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374/2017 Prove di “spiritualità politica”

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374

giugno 2017

Prove di “spiritualità politica”

Premessa 3

Pierangelo Di Vittorio L’avventura “faustiana”

del sapere. Costi e benefici della perdita di sé 6 Sandro Ricci Io, l’altro, lo psichiatra. Breve storia

di un mestiere impossibile 27

Mario Colucci Tra ascesi e desiderio: esperienze di spiritualità politica in psichiatria e in

psicoanalisi 46

Jean Allouch, Massimo Prearo Identità, sessualità, spiritualità. Una conversazione 67 Lorenzo Gasparrini Un’altra verità è possibile?

I paradossi dell’uomo eterosessuale 88 Isabelle Stengers Un altro volto dell’America?

A proposito di streghe neopagane 97 Alessandro Manna Un esperimento con

la spiritualità: la lezione di Raffaele 113 Philippe Artières Che cosa vuol dire essere

uno storico foucaultiano? 145

Fabienne Brion I giovani jihadisti europei.

Un effetto delle nostre contraddizioni? 152 Andrea Muni Una genealogia della spiritualità

politica neoliberale 165

Giovanni Leghissa Strategie per uscire

dalla caverna 185

Carla Troilo La spiritualità come atteggiamento

filosofico negli ultimi scritti di Foucault 206

(2)

3

aut aut, 374, 2017, 3-5

Premessa

L’ idea di questo fascicolo nasce dal desiderio di condividere una riflessione sul rapporto tra

“io” e “noi”: esiste un nesso tra la dimensione soggettiva e quella collettiva? Tra i processi di trasformazione personale e quelli in cui ci si raccoglie e si avanza insieme per provare a cambiare il mondo? Ed eventualmente come si articolano oggi questi due piani nella nostra esperienza quotidiana? Si tratta senz’altro – in ogni caso è l’ipotesi da cui siamo partiti – di uno dei problemi più acuti e sensibili del nostro tempo; nonostante o forse perché tendiamo a non vederlo, a occultarlo o a esorcizzarlo. Dinanzi a quello che percepiamo ogni volta come il collassare dei due piani l’uno sull’altro (come non pensare agli attentati terroristici di matrice islamica?), solleviamo le braccia e diciamo:

“Io no!”, “Noi no!”. Ogni catastrofe sembra assolverci da un problema che potrebbe invece riguardarci direttamente e intimamente, sia come persone sia come società.

E se provassimo invece a implicarci nel problema? A ipotizzare che il

problema è anche “mio”, è anche “nostro”? Se provassimo per esempio a

chiederci se, per fare filosofia e fare politica, sia davvero sufficiente “par-

lare” o “scrivere” di filosofia e di politica? È così che abbiamo deciso di

provarci, cercando di condividere il più possibile questo esercizio attra-

verso le pagine di “aut aut”. Le prove cui si fa riferimento nel titolo del

fascicolo hanno il sapore impreciso, balbettante, precario degli esercizi

che precedono l’andata in scena; ma sono anche l’esperienza stessa del

provarci, di averci provato o di stare magari ancora lì a provarci. Qual è

la cornice di questo gioco un po’ funambolico? Il filo sul quale si prova a

correre un rischio o si fa la prova di correre il rischio? Le coordinate del

gioco sono proprio i due poli attraverso cui la corda si tende: “spiritualità

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4

politica”. Due parole, raccolte l’una sull’altra, avvolte l’una nell’altra, che bisognerebbe provare a leggere, forse a meditare, facendo risuonare tutta la spaziatura, tutto l’intervallo, tutto il vuoto, anche abissale, tra le due dimensioni cui alludono. Questo fascicolo è soprattutto un tentati- vo di sospensione: esercizio che si produce avanzando tra una pluralità eterogenea di contributi; riflessioni ed esperienze che continuano a far girare la moneta su se stessa evitando che si appiattisca su un verso o sull’altro. Si può mettere la nozione di “spiritualità politica” alla prova della realtà, senza che i nostri vissuti siano messi alla prova della “spi- ritualità politica”?

Per noi però la parola spiritualità ha un’ascendenza ben precisa, che è meglio chiarire subito: proviene dall’Ermeneutica del soggetto, il corso al Collège de France nel quale Foucault opera una distinzione tra il rapporto spirituale e il rapporto razionale con la verità. Siamo nel 1982, una congiuntura storica ben precisa (nel 1981 Reagan è eletto presiden- te degli Stati Uniti), quando Foucault estrae dall’archivio storico e fa brillare un’esperienza – risalente al mondo ellenistico-romano – in cui la verità, per esistere, ha bisogno di un “soggetto” concreto che la dica, che la incarni. Non la verità come oggetto sempre presupposto di una conoscenza intellettuale, ma come qualcosa di materiale, di corporeo, di fisico; una verità che esiste solo nel momento in cui è inflitta e subita, nella contingenza singolare di un gioco di desiderio e di potere. Una verità inseparabile dal corpo, dalla vita di chi la patisce, l’ascolta, l’incorpora.

Qualche anno prima, lo stesso Foucault, in un discusso reportage sulla rivoluzione iraniana, aveva accoppiato spiritualità e politica, invitando a chiedersi che cosa avesse spinto “questi uomini a ricercare, al prezzo della loro vita, quella cosa di cui noi, dopo il Rinascimento e le grandi crisi del cristianesimo, abbiamo dimenticato la possibilità: una spiritua- lità politica”. Aggiungendo subito: “Sento già ridere qualcuno, ma so che ha torto”.

1

Pur rivisitando alcuni “luoghi” della ricerca foucaultiana, nel fa- scicolo la presenza di Foucault è una sorta di filigrana, e soprattutto l’uso che se ne fa è fondamentalmente centrifugo. Dallo psichiatra che riflette anche in termini soggettivi sulla sua esperienza di superamento del manicomio, alla criminologa che lavora a fianco dei detenuti accusati

1. M. Foucault, “À quoi rêvent les Iraniens” (1978), in Dits et écrits (1954-1988), 4 voll.,

edizione stabilita da D. Defert e F. Ewald, Gallimard, Paris 1994, vol.

III

, p. 694.

(4)

5 di “terrorismo islamico” nelle carceri belghe; dai rituali delle streghe neopagane americane, attive nel movimento no-global, al ricercatore che indaga sul movimento

LGBT

, intrattenendosi con uno psicoanalista sulla problematica articolazione tra identità militante e tecniche di sé; dallo storico che riflette sul senso del suo essere “foucaultiano”, alle riflessioni di un sociologo dinanzi alla “presa di parola” di un operaio dell’Ilva di Taranto, protagonista di una complessa riconfigurazione della sua identità personale e militante: zone d’intensità specifiche, ma in rapporto osmotico tra loro, nelle quali la riflessione sulla “spiritualità politica”

prova a intrecciarsi con le esperienze concrete che essa permette forse

di guardare sotto una luce diversa. [Pierangelo Di Vittorio, Alessandro

Manna, Andrea Muni, Carla Troilo]

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6

aut aut, 374, 2017, 6-26

L’avventura “faustiana” del sapere.

Costi e benefici della perdita di sé

PIERANGELO DI VITTORIO

Incontri di viaggio

Ci possono essere diverse ragioni che spingono a raccontare una storia:

professionali, se si esercita il mestiere di storico o di scrittore, oppure personali, se ci si sente implicati nella storia che si racconta, se si ha la sensazione di esserci finiti dentro e di esserne in qualche modo partecipi.

Nel mio caso l’esigenza di narrare la storia della trasformazione della psichiatria nel

XX

secolo, in particolare quella del movimento raccolto in Italia intorno a Franco Basaglia, nasce da un percorso articolato, fatto di strade diverse che si intersecano e si sovrappongono, formando un sistema intricato di snodi e di nodi, di biforcazioni, di deviazioni, di confluenze. Schematizzando, alla base c’è una formazione filosofica, con la sua particolare volontà di sapere, che a un certo punto è stata tagliata, per ragioni attinenti a quell’eterogeneo montaggio di accidenti rubricati in modo semplicistico ed eufemistico sotto la voce “biografia”, dall’incontro con il campo della salute mentale. In termini concreti è successo che, avendo scelto di non fare il servizio militare, dopo la laurea mi sono ritrovato a svolgere il servizio civile presso il Dipartimento di salute mentale di Trieste. Momento intenso di vita e di rielaborazione, non solo degli orizzonti culturali, ma anche della postura intellettuale:

la mappa nasce quando, uscendo dai piani preordinati, ovvero dovendo fare i conti con la convergenza caotica di piani diversi, esce da se stessa, letteralmente si sconvolge, si stravolge, e non può quindi pretendere a nessuna forma di coerenza o di esemplarità.

