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Cartuscella sezione FAVOLE SOLO TESTO prima classificata: LINDA DI GIACOMO

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Academic year: 2022

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Naturalmente non era il suo vero nome ma alla Balocchi&Brothers tutti la chiamavano così e lei ci aveva fatto l’abitudine. Era stata ribattezzata con quel nomignolo perché sulla sua scrivania finivano tutte quelle carte che nessuno vuol mai leggere.

Avvisi, lettere, raccomandate e reclami da decifrare, interpretare e catalogare.

Le altre impiegate non erano molto carine con Cartuscella. Le rovesciavano distrattamente cumuli di corrispondenza sulla scrivania o semplicemente la ignoravano. Del resto non era certo il tipo che si faceva notare: magrolina e pallida nascondeva il viso dietro grandi lenti da miope e i capelli in una trec- cia stretta avvolta dietro la nuca. Chantal e Chanel, le due perfide segretarie di direzione, rincaravano la dose chiamandola “Cartuscella Velina” alluden- do alla sua personalità così poco prorompente. Si divertivano a tormentarla con lavoro extra e mas- sicce quantità di fotocopie non sempre necessarie.

Protestare era inutile. Le loro parole erano più ap-

Cartuscella

prima classificata: LINDA DI GIACOMO sezione FAVOLE SOLO TESTO

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puntite dei tacchi che portavano e i loro sguardi più affilati delle unghie che sfoggiavano ogni giorno in colori diversi.

Comunque a Cartuscellavrtava granché. Lavorare in quella fabbrica di giocattoli le piaceva. Amava i giocattoli, soprattutto le bambole. In pausa pranzo preferiva la loro compagnia. Le adorava tutte, dalle più tradizionali alle più moderne, le morbidone tutte boccoli e le filiformi dalla chioma blu. Alle bambole raccontava tutto e i loro occhioni dolci parevano an- nuire e comprendere, soprattutto quando parlava dell’altra sua grande passione: Alberico Balocchi, il fascinoso rampollo della dinastia Balocchi, erede designato della fabbrica e di tutto il patrimonio di famiglia.

Alberico lavorava tutto il giorno nel suo ufficio all’ultimo piano, ma ogni sera scendeva in produzi- one. Faceva un giro tra le macchine e osservava ogni cosa commentando con il responsabile di fab- brica, poi andava via di corsa sulla sua Porche.

Cartuscella lo immaginava tornare a casa, certa- mente una villa da sogno, vestirsi ancor più elegante di quanto non fosse già, e recarsi con la sua fuori- serie ai party più esclusivi della città, dove avrebbe incontrato ragazze come quelle che si vedono sulle riviste.

“Cartuscella, faresti meglio lasciar perdere lo scapo- lo d’oro della città e a concentrarti su qualcuno alla tua portata, a meno che tu non voglia restare zitel- la!”.

“Chiudi il becco tu.” Celestino era il tuttofare dell’azienda, un burlone instancabile ma innocuo.

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Cartuscella aveva il forte sospetto che quel sopran- nome l’avesse coniato lui. Ma non le era antipatico.

Se non altro dimostrava di accorgersi di lei. Alberico Balocchi, invece, in dieci anni non aveva mai dato segno di sapere della sua esistenza.

Un giorno qualcuno lasciò sulla postazione di Cartuscella un plico piuttosto voluminoso. Lei lo aprì e cominciò a leggere. Si trattava di una nuova nor- mativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro.

“Interessante” pensò Cartuscella, “non avevo mai pensato a quanti rischi si corressero lavorando.”

Il documento indicava chiaramente regole e diret- tive, e soprattutto obbligava l’azienda a designare uno dei suoi dipendenti come responsabile della sicurezza. Il prescelto avrebbe dovuto seguire un corso specifico durante il quale avrebbe imparato tutto ciò che c’era da sapere in merito.

Cartuscella si recò con il plico in mano dal respon- sabile del personale, un omaccione burbero e scon- troso.

“Questa è materia del grande capo. Si rivolga a lui.”

“Il grande…”

“Sì, il dottor Balocchi. Vada, vada.”

Cartuscella si sentì mancare le gambe.

Mentre bussava alla porta di Alberico, Cartuscella temette tutta la fabbrica potesse udire i colpi furiosi del suo cuore impazzito.

“Prego.”

Alberico non alzò il volto dallo schermo del com- puter il che fu un sollievo per Cartuscella che non avrebbe retto il suo sguardo così ravvicinato. Era

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bellissimo. La camicia bianca perfetta e la cravatta cerulea facevano risaltare la sua carnagione scura.

Le dita lunghe e forti picchiettavano sulla tastiera con ritmo e vigore. Cartuscella sentì la voce morirle in gola.

“Prego, mi dica.”

“B…buongiorno dottore, avrei questo plico per lei.

Si tratta…si tratta della nuova normativa in tema di sicurezza…”

Alberico la guardò con quegli immensi occhi blu e le sorrise con aria confusa.

“Ah… grazie. Accidenti, sì è vero. Sapevo di questa faccenda. Sfortunatamente non posso occuparmene al momento. Ma so che lei è brava con le carte, no?

Se ne potrebbe occupare lei?”

Cartuscella si sentì svenire. Sapeva di lei!

“Io…io posso provarci ma… c’è un corso da seg- uire…”

“Il fatto è che sono pieno di lavoro fino al collo.

Se c’è una cosa che non mi preoccupa in azienda è la sicurezza. Credo che nessuno si sia mai rot- to un’unghia qui dentro. Comunque, se abbiamo l’obbligo di aderire a questa nuova normativa, fac- ciamolo pure. Io la designo responsabile della fac- cenda, segua questo benedetto corso e se la sbrighi lei.”

“Ci proverò…”

“Sono sicuro che ci riuscirà. Buon lavoro.”

Cartuscella scese le scale in stato di trance. Chantal e Chanel le sibilarono dietro “Oggi qualcuno ha la faccia da sogliola!”

Ma Cartuscella non le sentì neanche. Si sedette alla

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scrivania con il plico davanti e cominciò a prender nota.

Il corso si rivelò molto interessante. Cartuscella si appassionò molto all’argomento. Soprattutto si rese conto che in tanti anni la Balocchi&Brothers aveva sottovalutato troppo l’aspetto della sicurezza. Non c’erano uscite d’emergenza, mancavano gli estin- tori, gli operai non erano vestiti adeguatamente, il divieto di fumo non era rispettato. Insomma un disas- tro. Da allora in poi ora se ne sarebbe occupata lei.

Alberico glie ne sarebbe stato grato, e avrebbero lavorato insieme al problema, fianco a fianco. E poi chissà…magari… da cosa nasce cosa…

Ma al suo ritorno in azienda, Cartuscella si rese conto nessuno le avrebbe prestato ascolto, men che mai Alberico. Tutta la fabbrica era in fibrillazione per il Centenario.

