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1. La responsabilità del produttore nei paesi membri prima della direttiva 374 del 1985

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CAPITOLO 9 - LA RESPONSABILITA’ DEL PRODUTTORE

1. La responsabilità del produttore nei paesi membri prima della direttiva 374 del 1985

Nessuno dei paesi della UE aveva mai posseduto una specifica normativa dedicata alla responsabilità del produttore, ciò nonostante ciascuno aveva elaborato un proprio modello giurisprudenziale connesso alla progettazione, produzione e messa in circolazione di beni che cagionano danni al cittadino consumatore.

La giurisprudenza italiana seppe ricostruire un sistema relativamente soddisfacente di responsabilità del produttore. La dottrina ed i giudici italiani hanno dovuto destreggiarsi tra una responsabilità per colpa ed una oggettiva dei padroni e dei committenti, per l’esercizio di attività pericolose, per danni cagionati da cose in custodia. In particolare la responsabilità per colpa oggettiva contiene il grosso limite, finendo per aggravare la posizione processuale del danneggiato, della necessità di provare oltre al danno anche la colpa del produttore, prova che non sempre risulta agevole. Rendendosi conto di tali difficoltà si è cercato di porvi rimedio affermando una sorta di presunzione di colpevolezza a carico del produttore: se una cosa è fonte di danno vuol dire che la cosa è pericolosa; se la cosa è di per se pericolosa non è necessario provare la colpa di chi l’ha prodotta. Questa si presume in quanto implicita nell’aver prodotto e messo in circolazione un prodotto che può essere fonte di danno. In tale modo la giurisprudenza solleva il consumatore da ogni onere probatorio della colpa del produttore, che è implicita nel fatto stesso dell’accertata dannosità del prodotto.

La forzatura ha spinto altra parte della giurisprudenza verso l’utilizzazione di un altro gruppo di norme costituito tanto da quella che sancisce una vera e propria responsabilità oggettiva, senza possibilità di fornire alcuna prova liberatoria, che da altre che prevedono una responsabilità indiretta o per fatto altrui, sia pure con la possibilità per il danneggiante di fornire una prova liberatoria (l’avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno).

In Francia la responsabilità del produttore si è sviluppata utilizzando le norme sulle responsabilità del venditore, quindi utilizzando un modello di responsabilità contrattuale anziché extracontrattuale. Nella maggior parte dei danni causati da difetto del prodotto la giurisprudenza ha fatto ricorso alle regole previste in tema di inadempimento e di responsabilità del venditore, questo è infatti responsabile per i vizi della cosa, non conosciuti all’acquirente, che la rendono inadatta all’uso al quale è destinata. In particolare, in origine, il danneggiato poteva rivolgere la richiesta di risarcimento al contraente- rivenditore, il quale poteva rivalersi sulla sua controparte, ad esempio il distributore, che a sua volta poteva rifarsi sul produttore. Ora, nel caso in cui si provi che nessuno degli intermediari era a conoscenza dei vizi del prodotto, il danneggiato può richiedere il risarcimento direttamente al fabbricante del prodotto. Il precedente inadeguato sistema viene così superato con l’introduzione di una action directe attribuita all’acquirente finale direttamente nei confronti del venditore originario.

I vantaggi per il consumatore da tale modello di responsabilità del produttore sono evidenti, non richiedendo la dimostrazione della colpa; il danneggiato dovrà, bensì, provare oltre al danno esclusivamente: a) l’esistenza dei vizi della cosa acquistata e la loro preesistenza rispetto al momento dell’acquisto b) che tali visi erano occulti, ossia che egli non ne era a conoscenza al momento dell’acquisto c) il nesso di causalità tra i vizio ed il danno.

A questa soluzione sulla quale si è costituita la tematica della tutela del consumatore, si contrappone quella che si fonda sulla responsabilità extracontrattuale del produttore per quanto concerne la responsabilità per il fatto della cosa in custodia e per la responsabilità del datore di lavoro per il fatto dei suoi dipendenti.

La giurisprudenza ha infine cercato nella specifica materia della responsabilità oggettiva del produttore, di fare emergere un modello di responsabilità oggettiva ed ha elaborato alcuni parametri di valutazione della condotta del produttore che potessero valere come tipizzazioni dell’illecito al fine di fondare il diritto del danneggiato al risarcimento del danno, fino a giungere ad un’irrilevanza della colpa specifica divenendo sufficiente la sola prova del difetto.

In Germania tanto nell’azione contrattuale, quanto nell’ambito di quella extracontrattuale i giudici hanno sempre utilizzato criteri interpretativi tali da favorire il consumatore danneggiato nella dimostrazione degli elementi necessari per raffermare la responsabilità de produttore. Infatti, il danneggiato sarebbe tenuto a provare tutti i fatti su cui si basa la propria richiesta; non solo il difetto

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del prodotto ed il nesso causale tra il difetto e l’evento, quindi, ma anche la colpa del produttore. La giurisprudenza tedesca ha però invertito l’onere della prova addossandola al danneggiante. Il produttore dovrà così dimostrare l’assenza della colpa nella progettazione e fabbricazione del prodotto.

Se il danneggiato potesse vantare l’esistenza di un rapporto di natura contrattuale questo dovrà solo provare il nesso causale ed il difetto del prodotto, spetterà al produttore l’onere di dimostrare l’assenza della colpa.

In common law deve sussistere una negligenza in capo al fabbricante affinché sia ritenuto responsabile del danno. Il danneggiato dovrà limitarsi a dimostrare il danno ed il nesso di causalità fra il prodotto ed il danno affinché scatti la presunzione di colpevolezza del produttore, è comunque ammessa la prova contraria nel caso in cui questo riesca a dimostrare di aver usato la necessaria diligenza nella progettazione e fabbricazione del bene.

2. Gli obiettivi della direttiva sulla responsabilità del produttore:

La direttiva 374 ha permesso di assicurare libera concorrenza tra le imprese del mercato unico, evitando che la diversità delle legislazioni potesse falsarla o pregiudicare la circolazione delle merci (ovvio come chi operi in paesi in cui si è maggiormente esposti al rischio di azione da parte del danneggiato scarichi i maggiori costi sul prodotto finito, o scelga di esportare nei soli paesi in cui il rischio di risarcire i danni è minore).

Una normativa come la precedente, sulla responsabilità del produttore, è ovvio come possa comportare vantaggi anche per il consumatore; i risultati a cui è approdata paiono, comunque, più una risposta alle esigenze degli imprenditori che a quelle del compratore.

Il modello comunitario di responsabilità del produttore che è sorto a seguito della direttiva è di compromesso; così se ci si pone nella visuale dei paesi che non avevano elaborato un sistema di elevata tutela del danneggiato, i vantaggi che derivano al consumatore dal modello comunitario sono evidenti; viceversa per altre nazioni che avevano elaborato un modello maggiormente garantista.

La direttiva sembra avere una particolare predilezione per limitare la responsabilità del produttore, nonché introduce una serie di ipotesi nelle quali è esclusa la responsabilità del fabbricante.

3. Alcune caratteristiche della disciplina comunitaria:

A) L’ambito di applicazione:

il produttore è responsabile del danno causato da un difetto del suo prodotto, inteso come ogni bene mobile ad eccezione dei prodotti agricoli naturali (agricoltura, allevamento, pesca) che non avessero subito una prima trasformazione (in Italia, all’atto dell’attuazione di tale normativa, si sono comunque inclusi anche tali beni nella disciplina).

La nozione di produttore comprende:

- il fabbricante del prodotto finito - il produttore di una materia prima - il produttore di un componente

- per i prodotti agricoli naturali, l’agricoltore, allevatore, pescatore, cacciatore - colui che appone il suo marchio

- l’importatore nella UE

- il fornitore del prodotto il quale è equiparato al produttore nei casi in cui non sia possibile identificare il fabbricante.

