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3. COMMENTO ALLA TRADUZIONE
3.1. Tradurre l’alterità: strategie traduttive
Le ricerche dei Translation Studies hanno sempre di più messo in evidenza che le maggiori difficoltà traduttive risiedono non nella trasposizione del materiale verbale da una lingua all’altra, ma nella resa dei referenti culturali
1. Pertanto nell’approcciarsi al testo da tradurre il traduttore deve tenerne presenti sia gli aspetti propriamente linguistici che quelli culturali. L’approccio culturale al testo diventa fondamentale nella traduzione di testi postcoloniali. La letteratura che fiorisce nelle colonie europee dopo l’indipendenza, non può più accettare un traduttore che giochi il ruolo di mediatore della cultura egemone, ovvero di colui che introietta nel proprio linguaggio ogni oggetto linguistico e culturale normalizzandolo per facilitarne la ricezione da parte del lettore. Un tale atteggiamento avrebbe come risultato lo stravolgimento dell’intenzione dell’opera: le peculiarità linguistiche, l’immagine della società presentata, le caratteristiche stilistiche dell’autore stesso, veicolando pertanto una scorretta ricezione del testo e dell’autore. Il testo postcoloniale è per eccellenza luogo di tensioni a livello linguistico e culturale: lo scrittore
1 Cfr. S. NEGAARD, Teorie contemporanee della traduzione, Bompiani, Milano1995.
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bilingue infatti si serve della lingua egemone per sovvertirne le convenzioni linguistiche e culturali, evidenziando al tempo stesso le proprie peculiarità artistiche e la propria identità culturale al fine di creare un testo nuovo. La scrittura è un veicolo per lo scrittore postcoloniale col quale riabilitare la propria identità, che cliché occidentali o anche traduzioni normalizzanti hanno finito col distorcere. La traduzione di un testo coloniale richiede in primo luogo al traduttore di far sentire l’alterità linguistica e culturale, ovvero le tensioni interne al testo, adottando un approccio culturale.
Dall’analisi del romanzo si è visto come l’elemento caratterizzante di Une vie de boy sia il tema dall’incontro-scontro tra la cultura francese e
quella africana, e in particolar modo l’alterità di quest’ultima in rapporto alla prima. Tale alterità, presente a livello contenutistico e quindi di cultura e visione del mondo, si manifesta a livello linguistico assumendo varie forme. Nella traduzione è stato ritenuto prioritario far emergere tale alterità a discapito talvolta della piena e immediata comprensione del testo da parte del lettore italiano, come nel caso dei realia che sono stati mantenuti in francese, o nel caso dei proverbi che sono stati tradotti letteralmente.
L’‘intenzione dell’opera’ infatti non è solo quella di raccontare la vita di un boy, ma anche di far intravedere l’alterità. Non è un caso se all’interno della cornice narrativa la voce narrante, nel tradurre il diario di Toundi, abbia considerato fondamentale conservare la ricchezza della lingua di partenza: «Je me suis efforcé d’en rendre la richesse [de l’ewondo] sans trahir le récit» (VB, p. 14). Tale dichiarazione della strategia traduttiva adottata sembra strizzare l’occhio al traduttore, evidenziando quello che nella traduzione non deve essere perso, appiattito: il linguaggio.
Une vie de boy presenta un lessico ricco di referenti culturali, realia,
modi di dire e proverbi, che ne rendono difficile la traduzione. È bene
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ricordare che tali elementi culturali sono anzitutto estranei ai lettori francesi, che dopo quelli africani, rappresentano il pubblico a cui il libro è rivolto. Per cui nella traduzione anziché azzardare parole italiane che solo in parte coprono i tratti semantici dei termini impiegati dall’autore, si è preferito mantenere i termini stranieri, magari apponendovi una nota.
Sebbene tale procedimento sia etichettato come «sconfitta del traduttore»
2è stato tuttavia ritenuto lecito, in quanto è lo stesso Oyono a apporre delle note al testo in corrispondenza di termini culturali di difficile decodifica da parte del lettore occidentale.
Impiegando la terminologia di Lawrence Venuti
3si potrebbe dire che nel continuum tra traduzione addomesticante e traduzione straniante, si è deciso, per quanto possibile, di tradurre combinando le due tendenze. Il mantenimento dei realia, dei termini culturali e la traduzione letterale dei proverbi esprime l’intento del traduttore di muovere il lettore verso il testo e la cultura d’origine, l’apposizione di note esplicative e la normalizzazione delle espressioni figurate indicano invece le scelte addomesticanti operate nella traduzione.
3.2. Il titolo
Primo caso di approccio straniante alla traduzione è stata la decisione di mantenere nel titolo dell’opera la parola inglese ‘boy’. Anzitutto tale termine è straniero sia per un madrelingua ewondo che per un madrelingua francese, sebbene sia conosciuto da entrambi. Nel romanzo è applicato indifferentemente sia a un uomo che a una donna (sia Toundi che Sophie o
2 U. ECO, Dire quasi la stessa cosa, Bompiani, Milano 2006, p. 95.
3 Cfr. L. VENUTI, The Translator’s Invisibility, Routledge, London 1995.
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Kalisia sono chiamati boy). La parola ‘boy’ dalle origini oscure è entrata nell’uso della lingua francese durante il periodo coloniale. Era usata per definire il giovane colonizzato che lavorava come servo
4, e non semplicemente come domestico, proprio perché la sua condizione rasentava la schiavitù. Siccome tale parola denota una situazione storica (la colonizzazione) non estranea al lettore italiano ed è comunque un termine inglese molto noto, sebbene non immediatamente riconducibile al concetto di servo, è stato considerato fondamentale conservarlo, anche perché è il testo stesso ad aiutare il lettore nella corretta decodifica del termine.