“Oddio è vero, il Centenario!”

Quell’anno la Balocchi&Brothers compiva cento anni di attività e la direzione intendeva festeggiare l’evento con una grande festa in azienda.

Mancava un mese al grande giorno eppure il cli- ma era già frizzante come una gazzosa. Chanel e Chantal erano in delirio.

“Sono indecisa tra un Valentino e un Prada”

“Io tra un Moschino e un Armani”

Cartuscella sorrise al pensiero che si potessero spen- dere tre stipendi per un abito.

“Cosa ridi tu? Tanto trasparente sei e trasparente sarai anche quel giorno lì.”

La cattiveria di quelle due serpi non la ferì.

Dall’incontro con Alberico non si sentiva più

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trasparente.

Peccato che negli ultimi giorni non riusciva a incon- trarlo. Era talmente preso dall’organizzazione del Centenario che non aveva più fatto il suo consueto giro in produzione. Doveva assolutamente parlargli del piano d’acquisto della nuova attrezzatura e del- la formazione per il personale. C’era una scadenza improrogabile da rispettare e se fossero arrivati dei controlli tutta l’azienda ne avrebbe fatto le spese, lei in prima persona.

Trascorsi altri due giorni si decise a bussare al suo ufficio. Non c’era più tempo per titubare.

“È permesso?”

“Avanti.”

“Salve dottore.”

Alberico in doppiopetto grigio e cravatta lavanda era impeccabile e irresistibile come sempre

“Ah, il mio angelo della sicurezza!”

Cartuscella si sentì avvampare. Istintivamente si portò una mano ai capelli sperando fossero in or- dine.

Abbozzò un timido sorriso e cominciò: “Dottore, ci sarebbero degli acquisti da fare, l’azienda dovrebbe dotarsi di attrezzature finalizzate alla sicurezza…”

“Signorina cara, mi creda non ho tempo davvero.

Faccia una cosa, vada direttamente in ufficio acquis- ti e ordini quello che serve.”

“Non è solo una questione di acquisti, ci sarebbero delle regole che tutto il personale dovrebbe cono- scere attraverso un’apposita formazione, per cui è necessar…”

“Signorina la prego. Ne riparleremo dopo il

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Centenario. Anzi, mi raccomando, non manchi alla festa. Indossi un bel vestito e venga con il suo miglior sorriso. La aspetto per un giro di valzer.”

“Un valzer?”

“Già, ci sarà un’orchestra che suonerà dal vivo. Sarà un evento fiabesco. Tutti i giornali ne parleranno.”

Cartuscella era stordita. Alberico Balocchi le aveva chiesto un ballo.

I giorni passavano e lei non stava più nella pelle.

“Mi ha promesso un ballo… un valzer…!”

Le bambole la guardarono silenziose e benevole.

“Rilassati Cartuscella, l’avrà detto a tutte le impi- egate.”

“Uh! Celestino…io stavo parlando con…”

“Sì certo. Tieni, firma un po’ questa consegna.”

“Ah! Finalmente i nuovi estintori.”

E il gran giorno arrivò. Cartuscella chiese in prestito a sua cugina un delizioso abito rosa cipria che le stava alla perfezione. Il ballo si sarebbe tenuto nel salone al piano superiore. La ditta incaricata degli addobbi aveva fatto le cose in grande. Non sem- brava più la vecchia azienda ma un vero e proprio castello incantato.

Quella sera fu concesso ai dipendenti di tornare prima a casa per dar loro il tempo di prepararsi.

Cartuscella tremando per l’eccitazione si vestì, sci- olse i capelli, mise le lenti a contatto e si truccò leg- germente. Guardandosi allo specchio sussultò. Era proprio sua quella sagoma sottile ed elegante?

“Eilà che bambola!” nel parcheggio dell’azienda Celestino rimase a bocca aperta.

“Grazie! Anche tu sei niente male. Questo gessato

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ti sta benone.”

“Andiamo e facciamo faville!” il giovane le offrì il braccio e insieme si incamminarono verso l’ingresso.

Le porte si aprirono rivelando uno sbarluccichio fas- tidioso nell’atrio: erano Chanel e Chantal agghin- date come due lampadari. I loro occhi si riempirono di invidia e sorpresa.

Si scambiarono uno sguardo di intesa ed esclamaro- no all’unisono “Dove credi di andare?”

“Come voi, alla festa, perché?”

Chanel strizzò gli occhi con perfidia: “Non hai vis- to i fascicoli che ti ho lasciato sulla scrivania? Devi farne trenta copie ciascuno entro stasera. È un la- voro U-R-G-E-N-T-I-S-S-I-M-O.”

“Trenta copie ciascuno? Scherzi? Saranno migliaia e migliaia di fotocopie!”

Chantal sorrise: “Che vuoi farci? Se cominci ora, forse ce la farai a salire su per il brindisi finale.

Forse.”

Le due streghe si guardarono tra loro con velenosa soddisfazione.

Celestino provò a dir qualcosa: “Siete sicure sia così urgente? Magari possiamo chiedere al direttore…”

“Sei matto a voler disturbare il direttore con queste sciocchezze proprio adesso?”

Cartuscella si girò di colpo e cominciò a correre.

Non voleva che quelle due arpie vedessero le sue lacrime.

E lì, nel silenzio dello stabilimento buio, Cartuscella si abbandonò a un pianto disperato. Cosa credeva di fare, povera illusa? Sarebbe sempre rimasta per tutti “Cartuscella, l’insulsa impiegata occhialuta”. E

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il suo nuovo incarico come responsabile della sicu- rezza non avrebbe cambiato nulla.

“Perché piangi bella ragazza?”

Cartuscella trasalì, si girò ma non vide nessuno “Chi ha parlato?”

“Hai bisogno di una mano?”

“Chi è?” Cartuscella continuava a non vedere nes- suno.

“Siamo noi!”

“Oh santo cielo!”

Le bambole stavano parlando.

“Ma… voi…parlate?”

“Certo che parliamo!”

“Io credevo diceste solo mamma, pappa e ti voglio bene!”

“Beh, con bambine dai tre ai sette anni cos’altro dovremmo dire?”

“Non posso crederci, che mi prenda un colpo…”

“Lascia stare i colpi e va a ballare con il tuo princ- ipe. Qui ci pensiamo noi. Sappiamo come si fa, ti abbiamo osservata tante volte alle prese con quest’aggeggio.”

Cartuscella incredula lasciò un piccolo esercito di bambole indaffarate attorno alla fotocopiatrice e corse verso le scale urlando “Grazie! Grazie!”.