Le origini sono sempre “nel mezzo”, e hanno perciò la consistenza mobile di un divenire che mette in perdita ogni volontà di fondazione.

Rielaborazione di un intervento per l’incontro “Franco Basaglia e l’antipsichiatria oggi”

svoltosi nell’ambito dello Slofest a Trieste nel settembre 2015.

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7 Il nodo problematico di questa mappa, dalla quale il mio percorso è proseguito – in un gioco più o meno aleatorio o bricolé di continuità e discontinuità, paesaggio che si è modificato sotto gli occhi fino a non poter più decidere se si trattasse dello stesso o di un altro –, può essere riassunto in una “semplice” domanda: come continuare a far funziona- re la formazione filosofica, e a esercitare la relativa volontà di sapere, radicandosi in quel campo specifico che è la salute mentale, con i suoi protagonisti, le sue pratiche, la sua storia? Ed è qui che, dal bagaglio culturale che mi portavo appresso, anche per alcuni fortunati eventi edi- toriali (in primis la pubblicazione dei Dits et écrits nel 1994), è saltato fuori il nome di Michel Foucault: autore studiato, a dire il vero senza grande feeling, nel periodo universitario, e che giaceva nascosto in un cantuccio come una larva. Foucault ha funzionato insomma come una piattaforma girevole tra la filosofia e il campo della psichiatria/salute mentale, nella cui storia vivente a un certo punto mi sono trovato immerso. Quando si è operato il montaggio tra le sue ricerche e l’esperienza di Basaglia, la mappa si è accesa, ed è diventata subito un labirinto incandescente.

Il ponte era tuttavia dotato di precise caratteristiche, di un’“anima”, se volete, e dal mio punto di vista, per funzionare, domandava una certa mobilitazione dell’identità filosofica: una forma di “conversione” legata all’incorporazione di una serie di gesti, all’adozione e alla “cura” di una particolare postura. Mi sembra che tale conversione – che si gioca al contempo dentro e fuori la filosofia (alle frontiere della filosofia o nella filosofia stessa come frontiera mobile e rizomatica) e che ha a che fare con quello che Foucault chiamava “atteggiamento critico” – si può definire come un divenire minore del soggetto filosofico.

1

Una pratica o uno stile che implica da un lato un prezzo, l’inarrestabile emorragia dell’identità rappresa nella filosofia come nesso tra un sapere statutario, un capitale simbolico-culturale e una serie di meccanismi di riprodu- zione istituzionale; dall’altro però promette un premio, la possibilità di “estraniarsi” incontrando e tessendo legami con altri mondi, altri linguaggi, altre esperienze, altre forme di vita. Insomma – questa era ed è la mia convinzione – fino a quando il soggetto filosofico regnerà come un sovrano in casa propria, non correrà il rischio, ma non otterrà nemmeno, eventualmente, il premio.

1. Cfr. P. Di Vittorio, E. Mastropierro, L’informe, il rizoma, il blob. Per un divenire minore

della filosofia, “Logoi.ph”, 4, 2016.

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8

Nella mia esperienza, il piano o lo schema di tale processo di sogget- tivazione “minore” si è incarnato nella figura, per certi versi paradossale perché carica di tensione, dell’intellettuale specifico. Opponendola a quella dell’intellettuale universale, Foucault ne individua l’atto di nascita nel gesto dei fisici atomici che, scoprendo la connessione tra il loro sapere scientifico e i programmi dell’industria bellica, fecero esplodere le contraddizioni e adottarono delle forme di controcondot- ta.

2

Basaglia, è evidente, mi venne incontro quasi naturalmente con gli abiti dell’intellettuale specifico, sensazione confermata da una decisiva obiezione a Sartre contenuta in Crimini di pace: il medico che io sono, invece di rinunciare al suo ruolo, per raggiungere gli operai che lavo- rano e lottano in fabbrica, non farebbe meglio a comportarsi diversa- mente e a lottare nell’ambito di sua competenza, cioè la psichiatria?

3

Resta però il problema di capire che cosa significhi “intellettuale” e che cosa significhi “specifico”. I fisici e gli psichiatri sono intellettuali perché la loro identità e il loro ruolo sociale sono direttamente connessi con una forma di sapere; sono specifici perché tale sapere è comunque circoscritto a un particolare ambito, la fisica o la psichiatria. D’accordo, ma questo non esaurisce il senso e la portata della nozione di Foucault, anzi rischia persino di essere fuorviante (pensiamo a un fisico che, in nome dell’universalità della sua scienza, non si preoccupi di quando e dove la esercita; oppure a uno psichiatra o a uno psicologo che usi il suo sapere specifico per offrire una visione del mondo, per dire alla gente che cosa deve fare, dove deve andare, e magari, dulcis in fundo, dispensi qualche consiglio elettorale). La tensione dell’intellettuale specifico è un’altra: il suo essere intellettuale non è banalmente statutario, ma di- pende dalla capacità dinamica di far emergere delle domande nel cuore del “suo” sapere; domande che – in quanto tali – avranno un carattere

“universale” (come si può esercitare la fisica se è legata alla produzione

2. M. Foucault, “Intervista a Michel Foucault” (1977), in Microfisica del potere, a cura di A. Fontana e P. Pasquino, Einaudi, Torino 1977, pp. 20-25.

3. “Che, ad esempio, uno studente di medicina faccia l’operaio rinunciando, come scelta politica, a fare il medico, forse può servire più a lui che agli operai. Non sarebbe più utile avere un medico in più a difesa degli interessi degli operai, pur con le ambiguità che il medico continuerebbe a portare con sé, nella sua scelta di voler ‘stare dall’altra parte’?

Non è ancora una scelta di purezza totale, nell’ambito di una soluzione personale, per usci- re dalla ‘coscienza infelice’?” (F. Basaglia, F. Ongaro Basaglia [a cura di], Crimini di pace.

Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come custodi di istituzioni violente, Einaudi, Torino

1975, pp. 49-50).

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27

aut aut, 374, 2017, 27-45

Io, l’altro, lo psichiatra. Breve storia di un mestiere impossibile

SANDRO RICCI

L a memoria è ciò che tiene insieme la nostra coscienza, quindi cercherò in queste note di farne un uso serio. Un buon uso della memo- ria – che sia dar retta a ciò che emerge spontaneamente, senza sforzo, oppure fare esercizio critico e aperto su di essa – ci è necessario per capire il presente. Così se il discorso che provo a fare partirà dalla mia esperienza di giovane psichiatra all’Ospedale psichiatrico di Arezzo, dai primi anni settanta del secolo scorso in poi, è per capire se le cose che allora ho imparato possono servire ancora a chi lavora nei servizi con i pazienti gravi. Nella prima parte cercherò di rivisitare gli elementi che ritengo più importanti di questa esperienza, provando a introdurre, a distanza, qualche elemento critico. Nella seconda parte, trasportandomi all’attualità dei servizi pubblici di salute mentale, proverò a verificare la lezione del manicomio. L’ipotesi di lavoro è se è possibile tracciare oggi percorsi di ricerca sulla cura, partendo dalle esperienze basagliane.

Una utopia a portata di mano

Emerge il ricordo di un sentimento non del tutto coerente con la du- rezza del tema e del contesto: un sentimento di gioia. Vedo me stesso varcare la porta, aperta già da tempo, di quello che prima si chiamava Reparto agitati. Sono accompagnato le prime volte da un medico un po’

meno giovane di me ma già esperto. Ci sono almeno sessanta persone nell’androne e io sto con loro per ore, praticamente tutto il giorno, quasi sempre fino a molto tardi. Sto a lungo con i più regrediti, con quelli che

Sandro Ricci, psichiatra, ha lavorato ad Arezzo e presso la Clinica psichiatrica dell’Univer-

sità di Verona. Attualmente svolge attività di formazione presso servizi di salute mentale e

cooperative sociali.

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si nascondono perché hanno ancora paura, con quelli che mangiano con le mani perché non hanno conosciuto le posate, con quelli che si strap- pano i vestiti perché non hanno mai conosciuto i vestiti, con quelli che si dondolano per ore su e giù perché non hanno mai conosciuto altro che disperazione e solitudine. Tutte le mattine, con tutti quelli che ci stanno, faccio la riunione di reparto, che diventa la parte più importante del mio lavoro. Eppure la memoria non mi riporta sentimenti di frustrazione e angoscia, che pure ci saranno stati, ma di entusiasmo e pienezza.