3.3. Trattamento del plurilinguismo
Accanto alla lingua francese, sono presenti nel testo anche il petit nègre, ovvero una variante del francese standard parlato dagli africani, la storpiatura che ne fanno i personaggi francesi, l’ewondo e lo spagnolo. Il petit nègre è un francese dalla sintassi semplificata (per esempio i verbi
sono all’infinito)
5ed è usato dagli indigeni che non hanno la piena padronanza della lingua francese. Nel testo tale parlata è considerata comica all’orecchio dei Bianchi che la storpiano per deridere l’ignoranza dei Neri.
Nel tradurre è stato necessario trovare un linguaggio che deviasse dall’italiano standard e che ricreasse lo stesso effetto di comicità alle orecchie dei madrelingua. Si è optato per la riproduzione dell’italiano parlato dagli immigrati stranieri da poco arrivati in Italia e che, non conoscendo bene la lingua, la parlano semplificandone le strutture. Questo
4 Cfr. la voce ‘boy’ in P. ROBERT, Le Grand Robert de la langue française, Le Robert, Paris 1988.
5 Cfr. la voce ‘nègre’ in P. ROBERT,cit..
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tipo di parlata rispecchia sia la variazione dalla lingua standard, sia riproduce nel lettore quel pizzico di comicità che si avverte nell’ascoltarla.
Ecco alcuni esempi di petit nègre: «Y en a vérité, Sep» (VB, p. 39),
«Movié! s’exclama le garde, Zeuil-de-Panthère cogner comme Gosier- d’Oiseau! Lui donner moi coup de pied qui en a fait comme soufat’soud’…
Zeuil y en a pas rire…» (VB, p. 40), e le traduzioni proposte «Lui dire verità Sep»
6, «Movié! esclamò la guardia, Occhio-di-Pantera menare come Gola- d’Uccello! Lui dato me calcio che fare come schiaffo secco… con Occhio non potere scherzare…» (VdB, p. 25). In entrambi gli esempi la sintassi è stata semplificata utilizzando forme verbali non flesse: infiniti e participi passati. Nel primo esempio è stata mantenuta la parola straniera ‘Sep’ e nel secondo ‘Movié’ perché nell’originale sono entrambe corredate di note esplicative dell’autore. Purtroppo nella traduzione è andata persa la deviazione sul piano fonetico della parola ‘Zeuil’ elemento di ulteriore mimesi con l’oralità. Tuttavia si è compensata tale perdita adottando la sintassi semplificata che caratterizza il petit nègre e riproducendo lo stesso effetto che le battute avevano nel testo originale.
Alcuni personaggi francofoni si divertono a storpiare il petit nègre, è il caso di una battuta di Gola-d’Uccello: «Mon z’ami, dit Gosier-d’Oiseau en imitant faussement le petit nègre, nous pas buveurs indigènes!» (VB, p. 77) che è stata resa come «Amigo, disse Gola-d’Uccello imitando male il petit nègre, noi non bevitori indigeni!» (VdB, p. 52). Anche in questo caso la
deviazione fonetica di «Mon z’ami» è compensata in parte dal traducente
‘Amigo’ che devia foneticamente dal termine standard ‘Amico’ e produce un effetto comico. La seconda parte della frase è stata tradotta letteralmente.
6 Nella traduzione, p. 24. (Da ora in poi citato mediante la sigla VdB).
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In altri casi i Bianchi si servono del petit nègre per farsi capire meglio dagli indigeni. Lo utilizza ad esempio il comandante in una delle prime battute rivolte a Toundi/Joseph durante il colloquio di lavoro: «— J’espère que tu as compris pourquoi je ne pourrais attendre que ‹petit Joseph pati rôti en enfer›. Le commandant imitait d’une voix bizarre le petit nègre des militaires indigènes» (VB, p. 34). La battuta è stata tradotta come «—Spero tu abbia capito perché non posso aspettare che ‹Piccolo Joseph patire arrostito all’inferno›» (VdB, p. 21). Così come negli altri casi la sintassi è stata semplificata, l’unico cambiamento è la traduzione del participio passato ‘pati’ con l’infinito ‘patire’ che è comunque una forma verbale indefinita. Tale scelta è stata operata per rendere più accessibile e immediato il significato della frase visto che è collocata in una battuta.
Più avanti nel romanzo un anziano combattente indigeno, nel raccontare le proprie esperienze di guerra, riporta una frase pronunciata dai compagni francesi che si sforzano di comunicare con lui in petit nègre: «Camarat’
pour moi, toi viens avec nous, li femmes y en a beaucoup en ville» (VB, pp.
90-91). La battuta è stata tradotta secondo le scelte precedentemente adottate deviando dall’italiano standard: «Compà, per me, tu venire con noi, in città essere tante donne» (VdB, p. 62). Anche traducendo letteralmente è stato necessario apportare alcune modifiche per rendere comprensibile la battuta. La perdita di ‘toi’ che in italiano si normalizza col ‘tu’ è compensata col il verbo non coniugato lasciato all’infinito: ‘venire’.
Nell’ultima proposizione è stato modificato l’ordine dei costituenti per ricalcare il normale ordine dei costituenti nella frase standard italiana.
Anche in questo caso si è optato per l’utilizzo del verbo all’infinito, in
luogo della forma flessa presente nell’originale. Inoltre è stato soppresso ‘y’
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che in italiano ha per corrispettivo l’avverbio ‘ci’ per compensare la modifica del verbo.