Non appena varcò la soglia del salone tutti si gir- arono a guardarla ma pochi la riconobbero.

Cartuscella avanzò leggiadra. Chanel e Chantal stavano avventandosi su di lei quando Celestino le bloccò con gentile fermezza: “Signore, il buffet è ap- erto, sono sicuro che preferite andarci da sole piut- tosto che essere accompagnate.” Le due iene, prese

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alla sprovvista, si allontanarono tramortite.

“Madame, so di non essere nel suo carnet, ma mi farebbe l’onore di concedermi il primo ballo?”

Cartuscella sorrise a Celestino e annuì divertita. Ma in quell’istante il suo sogno iniziò a prendere vita.

Alberico si diresse verso di lei con sguardo diretto e intenso, le prese la mano e la sfiorò leggermente con le labbra.

“Il nostro ballo, signorina.”

Cartuscella si abbandonò tra le sue braccia e non vide più nulla. Non vide Celestino che indietregg- iava lasciando il passo al capo, non vide Chanel e Chantal restare fulminate e spegnersi come vec- chie lampadine, non vide gli altri invitati fermarsi ad ammirare la coppia. I suoi piedi volteggiavano sulle note del valzer e la sua testa era tra le nuvole.

Alberico la guardò con passione e cominciò a sus- surrarle qualcosa all’orecchio. Ma lei non non riuscì a sentire perché le urla di alcuni presenti coprirono la sua voce.

Il valzer cessò di colpo, Alberico si staccò da lei e la magia si ruppe come un piatto.

“Che diamine succede?”

“AL FUOCO!”

Cartuscella si sentì travolta dal fuggi fuggi generale, finché non vide le fiamme aggredire i tendaggi del salone. Probabilmente un fumatore distratto aveva involontariamente appiccato il fuoco.

La gente in preda al panico non sapeva che direzi- one prendere, tutti urlavano ammassandosi contro le porte che parevano bloccate.

Non appena si riebbe, Cartuscella corse verso

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Celestino che tentava di domare il fuoco con la sua giacca.

“Celestino! Hai portato uno di quegli estintori anche qui come ti avevo chiesto?”

“Sì! L’ho messo in quel ripostiglio laggiù!”

Correndo vide Alberico che tossiva furiosamente per il fumo e sgomitava disperatamente per rag- giungere l’uscita. Avrebbe voluto fermarsi ad aiu- tarlo ma proseguì, spalancò la porta del ripostiglio e afferrò l’estintore. Si ricordò delle istruzioni in caso di incendio ricevute durante il corso e staccò la linguetta di sicurezza, poi si avvicinò pericolosa- mente alle fiamme sempre più alte e premette la leva. Dall’estintore fuoriuscì una valanga di schiuma che in pochi minuti domò l’incendio.

“Caspita Cartuscella, vai forte con quell’arnese!”

Celestino aveva il volto nero di fuliggine, l’abito bru- ciacchiato e una mano ferita.

Fortunatamente gli altri dipendenti erano illesi, solo molto spaventati, qualcuno tossiva ancora ma nulla di grave. Quando si accorsero che era stata Cartuscella a spegnere l’incendio, esplosero in un fragoroso ap- plauso liberatorio. Cartuscella era stordita, non era abituata a stare al centro dell’attenzione, men che mai vestita a quel modo e con un estintore in mano!

“Lo sapevo che eri il mio angelo della sicurezza”

Alberico, riacquistate compostezza ed eleganza, la prese dolcemente per le spalle e la strinse in un lungo abbraccio.

Cartuscella rimase immobile. Tutto ciò cui riuscì a pensare fu che Alberico era passato dal “lei” al “tu”

senza che la cosa la emozionasse.

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“Dottor Balocchi, con il dovuto rispetto, non esistono angeli della sicurezza ma solo regole e procedure da seguire. Soprattutto esistono delle priorità sec- ondo cui la sicurezza dei suoi dipendenti dovrebbe essere al primo posto. Adesso se vuole scusarmi, ac- compagno al Pronto Soccorso l’unico vero angelo della situazione.”

“Ma…”

Alberico Balocchi non sembrava più tanto affasci- nante con quell’espressione smarrita e quel balbettio sulle labbra.

“Celestino, andiamo?”

Mentre si allontanavo verso l’uscita, nel salone cadde il gelo a raffreddare la temperatura.

“Caspita Cartuscella, quando dicevo che avremmo fatto faville non intendevo certo questo!”

“Sai che sei buffo con la faccia affumicata? Da oggi ti chiamerò Grigiolino.”

“A proposito, Cartuscella. Sai che non conosco il tuo vero nome?”

“Se te lo dicessi non mi crederesti.”

“Spara.”

“Il mio vero nome è… Fiamma.” v

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C’era una volta un’Isola, un’isola bellissima e sel- vaggia nel cuore del grande Mare Mediterraneo.

Da ogni punto dell’Isola e soprattutto dall’alto Monte Acros, si vedeva proprio lui, il Mare, spumeggiante, dal colore blu intenso e cristallino al tempo stesso.

Se appoggiavi all’orecchio una delle tante con- chiglie madreperlate che si trovavano sulla spiaggia fine e dorata, potevi davvero sentire la sua voce, la voce del Mare. L’Isola si chiamava Lamponia, e aveva questo nome perché nella vegetazione in- contaminata e verdissima sulla sommità del Monte Acros crescevano tutto l’anno delle piantine piene di lamponi dal colore rosso rubino, grandi prop- rio come gemme.Da lontano, in mezzo al blu in- daco del Mare, tra le rocce delle scogliere su cui sorgevano casette bianche come neve, brillavano i puntini rossi dei lamponi di Lamponia. Il contrasto era davvero spettacolare, e il momento più bello e romantico era il tramonto, quando le barche dei pescatori rientravano e quando anche il Sole bril-

Mila e i lamponi

seconda classificata: FRANCESCA ZAZZERA sezione FAVOLE SOLO TESTO

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lava e sembrava un lampone gigante, che si tuffa- va nell’acqua dorata. Tutti gli abitanti dell’Isola di Lamponia erano particolarmente ghiotti di lamponi.

Se mettevi in bocca uno di questi frutti, raccolti tut- to l’anno tra i cespugli del Monte, si scioglievamo come una dolcissima gelatina zuccherata ma non troppo. La gelatina aveva anche dei magici poteri.

E quali erano questi poteri? Beh, i lamponi magici di Lamponia allontanavano tutti i mali e donavano il sorriso, ma solo in pochi potevano usarli per curare le persone e, in particolare, i bambini. A Lamponia abitava una giovane dottoressa, la Dottoressa Mila, ma tutti la chiamavano semplicemente Mila. Era la figlia del pescatore Joe, un vecchio lupo di mare. E Mila, beh, era davvero una gran bellezza. Aveva lunghi capelli mossi e ramati, che si decorava con una piccola stella di mare e occhi a mandorla color oltremare. Le labbra erano proprio del colore rosso dei lamponi e si aprivano in un dolce, magico sorri- so. Mila aveva anche un simpatico gatto, Miele, dal lungo pelo color miele appunto, e davvero cicciotto, molto goloso e, in particolare, adorava i lamponi.