Credo che allora la percezione principale fosse quella di partecipare a uno straordinario movimento di liberazione. Uso volutamente queste parole perché rimandano alla storia di un’epoca in cui venivano usate molto più di oggi, con una carica utopica pregnante e condivisa da molti.

E anche qui, nel lavoro di superamento del manicomio, con quel doppio significato forse un po’ retorico ma molto vero del liberare e del liberarsi.

Con una differenza rispetto a molti altri ambiti di cambiamento, locali o universali: che in questo progetto l’utopia era a portata di mano. O meglio, sembrava a portata di mano.

In questa prima fase, per me giovane psichiatra, era del tutto legitti- mo vestire i panni del liberatore. La scelta di campo, per molti della mia generazione, era già stata fatta, nutriti di pensiero critico e disponibili a intrecciare la propria vicenda personale con le trasformazioni politiche e sociali più generali, cioè a sentirsi a buon diritto di far parte della storia.

Per quanto mi riguarda, i vissuti, mi pare, stavano in una via di mezzo tra partecipazione e protagonismo, in cui incanalare la fortissima voglia di cambiamento. La chiamata (fortunosa e fortunata) ad Arezzo mi die- de la convinzione di stare finalmente dentro un processo importante.

L’accostamento iniziale a questa esperienza lo intesi da subito come una presenza militante. D’altra parte così mi sembrava che venisse intesa da tutti gli altri giovani medici della nuova équipe di cui si era circondato il direttore Agostino Pirella, braccio destro e amico di Basaglia durante gli anni di Gorizia.

Se provo però a vedere più da vicino, vedo che si trattava di una forma

particolare di militanza. Certo non assoggettata a forme di gerarchia,

visto che la disarticolazione della tradizionale gerarchia ospedaliera

faceva da sfondo generale alle pratiche di cambiamento. Piuttosto come

qualcosa che permeava l’essere inseriti in un sistema molto complesso,

le cui articolazioni avrei dovuto assimilare col tempo, di “democrazia

presa sul serio”, cioè di un sistema in cui nei fatti tutti contavano nello

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29 stesso modo. È probabile che l’adesione a questa impostazione fosse all’inizio guidata dall’ideologia, e tuttavia l’impatto con la concretezza degli internati cambiò realmente il mio paesaggio interiore. Altro che rimettere in discussione il nesso sapere-potere, qui si trattava di accettare la relazione in condizioni estreme. Cioè accettare, anzi, proporre la rela- zione in un contesto per definizione alieno da qualsiasi relazione intesa come contatto, dialogo, scambio tra pari.

Il mio apprendistato fu fatto quindi di incontri molteplici (a volte anche molto silenziosi), quasi sempre cercati, dentro i reparti, ma soprattutto fuori, sulle panchine dei vialetti, al bar che da poco era in gestione ai pazienti, nei locali della direzione, vero cuore pulsante del complesso mec- canismo della deistituzionalizzazione. La mia scuola era cercare di imitare la spontaneità e la naturalezza con cui gli altri medici più anziani ed esperti trattavano con i pazienti, anche con quelli più regrediti. Di molti pazienti imparai le storie e mi appassionai subito a questa cosa per cui dal nulla del manicomio scaturivano racconti di vita; capivo la mostruosità di questa istituzione e credo che l’indignazione abbia avuto un ruolo importante per tutto ciò che sarebbe venuto dopo, nella mia vita professionale e personale.

L’indignazione sfumava poi però in quella specie di stupore un po’ sacrale che si prova quando ci si confronta con gli aspetti più degradanti e ingiusti che colpiscono l’essere umano. In queste circostanze, questi per me erano proprio gli inizi, ciò che avevo da offrire era praticamente la mia persona, sgombra non solo del suo ruolo, questo era abbastanza ovvio, ma quasi del suo passato, che in quel momento non sembrava importante. Catapultato in un altro universo, ero spesso svuotato ma intimamente appagato. E sempre con la voglia di tornare al lavoro l’indomani.

La concretezza fa bene

Ho detto dell’impatto con la concretezza, ma che significa che questa

utopia di libertà era concreta? Per prima cosa la definirei una utopia

che si sostanzia di gesti concreti, le pratiche, come siamo abituati a

chiamarli. Pratiche che vanno raccontate perché è da esse che hanno

origine principi e concetti, pratiche che, con l’orizzonte del quotidia-

no, provocano una rivoluzione lenta ma definitiva. In secondo luogo,

l’utopia era concreta perché dava concretezza all’altro più altro di tutti

gli altri: il folle in manicomio. Prima di riprendersi la parola (non un

prima temporale, ma concettuale) il paziente di manicomio iniziava a

muoversi in un mondo di oggetti comuni, ma quasi sempre negati, gli

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aut aut, 374, 2017, 46-66

Tra ascesi e desiderio:

esperienze di spiritualità politica in psichiatria e in psicoanalisi

MARIO COLUCCI

C ome si fa nello stesso tempo a essere psichiatra allevato alla scuola di Basaglia e psicoanalista formato dalla lezione di Lacan? Come si può tenere insieme la teoria di Foucault con la pratica di Basaglia? Come si riesce a conciliare la psicoanalisi di Lacan con la critica alla psicoanalisi di Foucault?

Ho conosciuto Basaglia prima di Foucault e Foucault prima di La-

can. Conoscenze sui libri, beninteso, ma più che di incontri si è trattato

di impatti: leggendoli qualcosa è cambiato perché hanno trasformato il

mio modo di pensare e mi hanno fatto scegliere. Posso dire che grazie a

Basaglia sono approdato a Trieste, abbandonando una clinica psichiatrica

universitaria in cui le porte erano chiuse, si contenevano i pazienti a letto e

si praticavano gli elettroshock; grazie a Foucault ho trovato la filosofia che

mi interessava, quella della teoria agganciata alla pratica; grazie a Lacan

ho riscoperto la psicoanalisi, quella del soggetto di desiderio e non delle

elucubrazioni sul rinforzo dell’Io. Non sono gli unici autori che mi hanno

segnato, ma con loro è stato diverso: spesso si è trattato di misurare la mia

opinione in una sorta di confronto che mi ha portato a chiedermi: “Che

cosa avrebbero fatto e pensato al mio posto?”. Il gioco non si esauriva

qui, perché subentrava la parte più interessante, ciò che intendevo come

un “circolo critico”, ossia la messa a confronto di ciascun pensiero con

gli altri due senza che nessuno potesse alla fine predominare: si trattava di

una sorta di morra cinese, per intenderci quella tra sasso, carta e forbici,

in cui ciascun elemento può prevalere su uno ma non sull’altro. Un modo

per tenere insieme tre interessi, seppure con qualche eccesso di affanno

e dispersività, e scampare ai dogmatismi delle rispettive discipline, che

tendono talvolta a marciare distaccate e reciprocamente ignare.

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47 A me pare che ci sia un percorso triangolare fra questi autori che non è elisione reciproca ma sotterranea complicità di vedute. Mi è apparsa sempre più chiara nei miei studi e nelle mie esperienze professionali, ma quando cercavo conferme tra i miei colleghi di lavoro non ne trovavo.

Mi voltavo indietro e scoprivo di essere solo. O meglio qualcuno c’era, magari coglieva alcuni nessi fra due di questi autori, ma non con il terzo, comunque borbottava che si trattava di somiglianze di poco conto, che non valeva la pena di approfondire. Giochi intellettuali, mi si diceva, con piccoli commenti che mi ritornavano sulla schiena come sassolini.

Una sorta di accusa travestita con un’etichetta, quella di essere “un filosofo”, che, per chi lavora nel mondo delle pratiche psichiatriche da cui provengo, suona un po’ come distanza da erudito, disimpegno dalle cose del mondo, tradimento di una visione politica, in buona sostanza incapacità di vedere e risolvere i problemi quotidiani delle persone.

Grazie a questa solenne etichetta di intellettuale, da psichiatra mi sono trovato a lavorare nelle situazioni più onerose e difficili, quelle di prima linea, nei quartieri poveri e degradati, non certo nella parte ricca della città, con l’ironico conforto della frase sussurrata dal diret- tore di turno che mi ricordava che “gli uomini migliori vanno nei posti peggiori”. Sia chiaro, non rimpiango nulla, senza questo apprendistato avrei mancato il contatto con le asprezze del quotidiano, non mi sarei rinforzato nell’incontro con la sofferenza reale e non ci sarebbe stata la pulsione a continuare la ricerca teorica, a impegnarmi nello studio, nella scrittura, nell’insegnamento, per trovare anche al di fuori della psichiatria le ragioni di quelle pratiche, in saperi apparentemente sospetti come la filosofia e la psicoanalisi.