Sono stati mantenuti in ewondo termini e frasi che nell’originale sono presenti in questa lingua. È il caso della frase «Ngovina ya ngal a ves zut bisalak a be metua» (VB, p. 70) che gli indigeni ripetono al passaggio del comandante. L’espressione non pone problemi di decodifica in quanto il significato è immediatamente spiegato dal comandante stesso.
Rimane invece oscuro il significato dell’espressione in ewondo
«Aaaaaaaaaaakiéééééé!» di cui non sono state trovate attestazioni nelle risorse cartacee e digitali consultate. Tale termine è pronunciato dal padre di Toundi per redarguire il figlio (VB, p. 18) e dalla guardia della Residenza come esclamazione (VB, p. 96). Sebbene il contesto non chiarisca il significato dell’espressione, tuttavia fa capire che valenza abbia e questo pare sufficiente per non tradurla.
La medesima soluzione è stata adottata per «Fisk!» (VB, p. 63) di cui non si conosce il significato. Tale termine, pronunciato probabilmente da un militare indigeno, è rivolto a dei bambini che rispondono mettendosi sull’attenti. Dal contesto si deduce la funzione di ‘Fisk’ come comando militare ma non sono forniti ulteriori indizi sul significato. Più avanti nel testo il comando ricompare, stavolta i bambini rispondono serrando le file e prestando nuovamente attenzione ai successivi comandi del militare
7. Anche in questo caso se la funzione del termine è chiara, non lo è il suo significato. Pertanto si è preferito mantenere il termine straniero in virtù della chiarezza della sua funzione e dell’accessibilità del lettore italiano al senso generale della scena.
7 Vedi VB, p. 63.
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Le occorrenze delle espressioni in spagnolo si trovano nel prologo- cornice. Non presentano problemi di comprensione perché si tratta di forme di saluto o imprecazioni riconoscibili dal lettore italiano e spiegate comunque dal contesto. Solo una battuta mescola il francese approssimativo e lo spagnolo, lingue di cui si serve un personaggio spagnolo per comunicare col protagonista camerunense: «— Y en a été uno alumno»
(VB, p. 14). Nella traduzione la parte francese è stata resa utilizzando un italiano non standard, seguendo l’esempio del petit nègre, e la parte in spagnolo è rimasta inalterata perché accessibile al lettore italiano: «Essere stato uno alumno» (VdB, p. 6).
È necessario segnalare che nel rispetto delle impostazioni tipografiche del testo d’origine tutta la cornice è stata mantenuta in corsivo. Per questo motivo i termini stranieri non tradotti e in essa contenuti non sono messi stati in risalto. Tuttavia la loro individuazione e decodifica non comporta difficoltà per cui non è si è ritenuto necessario adottare ulteriori norme tipografiche per la messa in evidenza del termine straniero. Nel resto del romanzo che è scritto in tondo minuscolo, i termini stranieri sono riportati in corsivo così come stabilito da convenzioni tipografiche italiane.
3.4. Traduzione dei realia
Siccome nel processo traduttivo entrano in gioco non solo due lingue,
ma anche due culture, il traduttore deve prestare particolare attenzione
all’individuazione e alla corretta decodifica degli elementi culturali. Per
realia si intendono quei termini di una lingua che denotano oggetti, concetti
e fenomeni caratteristici di una cultura che non hanno equivalenti esatti
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nella lingua d’arrivo. Diversi sono i modi per tradurre i realia, facendo riferimento al continuum tra traduzione straniante e addomesticante, è possibile associare alla prima tendenza la trascrizione del termine straniero e alla seconda la sua esplicitazione
8. Nell’approcciarsi alla traduzione dei realia è necessario anzitutto individuarne i tratti semantici caratterizzanti, il
contesto in cui è inserito e scegliere la strategia traduttiva da adottare alla luce anche dei traducenti approssimativi a disposizione nella lingua d’arrivo. Come dichiarato nel primo paragrafo, nella traduzione dei realia è stata adottata una strategia orientata al testo di partenza e quindi straniante, tuttavia a volte sono state aggiunte note che denotano la tendenza addomesticante. La traduzione proposta punta comunque a far sentire l’alterità tra le culture in gioco nel testo, evitando eccessivi appiattimenti della lingua.
Tra i numerosi referenti culturali che non trovano corrispettivi traducenti in italiano vi è la parola ‘case’
9. Tale termine indica un’abitazione tradizionale dei paesi tropicali costruita con materiali leggeri.
Fin qui tale parola sembra essere sinonimo (fermo restando che la sinonimia è sempre approssimativa) di ‘capanna’ che indica una costruzione piccola fatta soprattutto di frasche, paglia e legno cioè materiali leggeri
10. Tuttavia non è menzionato il collegamento tra la capanna e le abitazioni tradizionali dei paesi tropicali. Inoltre ‘case’ occorre in altri punti del testo che ne specificano le caratteristiche: «Je revins doucement derrière notre case et regardai à travers les lézardes du mur de terre battue» (VB, p. 20, sottolineatura mia). Dal protagonista si viene a sapere che il muro delle case
8 Cfr. la voce ‘realia’ in M. SHUTTLEWORTH e M. COWIE, Dictionary of Translation Studies, St. Jerome, Manchester 1997.
9 Prima occorrenza VB, p. 7.
10 Cfr. la voce ‘capanna’ in T. DE MAURO, De Mauro, Paravia, Torino 2002.
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è fatto con la terra, e non con il legno o materiali simili. La differenza tra case e capanna è lampante in un passo del testo in cui la case è messa a
confronto con la paillotte altro tipo di abitazione: «—Elle est merveilleuse, cette paillotte! dit le commandant […]. — Ça c’est une case, rectifia l’ingénieur, les murs sont en terre. D’ailleurs on ne rencontre plus de paillottes que chez les Pygmées» (VB, pp. 63-64, sottolineatura mia). È evidente che la case ha i muri in terra e che non è traducibile con ‘capanna’, mentre paillotte è una piccola capanna fatta esclusivamente di paglia e frasche, pertanto è una costruzione più misera e rudimentale della case.