Per quanto riguarda il requisito del difetto la normativa definisce difettoso un prodotto che non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze, tra cui la presentazione del prodotto, l’uso al quale può essere ragionevolmente destinato, il momento della messa in circolazione del prodotto.

Si specifica poi come un prodotto non possa essere considerato difettoso per il solo fatto che un prodotto più perfezionato sia stato messo in circolazione successivamente ad esso.

Non sarà, quindi, sufficiente dimostrare l’intrinseca inadeguatezza del bene all’uso al quale è destinato, ma sarà indispensabile fare riferimento ad una serie di valutazioni che concernono il comportamento tenuto dal produttore.

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B) Il danno risarcibile:

per danno risarcibile si intende il danno alla persona nonché quello alle cose diverse dal prodotto difettoso al quale va detratta una franchigia di 500€ (in questo secondo caso è necessario che il prodotto sia destinato all’uso e consumo privato e sia stato utilizzato nell’ambito di tale funzione, si deve trattare quindi di un prodotto destinato al consumatore finale. Nel caso di danno alla persona tale limitazione non vale, applicandosi la normativa anche nel caso il danno sia procurato ad altri imprenditori, od ad acquirenti del bene per un uso in ambito professionale o con lo scopo di rivenderlo).

La direttiva non entra nel merito del danno morale, lasciando all’applicazione delle eventuali regole in materia precedentemente presenti nello Stato membro.

C) L’onere della prova:

la direttiva pone in capo al danneggiato l’onere di provare soltanto il danno, il difetto ed il nesso tra difetto e danno. La direttiva non accoglie comunque una forma di responsabilità oggettiva; infatti se per responsabilità oggettiva si intende quella in base alla quale un soggetto è ritenuto responsabile senza che possa esonerarsi fornendo una prova liberatoria, allora il modello comunitario non è un modello di responsabilità oggettiva. Di fronte al danno provocato, una volta provato il nesso causale ed il difetto, ne risponderà colui che l’ha prodotto salvo, quindi, che non riesca a dimostrare alcune circostanze tali da liberarlo dall’obbligo del risarcimento. È una sorta di inversione dell’onere della prova.

D) Le cause di esclusione della responsabilità:

queste sono la mancanza del nesso di causalità tra produzione e difetto, offrendo al produttore la possibilità di dimostrare che il difetto non era presente quando aveva messo in circolazione il prodotto.

Si riversa, in tal modo, sul danneggiato l’onere di provare il contrario, e cioè che il difetto sussisteva in concreto. Evidente come la responsabilità del produttore non sia, così, oggettiva, dovendo questi non fornire la prova contraria, ma soltanto un insieme di elementi dai quali si potrà presumere la mancanza del difetto. A tale scopo dovrà comunque fornire prova di aver adottato tutte le norme di diligenza e le precauzioni necessarie per evitare il difetto.

Se il produttore riesce poi a dimostrare che il prodotto, anche se difettoso, è conforme alle regole imperative emanate dai poteri pubblici, non sarà ritenuto responsabile.

Di più, il produttore non risponde quando lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche al momento in cui ha messo in circolazione il prodotto non permetteva di scoprire l’esistenza del difetto. Tale norma risulta essere assai controversa.

Ciò che emerge da queste considerazioni è che il modello comunitario appare fortemente inclinato verso una responsabilità per colpa e non verso una responsabilità oggettiva, meno ancora verso una responsabilità per rischio d’impresa.

È prevista comunque per gli Stati membri la possibilità, in sede di attuazione, di prevedere (o se già presente mantenere) nella propria legislazione che il produttore sia responsabile del danno anche se dovesse provare che lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche non permetteva di scoprire l’esistenza del difetto.

4. La legge italiana di attuazione della direttiva ed il suo rapporto con le regole codicistiche:

La direttiva comunitaria stessa contiene una norma che sembra ammettere la possibilità di rivolgersi alla dottrina specifica ogni qual volta esista, nell’ordinamento nazionale, una diversa disciplina più favorevole al danneggiato; norma ripresa dal nostro legislatore nel decreto di attuazione.

Tale articolo è assai controverso; da una parte vi sono coloro che tendono ad ampliare i diritti del danneggiato parzialmente compromessi dalla direttiva comunitaria, dall’altra coloro che ritengono la soluzione comunitaria sufficientemente garantista nei confronti del consumatore ed utile per evitare le distorsioni e forzature che spesso caratterizzano l’evoluzione giurisprudenziale. Accogliendo l’interpretazione critica nei confronti del modello comunitario riemergerebbe la disparità di trattamento tra imprenditori che agiscono in Stati differenti. Per tale ragione vi è chi propone di

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considerare la direttiva comunitaria in rapporto alle leggi nazionali; in particolare la direttiva, tradotta in legge interna, costituirà il diritto comune del danno da prodotti, e potrà essere disapplicata soltanto in presenza di norme speciali che si discostino da essa in relazione a particolari categorie di prodotti, produttori o di consumatori.

Vi è poi un ulteriore interpretazione che sostiene come le due normative (nazionale e comunitaria) possano coesistere garantendo al danneggiato un concorso di azioni tra le quali egli potrà scegliere valutando di volta in volta la convenienza dei rimedi che l’ordinamento propone.

È comunque impossibile stabilire con certezza finché la direttiva rimarrà tale, essendo una soluzione di compromesso tra le nazioni che possedevano un sistema di responsabilità del produttore severo e le altre, quale sia, tra le precedenti, l’interpretazione da privilegiarsi.

Nel 2002 la corte di giustizia ha cercato di porre rimedio a tali incertezze interpretative stabilendo che i diritti attribuiti dalla normativa dello Stato membro ai danneggiati a causa di un prodotto difettoso possono essere limitati o ristretti a seguito del recepimento della direttiva comunitaria nell’ordinamento giuridico dello Stato. Rafforzando, quindi, la posizione meno garantista e suscitando reazioni negative da parte di chi vede in essa un evidente arretramento nella tutela del consumatore (confermando ancor più lo scopo di questa direttiva volta non tanto ad offrire un’efficace tutela, quanto ad armonizzare le normative presenti nei diversi Stati allo scopo di garantire pari condizioni a tutti gli operatori del mercato).

5. L’attuazione della direttiva nei Paesi membri

La direttiva sulla responsabilità del produttore è probabilmente il più evidente esempio delle difficoltà e dei limiti dell’attività di armonizzazione comunitaria.

In effetti, se si va a vedere come hanno reagito i paesi membri quando hanno dovuto attuare la direttiva, si potrà notare che ciascuno l’ha interpretata e attuata secondo il proprio modo di vivere, le proprie concezioni e la propria tradizione. Le differenze che preesistevano sono rimaste, in buona parte, inalterate.

Per esempio, per quanto riguarda la definizione di difetto (contenuta nell’art.6 della direttiva), alcune leggi di attuazione sono giunte a formulare un modello di responsabilità oggettiva, altre un modello fondato su una presunzione di colpa.

Così, la recente legge francese di attuazione afferma che il prodotto è difettoso quando non offre la sicurezza che si può legittimamente attendere, tenuto conto della presentazione del prodotto, dell’uso che ragionevolmente può essere fatto e del momento della sua messa in circolazione. Il riferimento alla condotta dell’imprenditore e ad una valutazione del suo comportamento è appena accennato, mentre manca della legge tedesca.

La legge inglese di attuazione nel fornire la propria definizione di difetto, dopo aver riproposto la parte iniziale della nozione comunitaria (“mancanza della sicurezza che ci si può attendere”) aggiunge un elenco di circostanze al fine di valutare se l’aspettativa del consumatore sia legittima o meno, che finiscono per spostare l’attenzione verso il comportamento del produttore (aspetto soggettivo). La norma inglese contiene infatti un esplicito riferimento al modo in cui il prodotto è stato commercializzato, all’uso per cui viene venduto, alla sua presentazione, alle avvertenze fornite al consumatore e alle istruzioni circa le modalità d’uso del prodotto.