Mila aveva studiato lontano, in città, ma poi aveva deciso di tornare ad aiutare il suo popolo, perché all’Università aveva appreso la scienza, sì, ma lei aveva ereditato tutto il sapere della sua cara vec- chia nonna Egea. Nonna Egea era una vera celeb- rità sull’Isola: ne conosceva ogni più intimo segreto.

Conosceva il potere del mare, gli effetti di tutte le radici, le erbe, i segreti sussurrati dalle conchiglie, sapeva parlare con i pesci! Preparava delle creme miracolose con i ricci di mare, estraeva

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le perle dalle ostriche per farne orecchini e collane che regalava alla sua nipote Mila. E, soprattutto, conosceva i segreti dei lamponi: preparava biscotti, crostate, marmellate, bignè, torte e perfino minestre!

Spaghetti! Risotti! Con i magici lamponi. E alla gio- vane Mila la nonna Egea insegnò tutti questi segreti e tutte queste ricette. Tutta la gente dell’Isola le cono- sceva, e se qualcuno stava male, aveva un proble- ma, o si era lasciato con l’amata, si rivolgeva a loro.

Mila adesso era una dottoressa, ma sapeva concili- are la scienza con il sapere tradizionale dell’Isola. I bambini non avevano paura di lei. Se doveva fare loro una puntura al sederino, con un sorriso porgeva un delizioso, soffice muffin, che al primo morso rive- lava un cuore pulsante di lamponi. Così, quando il muffin era finito la puntura era già fatta! Una volta una bambina cadendo in tuffo si era fatta male al braccio: con una pomata all’aroma di lampone il dolore passò in un batter d’occhio. Una volta un bimbo pianse solo perché Miele, il gatto, si era tuf- fato in velocità e gli aveva sottratto lo zucchero filato al lampone per guarire il suo morbillo. il Insomma, tutti i bambini dell’Isola volevano farsi visitare da lei, e non solo, anche i grandi la cercavano sempre. Il suo studio era situato in una casa di legno bianca, dalle tende sottili e velate che ondeggiavano al sof- fio mare. Era tutta piena di conchiglie, cesti bianchi di vimini ripieni di lamponi rossi. Dalla sua finestra si vedeva un tramonto mozzafiato e, in lontananza, il vecchio faro. Le sue giornate scorrevano serene, tra le varie visite e le ricette da preparare. Passava le sere insieme a suo padre, il vecchio lupo di mare

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Joe, che si sedeva in veranda dopo una lunga gior- nata in mare aperto, con un mezzo sigaro in bocca e la sua maglia a righe bianche e blu. Contemplava il mare al tramonto mentre Mila grigliava il pesce appena pescato e condiva con saporita salsa di lam- poni, ovviamente.

“Stanno tornando, dalla mia barca ne ho visti tanti stamattina, sai Mila”, fece Joe alla figlia. “Sempre loro, i ragazzi-venuti-dal-mare?”, chiese Mila e i suoi begli occhi si scurirono un po’. I ragazzi-venuti-dal- mare erano giovani, per lo più, ma in realtà c’erano anche anziani, donne e bambini stupendi, dagli occhioni neri come il carbone e la pelle nocciola.

I-ragazzi-venuti-dal-mare sfuggivano al loro des- tino, perché abitavano in una terra piena di deserto sabbioso al di là del Mare. Una terra molto ricca, dove regnava però un tiranno che li costringeva a lavorare duramente senza pagarli, lasciandoli in povertà. Per questo loro tentavano la fortuna e sali- vano su vecchie navi, molto pericolose, che a volte tragicamente affondavano quando c’era burrasca.

Altre volte i ragazzi-venuti-dal-mare riuscivano a rag- giungere le coste di Lamponia e la mattina dopo la traversata Mila spesso li ha visti esausti, abban- donati a loro stessi, sulla spiaggia. Mila si avvici- nava e portava loro cestini di lamponi aspettando pazientemente che aprissero gli occhi, per chiedere loro “Come state? Da dove venite? Volete un succo di lampone fresco? Vi rifocillerà dal viaggio!” Mila faceva semplicemente il suo dovere di medico, lo aveva giurato il giorno della

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laurea, quando pronunciò il famoso Giuramento di Ippocrate.

Riusciva a dare a questi ragazzi-venuti-dal-mare un po’ di conforto, visto che erano totalmente spaesati e non capivano nemmeno una parola della lingua di Lamponia. Una volta però arrivarono le guar- die con un mandato di arresto proprio per Mila, voluto dal Sindaco di Lamponia Jack Lo Scaltro.

“E perché mai volete arrestarmi, sto solo facendo il mio lavoro di medico!”, disse Mila alle guardie davvero sorpresa. “Ci dispiace, Mila”, replicarono le Guardie, “ma si tratta di ordine del Sindaco: i ragazzi-venuti-dal-mare devono riprendere il largo e non possono restare a Lamponia!”. Mila pianse e si disperò, trovava davvero crudele questa decisione.

Ma fu così che andò quella volta: i ragazzi-venuti- dal-mare dovettero far ritorno al paese di sabbia, senza che Mila poté offrire loro nemmeno delle cure di lamponi. Così, mentre il vecchio Joe le parlava dell’avvistamento della barca dei ragazzi-venuti-dal- mare, subito Mila pensò che le cose stavolta sareb- bero andate diversamente, secondo il suo cuore e la sua coscienza di medico e donna.

Per questo si mise subito all’opera e mandò Miele a chiamare i suoi due piccoli amici: Bea e Nico, due bambini abitanti dell’isola che le erano molto af- fezionati. Bea era una bellissima bambina bionda e birichina di sei anni, Nico invece aveva tanti riccioli neri e aveva sette anni; erano due fratellini. Subito i due bimbi accorsero a casa di Mila e preparano insieme la strategia per l’indomani mattina, quando la barca sarebbe arrivata al porto di Lamponia.

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La mattina all’alba, tutti insieme erano là, pronti ad aspettare i ragazzi-venuti-dal-mare, Mila con Miele, Bea e Nico, con un sacco di sciroppo e biscotti di lampone per i naufraghi. Ed eccoli che piano piano i ragazzi-venuti-dal-mare sbarcarono, erano tanti!