Senza dubbio ‘capanna’ è un traducente migliore per paillotte perché ne possiede tutti i tratti semantici. Tuttavia nel contesto in cui occorrono i due termini si è preferito non tradurli, perché ‘case’ è un termine connotato culturalmente che non ha un traducente ottimale, e ‘paillotte’, che in
‘capanna’ ha un buon traducente, da parte sua è legata alla popolazione dei Pigmei e tale riferimento è sufficiente per connotare ulteriormente il termine rispetto a ‘capanna’ che non è legata ad alcun popolo in particolare.
Mantenendo i due termini stranieri inoltre viene preservato anche il tono ironico del passo e l’implicito giudizio di valore sulle due costruzioni. Tra le ultime occorrenze della parola ‘case’ viene ribadito il concetto che sono costruzioni coi muri in terra: «les cases en poto-poto» (VB, p.107), dove
‘poto-poto’ è un termine locale per definire il fango essiccato con cui sono fatti i muri delle case africane
11.
Anche ‘poto-poto’ è stato motivo di problemi traduttivi. Il significato del termine è chiaro e in italiano potrebbe anche essere tradotto come
‘fango/terra essiccato/a’ esplicitandone il senso. Tuttavia si è preferito conservare il termine per far sentire, come detto prima, l’alterità linguistico-
11 Vedi la voce ‘poto-poto’ in L. DEPECKER, Les mots de la francophonie, Belin, Paris 1990, p. 260.
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culturale del testo, ma d’altra parte si è aggiunta una nota alla prima occorrenza della parola. In questa occorrenza però il termine ‘poto-poto’ è usato da un personaggio francese per descrivere il terreno di un campo da tennis all’aperto inondato dalle piogge: «Elle se plaignit que le court de tennis fût en poto-poto sous les premières pluies» (VB, p. 81). È chiaro che in questo contesto la parola perde il significato di sostantivo e assume quello aggettivale, parallelamente si verifica anche uno slittamento di significato, senza il quale si creerebbe un controsenso. Infatti è impossibile che il terreno di un campo bagnato dalle piogge si essicchi anziché diventare fangoso e impraticabile, come invece si evince dalla battuta.
L’accezione aggettivale di ‘poto-poto’ è registrata dal dizionario specifico di Depecker dove si spiega che «La consistance molle et pâteuse du poto- poto a donné au Zaïre, l’adjectif non moins expressif de potopoteux: ‹J’le
trouve un peu mou. — Oui, pour tout dire, un peu potopoteux›»
12, anche lo Zaire è come il Camerun un’area di cultura bantu. Quindi pur mantenendo la forma sostantivale, ‘poto-poto’ assume la funzione di aggettivo e un nuovo significato: ‘fangoso’. Il rischio di creare un controsenso laddove non esiste è alto pertanto si è apposta una nota che spiega i due significati del termine. Più difficile diventa la traduzione di ‘poto-poto’ quando è aggettivo e viene riferito agli esseri umani, come in questo dialogo tra i personaggi africani che definiscono scherzosamente Madame poto-poto:
— Je n’y avais pas pensé, dit Baklu. En tout cas elle est à point! Bienheureux le régisseur! Madame est déjà poto-poto…
— Moi, je croyais que la pluie était tombée sous ses bras! repartit le garde.
Madame est vraiment poto-poto… (VB, p. 113)
12 L. DEPECKER, Les mots de la francophonie, cit., p. 260.
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È chiara l’ironia presente nel passaggio, i Neri, al corrente del tradimento di Madame, la deridono perché ha appena fatto una sfuriata al lavandaio e corre all’appuntamento con l’amante. L’espressione potrebbe essere resa come ‘Madame è fritta’, ‘Madame è nella melma’ per indicare che è nei guai e che sta perdendo il controllo della situazione. Ma l’ironia nella risposta della guardia non è del tutto chiara, è legata all’immagine della pioggia che secondo la guardia avrebbe già tolto Madame dai guai.
Non potendo interpretare alla cieca rischiando di forzare il significato della battuta è stato deciso di tradurre letteralmente il passo e conservare il termine straniero il cui significato, già spiegato in nota, permette al lettore di fare delle ipotesi interpretative, e comunque di cogliere in generale il tono ironico delle battute.
Un altro termine connotato culturalmente è ‘pagne’. Alla prima occorrenza è collocato nella descrizione dell’abbigliamento di un indigeno:
«Il avait déboutonné sa vieille veste, des larmes coulaient le long de son ventre ridé et pénétraient sous le nœud qu’il avait fait avec son pagne sur son pubis grisonnant» (VB, pp. 30-31). Consultando la voce ‘pagne’ sul dizionario si viene a sapere che è un indumento di stoffa dai motivi colorati, usato dagli africani (ma anche dagli indiani o dai tahitiani), e che si indossa avvolto intorno al corpo dalla vita fino alle ginocchia o ai piedi
13. Tale definizione calza a pennello con l’immagine che il testo fornisce alla prima occorrenza di ‘pagne’: l’indumento è portato annodato alla vita. Il pagne sembrerebbe pertanto un lungo pareo che copre solo le gambe. In italiano tale termine è specificatamente legato ai tahitiani e veicola anche l’idea di indumento da spiaggia, allusione che nel testo non è assolutamente presente, anche perché l’azione si svolge nell’entroterra del Camerun, ricco