Ma adesso mi domando se mantenere un basso profilo e non accen- nare a questi saperi nel rapporto con i colleghi e nelle riunioni di lavoro sia stato proficuo: in fondo, la pulsione epistemica è fatta di confronti e conflitti pubblici, non solo giocati nel segreto della propria coscienza.

Bisognava sottoporre a critica le nozioni messe in campo dalla salute

mentale quando si mostravano figlie di una visione scientista e biopo-

litica – democratica sì, ma scientista e biopolitica – perché basata su

statistiche e computazioni a scapito di esperienze e narrazioni: bisogna-

va criticarle con l’apporto di altri saperi, anche se la conseguenza era

quella di non condividere il linguaggio della letteratura internazionale e

rischiare di non essere pubblicato e riconosciuto. Si doveva denunciare

una quotidianità fatta troppo spesso di esigenze aziendali e obiettivi di

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48

risultato, più che di attenzione ai soggetti e approfondimento clinico, che talvolta ci ha reso più competenti nel risolvere problemi sanitari che nell’ascoltare storie di vita.

Nella formazione e nella pratica da psicoanalista, la cosa ha funzionato diversamente. Il problema non erano i sassolini sulla schiena, perché non c’era nessuna competizione di carriera, semmai il bisogno di susci- tare l’attenzione dei miei colleghi su questioni istituzionali: la chiusura del manicomio e il lavoro sul territorio tracciano una differenza etica e politica della nostra psichiatria rispetto alle altre psichiatrie, che investe anche la psicoanalisi italiana, perlomeno l’ascolto che può realizzare in un contesto extraospedaliero, nel tessuto della città, profondamente segnato dal fatto che la parola del soggetto risuona all’interno di uno spazio liberato da coercizioni. Differenza non da poco, che ci porta a interrogare un ascolto psicoanalitico che all’opposto si svolga all’interno di spazi chiusi, manicomiali, come ancora avviene in altri paesi: è davvero possibile una parola libera in uno spazio che non è libero?

1

Questione cruciale che ribadisce l’importanza di sviluppare il contributo di istanze critiche e di altre discipline nella formazione degli psicoanalisti.

Quanto alla filosofia, più che l’università, per me è stata la rivista “aut aut” l’insostituibile palestra di esercizio al pensiero critico, con la sua attenzione ad autori definiti “minori” dall’accademia – per esempio, i tre citati prima – e la sua capacità di distogliere lo sguardo dai vari “realismi filosofici” e dalle Verità con la lettera maiuscola. Ho sempre trovato ambigue le posizioni filosofiche che combattono le istanze critiche de- finendole relativiste: dietro l’angolo c’è il desiderio di conquistare una base di consenso più allargata, riproponendo l’egemonia di un’evidenza che ha sempre ragione e pensando in tal modo di riaprire il dibattito con la scienza. In realtà, tali posizioni finiscono spesso per indossare un abito scientista più che scientifico, santificando acriticamente sul piano culturale l’oggettività del dato senza più sostenere la necessità di uno sforzo di interpretazione, che sia vincolato al contesto, cioè alla contingenza storica di produzione del dato stesso e al peso della sogget- tività dell’osservatore nel dispositivo di ricerca. Al di là della materialità incontestabile degli oggetti studiati – non si tratta certo di negare i for-

1. Cfr. M. Colucci, “Lo psicoanalista nella pratica istituzionale”, in A. Gallo, E. Orlando

(a cura di), La lezione della psicosi. Omaggio a Fulvio Marone, supplemento al n. 11 della

rivista “L’ippogrifo”, 2015, p. 229.

(14)

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aut aut, 374, 2017, 67-87

Identità, sessualità, spiritualità.

Una conversazione

JEAN ALLOUCH MASSIMO PREARO

N ata nel 2009 dall’ambizione di dottorande e dottorandi di creare uno spazio di dibattito accademico e scientifico nell’ambito fran- cofono su materie e oggetti di ricerca la cui accoglienza nelle riviste disciplinari di settore appariva ancora difficile, “Genre, sexualité &

société” – dove l’intervista qui tradotta fu pubblicata inizialmente – è oggi una delle riviste francofone più riconosciute nel campo degli studi di e sul genere e sulla sessualità, sostenuta anche dal Centro nazionale della ricerca scientifica francese (

CNRS

). In un contesto di progressiva istituzionalizzazione di tali studi in Francia, il comitato di redazione della rivista decise di realizzare un numero tematico dal titolo Egolo- gie. Si trattava cioè di interpellare personalità, ricercatrici e ricercatori che avevano contribuito all’affermazione della legittimità scientifica di tematiche un tempo considerate minori o, peggio, inopportune: il femminismo, l’omosessualità, il pensiero queer, la teoria politica lesbica ecc. Attraverso contributi ispirati dal metodo dell’ego-storia e interviste approfondite emerse come, ben prima dell’interesse manifestato dai vertici ministeriali e dagli organi dirigenti delle istituzioni scientifiche, a delineare i contorni di questo nuovo campo del sapere fossero anzitutto la determinazione e l’impegno di persone per cui lo sguardo analitico sulle questioni di genere e sulla sessualità andava di pari passo con una sorta di attivismo scientifico.

Jean Allouch, psicoanalista, allievo di Lacan, direttore della collana editoriale “Les grands classiques de l’érotologie moderne” (

EPEL

), cofondatore dell’École lacanienne de psycha- nalyse. Massimo Prearo, ricercatore, attivista per i diritti

LGBT

, responsabile scientifico del centro di ricerca PoliTeSse / Politics and theories of sexualité (Università di Verona).

Titolo originale: Identité, sexualité, spiritualité. Entretien avec Jean Allouch, “Genre, sexua-

lité & société”, 4, 2010.

(15)

68

Tra queste e tra questi, Jean Allouch, psicoanalista lacaniano, ha svolto un ruolo chiave nell’importazione in Francia di autrici e autori pionieri nel campo degli studi gay e lesbici, trans e queer di origine nordameri- cana e non solo (tra cui Judith Butler, David Halperin, Lee Edelman, Mario Mieli), tradotti e pubblicati nella collana “Les grands classiques de l’érotologie moderne” delle Éditions et publications de l’École la- canienne (

EPEL

). A distanza di qualche anno, appare in maniera ancora più lampante come questa circolazione internazionale non si riduca a un semplice rifornimento bibliografico a uso “interno” di una nicchia di specialiste/i, ma implichi una profonda rimessa in discussione dei mo- delli analitici che definiscono i perimetri delle discipline accademiche e scientifiche. Non del tutto filosofici, non sempre rigidamente sociologici o antropologici, non solo storici o politici, i contributi di questi studies introducono un turbamento, un disturbo, uno scardinamento radicale – il trouble del titolo di Butler, per intenderci – nel campo dei saperi costituiti e riprodotti dalla settorizzazione disciplinare.

Salutare nell’ottica di una prospettiva critica, questa logica di ri- pensamento delle categorie concettuali in corso è, allo stesso tempo, ciò che ostacola il riconoscimento di tali studi e del loro contributo

“rivoluzionario” al pensiero scientifico, ma anche l’accesso delle nuove generazioni di ricercatrici e ricercatori alla carriera universitaria. Non solo perché gli oggetti su cui lavorano sono considerati marginali, ma proprio perché, collocandosi all’intersezione di diverse tradizioni disciplinari e debordando dalle frontiere dell’economia generale del mercato accademico, sfuggono all’incasellamento peer-reviewed navi- gando spesso in una sorta di limbo inqualificato, né qui né altrove, da nessuna parte insomma. Il progetto della rivista “Genre, sexualité &

société”, come di altre esperienze simili (si veda nel campo italiano il

caso della rivista “About Gender – International Journal of Gender

Studies”), nasce invece dalla convinzione che gli studi di e sul genere,

gli studi sulla sessualità, queer e femministi, costituiscano – per ripren-

dere l’espressione istituzionale – un settore disciplinare a sé stante e

squisitamente transdisciplinare. Sarebbe forse utile che anche nel con-

testo italiano – in cui osserviamo una crescente presenza di ricercatrici

e ricercatori che si collocano in una tale prospettiva, collegata a un

crescente interesse da parte di laureande/i e dottorande/i per indagini

e interrogativi di questo tipo – si aprisse una seria riflessione sulla collo-

cazione scientifico-disciplinare di simili ricerche, se non addirittura sul

(16)

69 sistema tradizionale di settorizzazione generale che definisce la politica accademica e la sua riproduzione.