In Italia la soluzione si pone in una via di mezzo. Riproduce fedelmente la direttiva, ma aggiunge alcune circostanze quali le “istruzioni e le avvertenze fornite” che ineriscono ad una valutazione della condotta del produttore (“un prodotto è difettoso se non offre la sicurezza offerta normalmente dagli altri esemplari della medesima serie”).

Risalta, dunque, con maggiore evidenza la scarsa propensione degli ordinamenti nazionali ad introdurre regole che non appartengono alla propria tradizione giuridica.

L’art.7 della direttiva consente ai Paesi membri di escludere la responsabilità nel caso in cui lo stato delle conoscenze tecniche e scientifiche non fosse stato tale da permettere di scoprire il difetto del prodotto (c.d. rischio dello sviluppo).

La legge inglese di attuazione non si limita ad affermare che il produttore non è responsabile quando il difetto dipende da una insufficiente conoscenza tecnico-scientifica, ma richiede

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anche che la valutazione del giudice debba essere rapportata a ciò che normalmente fanno gli altri produttori di un bene analogo. Il che significa porre l’accento sul comportamento che il produttore ha tenuto nel produrre quel determinato bene, e non sul difetto in sé della cosa.

La recente legge francese addossa al danneggiato il rischio dello sviluppo. Inoltre ammette la possibilità per il produttore di esonerarsi da responsabilità nel caso in cui egli fornisca la prova di avere fabbricato il prodotto in conformità alle norme.

• Germania e Italia sono rimaste fedeli alla direttiva, in quanto la soluzione comunitaria era già vicina a quelle nazionali. È prevista l’esclusione dalla responsabilità per il rischio dello sviluppo che invece viene addossato al danneggiato, ma non vi è alcun riferimento ad una valutazione di tipo soggettivo sul comportamento del produttore

In definitiva, la direttiva ha consentito agli Stati membri di lasciare sostanzialmente inalterata la situazione preesistente. Infatti, laddove si trattava di interpretare disposizioni dal significato non univoco, ogni Paese ha attuato la direttiva interpretando la disposizione secondo il proprio modello giuridico. Laddove invece la direttiva lasciava spazio a deroghe nazionali, ciascun Paese ha dato spazio al proprio modello giuridico.

La direttiva comunitaria non ha modificato la situazione. Non è riuscita a garantire un grado di protezione del consumatore uguale in tutti quei Paesi che avevano modelli diversi.

Nel 1995 si è tenuto un convegno internazionale durante il quale è stato tracciato un primo bilancio dei risultati della direttiva. Un bilancio non positivo, poiché i risultati non paiono corrispondere a quelli attesi. Alla luce di queste valutazioni la Commissione ha presentato nel 1999 un Libro verde sulla responsabilità civile per danno da prodotti difettosi per verificare lo stato d’attuazione della direttiva in tutti i Paesi membri. In Italia sono poche le sentenze fondate sul nuovo modello normativo.

Quello comunitario non costituisce sempre e in ogni caso il modello più vantaggioso per il danneggiato. I modelli e le soluzioni offerte da alcune norme del nostro codice civile probabilmente riescono ad offrire maggiori opportunità al danneggiato.

6. La direttiva sulla sicurezza dei prodotti

La direttiva relativa alla sicurezza dei prodotti è stata introdotta al fine di chiarire alcune disposizioni alla luce dell’esperienza maturata e dei recenti sviluppi in materia di sicurezza dei prodotti di consumo.

La direttiva impone agli operatori economici un obbligo generale di commercializzare esclusivamente prodotti sicuri, stabilisce obblighi di controllo dell’applicazione dei requisiti comunitari di sicurezza dei prodotti a livello nazionale e comunitario, e detta linee guida in materia di scambio rapido di informazioni tra Stati e Comunità.

La direttiva si applica a tutti i prodotti a prescindere dalle tecniche di vendita, compresi la vendita a distanza e il commercio elettronico.

Per prodotto sicuro si intende qualsiasi prodotto che non presenti alcun rischio oppure presenti unicamente rischi minimi, compatibili con l’impiego del prodotto e considerati accettabili nell’osservanza di un livello elevato di tutela della salute e della sicurezza delle persone, in funzione delle caratteristiche del prodotto (composizione, imballaggio, installazione e manutenzione), dell’effetto del prodotto su altri prodotti, …

Per produttore si intende sia il fabbricante del prodotto sia qualsiasi altra persona che si presenti come fabbricante apponendo sul prodotto il proprio nome, marchio o altro segno distintivo, o colui che rimette a nuovo il prodotto. Inoltre si considerano produttori anche il rappresentante del fabbricante, l’importatore del prodotto e tutti gli altri operatori professionali della catena di commercializzazione nella misura in cui la loro attività possa incidere sulle caratteristiche di sicurezza dei prodotti.

La direttiva sulla sicurezza dei prodotti ha dato modo agli Stati membri di porre a carico del produttore che violi gli obblighi e i doveri di sicurezza una sanzione di tipo penale o amministrativa, a seconda dei casi.

Insieme alle regole in materia di controlli sulla certificazione dei prodotti e diretto ad attestare la conformità del prodotto alle norme di sicurezza e agli standard prefissati, le regole comunitarie prevedono l’istituzione di appositi organismi nazionali, il cui compito consiste nel controllare che i prodotti immessi sul mercato siano prodotti sicuri. Per garantire un efficace controllo nazionale e

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comunitario sulla sicurezza dei prodotti si è introdotto un sistema di sorveglianza denominato RAPEX, avente la funzione di coordinare e potenziare l’intervento delle autorità di controllo nazionali. Sotto il profilo sanzionatorio, si è poi conferita ai singoli Stati la facoltà di adottare tutte le misure necessarie ad evitare la messa in circolazione di prodotti non sicuri, consentendo anche di imporre alle imprese il ritiro dei beni pericolosi già venduti. Nei casi di grave rischio, inoltre, si potrà giungere al divieto di esportazione di un prodotto non sicuro: decisione estrema adottata dalla Commissione, motivata e soggetta a ricorso davanti ai tribunali competenti.

7. La proposta di direttiva sulla responsabilità del prestatore di servizi

La proposta di direttiva sulla responsabilità del prestatori di servizi si fondava su un sistema che prevedeva una responsabilità di colui che prestasse la propria attività professionale basata sulla colpa, con inversione dell’onere della prova (“il prestatore di servizi è responsabile del danno cagionato per sua colpa nell’ambito della prestazione del servizio, alla salute e all’integrità fisica delle persone o dei beni mobili ed immobili, compresi quelli oggetto della prestazione. L’onere di provare l’assenza di colpa è a carico del prestatore di servizi”).

Le differenti soluzioni adottate dai Paesi membri sarebbero tali da creare ostacoli agli scambi e condizioni disuguali nel mercato interno dei servizi. Esse inoltre non assicurerebbero il medesimo livello di tutela dei danneggiati e dei consumatori contro tutti i danni cagionati alla loro persona e ai loro beni.

La proposta, accolta favorevolmente dalle Associazioni dei consumatori e dalla Commissione del Parlamento, ha incontrato invece forte opposizione sia da parte del Comitato economico e sociale sia da parte dei diversi settori professionali.

Ci sarebbe la possibilità di scegliere uno dei seguenti modelli:

1) una responsabilità per colpa, con inversione dell’onere della prova a carico dell’imprenditore o del professionista;

2) nel caso di obbligazioni di mezzi, una responsabilità per colpa; nel caso di obbligazioni di risultato una responsabilità oggettiva;

3) una responsabilità per colpa, con l’inversione dell’onere della prova, ma con la dimostrazione da parte del consumatore del difetto del serio prestato.

La Commissione, resasi conto dei profondi ostacoli che ancora separano le diverse opinioni, preferiva ritirare la proposta del 1990. ma poi decise che era opportuno rivedere il problema in una prospettiva più ampia, che contempli non soltanto la sicurezza del servizio offerto, ma anche il ruolo del consumatore nei rapporti che intercorrono con il prestatore di servizi o con il professionista, nonché il problema dell’informazione che deve essere fornita al consumatore e, quindi, individuare con maggiore precisione i diritti spettanti al contraente o all’utilizzatore.

