1 W.Hassemer, J.PH. reemtsma, Verbrechensopfer, Gesetz und Gerechtigkeit, Munchen 2002, p. 132s.
2 Diamo per scontato che la sicurezza è un obiettivo che può essere avvicinato, che possiamo anche fare assurgere a diritto, ma non è qualcosa che possa essere compiutamente assicurato. “Tutos quidem reddere homines a mutuis damnis, ita ut laedi, vel occidi iniuria
IN DIFESA DELLA LEGALlTÀ LIBERALE
sommario: 1. L’irriducibile specificità del penale. – 2. Il problema penale nella politi- ca. - 3. Uno sguardo ai decenni della Repubblica. – 4. Il lessico polemico. Giu- stizialismo, garantismo, supplenza giudiziaria. – 5. L’approccio ermeneutico.
Ripensare i principi illuministico-liberali? - 6. Il giudizio sul fatto. – 7. Quali garanzie? I compiti della cultura giuridica.
1. L’irriducibile specificità del penale
Gli organizzatori del convegno di Pontignano ci hanno invitato a una riflessione a tutto campo sullo stato presente dei rapporti fra sistema penale, democrazia, garanzie individuali. Il compito che mi è stato affidato è tenere le relazione che chiude l’incontro: un momento interlocutorio (non certo una conclusione) entro una riflessione comune che resta aperta.
L’irriducibile specificità del penale (sono parole usate da Fausto Giun- ta nell’introdurre il convegno) sta nel nesso con la forza, con il paradigma hobbesiano. Il diritto criminale/penale è un elemento essenziale della forza e della capacità operativa del Leviatano, lo stato moderno. L’esistenza di un diritto penale è un presupposto sul quale poggia il nostro l’affidamento in condizioni normali di convivenza1. Per le istituzioni pubbliche (non solo per le ’forze dell’ordine’) è punto di riferimento di doveri di protezione. Tutti noi che agiamo in una società regolata, in modo lecito o illecito, teniamo con- to dell’esistenza del diritto penale e di apparati di prevenzione e repressione.
Per la prevenzione di delitti è legittimo fare uso della forza, se e in quanto necessario (anche l’uccisione dell’aggressore, inaccettabile come pena, può essere in certi casi giustificata come difesa). Per la generalità dei consociati, tutto questo è ragione di affidamento, della cui importanza ci rendiamo conto più acutamente qualora l’affidamento entri in crisi2.
Studi Senesi, CXXIX (2017)
non possint, impossibile est; neque ergo cadit in deliberationem”. Questa frase di Hobbes (dal De Cive) è riproposta in epigrafe al saggio di J. isensee, Das Grundrecht auf Sicherheit, 1983.
3 r. esPosito, Libertà o sicurezza?, in “Micromega”, 2016, n. 3, p. 98. Cfr. anche F.
savater, Le torri gemelle, ivi, p. 106: “la sicurezza e la libertà sono i due pilastri fondanti del servizio che lo Stato deve garantire ai cittadini: le torri gemelle delle nostre società democra- tiche”; F. Battistini, La sicurezza e la sua ombra, Roma 2016, p. 3: dal punto di vista della psicologia sociale, “la sicurezza è il primo dei bisogni primari”.
4 Secondo la classica definizione di F. v. Liszt, La teoria dello scopo nel diritto penale, Milano 1962, p. 46.
5 U. CUri, I paradossi della pena, in “Riv. it. dir. proc. pen.”, 2013, p. 1077.
6 Traggo questa bella formulazione da L. eUseBi, La Chiesa e il problema della pena, Milano 2014, p. 162. Sul tema della natura motivazionale della norma e del giudizio penale, cfr. G. Forti, Le ragioni extrapenali dell’osservanza della legge penale: esperienze e prospet- tive, in questa Rivista, 2013, p. 1119s.
Primato della prevenzione? È uno dei temi proposti all’incontro di Pontignano. Nelle riflessioni politologiche su libertà e sicurezza, sono voci preoccupare per le libertà a ricordare che “nella storia moderna la sicu- rezza non è mai stata percepita come l’antitesi della libertà, ma come la sua necessaria precondizione”3. Il penale è necessario, ma non basta. Quando la deterrenza non ha funzionato, la giustizia penale, se arriva, arriva tardi.
La tutela dal terrorismo, della quale sentiamo un vitale bisogno, è una tutela che riesca a funzionare ‘a monte’, come prevenzione dei possibili attentati.
L’approccio garantista, cui siamo abituati, giustamente si preoccupa di limiti invalicabili, ma non basta a dare risposta ai più pressanti problemi di tutela.
Alle specifica vis (traducibile come forza o violenza) del diritto penale, corrisponde l’esigenza di garanzie forti. La specificità del diritto penale di- pende dalla tensione costitutiva del problema penale, fra i poli della libertà e dell’autorità, e dall’ambivalenza della pena, arma a doppio taglio4: quello buono di tutela, quello cattivo di sofferenza. Il penale è farmakon, veleno che si confida possa essere medicina secondo le applicazioni e le dosi. Nei cieli delle ideologie si tende ad assolutizzare l’aspetto positivo di rimedio, lascian- do in ombra l’aspetto tossico5.
Di fronte al problema penale, da un lato sta la vittima reale o potenzia- le: e quindi la richiesta di tutela, anche con la minaccia e l’uso della forza.
Dall’altro lato il reo, e più in generale il destinatario dei precetti; e quindi il problema delle garanzie, il bisogno di limiti. La generalità dei consociati può riconoscersi sia nell’uno che nell’altro fronte.