La conversazione con Jean Allouch, con cui avevo avuto il piacere di collaborare per la traduzione francese da me realizzata del libro di Mario Mieli, Elementi di critica omosessuale, si sviluppa intorno a questa volontà di attraversare i concetti e i paradigmi sottoponendoli a una sorta di stretching intellettuale, da cui deriva anche, a tratti, una certa difficoltà a intendersi o a incontrarsi a metà strada. Laddove, in uno sforzo di analisi socio-politica, propongo ad Allouch di riprendere il discorso sul tema dell’identità affrancandolo da quello che percepisco come una sorta di “panico identitario” direttamente uscito, a mio avviso, dalla proposta di Foucault di leggere lo spazio della contemporaneità omosessuale come una traiettoria di normalizzazione disciplinare dell’i- dentità gay, lo psicoanalista, partendo proprio dall’obiettivo di tracciare percorsi di resistenza al dispositivo della sessualità svelato dallo stesso Foucault, descrive i termini di un’“erotologia di passaggio”. Opponendo l’erotico al sessuale e lo spirituale all’identitario, Allouch va alla ricerca di un linguaggio altro, che faccia breccia nell’architettura grattacielistica delle norme sessuate e sessuali, fallicamente erette come espressioni della verticalità del soggetto dominante e del suo rifiuto strutturale dell’incli- nazione – di cui discute, nel suo illuminante saggio, Adriana Cavarero.

1

Attraverso la sua proposta di fare della pratica analitica un esercizio spirituale, Allouch propone di rileggere il sapere psicoanalitico alla luce della critica queer della politica identitaria, disfacendo l’ambizione totalizzante del soggetto “psy”, anamnesizzato, diagnosticato e tassono- mizzato da una voluminosa tradizione di manualistica psicopatologica.

Si tratta cioè di fare del soggetto non il punto di partenza di un progetto teorico-politico, e nemmeno il punto di arrivo di un discorso esperienzia- le, bensì il punto di passaggio in cui si incrociano e si scontrano tensioni e contraddizioni, spinte libidinali, oggetti desideranti e desiderati, la cui dimensione spirituale consiste appunto in un continuo movimento che va e viene, inciampa e si contorce, spezzandosi e ricomponendosi in configurazioni polimorfe ed erotologiche di pensiero e di pratiche.

Accordandomi il beneficio di un supplemento discorsivo che questa premessa mi permette di formulare, sottolineerei come quella figura rigida dell’identità che Allouch oppone alla figura fluttuante della

1. A. Cavarero, Inclinazioni. Critica della rettitudine, Raffaello Cortina, Milano 2014.

(17)

88

aut aut, 374, 2017, 88-96

Un’altra verità è possibile?

I paradossi dell’uomo eterosessuale

LORENZO GASPARRINI

A quale verità si accede dalla nascita

La normalità di milioni di uomini eterosessuali è intrisa di sessismi di ogni tipo, di forme di violenza esercitate sia verso altri generi e orientamenti sessuali, sia verso i propri simili, uomini eterosessuali, che non sembrano adeguati a quella normalità. L’ovvietà di questa constatazione, che tanti femminismi denunciano e dimostrano da decenni, è accettata silenzio- samente e pacificamente dai più, al pari della totale noncuranza che le riserva chi si dedica al pensiero critico. Ogni uomo (bianco, eterosessuale, occidentale) normale, manca ancora e sempre l’occasione di mettere in crisi questa parola così abusata, quotidiana, eppure pericolosa: normale.

La normalità concede privilegi e vantaggi sociali ma ha un prezzo, quello dell’adeguamento a modelli di comportamento e di relazione non scelti, insegnati e vissuti come se non ci fossero alternative. Mentre tutto il resto è aberrazione, violenza, mostruosità, distorsione, compromesso.

È questo il contesto nel quale gli uomini nascono, crescono e si formano un’idea di verità. Quella verità spicciola e comune, non pensata esclusi- vamente in termini di conoscenza, ma in rapporto al cammino, al viaggio che un uomo deve compiere per potersi costituire come soggetto. Quella verità ricavata dall’“esperienza” che si accumula in ciascuno, definendo un percorso unico e singolare. La normalità è un concetto estremamente elastico e facilmente adattabile a tante realtà diverse. Gli uomini possono vivere in classi di reddito diverse, in ambienti urbani diversi, essere più o meno abituati a viaggiare in paesi diversi e a parlare lingue diverse;

essi condividono, tuttavia, un impensato comune, raramente sottoposto a critica, secondo il quale la vita è una “prova”. Una serie di peripezie attraverso le quali l’individuo si forma “artigianalmente”, costruendosi

Lorenzo Gasparrini è blogger, attivista antisessista e dottore di ricerca in Estetica.

(18)

89 una propria autonomia etica – più o meno consapevolmente. È a partire da questo ammasso di esperienze che il soggetto sarà capace, prima o poi, di esprimere una sua verità.

Sappiamo, da Foucault, che sarebbe più che auspicabile costruirsi, trasformarsi, lavorare incessantemente su se stessi in modo che quella verità non sia intesa come una cosa da possedere, un traguardo da supe- rare una volta per tutte, ma come una realizzazione della propria vita. Il senso dell’antica “cura di sé” è svanito nel momento in cui certi complessi apparati culturali, con le loro pratiche politiche, hanno stabilito che solo attraverso una conoscenza il più possibile oggettiva – distaccata, indifferente, assoluta, non-vissuta – fosse possibile stabilire una vera identità, costruendola con quei “mattoni” che troviamo, casualmente, sul cammino dell’esperienza. Tuttavia, il senso possibile di quella presunta oggettività si è palesato come normalmente distorto verso un unico gene- re – ed è solo la prima delle tante distorsioni possibili in questo campo.

Il proprio corpo, la sua immagine e il suo aspetto, così come gran

parte del linguaggio, continuano a portare con sé una carica patriarcale,

oppressiva e discriminante, che è quasi impossibile eludere se non tramite

tortuosi espedienti e pratiche difficoltose. Normalmente la verità di cui si

fa esperienza in quanto uomini eterosessuali è satura di situazioni lingui-

stiche e comportamentali che hanno un valore identificativo, oppressivo

nei confronti degli altri e delle altre. Si tratta di disposizioni e modi di fare

che andrebbero rifiutati, anche se non sempre è possibile: difficilmente è

possibile eluderli prima che sia troppo tardi, o senza sacrificio. Si pren-

dano per esempio il proverbio e il luogo comune sessista, la battuta del

collega o dell’amico, l’insulto al volante, la chiacchiera intorno a un fatto

di cronaca, il colloquio sul posto di lavoro o l’ossessionante maschilismo

dei media: si tratta di interazioni coinvolgenti che sortiscono degli effetti,

come se fossero veri e propri attori sociali. Esse accomunano tutti gli

uomini eterosessuali, i quali, nell’aspetto o nel linguaggio, certamente

non si presentano – almeno non di primo acchito – come maschilisti

convinti, antisessisti dichiarati; il sessismo e il patriarcato, in effetti,

consistono in una serie di disposizioni sociali inconsce di cui spesso il

soggetto è inconsapevole. Se pure una minima dotazione di dispositivi

linguistici e comportamentali esiste per chi non voglia crescere in questo

modo, l’uomo che intende costruirsi una verità al di fuori del sessismo è

ancora impossibile da inquadrare in un percorso politico ed esistenziale

definito, sia pure problematico.

(19)

90

È sempre Foucault a raccontare la lotta per una soggettività che passa attraverso la resistenza a due forme di assoggettamento: la prima esige un’individuazione sulla base delle richieste espresse da un potere – che il potere abbia da svariati secoli una connotazione patriarcale lo sappia- mo –, la seconda prescrive che ogni individuo sia fissato a un’identità nota e definibile in assoluto – di norma eterosessuale, altrimenti non sarà accettabile come identità, e anche questo è abbastanza noto.

Dovremmo evitare, pertanto, di dar vita a una storia continua dello gnothi seauton, una storia che avrebbe inoltre come inevitabile postu- lato, implicito o esplicito, una teoria generale e universale del soggetto, mentre credo che dovremmo, invece, cominciare con un’analitica delle forme della riflessività che costituiscono il soggetto come tale. Insieme a tale analitica delle forme della riflessività, dovremo avviare anche una storia delle pratiche che servono loro da supporto, per poter attribui- re tutto il suo significato – il suo significato variabile, storico, e mai universale – al vecchio principio tradizionale del “conosci te stesso”.