Per tali finalità la Commissione ha istituito un nuovo gruppo di lavoro in vista di una nuova proposta.

Nel 2003 il Consiglio ha approvato una Risoluzione sulla sicurezza dei servizi destinati ai consumatori, nella quale ha posto l’accento sul profilo della sicurezza dei servizi e dello scambio di informazioni tra gli Stati membri e l’Unione, rimanendo nell’ombra la questione della responsabilità del prestatore di servizi per i danni cagionati nell’espletamento della propria attività.

CAPITOLO 12 – LA DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA 1. Origini e ragioni dell’antitrust

È palese il significato e l’importanza che assumono, nello sviluppo delle politiche comunitarie e dell’ordinamento giuridico della Comunità, nozioni e principi come quelli della libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali (le c.d. quattro libertà fondamentali) che hanno permesso la graduale abolizione delle barriere doganali e la soppressione di molti elementi che avrebbero potuto ostacolare la realizzazione dei suddetti quattro principi di libertà.

Ciò non esclude però l’apposizione di limiti e correttivi al principio stesso in funzione della sua salvaguardia, affinché il regime della concorrenza sia effettivo e garantito nel lungo periodo.

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Il contrasto tra libertà di iniziativa economica e limitazioni alla libertà di concorrenza è puramente apparente.

L’originarietà del modello di regolamentazione della concorrenza spetta agli Stati Uniti che hanno saputo elaborare al riguardo, verso la fine dell’800, una normativa complessa ed efficiente, conosciuta con il termine di antitrust, con il quale si identifica quel complesso di regole utilizzate per reprimere atti lesivi della concorrenza. A seguito dell’esperienza statunitense la maggior parte dei Paesi industrializzati, così come la stessa Comunità europea, ha iniziato a dotarsi di una legislazione.

Purtroppo però le normative dei vari Paesi europei sono nate, cresciute ed evolute in modo disomogeneo, senza particolari forme di collaborazione tra gli stesi Stati, senza alcuna programmazione unitaria e uniforme. Il che ha determinato in Europa uno sviluppo del diritto antitrust su due piani paralleli:

- quello comunitario, disciplinato dal Trattato CE e dai Regolamenti, fortemente unificato e centralizzato, applicabile soltanto alle situazioni che avessero avuto una dimensione e un interesse a livello di Comunità europea;

- quello nazionale, disciplinato dalle leggi nazionali, non armonizzato, applicabile alle situazioni che avessero avuto una rilevanza esclusivamente interna.

Solo negli ultimi anni vi è una crescente tendenza generale all’unificazione. La collaborazione, lo scambio di informazioni e il coordinamento tra i diversi organismi nazionali responsabili della tutela della concorrenza sono ormai resi indispensabili dalla dimensione globale di molti problemi dell’economia e della finanza, che devono trovare risposte univoche.

2. Le fonti comunitarie per la regolamentazione della concorrenza

Il Trattato di Roma non si limita a proclamare il principio di garanzia e di tutela della concorrenza, ma fornisce un insieme di strumenti diretti ad impedire o reprimere qualunque comportamento che possa avere come effetto quello di restringere o distorcere la concorrenza.

Tali strumenti sono previsti e regolamentati in diversi atti:

a) Trattato CE. Gli articoli fondamentali sono tre: gli accordi e le pratiche concordate tra le imprese, i comportamenti conseguenti allo sfruttamento di una posizione dominante sul mercato, gli aiuti e le sovvenzioni degli Stati membri alle proprie imprese;

b) Regolamenti emanati dal Consiglio. Tra questi il più importante è il regolamento con il quale è stata regolata la fattispecie della concentrazione tra imprese, che fino allora non era mai stata regolamentata;

c) Regolamenti della Commissione. Tra questi è importante segnalare quelli inerenti ad istituti e contratti, come il franchising, i contratti di distribuzione, di trasferimento di tecnologia, …;

d) Provvedimenti e Prassi della Commissione. La Commissione esercita la propria competenza mediante l’emanazione di decisioni individuali, dirette alle singole imprese nei confronti delle quali ravvisi delle irregolarità sotto l’aspetto della concorrenza, e le comunicazioni, dichiarazioni che esprimono il punto di vista, il parere, l’orientamento della Commissione in relazione a problemi o interpretazioni a carattere generale, non individuale;

e) Sentenze della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado. La Corte di giustizia svolge un ruolo fondamentale nella crescita dell’ordinamento giuridico comunitario nell’interpretare le norme del Trattato CE, nell’indicare agli Stati membri e alla stessa Commissione i criteri e le linee guida da seguire nell’individuazione e nella repressione dei comportanti anticoncorrenziali delle imprese e degli Stati stessi.

Queste quattro diverse fonti e la loro azione hanno contribuito a formare il sistema e il modello di tutela della concorrenza nella Comunità europea.

I modelli di tutela della concorrenza prevedono due soluzioni possibili:

- Controllo: ogni comportamento, anche se sia lesivo della concorrenza, è considerato lecito fino a quando non sia espressamente vietato;

- Divieto: ogni comportamento che restringa la concorrenza è da considerare sempre vietato, ferma restando la possibilità di concedere delle deroghe.

Inoltre, sono “incompatibili con il mercato comune e vietati tutti gli accordi … Tuttavia, tali disposizioni possono essere dichiarate inapplicabili” ad alcune fattispecie. Il vantaggio del sistema

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consiste nel permettere un maggiore controllo da parte delle autorità preposte alla vigilanza del settore ed una maggiore efficacia del divieto, oltre ad una maggiore ponderazione da parte delle imprese, in quanto ogni comportamento che realizzi le fattispecie ritenute vietate non sarà mai considerato lecito se, prima, non viene espressamente autorizzato dalla Commissione.

Il settore della concorrenza è l’unico ad essere stato unificato, utilizzando lo stesso strumento del regolamento anziché quello della direttiva, strumento che garantisce l’unificazione delle regole giuridiche.

3. Le competenze della Commissione

La vera protagonista dell’antitrust comunitario è la Commissione, la quale accerta le violazioni compiute, le previene o le fa cessare. Nell’esercitare questi compiti, la Commissione ha il potere di raccogliere le informazioni necessarie, controllare libri e documenti, accedere ai locali d’impresa e richiedere l’intervento della forza pubblica del luogo ove l’ispezione si compie.

La fase istruttoria può concludersi con una attestazione negativa, oppure con una decisione di esenzione, oppure con una pronuncia di condanna inibitoria. Dopo la fase istruttoria, e qualora l’infrazione sia stata accertata, la Commissione rivolge alla o alle imprese una raccomandazione diretta a far cessare gli effetti dell’accordo o della pratica concertata ritenuta lesiva della concorrenza, ovvero, a far cessare i comportamenti unilaterali che costituiscano un abuso della propria posizione dominante sul mercato.

Se l’impresa non ottempera all’obbligo impostole dalla Commissione, sarà lo Stato nel quale l’impresa ha la propria sede a dover adottare le necessarie misure per indurla a “rimediare” alla violazione.

Qualora nemmeno lo Stato membro intervenga, alla Commissione non resta che adire la Corte di giustizia mediante la c.d. procedura di infrazione. Le sanzioni che la Commissione può comminare al termine della fase istruttoria sono le seguenti:

- la nullità dell’intero accordo, o anche solo di singole clausole, se si tratta di un accordo che violi la concorrenza;

- l’obbligo di rimuovere la situazione vietata, imponendo all’impresa di non proseguire nel comportamento anti-concorrenziale e ripristinando la situazione antecedente;

- ammende da 1.000 fino a 1.000.000 €, con la possibilità di aumentare l’importo fino ad un 10%

del volume d’affari dell’impresa nell’anno precedente;

- per ogni giorno di ritardo nel dare esecuzione alle prescrizioni della Commissione, può essere prevista una penalità di mora che varia da 50 a 100 €.