In ordinamenti di passabile democrazia liberale, il diritto che definia- mo diritto criminale guardando ai precetti, e diritto penale guardando alle sanzioni, è conformato dal principio di legalità. E’ il precetto la regola di giustizia e di tutela, sulla cui autorevolezza motivazionale6 vorremmo poter
7 L. eUseBi, Introduzione a i. marCHetti e C. mazzUCato, La pena ‘in castigo’, Milano 2006. p. XXXV.
8 La razionalità del paradigma cognitivo del garantismo, secondo la classica definizione di L. FerraJoLi, Diritto e ragione, Torino 1989, p. 6 s.: un paradigma epistemologico, del quale sono elementi imprescindibili e inscindibili, sul piano del diritto sostanziale il principio di legalità, e sul piano processuale il cognitivismo: un modello di giurisdizione che ha come condizioni necessarie “la verificabilità o falsificabilità delle ipotesi accusatorie in forza del loro carattere assertivo, e la loro prova empirica in forza di procedure che ne consentano sia la verificazione che la falsificazione”.
fare affidamento. Limiti invalicabili al vietare sono posti da libertà e diritti costituzionalmente garantiti; limiti invalicabili al punire sono posti dal prin- cipio di responsabilità personale e colpevole. Su tutti gli aspetti del giudizio di responsabilità, in fatto e in diritto, facciamo riferimento a ragioni argo- mentabili fino in fondo, che possano essere pesate (controllate in un giusto processo) sulla bilancia della giustizia.
Come studiosi, tendiamo a occuparci “essenzialmente delle condizioni in presenza delle quali punire, e non del punire”7: così un penalista partico- larmente attento al problema della pena segnala un limite del nostro lavoro (o della nostra cultura). Ci piace impegnarci sulla teoria del reato, sulle con- dizioni di una possibile responsabilità di uomini per il proprio agire: aspetti della disciplina giuridica che possono attingere un alto livello di razionalità e moralità8.
La giustizia dei precetti e dei criteri di attribuzione di responsabili- tà ha che fare con il rapporto fra libertà individuali e norme obbliganti di convivenza, cioè con la natura dell’ordinamento giuridico, fra i poli del li- beralismo e dell’autoritarismo. La possibilità di un giudizio giusto (almeno in senso giuridico) sulla responsabilità per un reato commesso è quanto il law enforcement penalistico promette. L’esito, ovviamente, non è scontato.
Le più grandi tragedie sono quelle del giudizio ingiusto: applicazione di pre- cetti o criteri legali ingiusti, forzature o defaillance della legalità, condanna dell’innocente.
Sul versante delle conseguenze del giudizio di responsabilità, si passa dal giudizio a qualcosa d’altro, simboleggiato dalla spada. Di fronte a questo di più – la città dolente delle pene - ci troviamo a disagio, nella teoria e nella pratica. Soprattutto di fronte alla pena detentiva, il tipo di pena divenuto storicamente dominante, moderno contrassegno del diritto penale hard; la pena che (una volta esclusa la pena di morte e pene corporali) incorpora il massimo di malum.
Anche là dove la reazione sia giustificata, perché la bilancia è stata ca-
9 F. ost, L’Orestea o l’invenzione della giustizia, in Mosè, Eschilo, Sofocle, Bologna 2007, p. 85s. (cfr. in particolare p.131-145).
10 n. UrBinati, Democrazia sfigurata, Milano 2014.
librata e usata correttamente, e il giudizio sulla responsabilità è corretto, il colpo di spada resta irrimediabilmente segnato (anche) dalla carica negativa.
Alle origini remote della nostra civiltà del diritto c’è il mito della tra- sformazione delle Erinni in Eumenidi, necessaria per una polis bene ordi- nata. Sembra ancora questo lo scenario in cui ci troviamo: come integrare, con un cambiamento di segno, le antiche dee, ispiratrici di terrore e garanti della punizione dei fomentatori di discordia, nella giustizia della città, che è giustizia della misura9.
2. Il problema penale nella politica
2.1. Siamo in un’epoca di diritto penale tecnocratico? Certo, il diritto penale è una tecnica: una tecnica antica, che può avvalersi delle tecniche sofisticate del mondo moderno, nel bene e nel male. La nostra è l’epoca della tecnica, e la tecnica - per chi non la guardi in maniera radicalmente critica, alla Heidegger – va vista come una risorsa di cui fare buon uso. Lo Zweckge- danke (idea dello scopo) che caratterizza il pensiero penale moderno appar- tiene al mondo della razionalità strumentale o tecnica,
Il lessico della tecnocrazia evoca il rapporto della tecnica con il Kratos, il potere. È il campo della politica, di opzioni relative ai fini e ai mezzi, di valutazioni su costi e benefici.
La politica del diritto penale non è riducibile a politica criminale (di contrasto alla criminalità): ha a che fare con il rapporto fra stato e cittadini, fra autorità e libertà. Il legislatore penale ha il potere e la responsabilità di assumere, nel rispetto dei vincoli costituzionali, decisioni di politica del diritto entro un campo di alternative possibili, confrontabili secondo valori non di verità o falsità, ma di (maggiore o minore) adeguatezza a determinati scopi e/o a principi di giustizia.
Nelle democrazie liberali, la formazione delle leggi è (per definizione) uno spazio aperto alla discussione, a un confronto fra opinioni cui tutti gli appartenenti al demos (non solo i legislatori) hanno titolo a partecipare. Opi- nioni e scelte: doxa, non aletheia10. Non è un modello di democrazia liberale l’utopia platonica della Repubblica governata dai filosofi, che riduce la poli- tica a questioni di verità: in versione moderna, il governo dei tecnici. La c.d.
scienza della legislazione offre conoscenze pertinenti a problemi e a tecniche
11 n. UrBinati, op. cit., p. 115.