13 Cfr. la voce ‘pagne’ in P. ROBERT, cit.
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di vegetazione. Per questo motivo i tratti semantici delle due parole non sono simili. Divergono ulteriormente quando, nelle successive occorrenze del termine, si evince che in realtà il pagne è usato come un vestito a tutti gli effetti che può coprire il corpo intero: «Elle se couvrit entièrement avec son pagne» (VB, p. 59), oppure «On voyait les indigènes drapés de pagnes multicolores» (VB, p. 60). Nel caso di ‘pagne’ il contesto è stato fondamentale per disambiguare il significato della parola, molto più del dizionario che avrebbe portato a una traduzione approssimativa. Nei dizionari specifici la voce ‘pagne’ è definita come «morceau d’étoffe ou en éléments végétaux, disposés de façon à cacher (au moins) le sexe»
14, che conferma l’interpretazione data al termine a partire dal suo contesto. Non esistendo in italiano un termine il cui significato si avvicini a quello di
‘pagne’, si è rivelato necessario mantenere il termine straniero. Siccome non viene disambiguato immediatamente dal contesto alla prima occorrenza, è stato opportuno immettere una nota al testo.
Altro termine connotato culturalmente è ‘gargoulette’. Non è una parola prettamente legata al contesto africano, ma a quello francese. Si tratta di un vaso poroso utilizzato per contenere liquidi, soprattutto acqua, mantenuti freschi dalla loro stessa evaporazione
15. Da alcune immagini visionate su internet si può vedere come la gargoulette abbia una forma peculiare purtroppo non menzionata dai dizionari consultati. È un contenitore piccolo dal collo stretto, con un beccuccio alla base della pancia dal quale far uscire l’acqua. La sua funzione è quella di un thermos ma la forma e il funzionamento sono completamente diversi. In realtà esiste il termine
14 Vedi la voce ‘pagne’ in J.-P. COLIN, Trésors des mots exotiques, Belin, Paris 1986, p.
200.
15 Cfr. la voce ‘gargoulette’ in P. ROBERT, cit.
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‘alcarazas’
16che sebbene sia utilizzato per definire tale oggetto non è entrato nell’uso della lingua italiana e pertanto resta una parola araba a tutti gli effetti. Da una parte il contesto
17non mette in risalto alcun tratto caratteristico dell’oggetto: né la forma, né la funzione, tanto che
‘gargoulette’ potrebbe essere tradotto semplicemente come ‘brocca’ in base al tratto semantico comune di ‘contenitore di liquidi, in particolare di acqua’. Tuttavia, per coerenza con la strategia traduttiva adottata, si è optato per la conservazione del termine francese, proprio per non far passare l’oggetto come anodino agli occhi del lettore italiano. Inoltre è stata apposta una nota.
Nella traduzione si è deciso di mantenere anche il termine ‘Mamie’ (VB, p. 72) che comparendo tra virgolette è messo subito in evidenza come termine culturalmente connotato. ‘Mamie’ è un termine affettivo di registro familiare che deriva dall’abbreviazione di ‘ma amie’, forma arcaica di ‘mon amie’, e dall’elisione della vocale finale del possessivo. Tale parola indica
infatti il nome locale con cui venivano chiamate le amanti che, come spiega il testo, si potevano comprare all’asta. Non si è rivelata necessaria una nota, dato che il contesto in cui il termine è collocato ne veicola la corretta decodifica, infatti in seguito all’annuncio dell’arrivo di Madame, Toundi ammette di capire finalmente perché il comandante non lo aveva mandato a comprare una Mamie.
Un trattamento diverso è stato riservato al termine ‘essessongo’. Si tratta della parola locale con cui viene designata l’herbe à éléphant
18, una pianta graminacea foraggiera propria dell’Africa sub sahariana. Il termine
16 Cfr. la voce ‘refrigerazione’ in G. LAZZARI, L’enciclopedia Treccani, Liguori, Napoli 1977.
17 Vedi VB, p. 38 e p. 168.
18 Cfr. http://horizon.documentation.ird.fr/exl-
doc/pleins_textes/pleins_textes_7/carton02/04335.pdf.
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non è stato tradotto, tuttavia ne è stato esplicitato il significato alla prima occorrenza indicando che si tratta di una pianta: «La pista […] serpeggiò in una landa dove le piante di essessongo erano alte come alberi» (VdB, p. 3).
Accanto ai realia del mondo africano compare anche uno del mondo francese si tratta di ‘Perrier’, la marca di un’acqua frizzante francese. In questo caso non sono state aggiunte note esplicative perché il contesto chiarisce il significato della parola sin dalla prima occorenza: «—
Débouche une bouteille de Perrier et laisse-nous tranquilles, monsieur Toundi. Je leur apportai la bouteille pétillante», «— Va préparer des citrons pressés avec l’eau Perrier» (VB, p. 121 e 125).
Fanno parte dei realia anche quei termini che rinviano agli aspetti folkloristici e mitologici di una cultura. Tali riferimenti sono stati mantenuti immutati perché qualsiasi tentativo di addomesticamento li avrebbe decontestualizzati, finendo magari col creare controsensi o ambiguità. Tra i più importanti vi sono i passi in cui viene richiamata la cultura orale africana
19, ad esempio : «La veillée s’annonçait gaie et fertile en contes de la forêt. […] Ils [mes hôtes] ne pensaient plus qu’à se grouper autour du
foyer pour rabâcher les sempiternelles aventures de la tortue et de l’éléphant» (VB, p. 8, sottolineatura mia). Il passo è stato pertanto tradotto
alla lettera: «La serata si annunciava allegra e ricca di racconti della foresta.