I loro occhi neri erano impauriti, ma fieri. Subito Bea e Nico distribuirono i biscotti ai lamponi, Mila invece notò una donna bellissima dai capelli neris- simi con un grande pancione e sì, stava per nascere il bambino! Nacque proprio lì sulla spiaggia, gra- zie all’aiuto del miracoloso olio di lampone, e lo chiamarono Joe, in segno di ringraziamento verso il vecchio Joe, papà di Mila. Proprio in quel momento magico però.. ecco sbucare dagli scogli le guardie e niente di meno che il Sindaco Jack Lo Scaltro in persona! Miele fu fenomenale, abbandonò la sua pigrizia di gatto e saltò con uno scatto da ghepardo prima sulla faccia delle guardie, poi sulla testa del Sindaco e gli strappò via il suo orribile parrucchino finto. Tutti ridevano a crepapelle e contemporanea- mente Bea e Nico lanciavano a più non posso lam- poni addosso a quelli. Mila si ritrovò faccia a faccia con Lo Scaltro e gli disse a chiare lettere senza alcun timore “Signor sindaco, mi stia a sentire! Lei non può impedirmi di dare le prime cure di lamponi a questi ragazzi-venuti-dal-mare. È contro la Scienza Medica e la tradizione di ospitalità dell’Isola di Lamponia.

Tutti lo sanno! Dobbiamo pensare alla salute di tutti loro e anche alla nostra. Devono avere cure, lampo- ni e vaccinazioni, per prevenire ogni epidemia. Le guardie devono trovare i criminali, e arrestarli, ma a tutti gli altri ragazzi-venuti-dal-mare noi dobbiamo

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dare accoglienza e sicurezza! Allora, che dice?”. Il Sindaco la guardava esterrefatto. Nel frattempo di- etro Mila si era radunata una folla di ragazzi-venuti- dal-mare e abitanti dell’Isola di Lamponia. Il Sindaco non poté fare altro che annuire, e tutti esultarono!

“Urrààààààààà”, in un grido di gioia.

Così Mila fece il vaccino al lampone a tutti, grandi e piccini, visitò tutti e diede una pasticca al lampone ai più anziani. Il piccolo Joe nato sulla spiaggia era bellissimo e stava benissimo, sotto la sua culla si ap- pisolava sempre Miele. Bea e Nico fecero amicizia con i bambini-venuti-dal-mare e scambiarono giochi e biscotti ai lamponi e alla cannella.

Mentre faceva le sue visite, Mila incontrò un ragaz- zo, aveva occhi nerissimi e le regalò una perla nera colpito dalla sua bellezza. Si chiamava Omar. Mila si incuriosì molto.. Un giorno, passeggiava sulla scogliera col suo bel cappello bianco e da lontano vide Omar, proprio lui, che si trovava in alto sul can- tiere della nuova villa favolosa di Jack Lo Scaltro, che sorgeva tra la vegetazione incontaminata. Omar era lassù, in alto, su un’impalcatura, senza nem- meno un casco protettivo. Dal basso Jack Lo Scaltro gli dava ordini col suo nuovo orribile parrucchino:

“Forza su, pi in alto! Più veloce!”. Mila si precipitò giù verso la villa furiosa e minacciò Jack Lo Scaltro “ Brutto delinquente dai capelli finti, sei vergognoso!

Omar rischia di cadere lassù e tu non gli fornisci nemmeno una protezione, gli dai una paga bassis- sima e ti comporti così con tutti i tuoi dipendenti!” . Il Sindaco, viola in faccia, se la diede a gambe le- vate. Il Presidente dello Stato Napolitone ordinò che

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non si facesse più vedere in giro, e qualcuno sa che Jack lo Scaltro vaga per il mondo perseguitato da un vento aliseo che gli fa volare dalla testa il ridicolo parrucchino, e lui, invano, cerca di riacchiapparlo.

Alla notizia della cacciata di Jack Lo Scaltro grazie a Mila, i suoi amici Bea, Nico, Joe, Omar e Miele le organizzarono una splendida festa a sorpresa sulla spiaggia. Tutta l’isola partecipò: si arrostivano calamari e totani, si farcivano capesante e cozze, scorrevano fiumi di succo di lampone e si ballavano musiche mediterranee al chiaro di luna. E al chiaro di luna, Omar chiese a Mila di sposarlo. Mila ac- cettò, e vissero in armonia, tolleranza e sicurezza nella favolosa e incontaminata Isola di Lamponia.

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C’era una volta un re leone, Ben Fatto era il suo nome.

Si chiamava così perché nel suo regno tutto funzionava con ordine ed ingegno:

ogni idea era presa in considerazione e la scelta del re era sempre la migliore.

Da un po’ di tempo però re Ben Fatto non riusciva a riposare affatto:

“A chi andrà il mio regno saggio e sicuro?

Il suo futuro, aimè, io vedo scuro!”

Il re saggio non aveva eredi

e il pensiero che il regno non restasse in piedi,

lo faceva stare davvero male:

dove avrebbe trovato un altro a lui eguale?

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Re Benfatto e Carolina

terza classificata: STEFANIA LICCARDO sezione FAVOLE SOLO TESTO

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Aveva già guardato leoni, pantere, tigri e anche un visone,

ma nessuno gli era apparso all’altezza del- la situazione.

Un giorno mentre passeggiava

s’ imbatté in una fattoria in cui duro si lavo- rava.

Era quella della mucca Carolina, giovane, rispettosa e anche carina.

“Maestà mi dica, cosa posso fare?”

“La tua fattoria mi piacerebbe visitare”.

Così ebbe inizio subito il sopralluogo

e Ben Fatto notò una grande pace in ogni luogo.

Vide un cavallo lavorare cantando

ed un ciuchino che non sembrava affatto stanco.

Il re li interrogò: ”cosa vi fa così felici?”

“Stiamo bene- risposero in coro- siamo ami- ci e lavoriamo duro,

ma vediamo roseo il nostro futuro.

Siamo tutti rispettati e ben pagati, gratificati e anche assicurati.”

Le galline allegre covavano le uova e si faceva festa ad ogni luna nuova.

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I maiali, molto emozionati,

al passaggio del re si inchinarono educati e mentre i pulcini giocavano scanzonati, altri animali che erano al lavoro

gli sorrisero comunque con decoro.

Poi vide il fatturato della produzione

e il ricavato era davvero da gran soddis- fazione!

Il Re si rivolse allora a Carolina:

“questa fattoria funziona alla perfezione non ti credevo tanto padrona della situazi- one.”

“Maestà- rispose la mucca felice- sono orgogliosa di quello che mi dice, ma io seguo solo l’esempio che lei dà

trattando ogni suo suddito con la dovuta onestà.

Ci ha sempre garantito averi , pace,

leggi giuste e ha messo ad ogni posto la persona più capace.