12 F. steLLa, Giustizia e modernità, Milano 2001, p. 45.
di disciplina, ma non assorbe il confronto e conflitto, la volontà politica, la decisione. Siamo esposti, forse più di altri, alla suggestione del platonismo democratico, se è vero che “l’identificazione del giudizio giuridico con il giu- dizio politico è uno dei principali sintomi dell’infiltrazione epistemica nel proceduralismo democratico” 11. I discorsi della cultura giuridica sono un aspetto non privilegiato rispetto ad altri, nell’esercizio delle libertà nella sfera pubblica pluralistica.
L’apporto (non scontato) che la cultura giuridica può dare all’officina legislativa è la produzione di cultura: far bene il nostro mestiere di studiosi.
Studiosi di problemi prima che di ordinamenti positivi12, risposte storica- mente contingenti, buone o cattive, a problemi di disciplina della convivenza.
Andiamo verso un diritto penale elitario? Se pensiamo alla produzione del diritto penale, è mediata da partiti e istituzioni. La possibilità di parte- cipazione democratica è iscritta nei principi dell’ordinamento. Il livello di partecipazione democratica dipende dalle forme della democrazia realmen- te esistente. La nostra partecipazione dipende innanzitutto da noi.
2.2. La politica legislativa penale è strumento potente di autorappre- sentazione politica. Nella selezione dei delitti e nella statuizione legale di pene si rispecchia una ricognizione politica di bisogni di tutela e (in qualche misura) di giustizia, in parte radicati in strutture elementari ed universali della convivenza fra uomini (non uccidere, non rubare, non imbrogliare), in parte legati a variabili storiche, a strutture di potere, a concezioni diverse (anche molto diverse) dell’uomo e del mondo. Il catalogo dei reati e delle pene è un luogo di scelte politiche che presentano costanti di lunga durata, e variabili legate a indirizzi politici contingenti.
Il diritto penale ben si presta a esprimere scelte e valori sotto il segno di politiche penali ‘di lotta’, di qualsiasi colore, spesso di un largamente con- diviso politically correct, sia di destra che di sinistra. Da qui le tendenze espansive del diritto penale, su scala mondiale, in contesti politici di qualsi- asi tipo. Con le armi del penale, politiche securitarie proclamano di lottare contro i possibili nemici di turno: contro forme tradizionali di criminalità, mafie, criminalità organizzata, piccola criminalità di strada; oppure, più modernamente e con sentimento progressista, contro nuovi pericoli della so- cietà del rischio (per es. l’inquinamento dell’ambiente), o particolari forme di criminalità violenta venute alla ribalta (per es. violenza sessuale). In Italia
13 tH. WeiGend, Dove va il diritto penale? Tendenze evolutive nel XXI secolo, in “Cri- minalia”, 2014, p. 75s. (citazione da p. 85).
è da tempo divenuto cruciale il problema del malaffare sistemico (Tangento- poli). Nel recente periodo compaiono l’omofobia, il razzismo, il negazioni- smo, l’immigrazione irregolare, gli omicidi bianchi sulle strade o nei luoghi di lavoro. Dominante, oggi, il problema del terrorismo fondamentalista. Le po- litiche penali vanno incontro a bisogni di sicurezza, che chiedono rassicura- zione: “gli uomini colgono solo il volto amichevole del Leviatano, quello che restituisce sicurezza, ignorando il pericolo della sua tirannia”13. La politica ha il compito di far funzionare il Leviatano, cioè i meccanismi dell’autorità e della coercizione.
La cultura penalistica si preoccupa del volto autoritario del Leviatano, dei pericoli dello strumento penale, dell’espansione di divieti e punizioni. Ci sentiamo custodi dei limiti invalicabili all’uso della coercizione, dei principi del buon vecchio diritto penale liberale. La politica è interessata a ragioni che non coincidono con quelle di cui la cultura giuridica si fa portatrice. Sta qui un punto di tensione – e di difficoltà di dialogo - fra la politica e la cul- tura giuridica. Non è un conflitto fra razionale e irrazionale, ma fra ragioni contrapposte; qualche volta (molte volte) fra ragioni di giustizia ed altre che non lo sono, ma che non mancano di una loro razionalità, talora quella di un autoritarismo più o meno efficace, talora quella della pura ricerca di consen- so politico.
Nei contenuti delle politiche penali il gioco della democrazia si fa senti- re nel bene e nel male. Nel campo di battaglia della politica a tutto tondo, il penale non è una pura risorsa tecnica, quale che ne sia il rivestimento reto- rico e ideologico.
3. Uno sguardo ai decenni della Repubblica
La politica del diritto penale in Italia, nei decenni della Repubblica, ri- specchia la complessità e i problemi della nostra società. Il ritorno alla demo- crazia ha consentito di imboccare il faticoso cammino verso il superamento del codice Rocco. I più anziani fra noi hanno vissuto lunghi tratti di questa storia, vi hanno partecipato, possono oggi portare contributi di memoria (su singole parti, da punti di vista di parte). È tempo che altri, più giovani, tor- nino a studiare con il distacco dello storico.
Si deve ad input provenienti dalla magistratura (spesso stimolati da elaborazioni dottrinali) lo smantellamento, ad opera del giudice delle leggi,
14 L’aggravante introdotta dal d.l. 23 maggio 2008, n. 92 (convertito in legge 24 luglio 2008, n. 125) come punto 11 bis dell’art. 61 c.p.: “l’avere il colpevole commesso il fatto mentre si trovi illegalmente sul territorio nazionale”. E’ stata invalidata per contrasto col principio d’uguaglianza: “il rigoroso rispetto dei diritti inviolabili implica l’illegittimità di trattamenti penali più severi fondati su qualità personali dei soggetti che derivino dal precedente compi- mento di atti del tutto estranei al commesso reato”.
di aspetti inaccettabili della vecchia codificazione fascista e della recente le- gislazione securitaria: la demolizione di norme più marcatamente fasciste, o specchio d’altri tempi; il faticoso cammino verso il principio di colpevolezza;
valorizzazioni del principio d’eguaglianza/ragionevolezza e dell’idea riedu- cativa.