[…] Pensavano [i padroni di casa] solo a raggrupparsi intorno al fuoco per raccontare ancora le eterne avventure della tartaruga e dell’elefante» (VdB, p. 1).
Un altro caso di riferimento culturale lega le qualità simbolo degli animali a quelle delle persone: «Mengueme, lui, est un vieillard aussi rusé que la tortue des légendes» (VB, p. 56) e «Tu es une vieille tortue!» (VB, p.
19 Cfr. il capitolo I, 1.4. del presente lavoro.
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99) riferito a una guardia indigena che ha appena espresso un’idea geniale.
Dai contesti si evince che la tartaruga secondo le credenze africane è simbolo di furbizia, mentre da una ricerca più accurata
20si scopre che la tartaruga è considerata in campo mitologico un animale intermediario tra cielo e terra, grazie al suo guscio arrotondato come una cupola, e che è simbolo di longevità e saggezza. L’ipotesi di sostituire la tartaruga con la volpe che nella cultura italiana è l’animale simbolo della furbizia è legittima, ma decontestualizzante. Tanto più se si pensa che la volpe non vive negli ambienti caldi dove è ambientato il romanzo, il che creerebbe ambiguità. Pertanto il riferimento va mantenuto inalterato: «Mengueme, invece, è un vecchio furbo come la tartaruga delle leggende» (VdB, p. 37) e
«Sei proprio una vecchia tartaruga!» (VdB, p. 68). Siccome la prima occorrenza esplicita la simbologia della tartaruga non è stato necessario apporre note, inoltre essa esplicita anche il riferimento culturale, presente in forma implicita, nella seconda occorrenza.
Altro caso di realia è il ‘petit nègre’, come già detto, termine connotato storicamente perché è il nome dato al francese scorretto e semplificato parlato dagli indigeni per comunicare coi colonizzatori. Come spiegato nel paragrafo sul plurilinguismo del testo, la parlata degli africani è stata facilmente riprodotta utilizzando un italiano non standard che ricalca le semplificazioni verbali del petit nègre. Alla prima occorrenza del termine è l’autore stesso a preoccuparsi di apporre una nota che avverte che un indigeno sta parlando in petit nègre. Dalla traduzione si evince che il petit nègre è una varietà non standard del francese e se ne avvertono subito le
caratteristiche. Quando tale parlata è usata dai francesi o per farsi capire meglio dagli indigeni o per deriderli è il testo a indicare l’adozione di tale
20 Cfr. la voce ‘tortue’ nel Tlfi http://atilf.atilf.fr/tlf.htm.
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lingua. Per questi motivi si è deciso di mantenere tale termine e di non apporvi alcuna nota.
3.5. Trattamento di proverbi e espressioni idiomatiche
Nel testo sono presenti numerosi proverbi e espressioni idiomatiche appartenenti alla cultura africana e che gli indigeni pronunciano. La loro cospicua presenza è da considerasi del tutto normale nei testi africani in quanto tali elementi derivano dalla tradizione orale della cultura e servono inoltre a creare l’effetto di realtà per i lettori africani. Nelle società africane i proverbi rivestono due ruoli. Anzitutto hanno valore didattico, seguono la massima: «Instruis l’enfant par des proverbes», non a caso pronunciare un proverbio equivale per gli africani a evocare la saggezza degli antenati, che s’altronde sono spesso chiamati in causa in Une vie de boy
21. Inoltre i proverbi hanno valore giuridico, infatti le riunioni di villaggio si chiudono con proverbi di argomento giudiziario
22.
In Une vie de boy proverbi e modi di dire sono il più delle volte utilizzati per comunicare verità superiori e per dare consigli, soprattutto al protagonista. Tuttavia la loro lontananza dalle comuni espressioni italiane ne rende difficile la traduzione e sempre opinabile il risultato raggiunto. Va anzitutto precisato che poiché i proverbi sono espressioni locali, che variano di zona in zona e che fanno parte della tradizione orale in continua evoluzione, non sempre sono state trovate le loro attestazioni in fonti scritte autorevoli, in grado di spiegarne il significato e comunque di riconoscerne lo statuto di proverbi. Pertanto la ricerca si è avvalsa anche di internet. Da
21 A. REY, Dictionnaire de proverbes et dictons, Le Robert, Paris 1980, p. 567.
22 Ibidem.
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una parte va riconosciuto che internet non è sempre una fonte attendibile e che rimane comunque parziale e secondaria rispetto a quelle fonti scritte.
D’altra parte internet permette di avere accesso a informazioni difficilmente reperibili in altre fonti o perché non registrate o per la non disponibilità della fonte al momento della ricerca. Pertanto le informazioni ricavate da internet che costituiscono questa sezione vanno trattate in maniera critica.
Nel tradurre i proverbi si è tenuto conto del fatto che sono espressione della cultura africana e che la semplice sostituzione con i corrispettivi o simili proverbi italiani li decontestualizzerebbe troppo. Inoltre i proverbi veicolano costatazioni universali, consigli, per cui sono facilmente decodificabili. Nella traduzione è stata data la priorità alla riproduzione del senso del proverbio, per cui si è resa necessaria una traduzione letterale.