4. Le fattispecie: gli accordi tra imprese

“Sono incompatibili con il mercato comune e vietati tutti gli accordi tra imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare ilo commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato comune”.

Il soggetto preso in considerazione è l’impresa oppure l’associazione di imprese. Entrambe le espressioni ricomprendono ogni tipo e specie di soggetto economico che abbia o meno fine di lucro, sia esso una società, un gruppo, un’associazione, una persona fisica, un soggetto di diritto pubblico, … Vediamo ora alcune categorie di accordi e/o comportamenti anticoncorrenziali:

- fissare i prezzi di acquisto o di vendita ovvero altre condizioni di transazione;

- limitare o controllare la produzione, gli sbocchi, lo sviluppo tecnico o gli investimenti;

- ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento;

- applicare, nei rapporti commerciali con gli altri contraenti, condizioni dissimili per prestazioni equivalenti, così da determinare per questi ultimi uno svantaggio nella concorrenza;

- subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari che non abbiano alcun nesso con l’oggetto dei contratti stessi.

Detti comportamenti sono vietati qualora esplichino i loro effetti all’interno del mercato comune.

L’intesa non è quindi vietata se gli effetti si producono solamente a livello nazionale. In questi casi saranno le autorità nazionali ad intervenire applicando le proprie regole nazionali in tema di atti lesivi della concorrenza interna.

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Una precisazione importante, la Corte di Giustizia ha ritenuto che non è necessario che gli accordi in questione falsino la concorrenza all’interno dell’intera Comunità. Essi possono essere considerati vietati anche se falsino la concorrenza all’interno di un singolo Stato, a condizione però che producano i loro effetti sugli scambi con i Paesi membri.

Gli accordi sono vietati anche se non producono effetti concreti; essi violano il Trattato anche se non prevedono sanzioni per il loro mancato rispetto; un accordo sussiste anche se, successivamente, un’impresa non abbia dato esecuzione all’accordo medesimo.

5. Le esenzioni

Se un determinato comportamento, di per sé idoneo a falsare la concorrenza, è in grado di portare anche determinati vantaggi al mercato o agli stessi consumatori, allora le parti possono godere di una dispensa dal divieto. Sempre l’art 81 precisa che accordi potenzialmente lesivi della concorrenza possono essere considerati ammissibili a condizione però che l’accordo o la pratica concordata contribuisca a “migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti o a promuovere il progresso tecnico o economico, pur riservando agli utilizzatori una congrua parte dell’utile che ne deriva.”

 Regolamento del 1962 prevedeva che soltanto la Commissione potesse concedere deroghe al divieto (con il nome di “esenzione individuale”) in quanto concesse, di volta in volta, su richiesta delle parti, dopo che la Commissione avesse esaminato tutti gli elementi dell’accordo.

Le esenzioni potevano essere concesse per un periodo determinato e potevano essere rinnovate su istanza di parte e revocate solo in casi previsti.

 Oggi invece il sistema è mutato grazie al nuovo Regolamento del 2003 con le seguenti novità:

- viene eliminato il sistema della notifica preventiva dell’accordo o della bozza di accordo della Commissione. Si è passati da un regime di autorizzazione necessaria e preventiva ad un regime di eccezione (o esenzione) legale, automatica, fermo restando che, qualora non dovessero sussistere i presupposti per non applicare il divieto ad un accordo che viola la concorrenza, la Commissione e le autorità nazionali potranno sempre agire per farne dichiarare la nullità.

- Inoltre il nuovo regolamento, allo scopo di alleggerire il carico di lavoro che gravava esclusivamente sulla Commissione, trasferisce una gran parte della propria competenza alle autorità giurisdizionali nazionali. In pratica il nuovo modello abbandona l’idea e la prassi della competenza esclusiva della Commissione in materia di accordi e di esenzioni per coinvolgere in tale attività di controllo del comportamento delle imprese anche le autorità nazionali (autorità garanti della concorrenza e del mercato o autorità giurisdizionali ordinarie). Vengono eliminate le esenzioni individuali, ma vengono lasciate le esenzioni per categoria, contenute in appositi regolamenti.

6. Le attestazioni negative

Prevista già nel Regolamento del 1962, da non confondere con le esenzioni individuali, viene riconfermata nel Regolamento del 2003 con l’espressione “constatazione di inapplicabilità”.

Consiste nella possibilità che la Commissione possa emettere un provvedimento allo scopo di

“stabilire mediante decisione che l’articolo 81 del trattato è inapplicabile a un accordo, a una decisione di associazione di imprese o ad una pratica concordata”. Il provvedimento viene rilasciato su richiesta delle parti interessate a seguito di un procedimento tramite il quale i richiedenti formulano alla Commissione il quesito se un determinato accordo o pratica concordata che non è ancora operativa ma che si ha intenzione di stipulare o di porre in essere, rientri o meno tra quelli vietati dal diritto comunitario. Serve soltanto ad accertare che un determinato accordo non è, di per se stesso, incompatibile con il mercato unico.

7. Le fattispecie: l’abuso di posizione dominante

Art. 82 del trattato CE: “è incompatibile con il mercato comune e vietato, nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra Stati membri, lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato comune e su una parte sostanziale di questo.”

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L’intenzione dei firmatari del Trattato CE non era quella di reprimere la posizione dominante sul mercato. Quello che si voleva e si vuole evitare è invece l’abuso esercitato ai danni delle altre imprese e a condizione che ciò determini un pregiudizio al mercato comune.

- Nozione di posizione dominante: (definita dalla Corte di giustizia) va valutata in relazione al mercato rilevante (insieme di elementi, come il territorio e i prodotti che contribuiscono a caratterizzare la posizione, più o meno forte di una determinata impresa sul mercato). Un’ impresa è in posizione dominante quando le è consentito “di agire in misura rilevante senza dover tenere conto della condotta dei suoi concorrenti”. Ma non è necessario avere quote elevate di mercato, ma dipende dalla struttura del mercato. Quindi il concetto di posizione dominante è un concetto relativo e richiede una valutazione caso per caso.

- Nozione di abuso: il Trattato fornisce un elenco esemplificativo e non esaustivo di comportamenti:

a) imporre prezzi d’acquisto, di vendita od altre condizioni di transazione non eque;

b) limitare la produzione, gli sbocchi o lo sviluppo tecnico, a danno dei consumatori;

c) applicare nei rapporti commerciali con gli altri contraenti condizioni dissimili per prestazioni equivalenti;

d) subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari.

Alla fattispecie di abuso di posizione dominante non si possono concedere esenzioni, né individuali, né di categoria, ma le imprese possono invece richiedere alla Commissione una specifica constatazione di inapplicabilità.

8. Le fattispecie: gli aiuti degli stati alle imprese

Sono aiuti concessi dagli Stati alle imprese in modo che “favoriscano talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza” (art. 87 Trattato CE)

esempi di aiuti che possono avere le forme più varie:

- sovvenzioni a fondo perduto - prestiti a tasso agevolato

- diminuzioni o esenzioni da imposte

- differimento del termine di versamento di contributi fiscali o sociali - cessione di terreni o edifici a prezzo inferiore a quello di mercato - aiuti all’esportazione

- campagne pubblicitarie a favore di determinate produzioni,…

E’ considerato aiuto ogni intervento dello Stato che possa alleviare gli oneri che normalmente gravano sul bilancio di un’impresa comportando una diminuzione di entrate per le casse dello Stato. Si tratta in sostanza di agevolazioni offerte dallo Stato alle proprie imprese nazionali che possono portare a falsare la concorrenza a livello comunitario in quanto favoriscono le aziende nazionali a scapito delle concorrenti straniere. Non c’è un veto assoluto agli aiuti, ma la normativa comunitaria li sottopone ad una serie di limiti e di controlli. Infatti ogni aiuto deve essere notificato dallo Stato membro alla Commissione affinché questa possa valutarne la compatibilità con le regole sulla concorrenza e quindi, autorizzarlo. Molto spesso il fenomeno degli aiuti statali implica delicate questioni tra gli Stati e le imprese nazionali che, molte volte, sono risolvibili sul piano politico prima ancora che su quello di stretto diritto.