Momenti di democrazia diretta su temi che toccano il penale sono rav- visabili in alcuni referendum di un passato non recentissimo. Aborto (1981):
la difesa della l. 194 (NO all’abrogazione) ha consolidato una importante riforma, fra le poche verso l’arretramento del penale codificato. Droghe per uso personale (1993): ancora un esito di alleggerimento del penale, qui tra- mite un SI’. Ergastolo (1981): fallimento totale dell’iniziativa referendaria.
È espressione della democrazia realmente esistente anche il trend po- pulistico che in vario modo si è intrecciato con filoni di riforma in senso libe- rale. Populismi sia di destra che di sinistra hanno dato e danno l’impronta alle politiche sanzionatorie nella parte speciale. Elementi di diritto penale disuguale hanno segnato gli anni del potere berlusconiano. Correzioni signi- ficative sono state apportate dalla giurisprudenza costituzionale. Merita di essere ricordata, per il suo significato di principio, Corte cost. 249/2010, che ha dichiarato l’illegittimità di una aggravante simbolo della legislazione secu- ritaria14: non possono essere tipizzati come circostanze elementi che – ceteris paribus – non abbiano un univoco significato aggravante o attenuante, rispet- to al reato per il quale si tratti di stabilire la pena. Nemmeno atti illeciti estra- nei al commesso reato. Questo principio ha rilievo anche per la costruzione di fattispecie speciali. Sarebbe un interessante programma di lavoro verificare in questa chiave il proliferare di fattispecie (titoli autonomi o circostanze) nella legislazione recente, che mettono in scena, in modo simbolicamente appari- scente, linee di maggiore o minor rigore che il legislatore di turno intenda enfatizzare.
Nella attuale legislatura abbiamo vissuto per un breve periodo, sotto la pressione della Corte EDU (sentenza Torreggiani), una fase di politica le- gislativa che si è fatta carico del problema del sovraffollamento carcerario.
Un messaggio importante, tutto orientato nel senso di una riduzione del ca- rico penalistico, venne lanciato nell’ottobre 2013 dall’allora Presidente della
Repubblica. Novità significative sono state introdotte con la legge n. 67 del 2014. Nella politica legislativa più recente (anni 2105-2016) è ripartito alla grande, e con largo consenso, il trend del rigore.
Nello scenario della crisi, populismo politico e populismo giudiziario stanno faccia a faccia; entrambi parte del problema.
4. Il lessico polemico. Giustizialismo, garantismo, supplenza giudiziaria Nel linguaggio mediatico i diversi approcci ai problemi di giustizia pe- nale sono spesso ricondotti ad una contrapposizione dicotomica fra posizioni etichettate come giustizialismo e garantismo. Sono formule che si prestano ad essere usate sia come bandiera positiva (le garanzie di legalità sono cosa buona; cosa buona è riuscire a fare giustizia condannando gli autori di reato) sia come bersaglio polemico (garantismo come copertura dell’illecito, giusti- zialismo come abuso degli strumenti del penale).
Dietro la contrapposizione dicotomica del linguaggio mediatico (garan- tismo versus giustizialismo) sta la complessità del problema penale, fra i due poli della tutela di interessi importanti (o ritenuti tali dal legislatore) me- diante la posizione di precetti e minacce legali di pena (il polo giustizialista, potremmo dire), e della legalità come limite invalicabile a presidio della li- bertà degli individui (il polo garantista). Equilibri ragionevoli debbono tene- re conto dell’uno e dell’altro aspetto, Per contrastare l’illegalità, e la cultura dell’illegalità, c’è bisogno sia di strumenti efficaci di law enforcement, sia di garanzie liberali.
Le opposte retoriche del garantismo e del giustizialismo (che di per sé non sono né di destra né di sinistra, e si prestano ad essere usate sia a destra che a sinistra) sono a rischio di coprire tesi squilibrate verso l’uno o l’altro polo. In teoria, possono anche servire a esprimere esigenze di riequilibrio, in contesti squilibrati verso il polo opposto.
E’ pure entrata da molto tempo nell’uso comune la formula ‘supplenza giudiziaria’. Nata in discorsi sulla politica del diritto, e non della teoria giu- ridica, questa ambigua formula deve la sua fortuna mediatica alla carica polemica che in vario senso se ne può trarre, in chiave critica verso la magistratura (accusata di fare troppo, supplendo a competenze non sue) o verso altre istituzioni (accusate di fare troppo poco). L’idea di supplenza evoca problemi politici, diversi dai problemi di mera legittimità dell’operato della magistratura in casi concreti; è fuorviante se intesa come valutazione giuridica.
In un senso più astratto, la giustizia penale può essere definita come
15 Una riflessione su questo tema è stata rilanciata, con riferimento a un istituto specifi- co, da F. BasiLe, L’enorme potere delle circostanze sul reato e l’enorme potere dei giudici sulle circostanze, in “ Riv.it. dir. proc. Pen.”, 2015, p. 1743s.
16 Ho usato questa formula per la prima volta in d. PULitanò, Supplenza giudiziaria e poteri dello Stato, in “Quaderni costituzionali”, 1982, p. 93s.
istituzione tipicamente ‘di supplenza’, nel senso che la risposta penale al rea- to, di competenza delle istituzioni giudiziarie, supplisce all’insuccesso di altri strumenti di regolazione e controllo sociale, che non sono riusciti a impedire la commissione di reati.