Tale scelta è andata però a discapito della forma del proverbio, ovvero di quella cadenza particolare che hanno i proverbi italiani e grazie alla quale si distinguono dalle semplici espressioni idiomatiche. Nella lettura è normale che il lettore davanti a essi si trovi in uno stato di straniamento, ma riconoscendo i proverbi come prodotto di una cultura altra, li accetta così come si presentano ed è capace comunque di decodificarli correttamente, anche perché spesso richiamano proverbi italiani (alle volte cambia solo un’unità lessicale).
Il primo proverbio presente nel testo è di origine maliana
23: «On n’enterre pas le bouc jusqu’aux cornes, on l’enterre tout entier…» (VB, p.
69). Significa che una volta che si intraprende un compito, va portato a termine e non lasciato a metà. Il proverbio è pronunciato da Sophie e si colloca alla fine di una serie di critiche sui Bianchi e il tono del suo intervento è concitato. In tal caso era necessario non rallentare il ritmo
23 Cfr. http://www.diplomatie.gouv.fr/fr/article_imprim.php3?id_article=56300.
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incalzante, pertanto il proverbio è stato tradotto letteralmente preservando così il senso dell’espressione africana: «Non si sotterra il caprone fino alle corna, lo si sotterra per intero» (VdB , p. 46).
Molto interessante è il proverbio creolo
24«— La rivière ne remonte pas à sa source…» (VB, p. 88). È lo stesso Toundi a definire l’espressione proverbio, infatti dopo averlo pronunciato aggiunge «Je crois que ce proverbe existe aussi au pays de Madame» (VB, p. 89) la quale afferma di conoscerlo. Il contesto in cui il proverbio si trova è un dialogo sulla fede cristiana tra Madame e il boy. Madame, dopo aver saputo che Toundi è cristiano ma non un fervente credente visto che tale religione gli è stata imposta dai colonizzatori, gli chiede se sia tornato feticista e il ragazzo le risponde servendosi del proverbio. Il significato del proverbio è chiaro, indica che una volta presa una decisione non si può tornare indietro, così come l’acqua del fiume non torna alla sorgente. Rimane in dubbio se esista in francese un proverbio simile, dato che non se ne sono trovate attestazioni. Tuttavia il significato è accessibile al lettore francese che può ricondurre il proverbio a ‘À l’impossible nul n’est tenu’, che indica che non si può chiedere a nessuno di fare l’impossibile, oppure all’espressione più generale ‘On ne peut pas revenir en arrière’ . Per quanto riguarda il lettore italiano, questi può facilmente riconoscere il proverbio ‘Tutti i fiumi vanno al mare’ come costatazione di un dato di fatto. Pertanto il proverbio africano è stato tradotto alla lettera anche per mantenere l’osservazione di Toundi che in caso di addomesticamento non avrebbe avuto più senso di esistere: «— Il fiume non torna alla sorgente…» (VdB, p. 61).
24 Cfr. http://www.karaibes.com/proverbecreole2.htm, in realtà il proverbio è registrato in una forma leggermente diversa: «L’eau ne remonte pas à sa source».
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Un proverbio camerunense
25un po’ ambiguo in francese è «La femme est un épi de maïs à la portée de toute bouche pourvu qu’elle ne soit pas édentée» (VB, p. 108). Viene pronunciato da Toundi che afferma che è un detto degli antenati, persone anziane e sagge iniziate a conoscenze superiori. Inoltre tale espressione sembra avere la forma tipica del proverbio africano generalmente composto da due proposizioni
26. Il contenuto è una constatazione universale sulla donna che è vista come un bene ‘accessibile’
a tutti basta trattarla con gentilezza, così come la spiga di grano è un alimento fruibile da tutti basta avere i denti per poterla mangiare e godere delle qualità nutritive. Il proverbio presenta un’ambiguità di tipo sintattico che riguarda il soggetto della seconda proposizione ‘elle’, in quanto non è chiaro se si riferisca alla ‘donna’ o alla ‘bocca’. Tale ambiguità è avvertita dai francofoni, ma disambiguata da coloro che conoscono il proverbio che legano ‘elle’ a ‘bouche’. Anche nella traduzione di questo proverbio la priorità è stata data alla riproduzione del senso che, sebbene non rinvii a espressioni familiari in italiano, è tuttavia accessibile a partire dalle metafore impiegate. D’altra parte si è preferito non esplicitare l’ambiguità, in rispetto del testo di partenza: «La donna è una spiga di mais alla portata di ogni bocca purché non sia sdentata» (VdB, p. 74).
Toundi, dopo aver scoperto le prove del tradimento di Madame, viene messo in guardia dall’assumere atteggiamenti di superiorità o di sfida davanti ai Bianchi col proverbio africano
27: «Hors de son trou, la souris ne défie pas le chat» (VB, p. 132). Il proverbio si riferisce anche allo sguardo irrispettoso con cui Toundi guarda il cuoco, infatti guardare una persona adulta direttamente in faccia indica violazione del codice comportamentale
25 Cfr. http://www.musinbox.com/culture/proverbes/proverbes.php?po=5&type=6.
26 A. REY, Dictionnaire de proverbes et dictons, cit., p. 567.
27 Cfr. http://moudkeita.over-blog.com/article-29412293.html.
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dello sguardo proprio della cultura africana. Il cuoco teme inoltre che il ragazzo possa rivolgere lo stesso sguardo a Madame, ora che ha prove certe del tradimento di quest’ultima. L’immagine del topo preda del gatto è comune anche all’immaginario italiano. Il corrispettivo proverbio italiano spiega il comportamento del topo partendo dall’assenza del gatto, infatti si dice ‘quando il gatto non c’è i topi ballano’. Pertanto non presentando problemi di decodifica, il proverbio africano è stato tradotto alla lettera:
«Fuori dalla tana, il topo non sfida il gatto…» (VdB, p. 92).