Procedimento:

- uno Stato che vuole erogare aiuti alle proprie imprese deve notificare il provvedimento alla Commissione per ottenere l’autorizzazione;

- se risultano aiuti incompatibili, la Commissione invita lo Stato a non adottare il provvedimento o a revocarlo se già adottato;

- se lo Stato non di adegua, la Commissione potrà adire la Corte di giustizia per far condannare lo Stato inadempiente.

[ - aiuto incompatibile: comporta una distorsione alla concorrenza nell’ambito del mercato unico;

- aiuto illecito: non è stato oggetto di comunicazione preventiva alla Commissione;

- aiuto abusivo: è utilizzato in modo difforme da quanto autorizzato o stabilito dalla Commissione]

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Due precisazioni:

1. Gli aiuti, come già detto, sono vietati solo nella misura in cui incidano sugli scambi tra gli stati membri. Tuttavia, non è necessario che l’impresa a cui viene erogato l’aiuto operi anche fuori del mercato nazionale. Infatti un aiuto incide sugli scambi tra gli Stati membri anche se l’impresa beneficiaria agisce esclusivamente all’interno di un paese. Ciò che conta è verificare che quel particolare mercato territoriale limitato e circoscritto sia appetibile anche da imprese di altri paesi. E’ sufficiente che vi sia solo l’eventualità.

2. Un aiuto è incompatibile anche quando “possa falsare” o semplicemente “minacci di falsare “ la concorrenza. Anche in questo caso non è necessario che l’aiuto effettivamente abbia falsato la concorrenza, ma è sufficiente dimostrare solo la sua potenzialità lesiva.

Infine, sempre l’art. 87, distingue due situazioni:

A) aiuti che sono sempre compatibili (cioè che non lasciano spazio a nessuna valutazione discrezionale da parte delle autorità comunitarie):

- aiuti a carattere sociale concessi ai singoli consumatori accordati senza discriminazioni - aiuti destinati a ovviare si danni arrecati dalle calamità naturali o altri eventi eccezionali - aiuti specifici per la Germania del dopo guerra

B) aiuti che possono essere dichiarati compatibili:

- aiuti a favore dello sviluppo economico di regioni a basso tenore di vita

- aiuti per promuovere la realizzazione di importanti progetti di interesse comune europeo - aiuti per agevolare lo sviluppo do talune attività economiche o di talune regioni

- aiuti per promuovere la cultura e la conservazione del patrimonio - ogni altra categoria di aiuti determinata con delibera dal Consiglio 9. Le fattispecie: le concentrazioni

Si intende per concentrazione l’operazione di fusione tra due o più imprese oppure l’acquisizione da parte di una impresa del controllo di un’altra o di altre imprese. Tali operazioni non sono di per sé vietate, anzi sono incoraggiate perché permettono il rafforzamento della posizione economica delle imprese e una loro maggiore capacità di contrastare la concorrenza che proviene dai grossi gruppi extra-comunitari (come quelli giapponesi e statunitensi). Diventano però incompatibili solo qualora portino squilibri nel mercato comune e mettano in pericolo la concorrenza.

• Fino al 1989 le concentrazioni non erano espressamente regolate a livello comunitario e la Commissione interveniva solo a posteriori, dopo, cioè, che l’accordo fosse stato stipulato o si fosse verificato l’abuso e non si poteva agire in via preventiva.

• Con il Regolamento del 1989 in materia di controllo sulle operazioni di concentrazioni tra imprese (noto come Regolamento antitrust) si stabilisce l’obbligo di un intervento preventivo dell’autorità di controllo prima ancora che la concentrazione diventasse efficace.

Ora, dopo varie modifiche, si è giunti alla c.d. “soglia di interesse comunitario”che a sua volta determina la “dimensione comunitaria” della concentrazione. Per le operazioni che superano la soglia minima è prevista la competenza e il controllo della Commissione, mentre per le operazioni che rimangono al di sotto della soglia la competenza è attribuita alle autorità statali.

La soglia di interesse comunitario è costituita da 2 elementi:

A) quando il fatturato totale realizzato a livello mondiale dall’insieme delle imprese interessate è >

a 5 miliardi di Euro;

B) quando il fatturato totale realizzato individualmente da almeno due delle imprese interessate nel territorio dell’UE è > a 250 milioni di Euro e non deve essere realizzato per oltre i 2/3 in uno stesso Stato membro.

• Dette soglie minime sono state riviste al ribasso con modiche al regolamento nel 1997 che introducono anche nuovi elementi di ponderazione.

• Il massiccio aumento delle operazioni di fusioni transfrontaliere, acquisizioni e concentrazioni ha indotto la Commissione a ritoccare il sistema con il Regolamento del 2004 che abroga e sostituisce quello del 1989. La struttura della normativa è mantenuta uguale, ma sono state introdotte alcune

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revisioni nel sistema comunitario di controllo delle fusioni. Tra queste vi è la “concentrazione incompatibile”: concentrazioni che ostacolino in modo significativo una concorrenza effettiva nel mercato comune o in una parte sostanziale di esso”.

Inoltre il sistema è strutturato in modo tale da prevenire una concentrazione incompatibile piuttosto che reprimerla successivamente. Infatti le imprese che hanno intenzione di procedere ad una concentrazione hanno l’obbligo di notificare alla Commissione tale operazione. Nel frattempo l’efficacia dell’operazione rimane sospesa fino a quando la Commissione non abbai terminato la procedura di esame. Le operazioni di concentrazione, giudicate incompatibili con il mercato e la concorrenza, non possono godere del regime delle esenzioni.

10. Il diritto della concorrenza in Italia:

11. La legge antitrust italiana

La moderna disciplina della concorrenza nell’ordinamento italiano nasce, con anni di ritardo, soltanto nel 1990 quando viene emanata la legge 287/90 intitolata “norme per la tutela della concorrenza e del mercato”, nota come legge antitrust.

- Innanzitutto la legge italiana recepisce fedelmente il modello comunitario antitrust.

- In secondo luogo introduce il principio in base al quale una legge interna può e deve essere interpretata secondo criteri e categorie proprie di un altro provvedimento: “l’interpretazione delle norme è effettuata in base ai principi dell’ordinamento delle Comunità europee in materia di disciplina della concorrenza”. Infatti l’Autorità garante non può prescindere dalla conoscenza delle decisioni della Commissione in materia né delle sentenze del tribunale di primo grado e delle sentenze interpretative rese dalla Corte di giustizia. Per quanto riguarda la competenza giurisdizionale, la legge attribuisce all’autorità garante competenza generale ed esclusiva a conoscere e sanzionare i comportamenti anti-concorrenziali, ma le azioni di nullità e di risarcimento del danno devono essere presentate alla Corte d’appello competente per territorio.

12. Rapporto tra regole comunitarie e regole nazionali in tema di concorrenza

Possono sorgere problemi in merito alla divisione di competenze tra Comunità e Stati membri. Infatti un determinato comportamento di una o più imprese può provocare l’intervento tanto delle autorità comunitarie quanto di quelle nazionali, creando problemi di contrasto tra le due procedure, una della Commissione e l’altra dell’autorità nazionale.

Per esempio: impresa in posizione dominante sul mercato europeo e nazionale e che commetta un abuso della sua posizione; posto il caso: la Commissione ritenga che non sussistano i presupposti per integrare la fattispecie dell’abuso di posizione dominante, mentre, al contrario, le autorità nazionali sono di contrario avviso e vietano all’impresa di proseguire in quel determinato comportamento.

Tale problema potrebbe essere risolto nell’ambito del dibattito tra teoria della “barriere unica” (teoria della esclusione reciproca) e teoria della barriera doppia. (teoria del ricorso).