Versioni polemiche sulla politicizzazione, o addirittura sul complotto giudiziario, hanno reso politicamente più difficile un confronto critico sui contenuti reali della giurisprudenza penale. Possiamo riassumere l’attuale scenario nella formula Assolutismo giudiziario e crisi della politica? Assolu- tismo giudiziario è una formula retorica. La forza del giudiziario è compa- rativa, correlata alla debolezza della politica.
Certamente è ravvisabile, sotto molti aspetti, un potenziamento del giu- diziario. Vi hanno contribuito molteplici fattori: il rafforzamento istituziona- le della magistratura, nuove sensibilità nel mondo dei magistrati, lo scarico sulla magistratura (specie penale) di problemi lasciati aperti dalla politica, a partire dalla ben intenzionata novella del 1974. L’allargamento di spazi di discrezionalità ne è segno (strumento ed effetto). E là dove è lasciato spazio alla discrezionalità giudiziale, lo slittamento dalla legalità verso i poteri del giudice è più vistoso e meno controllabile. Mentre per i presupposti della re- sponsabilità penale richiediamo (in teoria) determinatezza e precisione, con riguardo alle risposte al reato accettiamo come necessario un mix di legalità e di discrezionalità. Ci siamo assuefatti all’enorme potere del giudice nella gestione degli istituti del sistema sanzionatorio15; una situazione che pone seri problemi di legalità della pena.
Come chiave di lettura (non l’unica) d’una persistente situazione spiri- tuale nella giustizia penale in Italia, ho proposto da tempo l’idea di autorita- rismo ben intenzionato16. La valutazione di autoritarismo intende essere, ad un tempo, descrittiva e critica. Nei primi tempi della Repubblica la critica di autoritarismo era rivolta alla legislazione penale fascista e a indirizzi della
‘vecchia’ magistratura. Con il mutare delle norme e/o delle culture di riferi- mento, il problema ‘autoritarismo’ si ripropone in relazione a nuove esigenze di tutela e a nuove sensibilità (anche a nuove suggestioni politically correct).
L’idea di un operare ben intenzionato - distaccandosi da altre letture che pongono in primo piano aspetti di impropria politicizzazione - legge nelle
17 o. di Giovine, Dal costruttivismo al naturalismo interpretativo. Spunti di riflessione in materia penale, in “Criminalia”, 2012, p. 270, 268.
18 o. di Giovine, Dal costruttivismo, cit., p. 268.
19 G. zaCCaria, Tre osservazioni su new realism ed ermeneutica, in “Ragion pratica”, 2014, 341 ss.
20 m. voGLiotti, Il risveglio della coscienza ermeneutica nella penalistica contempora- nea, in “Riv. di filosofia del diritto”, 2015, 90.
tendenze espansive e rigoriste presenti nella giurisprudenza la moralità di intenti di responsabilizzazione, da punti di vista etico-sociali che vengono assunti (con maggiore o minore consapevolezza) come criteri di interpreta- zione teleologica.
5. L’approccio ermeneutico. Ripensare i principi illuministico-liberali?
5.1. Sul piano teorico dobbiamo fare i conti con le teorie critiche dell’interpretazione. Concezioni ermeneutiche “rivendicano di voler non già orientare la pratica dell’interpretazione, ma semplicemente descriverne, nella misura più oggettiva possibile, il funzionamento”17; ponendo l’accento sul ruolo della precomprensione, si interessano della dimensione tipicamen- te soggettiva dall’interpretazione, ma non riducono l’interpretazione a im- presa soggettiva18. Perché ci sia interpretazione, ci deve esser qualcosa da interpretare. Anche con riguardo al diritto è “fuori discussione che esistono fatti indipendentemente dall’interpretazione”, e che vi sono interpretazio- ni sbagliate. Ma allora “c’è una verità e un’erroneità dell’interpretazione e nell’interpretazione”19. L’approccio ermeneutico non è una riduzione dei fatti a interpretazioni, ma un’impresa conoscitiva che ha a che fare con que- stioni di verità.
Problemi di interpretazione della legge riguardano allo stesso modo l’interpretazione giurisprudenziale e quella dottrinale. La differenza non è di competenza ermeneutica, ma di potere decisionale.
Scandalo dell’ermeneutica, risveglio della coscienza ermeneutica, sono titoli di contributi critici che sostengono l’incompatibilità della prospettiva ermeneutica con la fede nelle moderne divinità protettive: il legislatore razio- nale, la riserva di legge, la rigida divisione di poteri, la granitica tassatività.
“Messi alla prova dei fatti … i principi di origine illuministico – liberale … esigono di essere profondamente e non occasionalmente ripensati” 20.
Se ripensare i principi significa modificarli, non è una questione di competenza della teoria ermeneutica; è questione di politica del diritto.
Con quale valore formale il formante giurisprudenziale si collochi nel
21 Ravviso una sovrapposizione dei due piani - quello dei paradigmi scientifici e quello dei modelli di ordinamento – in m. voGLiotti, Il giudice al tempo dello scontro tra i paradig- mi, in Diritto penale contemporaneo, 2016.
22 C. LUzzati, La politica della legalità, Bologna 2005.
23 Annotata da v. manes, Prometeo alla Consulta: una lettura dei limiti costituzionali all’equiparazione tra diritto giurisprudenziale e legge, in “Giur. Cost.”, 2013, p. 3474s.; da v. naPoLeoni, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di con- danna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, in “Dir. pen. Contemporaneo”, 2012, n. 3-4, p. 164s.; da a.
rUGGeri, Penelope alla Consulta: tesse e sfila la tela dei suoi rapporti con la Corte EDU, id. Ancora a margine di Corte cost.n. 230 del2012, post scriptum, in consultaonline.
sistema delle fonti di un dato ordinamento positivo, la teoria dell’interpre- tazione non è competente a stabilirlo. Non è questione di paradigmi della scienza giuridica, ma di modelli di ordinamento, che per la scienza giuridica sono oggetto di conoscenza21.