La lingua di Une vie de boy si colorisce con un linguaggio figurato in cui compaiono numerosi modi di dire. Siccome sono espressioni figurate il cui significato non è dato dalla somma dei significati dei singoli costituenti, e il cui senso è da cogliere in maniera più immediata rispetto a un proverbio, è stato necessario addomesticarne la traduzione, sostituendole pertanto con modi di dire italiani. La traduzione parola per parola avrebbe comportato la creazione di espressioni strane e alle volte ambigue, che sarebbero suonate alle orecchie dei lettori come errori di traduzione e non frutto dell’effetto straniante a cui mira la traduzione. È ovvio che in tal modo si perde molto dell’immaginario africano, tuttavia tale perdita è stata sufficientemente compensata dalla traduzione letterale dei proverbi.
Tra i modi di dire africani troviamo: «Je n’ai que la boue à la place du
cerveau» (VB, p. 42). Anzitutto l’espressione è pronunciata da Sophie ed è
collocata alla fine del suo sfogo verbale con Toundi. La ragazza si arrabbia
con se stessa per non essere ancora riuscita a derubare l’amante bianco che
non ama. Il tono dello sfogo è concitato, è stato prioritario utilizzare
un’espressione immediata che riproducesse lo stesso effetto presente nel
testo: la concitazione di Sophie, pertanto si è optato per «Sono proprio una
testa di rapa…» (VdB, p. 26).
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All’indigeno che ironicamente dice a Sophie che è facile capire dove sia il bagno in quanto basta seguirne la puzza, Sophie risponde a tono dicendo
«— On n’ignore pas où pourrit l’éléphant, dit séchement Sophie» (VB, p.
64). Il modo di dire ha la funzione di riprodurre una risposta ironica e al tempo stesso rassegnata alle parole dell’indigeno. Nella traduzione si è voluta mantenere l’idea della puzza prodotta dalla carcassa di animale, in particolare da quella di un animale dalle grandi dimensioni come l’elefante.
Pertanto si è optato per «— Infatti, puzza come un elefante morto, disse con freddezza Sophie» (VdB, p. 43).
Sophie, esasperata dal cattivo trattamento che le riserva l’amante, pronuncia un altro modo di dire particolare che per la sua estensione e la costatazione generale che esprime assomiglia a un proverbio: «Le chien peut-il crever de faim à côté de la viande de son maître!» (VB, p. 69).
Proprio perché il contenuto dello sfogo sembra di portata generale, è stato sufficiente tradurlo alla lettera: «Il cane può crepare di fame accanto alla carne del padrone» (VdB, p. 46).
Altra locuzione figurata interessante è «Les demoiselles Dubois se ressemblaient comme deux sacs jumeaux» (VB, p. 76). Il significato dell’espressione è chiara, tanto che la struttura sintattica è la medesima anche in italiano dove cambiano solo le unità lessicali ‘sacs jumeaux’.
Pertanto l’espressione è stata sostituita con «Le signorine Dubois si assomigliavano come due gocce d’acqua» (VdB, p. 51). Se si fosse tradotto alla lettera non solo l’espressione sarebbe risultata strana, ma addirittura ambigua, se non incomprensibile, laddove non c’è alcuna difficoltà di decodifica.
Stesso discorso vale per «Leurs rires étaient aussi rares que les larmes
de chien» (VB, p. 82). Se nell’immaginario africano le ‘lacrime del cane’
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sono rare, in italiano più semplicemente si dice che un evento è ‘più unico che raro’ per dire che è irripetibile. Pertanto l’espressione è stata tradotta come «Le loro risate erano più uniche che rare» (VdB, p. 56).
Altro modo di dire è «— Depuis quand le pot de terre se frotte-t-il contre les gourdins?» (VB, p. 98). Tale modo di dire pronunciato da Baklu, il lavandaio, serve a far capire a Toundi che è meglio non immischiarsi negli affari della padrona per non cacciarsi nei guai visto che è sempre Madame a tenere il coltello dalla parte del manico. Tale modo di dire richiama l’espressione idiomatica francese «C’est la lutte du pot de terre contre le pot de fer»
28dove la maggiore differenza è che il pot de fer è sostituito nella cultura africana dai gourdins. Lo stesso accade in italiano, dove esiste la locuzione «essere come il vaso di coccio tra i vasi di ferro»
29che è familiare al lettore. Siccome la struttura sintattica delle due frasi non è uguale si è preferito non avventurarsi in sostituzioni, in quanto si è ritenuto prioritario tradurre letteralmente l’espressione per renderne accessibile il senso: «Da quando il vaso di coccio si strofina contro i manganelli?» (VdB, p. 68).
Nel dialogo tra la guardia e Baklu i due personaggio utilizzano rispettivamente le seguenti espressioni figurate: «Ma bouche a toujours été plus vite que moi» e «Mon oreille est une tombe» (VB, p. 97). La prima espressione è stata tradotta letteralmente per mantenere l’immagine africana evitando di esplicitarne il significato, anche se la resa non è ottimale e la battuta perde incisività in italiano: «La mia bocca è stata sempre più veloce di me» (VdB, p. 67). Il secondo modo di dire ha il significato di ‘stare muto come un pesce’, tuttavia siccome richiama l’espressione italiana ‘essere una
28 Cfr. la voce ‘pot’ nel P. ROBERT, cit.
29 Cfr. la sezione ‘Locuzioni’ in N. ZINGARELLI, Lo Zingarelli 2000, Zanichelli, Bologna 2000.
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