Ha inoltre rispettato ogni lavoratore,

da quello più importante all’ultimo servitore, garantendo rispetto e sicurezza:

ho imparato da lei, ad essere all’altezza!”

“Ecco –rispose Ben fatto- ho trovato a chi

lasciare il regno:

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sono sicuro che lo guiderai con lo stesso mio impegno”.

Fu così che una mucca divenne regina ma restò sempre la stessa di prima.

Umile, saggia e gran lavoratrice, rese quel regno ancora più felice.

Perché se si produce in onestà e sicurezza il guadagno e il buon umore, sono una certezza!

Questa è proprio una favola, direte, non è la verità

perché molto diversa è la nostra realtà;

è vero, ma si può sperare, partendo da una favola,

di iniziare a cambiar le carte in tavola per arrivare con più umanità

a lavorare tutti nella legalità.

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prima classificata: T AN IA G IAC OM EL LO sezi one F AVO LE I LLU STR ATE Lucidastella il Galatticante

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C’era una volta una principessa…ma quella volta, purtroppo, c’era anche la crisi economica, nel castello giravano pochi soldini e, se vole- va ancora scarpine di cristallo, materassi di piume, vaporosi vestiti di tulle e squadre di topini che portassero la carrozza (il formaggio costa), anche la nostra principessa avrebbe dovuto rimboccarsi le maniche come tutti.

- “Vai a lavorare! Invece di stare tutto il giorno davanti al computer, a comprare stupidaggini online!” aveva urlato la Regina matrigna, buttandola fuori di casa un giorno che il Re era fuori a pescare.

seconda classificata: ROBERTA MASCI sezione FAVOLE ILLUSTRATE

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La principessa, allora, triste e addolorata, aveva girato per tutto il reame e alla fine aveva trovato una casetta in periferia, quasi ai mar- gini del bosco, da dividere con sette studenti universitari fuori corso, un po’ bassi di statura, che erano iscritti a mineralogia, e tutti i giorni us- civano di casa con grossi picconi (non sembravano avere troppa fretta di finire gli studi, e infatti avevano già lunghe barbe grigie).

L’affitto era vantaggioso, sì, ma doveva fare lei da sola tutte le faccende, senza nemmeno uccellini e scoiattolini che la aiutassero a stendere i panni.

fabbrica della ex-strega con il suo misero curriculum in mano.

Nel frattempo, una strega mal- vagia, pentita della sua vecchia vita, si era adattata anche lei al momento di crisi economica e aveva investito i guadagni di anni e anni di filtri magici, in- cantesimi e malocchi in una piccola fabbrica di borsette da sera, che però non faceva ancora grandi affari.

La nostra principessa, che non sapeva fare niente di utile e per questo faticava a trovare un lav- oro, dopo aver cercato tanto, alla fine, visto che un pochino sa- peva cucire (anche se fino a quel momento lo aveva fatto solo per passare il tempo), si era rasseg- nata ad un lavoro modesto ed era andata a bussare alla

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- “È facile. Ma attenta agli aghi. Se ti pungerai, tutto qui cadrà in un son- no di cento anni, perché arriveranno i controlli e mi faranno chiudere bottega, e andremo tutti in mezzo ad una strada!” la aveva ammonita la strega-imprenditrice.

Ma la principessa, che oltre a non saper fare niente era anche un po’ presuntuosetta, aveva pensato:

- “Figurati se mi pungo. Ma per chi mi ha preso?” e non prestava molta attenzione a quello che faceva, distraendosi spesso a fantasticare.

I giorni passavano, la principessa cuciva borsette su borsette si sentiva un po’ scoraggiata, perché ricordava i bei tempi in cui le com- prava soltanto. Lavorava tante ore, e non aveva tempo per divertirsi.

Si chiedeva se magari avesse potuto provare a tornare a casa, e magari essere più buona e diligente con la matrigna, ma poi ci ripensava e preferiva rimettersi a lavorare.

- “Quella donna sì che è una strega!” pensava spesso.

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Un giorno, dopo che i sette coinquilini avevano organizzato l’ennesima festa e a lei, come al solito, era toccato rimettere tutto in ordine, era andata a lavorare particolarmente stanca e assonnata.

Gli occhi le si chiudevano, e inanellava uno sbadiglio dopo l’altro, continuando a fantasticare di magnifici balli ai quali avrebbe po- tuto sfoggiare quella splendida borsetta di perline che stava cucendo.

Stava giusto pensando a quali scarpine avrebbe potuto abbin- arla, quando, sovrappensiero, una mano le scappò sotto gli aghi della macchina per cucire!

La strega (non ex, perché in quel momento la rabbia l’aveva fatta tornare arcigna e illividita come ai bei tempi andati, quando era davve- ro malvagia) si avventò sulla sua postazione di lavoro come un fulmine, artigliando lo schienale della sedia della principessa.

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- “Stupida oca! Ragazzina viziata che non ascolta mai nessuno! Ti avevo avvertito! Ora saremo tutti nei guai per colpa tua!” e continuava a ur- lare, strattonandola, senza rendersi conto che la principessa non aveva fatto una piega, e si limitava a guardare con aria imbambolata la mani- na, tesa davanti a sé e lievemente scintillante.

- “Wow, allora funzionano! È stato un buon acquisto, altro che perdere tempo davanti al computer, come diceva sempre quell’acidona della matrigna!”.

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Perché la principessa, ok, non sapeva fare niente ed era presun- tuosa, ma non era stupida e dopo i primi giorni di lavoro si era resa conto che non avrebbe retto quei ritmi a lungo e che prima o poi si sarebbe distratta, non essendo abituata a faticare così tanto.

La strega si calmò, capì quello che era successo e tutti vissero felici e contenti.

Anche perché la strega, che non se ne intendeva per niente di computer e tecnologie (anni prima il massimo della tecnologia, per lei, era stato comprare il fornello a gas, invece del focolare a legna, per met- tere a cuocere le pozioni nel calderone), aveva proprio bisogno di qual- cuno che si occupasse di queste cose, nella sua azienda.

Perciò assunse la principessa come responsabile amministrativa nella fabbrica, e come prima cosa le fece acquistare una grossa quan- tità di guanti magici per tutte le altre lavoratrici, poi le fece prendere contatto con lo staff del sito www.fatamadrina.com perché diventasse sponsor dei suoi prodotti.

Girovagando sulla rete, aveva trovato per caso, sul sito www.

fatamadrina.com (che aveva un vastissimo assortimento di og- getti magici per principesse in- capaci in difficoltà), dei guanti fatati, trasparentissimi ma fatti di diamante, e quindi pratica- mente invulnerabili, e li aveva subito comprati, anche perchè non aveva nessuna voglia di rovinarsi le manine.