La teoria formale del diritto può dire che la giurisprudenza è fonte nel senso astratto della teoria pura kelseniana: ha un suo posto nella costru- zione a gradini (Stufenbau). La pratica ermeneutica si porrà il problema di descrivere, nella misura più oggettiva possibile, il sistema delle fonti, così come costruito dall’ordinamento che ci interessa.
I sistemi formali delle fonti possono essere diversamente costruiti. Il nostro ordinamento di civil law si caratterizza per la soggezione dei giudici alla legge. Il formante giurisprudenziale non ha valore formale di legge, dice una ermeneutica descrittiva del nostro ordinamento.
I principi di origine illuministico-liberale (fra di essi la riserva di legge in materia penale) stanno nella nostra precomprensione di ordinamenti di civil law: li riconosciamo sul piano del dover essere del nostro ordinamento, versione (non l’unica possibile) di democrazia liberale. Il disincanto rispetto a mitologie giuridiche non tocca il dover essere incorporato (nella Costituzio- ne italiana) nel principio di legalità: riserva di legge e soggezione del giudice alla legge. Comunque si valutino le prestazioni del legislatore italiano in ma- teria penale, le garanzie effettive di legalità dovrebbero passare innanzi tutto attraverso la tenuta e la capacità di prestazione di tale principio. Si tratta di capire, con l’aiuto di una buone ermeneutica, che cosa i principi dicono e chiedono, quali impegni22 ne derivino per gli interpreti di un ordinamento di civil law caratterizzato da principi illuministico-liberali.
5.2. La dimensione costituzionale della distinzione fra legislazione e giurisdizione è stata chiaramente affermata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 230 del 201223: non è fondata la questione di legittimità costi-
24 G. insoLera, Qualche riflessione e una domanda sulla legalità penale nell’epoca dei giudici, in “Criminalia”, 2012, p. 296.
25 a. rUGGeri, Post scriptum, cit.
26 s. vinCiGUerra, Sull’intralcio all’amministrazione della giustizia delle interpretazio- ni discordanti e il suggerimento di qualche rimedio, in “Dir.pen. XXI secolo”, 2014, 195 ss.
tuzionale dell’art. 673 cpp, nella parte in cui non prevede la revoca della sentenza di condanna nel caso di mutamento giurisprudenziale (decisione delle Sezioni Unite) che escluda che un certo tipo di fatto sia previsto come reato. Tale questione era stata sollevata con riferimento agli artt. 3, 13, 25 comma 2°, 27 comma 3°, 117 comma 1. La motivazione della sentenza riafferma nella sua interezza il modello di legalità fondato sulla riserva di legge, contro un’impostazione che credeva di poter desumere dalla giuri- sprudenza di Strasburgo la retroattività del mutamento giurisprudenziale favorevole.
Sentenza di forte cifra politica24, è stata definita. Respingendo la pretesa di vincolare il giudice dell’esecuzione al dictum reso dalle Sezioni Unite in un altro processo, la Corte costituzionale ha tenuto ben salda la di- stinzione fra mutamento legislativo e mutamento d’indirizzo giurispruden- ziale. Anche l’orientamento delle Sezioni Unite ha valore “essenzialmente persuasivo”, e può essere disatteso “in qualunque tempo e da qualunque giudice della Repubblica, sia pure con l’onere di adeguata motivazione”.
La stesse Sezioni Unite possono “trovarsi a dover rivedere le loro posizio- ni”; sono dentro, e non sopra, il dispiegarsi del confronto sulle interpreta- zioni della legge.
Argomenti molto seri sono addotti a sostegno dell’esigenza di una forte stabilizzazione giurisprudenziale: “dovrebbe esservi una maggiore stabili- tà della giurisprudenza rispetto alla legislazione”, perché la giurispruden- za (non il legislatore) ha il vincolo della motivazione, e il legislatore (non la giurisprudenza) ha il potere politico di radicare e sradicare la pianta le- gislativa25. L’intralcio delle interpretazioni discordanti26 pone problemi di tenuta della legalità di fronte a rischi di arbitrio applicativo, di uguaglianza di trattamento a fronte di oscillazioni giurisprudenziali. Sono problemi che, entro l’orizzonte del principio di legalità, interpellano anche il legislatore.
Riconoscere alla giurisprudenza di cassazione (l’organo di nomofilachia) una peculiare capacità di vincolo ai mutamenti, sarebbe garanzia di libertà e di uguaglianza.
La stabilità del nomos, affidata al legislatore, è aperta al mutamento legislativo: a una creatività politica. Affidata al giudice è la stabilità della
27 L. FerraJoLi, La democrazia attraverso i diritti, Bari 2013, p. 135.
28 Mi sembra convergere con questo concetto, da un altro angolo visuale, o. di Giovine, Come la legalità europea, cit., p. 181: “l’immagine, assai di moda, del trapasso da un sistema per fonti (legislatore) ad un sistema per argomentazioni prova troppo, perché suggerisce
custodia del nomos (nomofilachia): un’esigenza incorporata nel principio di legalità.
Nei tanti casi in cui il diritto è pura tecnicalità, di per sé neutra sul piano dei valori (guida a destra o guida a sinistra?), l’esigenza di certezza è assolutamente dominante. La stabilità di indirizzi ha in molti casi un valore prevalente. Ma proprio nei casi di maggiore delicatezza, in cui l’interpre- tazione ha a che fare con precomprensioni e ragioni pregne di valori, si fa avanti l’esigenza di confronto aperto: di rimettere eventualmente in discus- sione la custodia del nomos, in nome di una migliore ermeneutica del nomos.
