva una formazione umanistica, ma non lavorava secondo la sua laurea.

Lavorava invece nell’amministrazione della miniera di Wieliczka. Mia madre non lavorava,

era una mamma fantastica che si occupava della casa ed era sempre presente. Sarà stato

sei o sette anni fa, o forse anche otto, uscii per andare a lavoro e non riuscivo ad aprire la

porta, arrivò un collega che era dentro, “meno male che ci sei perché io non riesco ad

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