1

In questa “analitica” è ormai il momento di inserire i femminismi, smet- tendo di credere che essi parlino solo “per” e “a” una parte dell’uma- nità. Non è più possibile eludere le pratiche femministe che, da tempo, provano a interrompere quella oppressiva “teoria generale e universale del soggetto” maschile eterosessuale. Possiamo continuare a criticare il modello cartesiano di conoscenza di sé, ma se dimentichiamo che attualmente gli accessi alle diverse verità si configurano a seconda del genere nel quale si nasce, e che questi accessi sono decisi da un potere che li regola gerarchicamente riservandoli a un numero limitato di indi- vidui, la critica non potrà produrre nulla, perché non riuscirà a scalfire la normalità di un’oppressione generalizzata della conoscenza di sé come pratica. Perché, invece di una “storia delle dottrine filosofiche”, bisognerebbe produrre “una storia delle forme, dei modi e degli stili di vita, una storia della vita filosofica come problema filosofico, ma anche come maniera di essere, e come forma al tempo stesso etica ed eroica”.

2

1. M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982) (2001), trad. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2003, p. 413.

2. Id., Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri

II

. Corso al Collège de France

(1984) (2009), trad. a cura di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2011, p. 206.

(20)

97

aut aut, 374, 2017, 97-112

Un altro volto dell’America?

A proposito di streghe neopagane

ISABELLE STENGERS

S tarhawk e io abbiamo all’incirca la stessa età.

Questo significa che appartengo a una genera- zione che in Europa ha imparato a pensare e a sentire in forte risonanza con quello che si sperimentava negli Stati Uniti. Sartre aveva identificato l’America con il razzismo, la pudicizia ipocrita, l’arroganza ignorante. Per noi significava il movimento dei diritti civili, i campus universitari in fermento, le nuove pratiche ri- schiate dalle femministe, gli esperimenti con il corpo, i suoi affetti, le sue percezioni (Lsd compreso), e quel nuovo grido che accompagnava la resistenza contro la guerra nel Vietnam: “Give peace a chance”.

Quando è arrivato maggio ’68, ricordo di aver pensato “era ora”: quel presente possibile, che restituiva al mondo la sua giovinezza, faceva finalmente irruzione da noi.

Gli anni d’inverno

Più difficile è ricordarsi come, a poco a poco, si sia fatto silenzio:

l’America che aveva reinventato il nostro mondo è stata sommersa da nuovi cliché, dalla trasformazione di milioni di giovani in relitti umani sconfitti dalle droghe e dal New Age trionfale. Ma il punto di svolta – il momento in cui l’America ha assunto quel nuovo volto che ha fornito i tratti fondamentali alla generazione di chi è nato circa quindici anni dopo di me – fu certamente l’elezione di Reagan: eravamo all’inizio di quelli che Félix Guattari ha chiamato “gli anni d’inverno”.

Isabelle Stengers insegna Filosofia all’Università libera di Bruxelles.

Titolo originale: “Un autre visage de l’Amérique?”, postfazione a Starhawk, Rêver l’obscur:

femmes, magie et politique, Les Éditions Cambourakis, Paris 2015

2

.

(21)

98

Reagan prestò giuramento il 20 gennaio 1981, e questo è anche il punto di svolta nella storia delle streghe neopagane, se consideriamo che il primo rito collettivo, deliberatamente costruito allo scopo di far convergere politica e magia, è stato fatto per resistere alla sfiducia, al sentimento di impotenza. Prima la festa di Brigid, che Starhawk rac- conta nell’ultimo capitolo del libro, poi, alla fine dell’estate, il blocco della fabbrica nucleare in costruzione presso Diablo Canyon, segnano non tanto l’origine, quanto una delle spinte, ignorate in Europa, di una molteplicità rizomatica capace di resistere al lungo inverno, e che, nel dicembre 1999, ha reinventato per le generazioni successive un’America diversa: quella di Seattle.

Per molti di noi la “battaglia di Seattle” è stata una “presa di coscien- za”, ma le streghe la definirebbero piuttosto un “atto di magia”. “Atto di magia” non significa l’intervento di un potere misterioso e seducente, soprannaturale, come non lo è stato l’esito del blocco di Diablo Canyon raccontato da Starhawk. Allo stesso modo, tuttavia, parlare di magia non è una semplice metafora. Ciò che conta è il modo in cui le parole agiscono. Parlare di “presa di coscienza” rende vulnerabili su un piano che conosciamo fin troppo bene: chi sa ha la missione e il dovere di “far prendere coscienza agli altri” della verità della loro situazione. Viceversa, osare dire “magia” significa celebrare l’evento come tale, cioè il sorgere di un possibile, la sensazione che sia stato sciolto qualcosa che “legava”

il pensiero, votandolo così all’impotenza. Pascal Lamy, che rappresenta l’Europa nei grandi negoziati sul commercio internazionale, ha sempre ripetuto: “Non si fermano gli orologi”. Grazie a Seattle questo non vale più. Per nessuno, nemmeno per lui.

Qui non c’è nessuna garanzia, nessun annuncio trionfalistico (tipo “

X

, sei fregato, il popolo è sceso in strada”), ma qualcosa come una messa in indeterminazione, la creazione di un’incognita che fa balbettare i “noi sappiamo con certezza” e che apre quegli interstizi attraverso cui si fa sentire la possibilità di un’altra storia, sia pure improbabile.

Potremmo dire ancora che Seattle fa “segno”. Ma sottolineiamo subito una differenza: non si tratta di un “indice” (che proverebbe l’esistenza di un profondo movimento di resistenza), né di una “icona”

(Seattle non ci offre nulla da capire o contemplare), né tanto meno di un “simbolo” (Seattle non ci mette nella posizione di interpretare).

Lontana dalle classificazioni di Peirce (indice, icona, simbolo), che ap-

partengono a una teoria della conoscenza, la posta in gioco del “segno”

(22)

99 di Seattle non è il riferimento a una realtà da conoscere o da capire, ma una produzione di esistenza, la cui efficacia dev’essere espressa in termini di divenire. Tale segno esiste solo per chi si chiede che risposta dare. Il suo unico significato è l’insieme delle risposte che si è capaci di dargli. In questo caso, il significato si fa sentire per quello che è, di fatto, sempre e in primo luogo: una produzione, una creazione, un apprendistato, e soprattutto non un’interpretazione che tenti di risalire agli “stati di cose”

o alle “intenzioni” di chi fa segno.

Seattle è stato l’inatteso e non l’imprevedibile, come quando si parla del tempo che farà tra un mese o della direzione presa da un ciclone.

L’evento è stato lungamente preparato: gli uomini e le donne che se ne sono assunti il rischio sono riusciti non solo a sopravvivere agli anni d’inverno, ma anche a vivere, a cercare e a sperimentare le strade di un rinnovamento. Tutto ciò riecheggia nel libro di Starhawk. Certo, non sono “loro” (le streghe neopagane) ad aver “fatto” Seattle, tuttavia appartenevano a quelle zone interstiziali la cui convergenza improvvisa ha costituito la sorpresa di Seattle. Non sono “loro” ad aver inventato le

“ricette” di tale felice convergenza dei saperi e dei savoir-faire coltivati dalla rete degli attivisti non violenti americani (Direct Action Network);

tuttavia hanno inventato le parole per celebrarla.

Il fatto che la maggior parte di noi non sapesse nemmeno dell’esistenza delle streghe neopagane fa parte del quadro. In Europa, non sapevamo granché di quello che si architettava oltreoceano. Bisogna dire che la stampa americana ha imparato la lezione dalla guerra in Vietnam; ne ha tratto la conclusione che i boys sono stati traditi, e che il potere nefasto dei traditori è dipeso dall’eco mediatica di cui hanno beneficiato. Mai più: ciò di cui non parleremo non esisterà!

Oggi, grazie a Internet, la strategia del silenzio può essere aggirata.

Ma il rischio è che si agisca sempre nell’urgenza del momento. Il tempo del libro resta necessario per cercare di pensare e di imparare.