Nel nostro ordinamento la forza dei precedenti “ha il suo fondamento solamente nella loro autorevolezza o plausibilità sostanziale, e non già in una qualche loro autorità formale quale è quella che compete al potere legi- slativo”27. Ecco i fondamenti della auspicata e auspicabile stabilizzazione di un buon diritto vivente: plausibilità (ragionevolezza) del nomos custodito da una giurisprudenza autorevole, ben motivata, e perciò capace di consenso.
Quali effetti potrebbero attendersi da un ipotetico mutamento nello sta- tuto formale (nella capacità formale di vincolo) del precedente giudiziario?
Dall’angolo visuale del cittadino, destinatario di doveri e potenziale parte nel processo, vedrei più rischi che vantaggi.
Nell’orizzonte del principio di legalità e della soggezione del giudice alla legge, la parte del processo, che sostiene un’accusa o si difende davanti al suo giudice, ha una ragionevole aspettativa (possiamo dire: ha diritto?) ad una risposta del suo giudice, su tutti i punti di fatto e di diritto in cui si articola l’accusa o la difesa; una risposta che, in diritto, tenga conto delle ragioni prospettate, in particolare di ragioni nuove nelle conclusioni o ne- gli argomenti. Per l’argomentazione (anche in diritto) della parte, cioè del cittadino, la soggezione del giudice alla legge è un punto di forza: è ciò che consente di argomentare sulla protezione del diritto, anche di fronte a in- dirizzi giudiziari autorevoli, ma ragionevolmente discutibili o francamente sbagliati.
Non è solo questione di rispetto di una (forse fantomatica) volontà po- litica del legislatore storico; è questione di dignità e di libertà dei cittadini di un Stato di diritto. Potremmo dire, è nella logica di un sistema fondato sia sulle fonti legislative, sia sull’argomentazione ermeneutica28 di tutti gli
l’idea (mitologica) che sia esistito un tempo in cui il diritto era fatto dalle leggi e soltanto da queste”. Aggiungerei che l’idea del trapasso a un sistema per argomentazioni rischia di suggerire anche un’altra idea mitologica, quella di diritto fatto soltanto da argomentazioni.
29 Con le parole di Beccaria: è “necessario che un terzo giudichi della verità del fatto.
Ecco la necessità di un magistrato, le di cui sentenze siano inappellabili e consistano in mere asserzioni o negative di fatti particolari” (§. 3). “Quando un codice fisso di leggi, che si deb- bono osservare alla lettera, non lascia al giudice altra incombenza che di esaminare le azioni dei cittadini, e giudicarle conformi o difformi alla legge scritta, quando la norma del giusto e dell’ingiusto, che deve dirigere le azioni si del cittadino ignorante come del cittadino filosofo, non è un affare di controversia, ma di fatto, allora i sudditi non sono soggetti alle piccole tirannie di molti […]” (§. 4).
30 H. arendt, Verità e politica, Torino 2004. Le citazioni che seguono sono da pp. 72, 47, 50.
aventi diritto di parola, in particolare nel giusto processo, aperto al con- fronto di ragioni anche sul senso delle norme di diritto e sulla qualificazio- ne di fatti concreti (il possibile campo di riferimento). Un ipotetico vincolo rigido al precedente – negato dalla Corte costituzionale nella sentenza n.
230/2012 – sarebbe un mutamento di paradigma, non della scienza giuridica, ma dell’ordinamento costituzionale italiano vigente; rischierebbe di raffor- zare indirizzi non altrimenti in grado di reggersi, e di indebolire la dignità e libertà del discorso ermeneutico di tutti (giudici e parti) in ciascun contesto di discussione.
6. Il giudizio sul fatto
L’applicazione giudiziaria del diritto è ben più che astratta ‘interpreta- zione di legge’: è applicazione a fatti concreti, che nel processo sono oggetto di accertamento. Nel modello illuministico del giudice bocca della legge, è il giudizio sul fatto il quid proprium del compito del giudice29.
E’ sul versante dell’accertamento dei fatti, e della qualificazione di fatti concreti, che l’impatto della giurisdizione sulla polis si manifesta in pieno.
È l’intervento su fatti, prima nell’indagine e poi nel giudizio, che connette la macchina giudiziaria penale alla vita della polis. La apoliticità (neutrali- tà politica) della magistratura, iscritta nei principi costituzionali, è un ca- rattere essenziale della funzione, tanto più necessario quanto maggiore la politicità intrinseca (nel senso nobile del termine) del compito di imparziale attuazione della legge nel caso concreto.
La funzione del giudice imparziale (così Hannah Arendt in un’acuta riflessione su verità e politica30) è uno fra gli “importanti modi esistenziali di dire la verità”, accanto all’attività del filosofo, dello scienziato, dell’artista, dello storico, di chi indaga sui fatti, del testimone e del cronista. La giuri-
sdizione ha a che fare non solo con problemi di interpretazione della legge, ma anche con il dispotismo e la fastidiosa contingenza di verità fattuali che per la politica rappresentano un limite indisponibile, “al di là dell’accordo e del consenso”. Il giudice imparziale è dicitore di verità fattuali che fanno resistenza a qualsiasi potere, e di valutazioni normative che sono, da un lato, il prodotto di decisioni della politica, dall’altro lato vincoli (largamente ma non totalmente suscettibili di revisione) che la politica ha posto anche a se stessa nelle forme proprie dello Stato di diritto.
La giurisdizione è però anche esercizio di potere. Sta in ciò una diffe- renza fortissima rispetto agli altri modi di ricerca della verità. I problemi di fondo della giurisdizione hanno a che fare con il suo carattere, ad un tempo, di istituzione di garanzia ed istituzione di potere.