A) teoria della barriera unica: il diritto comunitario è sempre prevalente nei confronti degli ordinamenti degli Stati membri; di conseguenza le discipline dei singoli Stati non possono derogare né ai divieti posti dalla Commissione, né alle esenzioni dalla stessa concesse.

B) teoria della barriera doppia: parte dal presupposto che i due ordinamenti siano reciprocamente indipendenti, anche se complementari; di conseguenza il fatto che un comportamento rientri nella competenza delle autorità comunitarie non esclude di per se stessa la competenza concorrente delle autorità nazionali. La legge del 1990, che riconosce implicitamente la supremazia dell’ordinamento comunitario, accoglie apertamente la teoria della barriera unica e prevede due regole importanti:

- l’Autorità garante, quando ritiene che una determinata fattispecie sia di competenza comunitaria, deve sospendere l’istruttoria e trasmettere alla Commissione tutta la documentazione in suo possesso.

- nel caso in cui l’Autorità garante abbia iniziato una procedura di accertamento ma, in seguito, una analoga procedura è stata iniziata dalla Commissione, l’Autorità garante ha l’obbligo di sospendere l’istruttoria e di attendere il risultato dell’indagine della Commissione.

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C) La corte di giustizia ha elaborato una terza teoria, come via di mezzo tra le due precedenti. Se vi è un contrasto tra decisione di uno Stato e decisione della Commissione, quest’ultima dovrà prevalere nel caso in cui ponga un divieto, in pratica l’autorità nazionale non potrebbe autorizzare ciò che viene vietato in sede comunitaria. Al contrario se la Commissione dovesse autorizzare o esentare un determinato comportamento, nulla vieterebbe alle autorità nazionali di proibirlo al proprio interno.

Rapporto tra Commissione e Autorità garanti nazionali

Entrambi applicano le regole di concorrenza comunitarie in stretta collaborazione, ma alla Commissione viene riconosciuta una posizione nettamente superiore rispetto a quella degli Stati membri.

Rapporto tra Commissione e Autorità giurisdizionali nazionali

“Gli stati membri trasmettono alla Commissione copia delle sentenze scritte delle giurisdizioni nazionali competenti a pronunciarsi sull’applicazione dell’art. 81 o 82 del Trattato”, ma solo dopo che il “testo della sentenza scritta è stato notificato dalle parti”.

Resta comunque la possibilità per la Commissione di presentare osservazioni scritte alle giurisdizioni degli Stati membri e, previa autorizzazione della giurisdizione competente, può anche presentare osservazioni orali.

CAPITOLO 13 - LA TUTELA DELLA PROPRIETÀ INDUSTRIALE E INTELLETTUALE 1. I diritti di proprietà industriale e intellettuale nel mercato unico

All’espressione diritti di proprietà industriale ed intellettuale si ricollegano:

- brevetto  invenzione o modello di utilità - registrazione  disegno o modello

- marchio

- diritto d’autore (copyright)

Tali diritti attribuiscono il c.d. diritto di esclusiva, che attribuisce al titolare la possibilità di sfruttamento economico esclusivo dell’invenzione o della creazione. Tuttavia può capitare che il titolare del diritto conceda ad altri la sua esclusiva, allo scopo di ampliare il mercato di sbocco del prodotto oggetto del diritto e incrementarne i profitti.

Dunque i diritti di proprietà industriale consentono al contempo di favorire la libera circolazione ma anche di porre limitazioni allo sfruttamento del prodotto. In virtù di questa capacità limitativa della circolazione, i diritti di proprietà industriale assumono anche la dicitura di diritti di privativa.

A livello comunitario, già col Trattato di Roma viene posta attenzione alle tematiche della proprietà industriale e della libera circolazione di beni tra gli Stati membri  art. 30 = le restrizioni alla circolazione dei prodotti sono ritenute lecite si giustificate dalla volontà di tutela della proprietà industriale e commerciale, a meno che le suddette restrizioni non siano fonte di discriminazione arbitraria o di restrizione dissimulata tra gli Stati membri. Dall’articolo si desume come l’ordinamento comunitario tenti di conciliare due opposte tendenze: da un lato la facoltà del titolare di sfruttare in modo economicamente conveniente il proprio diritto, dall’altro la necessità di non limitare il mercato unico (in ossequio agli art. 81 e 82 del Trattato CE, riguardanti rispettivamente gli accordi restrittivi e l’abuso di posizione dominante). Essendo molto difficile tracciare una linea di demarcazione netta tra le due tendenze, la Corte di Giustizia e la Commissione verificano caso per caso la necessità di far prevalere l’una o l’altra necessità. Il più delle volte gli organi comunitari si sono orientati verso una rigida protezione della libera circolazione all’interno del mercato unico. Alla base di tale atteggiamento vi è il principio di esaurimento del diritto, elaborato dalla Corte di Giustizia => il titolare del diritto di esclusiva, dopo aver messo in commercio il prodotto all’interno della CE, non può limitarne né impedirne la circolazione nel mercato d’origine e in quello degli altri Stati membri => chiunque abbia acquistato un prodotto oggetto di un diritto di privativa, può commercializzarlo in ogni altro Paese membro, anche in quello dove il titolare del diritto ha concesso

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ad altri l’esclusiva di commercializzazione. Il principio è stato recepito dai singoli ordinamenti nazionali.

Vediamo ora quali sono le fonti normative a cui fanno riferimento i diritti di proprietà industriale:

1. regolamenti di esenzione, che fissano criteri di conferimento di deroghe al divieto di restrizione della libera circolazione

2. Convenzioni internazionali e comunitarie

3. direttive e regolamenti, che disciplinano aspetti processuali dei singoli diritti (brevetti, marchi, etc.).

2. Il brevetto europeo ed il brevetto comunitario Le Convenzioni internazionali riguardanti i brevetti sono:

a) Convenzione di Strasburgo, 27/11/1963  detta regole uniformi in merito alle modalità di acquisizione dei brevetti ed introduce alcuni principi fondamentali inerenti all’armonizzazione dei diritti, che verranno recepiti dalle successive Convenzioni

b) Convenzione di Monaco, 5/10/1973  istituisce un Ufficio Centrale Brevetti (a Monaco di Baviera), abilitato al rilascio di un brevetto europeo, che permette al titolare di far valere il proprio diritto in ciascuno degli Stati membri prescelti secondo le regole di ciascun ordinamento. Pertanto non viene introdotto un nuovo tipo di brevetto, bensì vengono uniformate le procedure per il rilascio dei brevetti nazionali: il titolare di un brevetto europeo riceve una “somma di brevetti nazionali”. Il vantaggio sta nel fatto che con una sola operazione si acquisiscono i diritti in ogni Stato aderente alla Convenzione

c) Convenzione di Lussemburgo, 15/12/1975  sebbene sia l’unica Convenzione comunitaria, essa non è mai entrata in vigore, a causa del costo del brevetto comunitario e del fatto che un eventuale decisione d’annullamento di brevetto da parte di un giudice nazionale avrebbe generato effetti per tutta la CE. L’obiettiva della Convenzione sarebbe stato di creare un vero e proprio brevetto uniforme europeo, dal contenuto unico per tutti gli stati. La Commissione non ha abbondato la strada del brevetto unico e, nel giugno 1997, ha promosso in Libro Verde in materia per definire gli aspetti essenziali della questione. In particolare si è deciso di applicare un regolamento (immediatamente efficace negli Stati membri e approvabile anche senza consenso unanime degli Stati membri) anziché una Convenzione. Così, l’11/08/2000, la Commisione ha diffuso una proposta di regolamento sul brevetto comunitario: esso viene concesso in una sola lingua a scelta tra inglese – francese – tedesco (per evitare traduzioni e contenere le spese di registrazione), ha durata ventennale; viene istituito un Tribunale comunitario della proprietà immateriale. Quando tale regolamento verrà approvato, il brevetto comunitario diventerà un nuovo tipo di brevette, che non sostituirà quelli nazionali ma si affiancherà ad essi.