Sentire, non aderire

Dreaming the Dark: Magic, Sex, and Politics è stato scritto nel 1982, e

tradurlo in Europa a tanti anni di distanza comporta una certa dose di

rischio. La sua pubblicazione susciterà obiezioni da più punti di vista,

talvolta divergenti. Prima di tutto, potrà deludere chi si aspetta dai ri-

tuali e dalle ricette delle streghe neopagane una novità assoluta rispetto

a quello che ci è già giunto dall’America. Vi “riconoscerà” qualcosa di

(23)

113

aut aut, 374, 2017, 113-144

Un esperimento con la spiritualità:

la lezione di Raffaele

ALESSANDRO MANNA

Ainsi la vie spirituelle est-elle pleinement retirée des cieux et des arrière-mondes: son champ de forces est la pauvreté d’ici-bas, de la rue, de l’alcôve, du salon.

G. Bataille, Marcel Proust

E se facessimo un esperimento con la spirituali- tà?

1

Se provassimo a mettere la nozione di spiritualità alla prova dell’esperienza? Se faces- simo l’ipotesi che l’esperienza quotidiana di noi stessi e degli altri possa prendere la parola, e addirittura suggerirci qualcosa di importante sulla spiritualità? Metti che qualcuno, un giorno, ti racconti come è diventato quello che è. Metti che cominci a parlarti della sua vita nei suoi dettagli apparentemente più comuni. Quei dettagli che spesso il pensiero “alto”

considera come semplici “chiacchiere” non “degne di essere pensate”

– Heidegger avrebbe certamente sottoscritto, per lui le vite e le biogra- fie dovevano necessariamente scomparire nella grandeur delle opere.

Bisognerebbe allora capire, a partire da quella narrazione, che cos’è la spiritualità, come funziona, e se si tratti di una nozione pertinente per la filosofia. In questo modo, la spiritualità, forse, smetterebbe di essere solo una nozione, un concetto, una costruzione teorica, per trasformarsi in una sorta di bussola. La biografia si separerebbe da se stessa, dalla persona che prende la parola per raccontare, ma anche dal racconto e dalle vicende, dalle sensazioni e dai pensieri circoscritti che esso prova a narrare, tirandoli fuori da quel luogo silenzioso che si chiama interiorità.

E magari comincerebbe a funzionare come il passaggio di un manuale

Alessandro Manna è ricercatore indipendente e traduttore. Ha studiato filosofia e antropo- logia sociale all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi, dove vive attualmente.

1. Ringrazio Virginia Rondinelli per avermi messo in contatto con il Comitato cittadini

e lavoratori liberi e pensanti; Fulvio Colucci, della “Gazzetta del Mezzogiorno”, che mi ha

parlato dell’articolo di Walter Tobagi, qui citato, nel corso di una chiacchierata su Taran-

to nella redazione del giornale; Maria Fonzino per avermi fatto leggere La dismissione di

Ermanno Rea.

(24)

114

di bricolage, un manuale in cui si mostra come costruirsi degli strumenti personali, specifici, di analisi del mondo là fuori ma anche di se stessi – di “autoanalisi”, avrebbe detto Bourdieu. Un “attrezzo” critico per riconnettere, dall’interno stesso della propria forma di vita, della propria esperienza, il pensiero individuale e l’azione collettiva, la soggettività e il nostro essere con gli altri. In altre parole, l’etica intesa come pratica di accesso alla verità, e la politica intesa come pratica di trasformazione in comune della società.

Si tratta di un’ipotesi seducente. E anche, con tutta probabilità, di una scommessa rischiosa. Mettere la spiritualità alla prova dell’esperien- za? Magari alla prova della “realtà”? Non proprio: il realismo e, più in generale, gli usi filosofici e sociali della realtà (per non parlare di quelli politici) sconfinano troppo facilmente – troppo spesso a loro stessa in- saputa – nel populismo, che, con quel suo richiamo seducente al potere della realtà e dei “fatti”, svaluta a priori la critica e il potere del pensiero.

No, quindi, l’idea non è di prendere congedo dalla filosofia e avven- turarsi nei territori della realtà alla ricerca della spiritualità, delegando le indagini al presunto potere dei “fatti” e alle parole della “gente” – rischio dal quale non è esente peraltro la stessa ricerca sociale, soprattutto quan- do è pura, quando non si ibrida con gli altri saperi.

2

Si tratta, piuttosto, di provare a mettere tra parentesi – nel senso della fenomenologia – le definizioni filosofiche della spiritualità, quelle definizioni che costitui- scono lo spazio simbolico e mentale, istituito e istituzionalizzato, della disciplina filosofica, con i suoi autori, le sue scuole, i suoi formati ca- nonici, i suoi classici e i suoi riferimenti bibliografici considerati come inevitabili, taken for granted o addirittura dovuti. Per ritornare, con gli strumenti della ricerca sociale e dell’etnografia, alle “cose stesse”, che in questo caso sono i “fatti sociali”: quelle cose che ciascuno di noi fa, pensa e sente interagendo con gli altri. Si tratta di sondare quelle “cose stesse” procedendo a tentoni, confrontandole, in un gioco costante di rimandi e sospensioni di senso, con le ipotesi suggerite dalla filosofia.

Si tratta addirittura – e qui risiede il maggiore elemento di rischio – di provare a cercare la “spiritualità” proprio là dove essa non si nomina,

2. J.-P. Olivier de Sardan, La rigueur du qualitatif. Les contraintes empiriques de l’intér-

pretation socio-anthropogique, Academia-Bruylant, Louvain 2008; C. Grignon, J.-C. Pas-

seron, Le savant et le populaire. Misérabilisme et populisme en sociologie et en littérature,

Seuil, Paris 1989.

(25)

115 esponendosi all’eventualità che essa, semplicemente, non ci sia. È il caso dell’intervista che costituisce il materiale empirico attorno a cui ruota questo intervento.

Anni fa, Richard Rorty pubblicò un celebre articolo in cui parlava della “priorità della democrazia sulla filosofia”.

3

Questo esperimento etnografico e filosofico con la spiritualità rivendica, altrettanto pragma- ticamente, forse anche più radicalmente, una priorità senza condizioni dei “fatti sociali” sulla teoria filosofica, nel senso di un processo di andata e ritorno senza sosta tra pensiero e realtà, fatti e critica.

Ma in cosa consiste, in pratica, questo esperimento etnografico e filosofico con la spiritualità?

Nelle pagine che seguono, il lettore si imbatterà nel racconto di Raffaele, operaio dello stabilimento siderurgico Ilva di Taranto e membro del Co- mitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti, nato nei giorni del sequestro dell’area a caldo della fabbrica, disposto dalla magistratura cittadina, a fine luglio 2012, nel quadro dell’inchiesta “Ambiente svenduto”. I capi d’accusa sono gravissimi e la fabbrica si ritrova alla sbarra – il primo grado di giudizio è attualmente in corso – per reati di inquinamento ambientale e avvelenamento della popolazione. L’Ilva rischia di chiudere i battenti mandando a casa diecimila operai con tutto l’indotto: un colpo di grazia per l’economia in crisi della provincia. In quelle settimane, la città è in preda a una specie di terrore misto a incredulità, ma anche a una strana euforia. Difficile, anzi impossibile, pensare Taranto senza la fabbrica: è così dai primi anni sessanta e la presenza di quello stabilimento è per i tarantini, soprattutto quelli nati dopo la fondazione (1961), un’evi- denza indiscutibile. Da progetto di alta ingegneria politica e sociale, la

“monocultura” dell’acciaio è diventata nel corso degli anni uno schema mentale, di quegli schemi mentali che ti spingono a pensare che la realtà deve essere così com’è, e non potrebbe essere altrimenti.

In seguito al sequestro giudiziario si scatena la reazione degli operai, che scendono per le strade. Manifestano e bloccano le vie d’accesso alla città sotto la guida dei sindacati e con il beneplacito dei vertici dell’a- zienda. Il 2 agosto viene proclamato lo sciopero generale. Una manife- stazione sfila lungo via di Palma e via d’Aquino, le vie dello “struscio”

3. R. Rorty, “The priority of democracy to philosophy”, in J.P. Reeder, G. Outka (a cura

di), Prospects from a Common Morality, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 1992.

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145

aut aut, 374, 2017, 145-151

Che cosa vuol dire essere uno storico foucaultiano?

PHILIPPE ARTIÈRES

C i sono storici con cui Foucault ha lavorato:

Jean-Pierre Peter

1

e Georgette Legée

2

per il dossier su Pierre Rivière (1973), Michelle Per- rot per il panopticon di Bentham (1977)

3

e Arlette Farge nel caso delle lettres de cachet (1979-1982).