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Le borsette della ormai ex-strega divennero molto popolari e vendute in tutti i negozi più lussuosi del reame, e la principessa, con un lavoro meno faticoso e meglio remunerato, salutò i sette coinquilini bassetti e visse più tranquilla in una casetta tutta per lei (finché poi non arrivò il principe e le chiese di andare a convivere, ma questa è un’altra storia).

FINE

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terza classificata: NADIA CECCARELLI sezione FAVOLE ILLUSTRATE

A Ronchiolino, minuscolo paese dell’Appennino Luggiano, talmente minuscolo che google maps lo sta ancora cercando, esisteva un albero insolitamente alto e svettante su tutti gli altri: sovrastava cipressi, abeti, e persino il baobab gigante che il farmacista aveva portato con sé al ritorno di uno dei suoi viaggi esotici. L’ albero spilungone si trovava nel chiostro del convento e la sua altezza sovrastava quella del campanile della chiesa dove ogni domenica si rac- coglievano a pregare i ronchiolini. Tutti erano abitu- ati a quella stramberia della natura e ne erano parti- colarmente affezionati, anche se non faceva ombra e non produceva frutti era considerato un grande tal- ismano portafortuna, e per la sua vicinanza al cielo, una presenza tangibile della benevolenza divina.

I ronchiolini formavano una comunità tranquilla e particolarmente laboriosa, le famiglie vivevano in graziose casette con orticello annesso, i bambini

L’albero di Fra’ Golino

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andavano a scuola sempre dalla stessa maestra che era rimasta uguale negli anni: stessa pettinatura, stessi occhiali, stessa camicetta a fiorellini rosa e stesso neo peloso al lato del naso. Da cento anni insegnava a leggere, scrivere e far di conto a intere generazioni di scolaretti.

Tutti gli abitanti lavoravano nella fabbrica del paese che produceva saponette e nel tempo libero vi collab- oravano anche la maestra, il sindaco, il farmacista (quello del baobab) e l’ingegnere elettronico che era disoccupato perché aveva una laurea troppo avanti coi tempi. Per essere precisi, Ronchiolino è il paese che inventò le saponette. Alcuni storici del costume sostengono che la classica saponetta profumata sia frutto della ricerca francese nella cosmesi: niente di più sbagliato! Le saponette di Ronchiolino partivano su carretti tirati da muli in direzione di Parigi già dai tempi di Napoleone e ancor prima erano arrivate sulle tolette di re, imperatori, sultani e faraoni.

Con l’avanzare della tecnologia anche gli ingredi- enti venivano sostituiti e perfezionati. Le nuove sa- ponette erano fatte con l’uso della soda caustica che ne rendeva migliore la qualità. La creatività dei ron- chiolini non conosceva limiti: saponette trasparenti con fiori e conchiglie incastonate, contenenti pietre preziose o anelli di fidanzamento, colorate, sfumate, a righe, di ogni forma e grandezza, come quella di dimensioni reali che volle fabbricare zio Patroclo a immagine e somiglianza della bella croceros- sina che tanti anni prima gli curò le ferite in guerra.

Saponette al profumo di colonia, ai fiori, alla cioc- colata e persino

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al baccalà (versione poco richiesta per la verità). I bambini si erano divertiti a creare minuscole sfere di sapone tanto richieste ed apprezzate all’estero dove venivano chiamate ‘perle’ ma che in realtà erano ispirate alla forma del porro della maestra.

Ogni domenica la collettività si riuniva tutta in chiesa per pregare e ritrovarsi tra parenti e amici. I ron- chiolini erano molto religiosi e affidavano alla bontà celeste la protezione di tutta la comunità. Le funzioni religiose della domenica erano officiate a turno dai tre fraticelli del convento, il cui ordine originario era andato perso nel trascorrere degli eventi storici. Una vecchia targa di marmo murata su un lato del con- vento e parzialmente ricoperta di piselli rampicanti recava la scritta ‘ora et labora’. Era stata scolpita tanti anni prima da un precedente insediamento di monaci cistercensi ma rappresentava ancora bene lo spirito del convento e di tutto il paese.

La chiesa del convento era gremita ogni domenica di gente proveniente da ogni angolo del paese, non mancavano i bambini e tutti gli animali domestici considerati parte della famiglia, compreso il pap- pagallo esotico del farmacista e l’asino di nonno Geppo. Le funzioni si svolgevano nel pieno raccogli- mento religioso e in gran rispettoso silenzio eccetto qualche sporadico raglio e qualche ‘bella culona’

proveniente dal pappagallo parlante.

Tuttavia da qualche mese ormai, il rituale veniva dis- turbato da sempre più frequenti colpi di tosse. Iniziò la bronchite di Reginaldo lo smilzo che ansimava afono e sfiatato, si unì la settimana successiva la tosse

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canina della povera Giuditta, mamma dei gemelli Lino e Lana anche loro alle prese con colpettini di tosse sincronizzati. Zio Castaldo veniva scosso da prorompenti tremori toracici che finivano sempre col produrre viscide secrezioni. Tra tossi,fischi,raspi e affanni, in breve tempo la chiesa si trasformò in un auditorium di cori sconcertanti: un’orchestra di rantolii dai toni bassi alternati da colpetti di tosse soprana, il tutto accompagnato dal sottofondo dei sibili asmatici dei bambini. Padre Appio dall’altare cercava di dirigere i fragori polmonari coordinando un coro più strutturato e melodioso possibile, metten- do i sibili in fondo, le tossi stizzose al centro e quelle grasse a sinistra, vicino alle sputacchiere. Tuttavia più di un viandante forestiero, trovatosi a passare nei pressi della chiesa, si dileguò a gambe levate pensando ad un rito di esorcismo in atto.

I ronchiolini avevano perso la salute per cause da loro stessi definite misteriose e, avendo la farmacia da tempo esaurito gli sciroppi per la tosse, le cara- melle balsamiche e perfino le zigulì, dopo essersi scolati tutte le scorte di tantum verde e anche di tan- tum rosa, non restò che aggrapparsi alla preghiera, chiedendo un intervento divino che facesse ristabi- lire i poveri bronchi ansimanti.

Cominciò a girare la voce in paese, che l’albero del chiostro stava fiorendo di piccoli fiorellini rosa e tutti accorsero con binocoli e cannocchiali ad osservare il fenomeno che a tanti parve finalmente un segno del divino. Si formarono gruppi di preghiera intorno al’aiuola da dove partiva il lungo tronco. Ai fiori suc- cessero piccoli fruttini verdi che

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crebbero maturando fino a diventare simili a ciliegie rosse. Dopo tante pene, finalmente una risposta alle preghiere, ovvio che quei frutti rappresentavano la cura miracolosa che tutti stavano trepidamente as- pettando!