Di fronte ad ogni esercizio di potere c’è un’esigenza di controllo, che, se non può essere affidato ad un potere formale, è comunque affidato all’uso della libertà di pensiero e di parola. Nessuno può pretendere di essere il cu- stode ultimo di verità e giustizia.
Sono problemi di legalità anche quelli che riguardano la razionalità del giudizio di fatto e il controllo di legittimità sull’approccio del giudice al sape- re scientifico (vedi sentenze Franzese e Cozzini). Sullo sfondo c’è il principio dell’oltre il ragionevole dubbio, con le difficoltà ch’esso comporta là dove incertezze probatorie, o dei saperi scientifici di riferimento, fanno apparire incerto il significato ‘di giustizia’ d’una decisione assolutoria che dà risposta negativa ad attese di giustizia sulla cui fondatezza resta aperto il dubbio.
Oltre che accertamento di fatti, il giudizio sul fatto è anche interpre- tazione dei fatti, ricognizione di caratteristiche socioculturali rilevanti per l’incasellamento dei fatti entro il campo di riferimento di una norma. Con- cetti normativi di valutazione culturale, pongono problemi che sono non solo di interpretazione giuridica, ma anche di ricognizione dei parametri socioculturali cui la norma rinvia. L’interpretazione dei fatti richiede, oltre che saggezza ermeneutica, sapere e saggezza sulle cose del mondo, e com- porta un’esposizione politica tanto più elevata, quanto più sia controversa l’individuazione dei parametri socioculturali di riferimento. È un campo di problemi che, nello studio del diritto giurisprudenziale, richiederebbe una attenzione mirata.
7. Quali garanzie? I compiti della cultura giuridica
Quali garanzie per il cittadino? È il problema cui è stata intitolata la seconda sessione del convegno di Pontignano. Il principio di legalità è una garanzia preliminare, la forma entro cui calare i contenuti di garanzia.
31 Ce lo ricorda uno dei più autorevoli penalisti del nostro tempo: W. Hassemer, Perché punire è necessario, Bologna 2012, p. 68.
32 Così propone m. donini, Scienza penale e potere politico, in AA.VV., Il diritto penale tra scienza e politica, Bologna 2015, p. 75s. (citazione da p. 84).
33 m. WeBer, La scienza come professione, Milano 2008, p. 108.
Anche la cultura giuridica ha un significato di garanzia. Si colloca nell’orizzonte della libertà di pensiero, garantita dai principi costituziona- li31; sceglie i suoi oggetti d’indagine, determina da sé i suoi metodi. È stata definita un contropotere critico32: scompagnato dal potere come autorità de- cisionale, libero di fronte all’autorità.
Il formante dottrinale ha un compito (Beruf, professione e vocazione) di produzione di cultura: che è non solo scienza weberianamente wertfrei (avalutativa, indipendente da premesse di valore), ma anche riflessione sui valori, guidata da interessi di valore. Sta qui la specifica dignità e respon- sabilità della dottrina, anche di fronte alla giurisprudenza e al cosiddetto diritto giurisprudenziale.
È compito della scienza insegnare a riconoscere fatti scomodi33 e porre domande scomode: uno dei contributi più importanti che la cultura giuridi- ca possa portare nel contesto della partecipazione democratica alle scelte di politica del diritto penale. Riconoscere la pluralità di ragioni e di pressioni che incidono sulle scelte legislative, non riducibili alla nostra razionalità e alle nostre ideologie. Saper enucleare le domande scomode non solo per la politica, ma anche per la cultura giuridica, chiamata a fare i conti con il ca- rattere politicamente aperto dei problemi e delle possibili soluzioni, e con i limiti delle proprie e altrui capacità di elaborazione. Gli aspetti critici delle politiche del diritto penale hanno a che fare con la politica generale.
Come riflessione finale, mi piace riprendere la pagina di Aldo Moro citata da Eusebi, risalente al 1945, quando “la lotta armata tra i popoli è ap- pena terminata e la pace degli spiriti ben lontana dall’essere costruita”. Pur nella disperante difficoltà, dice Moro, “noi uomini di cultura non possiamo disperare, perché possiamo capire”. Riformulerei in questi termini: non ci è lecito disperare, perché è per noi doveroso capire. Possiamo e dobbiamo fare i conti con difficoltà a capire, e anche con interessi a non capire e non far capire. La rinascita può cominciare da una comprensione attenta e spre- giudicata. Kantianamente: sapere aude.
Come studiosi abbiamo questo compito: cercare di comprendere la re- altà del mondo in cui viviamo, con i suoi intrecci di razionalità e irrazionali- tà, di bene e di male. Una comprensione libera da pregiudizi, capace di met- tere in discussione i propri punti di partenza (credenze, teorie, ideologie).
34 e.W. BöCkenFörde, Diritto e secolarizzazione, Roma-Bari 2007, p. 53.
Con la consapevolezza che la democrazia politica non è riducibile al governo dei sapienti, secondo il modello platonico, possiamo partecipare – senza potere – all’elaborazione di scelte di politica del diritto penale, nell’e- sercizio delle libertà generali: libertà politica, libertà della cultura.
Sullo sfondo, il problema messo a fuoco dal c.d. teorema di Böckenför- de: lo stato liberale “vive di presupposti che esso di per sé non può essere in grado di garantire”, e “questo è il grande rischio che per amore della libertà (um der Freiheit Willen) lo Stato deve affrontare”34. Anche il diritto penale – e segnatamente il diritto penale liberale - vive di presupposti che il diritto, di per sé, non è in grado di garantire.
domeniCo PULitanò