4

Ci sono poi storici che, pur non avendo avuto uno scambio diretto con lui, hanno pervaso i suoi libri, come Mi- chel de Certeau e Philippe Ariès, o coloro con cui ha litigato apertamente, come Jacques Léonard, o con cui ha intrattenuto una discussione tesa, come Maurice Agulhon, Carlo Ginzburg e Jacques Revel in occasione della celebre tavola rotonda del 20 maggio 1978, L’impossible prison.

5

Philippe Artières, storico, direttore di ricerca al

CNRS

(Institut interdisciplinaire d’anthropo- logie du contemporain presso l’École des hautes études en sciences sociales).

Titolo originale: Un historien foucaldien?, “Revue d’histoire moderne et contemporaine”, 4, 2013, pp. 156-161.

1. Jean-Pierre Peter, storico della medicina presso l’

EHESS

, portò il dossier di Pierre Ri- vière al seminario di Foucault al Collège de France nel 1972. Cfr. la prefazione all’edizione Folio (Paris 1994) di Moi, Pierre Rivière, ayant égorgé ma mère, ma sœur et mon frère…, Gallimard-Julliard, Paris 1973; il dossier giudiziario e la memoria del “parricida dagli occhi rossi” sono conservati presso gli Archivi dipartimentali del Calvados a Caen.

2. Diplomato in studi superiori di fisiologia, poi professore abilitato in scienze naturali al liceo Jean-de-la-Fontaine di Parigi, Georgette Legée s’interessò a partire dal 1965 alla storia delle scienze biologiche, e in particolare alla figura di Pierre Flourens (1794-1867), fisiologo francese, oggetto della sua tesi di dottorato in lettere sostenuta presso l’Università Parigi

IV

nel 1986. Cfr. J. Theodorides, Georgette Légée (1914-1993), “Revue d’histoire des sciences”, 1, 1994 (Pathologie, aspects génétiques), pp. 141-142.

3. Cfr. J. Bentham, Panopticon ovvero la casa d’ispezione, a cura di M. Foucault e M.

Perrot, trad. a cura di A. Fontana e M. Galzigna, Marsilio, Venezia 1983.

4. Le désordre des familles. Lettres de cachet des Archives de la Bastille au

XVIIIe

siècle, presentazione di A. Farge e M. Foucault, Gallimard-Julliard, Paris 1982.

5. Cfr. M. Perrot (a cura di), L’impossibile prigione (1980), trad. di M.G. Meriggi, Rizzoli,

Milano 1981.

(27)

146

E anche Pierre Nora

6

– suo editore da Gallimard a partire da Le parole e le cose (1966) e fino a La cura di sé (1984) – era uno storico.

Ci sono infine storici che hanno mantenuto vivo il lavoro di Fou- cault durante la “traversata del deserto” di metà degli anni ottanta. Mi riferisco ancora ad Arlette Farge e a Michelle Perrot, ma anche a Roger Chartier, che in quel periodo furono i principali promotori della “difesa”

del pensiero foucaultiano. Poi, dopo il duemila venne il momento in cui Foucault iniziò a essere rivendicato da molti come maestro ispiratore: a lui si rifanno oggi storici come Gérard Noiriel

7

e Michelle Riot-Sarcey.

8

Foucault ha sempre ampiamente abitato la disciplina storica, in particolare durante gli anni al Collège de France. Questa documentata vicinanza, che fu spesso complice – Foucault cita più facilmente gli storici contemporanei che i filosofi o i sociologi

9

–, mi sembra smentire una volta di più la tesi, troppo diffusa, di una presunta rivalità tra il filosofo e gli storici. Foucault, d’altronde, fin dai suoi esordi al Collège de France ha avuto molti storici come amici e colleghi – tra cui Emmanuel Leroy- Ladurie, Paul Veyne e Georges Duby (eletto insieme a lui). Ed è ancora a uno storico, Pierre Vidal-Naquet, che si richiamano i suoi ultimi lavori.

10

Quanto a me e alla mia generazione – erede di molti degli storici qui citati, di cui siamo stati allievi –, credo di poter dire che noi apparte- niamo a un momento successivo, a un dopo:

11

io sono tra coloro di cui si è potuto dire e scrivere “è uno storico foucaultiano”. Associazione inedita, strano aggettivo, questo “foucaultiano”, quando è affiancato al termine “storico”. Si è parlato a lungo di storici marxisti – come nel caso di Albert Soboul, per citarne uno – e si è potuto fare riferimento a criteri facilmente identificabili e condivisi per individuare gli storici della “Scuola delle Annales” o della “Società del 1848”. Ma quali sono i criteri per individuare la figura dello storico “foucaultiano”?

6. Sulla relazione tra lo storico-editore Pierre Nora e Foucault, cfr. F. Dosse, Pierre Nora.

Homo historicus, Perrin, Paris 2011.

7. Cfr. G. Noiriel, Penser avec, penser contre, Belin, Paris 2003.

8. Cfr. M. Riot-Sarcey, “Penser le genre avec Foucault”, in

AA

.

VV

., Sous les sciences sociales, le genre, La Découverte, Paris 2010, p. 512 sgg.

9. Foucault cita Pierre Chaunu o Arlette Farge più che Robert Castel o Claude Lefort.

10. Secondo le nostre informazioni, sarebbe stata Hélène Monsacré, allieva di Pierre Vidal-Naquet, ad aver rivisto le citazioni greche degli ultimi due volumi della Storia della sessualità.

11. Secondo l’espressione che con Mathieu Potte-Bonneville ho utilizzato per qualificare

il mio uso di questo pensiero, cfr. P. Artières, M. Potte-Bonneville, D’après Foucault. Gestes,

luttes, programmes, Points, Paris 2012.

(28)

147 Cominciamo col ricordare che per lungo tempo l’uso dell’aggettivo

“foucaultiano”, associato al mestiere dello storico, è stato esplicitamente spregiativo, ironico, per non dire ossimorico. Uno storico non poteva essere “foucaultiano”, dal momento che Foucault definiva le sue nar- razioni storiche come finzioni. In un’intervista con Duccio Trombadori del 1980 Foucault lo aveva affermato esplicitamente:

Nel corso dei miei lavori, utilizzo metodi che fanno parte del re- pertorio classico: dimostrazione, prova di documentazione storica, richiamo a testi, rinvio a commenti autorevoli, relazione tra idee e fatti, proposta di schemi esplicativi ecc. Non c’è nulla di originale in ciò: da questo punto di vista, quanto affermo nei miei scritti può essere verificato o smentito come qualsiasi altro libro di Storia.

Malgrado ciò, le persone che mi leggono, anche coloro che apprezza- no quanto faccio, mi dicono spesso ridendo: “Ma in fondo tu sai bene che le cose che dici non sono altro che finzioni!”. Io replico sempre così: chi ha mai pensato di fare qualcosa di diverso da una finzione?

12

Oggi le cose non stanno più così: abbiamo riscoperto l’articolo di Paul Veyne del 1973

13

in cui si dice che Foucault ha rivoluzionato la storia.

Di qui, parte della disciplina ha iniziato a concordare sul fatto che le sue ricerche, i suoi libri e i suoi corsi abbiano radicalmente modificato l’approccio storico. Oggi le sue archeologie costituiscono un apporto insostituibile per questa disciplina.

14

Nonostante ciò, l’aggettivo “fou- caultiano” continua ad apparire quanto meno enigmatico quando asso- ciato alla pratica dello storico. Che storico sono io, dunque, per essere definito “foucaultiano”?

15

12. D. Trombadori, Colloqui con Foucault (1980), Castelvecchi, Roma 2005, p. 33.

13. P. Veyne, “Foucault rivoluziona la storia” (1978), in Michel Foucault. La storia, il nichilismo e la morale, trad. di M. Guareschi, ombre corte, Verona 1998, pp. 7-65.

14. In Francia, negli ultimi anni, sono state organizzate diverse giornate di studi e con- vegni dagli storici su Foucault: per esempio, il convegno Foucault et la Renaissance. Une histoire au présent. Les historiens et Michel Foucault aujourd’hui, organizzato da Damien Boquet (Università di Aix-Marseille

I

/

IUF

), Blaise Dufal (

EHESS

), Pauline Labey (

EHESS

), Aix-en-Provence, Maison Méditerranéenne des Sciences de l’Homme, nel maggio 2011;

Foucault et la Renaissance, convegno internazionale, a Tolosa, nel marzo 2012; Régimes de vérité, gouvernementalité et biopolitique: les historiens et Michel Foucault, giornate di studio della Société d’histoire moderne et contemporaine, nel giugno 2013.

15. La problematica di questo articolo mi è stata suggerita dalla “Revue d’histoire

moderne et contemporaine”, che ringrazio.

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