Si decise di raccogliere i ciliegioni per farne infusi e decotti per tutti. Si levavano già laudi di ringrazia- mento, alla base della pianta si radunò tutto il paese a fare festa tra canti balli e sputazzi. Una fune lega- ta ad un arpione fu sparata in cielo, attraversò i rami dell’albero ricadendo in terra. dall’altro capo della corda una capiente cesta di vimini penzolava invi- tante, pronta all’ascesa. Si trattava soltanto di sceg- liere chi dovesse salire per il raccolto. Si fece avanti il vicesindaco che con i suoi centoventi chili di peso fece gemere la cesta già prima di salire, si presentò poi zio Castaldo, dall’espettorato facile e frequente, non gli fu consentito di salire perché nessuno aveva portato l’ombrello, infine fu scelto fra’ Golino, un giovane esile fraticello che , con l’approvazione dei presenti entrò festoso nel canestro grande ab- bastanza per accogliere lui e i frutti del prodigio.

Il farmacista e il barbiere fecero a gara per mos- trare davanti alle signore la propria forza nel tirare la fune,tanto era lo sforzo delle loro esibizioni che ad ogni strappo emettevano fragorose pernacchie, e non sempre di raucedine. Il risultato della disputa era che fra’ Golino riceveva repentini scossoni, la cesta saliva a scatti e lui rimbalzava sul fondo, si doveva aggrappare ai bordi del recipiente per non venire catapultato.

Improvvisamente il cielo si illuminò di una luce più

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intensa e dorata. Dalle foglie dell’albero filtravano alcuni raggi luminosissimi e tutti smisero di tossire mentre a bocca aperta guardavano in alto. La cesta, fino a poco prima brutalmente strattonata, prese a salire dolcemente, senza che nessuno dei presenti issasse la fune. Lentamente e con leggerezza fra’

Golino si allontanava da terra diventando sempre più piccolo mentre con la mano salutava la folla sot- tostante. Il prescelto era ad un passo dalle prime foglie e già intravedeva i grossi frutti rossi anche se lo stupore che provava per la sorpresa gli sta- va facendo dimenticare lo scopo della missione.

Arrivato che fu tra le fronde cominciò a cogliere i frutti prodigiosi ma poco dopo fu tirato fino alla som- mità della chioma. L’intero paese che lo sosteneva da sotto ora non lo vedeva più e restò in trepida at- tesa col fiato sospeso. Nel frattempo, adagiato sulla chioma, il fraticello sbalordito, si mimetizzava tra i rossi ciliegioni appena colti raggomitolandosi nel fondo della cesta. Una luce accecante lo colpì per qualche secondo, fino a quando riuscì a distinguere sempre più nitida la figura famigliare di un religi- oso dall’aria bonaria e paterna. ‘Figghiu caru ap- perchè volessito ascendere cum scarsa comoditate fin su la guspide de l’ arborea criatura? Favellame de la cagione de siffatta visita’. Mentre l’anziano frate parlava, fra Golino riconosceva in lui i line- amenti di san Celestino, protettore dei lavoratori, ritratto nell’affresco della cappella del convento.

Balbettando con grande emozione, il fraticello rac- contò dei malanni polmonari dei fratelli ronchiolini e di come avessero riposto nei frutti

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del gigantesco albero, la speranza di un rimedio portentoso ai loro malanni. ‘Ma fussi tu inerpicato fin su lo ceppo per profferirme ridicula facezzia? Volissi afferrar me per li posteriori?’ rise, san Celestino, e fra Golino appresso a lui, anche se non ne capiva il senso ‘Fratelli cari, curriggiete più tosto li loculi di laboro, protiggete le nari dai perigliosi effluvi della soda causticam che non solo fete tanto, ma arruvina et currode le visceri! Arricuordate :Per sanar li mali non abbasta invuocar provvidenza!

Finito che ebbe di parlare, il vecchio aureolato ac- carezzò affettuosamente la chierica di fra Golino prima di riprendere la fune ed iniziare la discesa del cesto. Quando apparve il prezioso fagotto spuntare dai rami da sotto si levò un boato festoso di urla gioiose: così come era salito, gradualmente il cesto ridiscese fino a toccare dolcemente terra. Una folla festante circondò il giovane trasognato, ci volle un bel po’ di tempo prima che si riuscisse a cavargli una parola di bocca. Ma il messaggio di Celestino era forte e chiaro e i ronchiolini furono presto avvertiti dei provvedimenti concreti da prendere per la salute di tutta la comunità. Frate Appio rispolverò la vec- chia targa di marmo ‘ora et labora’ ‘in sicurtà’ ag- giunse con lo scalpello. Tranne l’ostinato farmacista, sostenitore del rimedio miracoloso, che si preparò nel laboratorio una marmellata di frutti rossi, tutti gli altri confezionarono guanti, attrezzi e mascherine per evitare al massimo l’esposizione con gli agenti nocivi e quando finalmente la protezione cominciò a dare gli attesi risultati, i ronchiolini festeggiarono una domenica intera, imbandendo

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un banchetto di prelibatezze proprio nel chiostro del convento, sotto l’albero gigante. Con voce di nuovo ferma e limpida cantarono e ballarono fino a notte fonda: c’erano tutti, ma proprio tutti, tranne il farma- cista, impossibilitato a partecipare perché l’effetto purgante dei ciliegioni lo aveva intrattenuto a casa!

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LE FAVOLE VINCITRICI VERBALE DELLA GIURIA

In merito al concorso in oggetto, la Commissione ha deliberato la seg- uente classifica:

FAVOLE ILLUSTRATE

Prima : n. 72 Lucidastella il Galatticante di Tania Giacomello - Padova Seconda: n. 49 La Principessa che cuciva le borse di Roberta Masci - Roma

Terza: n. 130 L’albero di Fra’ Golino di Nadia Ceccarelli – Civitavecchia FAVOLE SOLO TESTO

Prima n.109 Cartuscella di Linda Di Giacomo - Salerno

Seconda n. 84 Mila e i lamponi di Francesca Zazzera – Avezzano Terza n. 34 Re Ben Fatto e Carolina di Stefania Liccardo - Orvieto RICONOSCIMENTO DELLA CRITICA

n.157 La bambina che sognava di salire sulle impalcature di Marianna Sauro-Verona

n. 19 Una favola per vivere. Il grillo parlante di Maria Graziella Comanducci-Arezzo

Le favole più votate e commentate via web sono state:

Favola illustrata: n° 78 “Le avventure di regolina”di Rosita Giulianelli - Perugia

Favola solo testo: n°172 “Sicurezza la vera regina sei tu” di Paola Gottardo – Padova.

Cordiali Saluti

Il Direttore della Sede Unica di Perugia D.ssa Alessandra Ligi

Riferimenti

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