3. Il marchio comunitario

La normativa a protezione del marchio ha subito modifiche radicali determinate dalle nuove regole comunitarie.

Le fonti normative di diritto del marchio sono:

- Direttiva 89/104, 21/12/1988 => armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia di marchi

- Regolamento 40/94, 20/12/1993 => creazione di un marchio comunitario, uniforme per contenuto dei diritti attribuiti, funzione, scopo, licenze, perdita del diritto per mancato uso.

A livello logico l’iter legislativo è corretto, in quanto l’adozione di una disciplina giuridica uniforme è possibile solo quando tra gli Stati membri sussiste sufficiente omogeneità.

La 89/104 è stata recepita in Italia tramite il d.lgs. 480/92, che ha apportato importanti novità nel nostro ordinamento: introduzione del marchio di rinomanza (più protetto di quello ordinario perché ultramerceologico  tutela del marchio anche contro l’uso di marchi simili per prodotti non affini); il marchio può ora essere ceduto indipendentemente dal trasferimento dell’azienda o anche solo per una parte dei prodotti per i quali è stato registrato; introduzione del principio di esaurimento del diritto del

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marchio, in virtù del quale la decettività sopravvenuta del marchio determina la decadenza del diritto;

innalzamento del termine di decadenza per non uso del marchio da 3 a 5 anni.

Il marchio comunitario introdotto dal Regolamento 40/94 non sostituisce le norme interne degli Stati membri ma si affianca ad essi. Il marchio comunitario è acquisito attraverso registrazione presso l’Ufficio per l’Armonizzazione del Mercato Interno (Alicante, Spagna). Le sue caratteristiche fondamentali sono:

o Unità = attraverso un domanda unica presentata ad una sola Autorità si ottiene una registrazione valida in tutta la CE

o Autonomia = il marchio comunitario è sottoposto alla sola disciplina del Reg. CE 40/94

o Accessibilità = solo i soggetti indicati dall’art. 5 del 40/94 possono divenire titolari del diritto di marchio comunitario

I vantaggi principali derivanti dall’introduzione del marchio comunitario sono la semplificazione procedurale, il miglioramento sul paino della certezza del diritto e delle maggiori possibilità per il titolare del diritto, la possibilità di esercitare dinanzi ad un unico Tribunale tutte le azioni contro le contraffazioni anche se commesse in più Stati diversi.

4. Disegni e modelli; modelli di utilità

Così come per brevetti e marchi, anche in materia di industrial design la Comunità opera secondo due direttrici: armonizzazione delle norme degli Stati membri (attraverso la Direttiva 98/71 del 13 ottobre 1998 sulla protezione giuridica dei disegni e modelli) e definizione di regole uniformi all’interno del mercato unico circa la tutela dei diritti.

La 98/71 è stata recepita in Italia tramite il d.lgs. 2/02/2001 n.95 ed ha apportato alcune novità, relative in particolare ad una semplificazione terminologica: scompare l’espressione “modello ornamentale”

che serviva a distinguere il design dal modello di utilità e perciò oggi si parla solo di disegno o modello3; il termine “brevetto” riferito al deposito di un modello ornamentale viene sostituito dalla registrazione di disegno o modello.

La CE ha inoltre istituito uno strumento normativo unico per la registrazione di disegni o modelli, tramite il Reg. 6/2002. Sono inoltre previste due forme di tutela dei disegni o modelli: la prima poco intensa e di breve periodo riferita a disegni o modelli non registrati, la seconda più intensa e durevole relativa a disegni e modelli registrati.

Per ciò che riguarda i modelli di utilità, la Commissione ha proposto una direttiva circa l’armonizzazione dei modelli giuridici di protezione delle invenzioni attraverso il modello di utilità, che deve ancora trovare attuazione.

5. La disciplina del diritto d’autore

Tale disciplina ha subito alcune modificazione dovute all’introduzione di nuove tecnologie e nuovi sistemi di sfruttamento delle opere creative. L’azione della Comunitaria ha trovato l’opposizione degli Stati membri, aventi l’intenzione di non allargare troppo le competenze comunitarie. La situazione è stata risolta dalla Corte di Giustizia, che ha stabilito l’applicazione delle normative antitrust (attuali art.

81 e 82 del Trattato CE) anche al diritto d’autore, così da favorire la libera circolazione delle opere coperte dal suddetto diritto.

La Commissione ha perciò portato avanti un programma di Direttive volte all’armonizzazione delle normative nazionali in merito al diritto d’autore:

a) Direttiva 91/250 14/05/1991, inerente la tutela giuridica dei programmi per elaboratore

b) Direttiva 92/100 19/11/1992, riguardante il diritto di noleggio e di prestito e taluni diritti connessi al diritto d’autore in materia di proprietà intellettuale

c) Direttiva 93/83 27/09/1993, per il coordinamento di alcune norme circa il diritto d’autore e diritti connessi applicabili alla radiodiffusione via satellite e alla ritrasmissione via cavo

3 Per disegno o modelli si intende l’aspetto dell’intero prodotto o di una sua parte quale risulta, in particolare, dalle caratteristiche delle linee, dei contorni, dei colori, della forma, della struttura superficiale e/o dei materiali del prodotto stesso e/o del suo ornamento.

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d) Direttiva 93/98 29/10/1993, riguardo l’armonizzazione della durata di protezione del diritto d’autore (elevata a 70 anni dalla morte dell’autore, mentre i diritti degli artisti e degli interpreti scadono dopo 50 anni dall’esecuzione)

e) Direttiva 96/9 11/03/1996, relativa alla tutela giuridica delle banche dati

f) Direttiva 2001/29 22/05/2001, sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione, riguardo a prodotti disponibili on-line o su supporti fisici

g) Direttiva 2001/84 27/10/2001, relativa al diritto dell’autore di un’opera d’arte sulle successive vendite dell’originale, che assicura un ritorno economico per l’autore anche a seguito delle vendite successive al primo passaggio di proprietà dell’opera eccetto il caso di rivendita tra privati.

6. Le denominazioni d’origine

L’articolo 14 della legge comunitaria del 1999 ha modificato la normativa precedente, attraverso l’attuazione dei Reg. 2081/92 e 2082/92.

La Commissione e la Corte di Giustizia hanno scelto di limitare la legittimità dei marchi regionali di qualità (in virtù dei quali il prodotto collegato ad una certa denominazione geografica acquisisce maggiore qualità) affinché non vi fossero ostacoli alla libera circolazione delle merci ed alla concorrenza. In particolare il Reg. 2081/92 sulle denominazioni d’origine e sulle indicazioni geografiche tipiche, stabilisce che sono da considerarsi legittimi i marchi geografici collettivi, ossia se il riferimento all’area geografica non è presupposto per conferire qualità aggiunta al prodotto, in quanto ciò sarebbe contrario alle regole sulla concorrenza; viceversa i marchi geografici sono illegittimi.

7. Le invenzioni biotecnologiche

La Direttiva 98/44 6/07/1998 sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche ha stabilito che:

- sono brevettabili le invenzioni nuove suscettibili di applicazione industriale aventi per oggetto anche materiale biologico; rientrano in questa categoria anche elementi isolati del corpo umano o diversamente prodotti

- non sono brevettabili le varietà vegetali e le razze animali, i procedimenti biologici di produzione di vegetali o animali, il corpo umano nella sua interezza, le invenzioni il cui sfruttamento commerciale è contrario all’ordine pubblico o al buon costume (clonazione di esseri umani, modificazione dell’identità genetica dell’essere umano, utilizzazione di embrioni umani con finalità industriali o commerciali, modificazioni genetiche dell’identità degli animali senza che vi sia utilità medica per l’uomo e l’animale)

La Direttiva non è ancora stata recepita, segno che il dibattito riguardo al possibile sfruttamento industriale delle invenzioni biotecnologiche è ancora in corso sia da un punto di vista etico che scientifico che tecnologico.

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