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Il professionista dell’educazione tra azioni, emozioni e riflessione

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Academic year: 2021

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1. Educare ai casi unici

Lavorare in campo educativo significa, riprendendo John Dewey, far ricorso a cuore, mente e mani. Il lavoro in quest’ambito richiede tanto le conoscenze e le competenze acquisite nei percorsi formali e non formali di istruzione e formazio-ne, così come quelle acquisite in contesti informali di vita quotidiana (conoscenze tacite), quanto le esperienze maturate in situazioni lavorative e/o di vita (non formali), insieme all’attitudine, alla motivazione e alla passione. Il combinato di-sposto di queste dimensioni dovrebbe favorire la formazione di un professionista competente e capace d’affrontare con metodo scientifico le diverse e imprevedibili situazioni che gli si presentano nella realtà lavorativa senza la fretta d’arrivare su-bito e in maniera istintiva alla soluzione dei problemi che incontra.1

1 Quando parliamo di metodo scientifico, ci riferiamo alla concezione deweyana ben espressa ne Le fonti di una scienza dell’educazione (1929) di un approccio sistematico ai fatti educativi per cui

de-terminati eventi si affrontano passando dalla dimensione dell’esperienza pratica e familiare a quella dell’indagine riflessiva che rifiuta l’idea che possa esserci una procedura valida per tutte le situazioni. La preoccupazione di raggiungere risultati di utilità pratica e immediati, spiega Dewey, limita il campo dell’attenzione e consente di rilevare solo ciò che è direttamente legato con quanto si vuole fare e ottenere in un determinato momento, senza dare la possibilità di vedere nuovi problemi e soluzioni. «L’atteggiamento scientifico [...] è il desiderio di ricercare, esaminare, discriminare, trac-ciare conclusioni solo sulla base dell’evidenza, dopo essersi presi la pena di raccogliere tutti i dati possibili. È l’intenzione di raggiungere credenze e di provare quelle che risultano accettabili, sulla

Il professionista dell’educazione

tra azioni, emozioni e riflessione

Anna Salerni

Le fonti della scienza dell’educazione sono costituite da alcune porzioni di conoscenza accertata che entrano nel cuore, nella mente e nelle mani degli educatori e che, entrandovi, rendono lo svolgimento della funzione educativa più illuminata, più umana, più schiettamente educativa di quanto non fosse prima; ma non v’è modo di scoprire che cosa sia “più schiettamente educativo” fuorché mediante la continuazione dell’atto educativo stesso (Dewey, 1929)

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Quelle educative sono professioni giovani quanto al loro riconoscimento sociale, giuridico, economico e formativo e alcune di esse sono state solo recentemente regolamentate. Potremmo dire che si tratta di figure liquide, utilizzando la meta-fora di Bauman, che non hanno una specifica identità e che spesso si confondono con le tante professionalità presenti nei contesti educativi. Le figure educative debbono essere ben definite nelle loro diverse dimensioni (formazione compe-tenze, ruoli, compiti), per evitare ciò che per molto tempo è accaduto, ovvero che l’elemento caratterizzante sia la vocazione e/o la predisposizione ad aiutare gli altri, se non il fatto di essere di genere femminile, e non la loro preparazione specifica (Brambilla, 2016).

L’individuazione di tali figure educative, infatti, spesso è avvenuta, indipen-dentemente da una formazione specifica e dal possesso di un titolo di studio, tra figure affini che magari lavorano in contesti simili, come per esempio lo psicolo-go, l’assistente sociale, il sociolopsicolo-go, l’antropologo ecc.

Ben vengano, scrive Contini (2009, p. 2),

tutti gli apporti dei diversi ambiti del sapere e della ricerca: grazie a quanto apprendiamo dalla psicologia, sociologia, antropologia (ma anche da neuroscienze, filosofia, letteratura, estetica e altro ancora) possiamo rendere gli “occhiali”, con cui guardiamo i nostri interlocutori edu-cativi, decisamente più multifocali, e il nostro sguardo capace di rivolgersi a una complessità, che assomiglia al mistero, senza sgomentarsi, anzi appassionandosi all’opacità che incontriamo, avendo a disposizione più competenza, più saperi, più linguaggi. Ma: senza dimenticare che noi siamo educatori, educatrici, pedagogisti, senza giocare, cioè, a fare gli apprendisti stregoni in altri ambiti, senza “travestirci” da psicologi, sociologi o antropologi, perché in quel caso, oltre a smarrire di nuovo la complessità privilegiando una sola dimensione, rinunceremmo alla speci-ficità, all’unicità del nostro ruolo e di uno statuto etico oltre che epistemologico, che mentre ci chiede di dilatare e arricchire il campo delle possibilità per i soggetti, chiede anche – a noi – di farci carico del processo che tutto ciò comporta, del percorso da compiere e dei problemi che lo attraversano e lo ostacolano.

Un bravo professionista in campo educativo deve saper collegare il sapere teo-rico con la pratica insieme alla «abilità artistica» ovvero a quella capacità d’affron-tare i problemi affidandosi al buon senso e alla propria intuizione e fidandosi del proprio giudizio, senza però mai abbandonare il metodo scientifico. Per dirla con Patch Adams (2014, p. 91), «l’arte è lo stile con cui viene impiegata la scienza».

base dei fatti osservati, riconoscendo al tempo stesso che i fatti sono privi di senso a meno che non indichino idee. È l’atteggiamento sperimentale che riconosce come, mentre le idee sono necessarie per l’organizzazione dei fatti, esse sono al tempo stesso ipotesi di lavoro da verificare sulla base delle conseguenze che producono» (Dewey, 2000, p. 35).

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Le situazioni educative sono uniche, irripetibili, e in quanto tali non esistono procedure efficaci e valide per tutte le circostanze in quanto non vi è una co-noscenza definitiva. Non esiste cioè un modo di comportarsi che sia il risultato di quanto si sa, ma esiste un modo di comportarsi che è il risultato del modo in cui si utilizza ciò che si sa in relazione a ciò che si è e a ciò che si vive in una determinata situazione e in un dato contesto. Un professionista competente, in-fatti, deve lasciarsi cogliere di sorpresa in una circostanza che appare unica e non dipendere dalle

categorie consolidate dalla teoria e dalla tecnica, ma costruire una nuova teoria dal caso unico. [...] Egli non tiene separati i mezzi dai fini, ma li definisce in modo interattivo, mentre struttura una situazione problematica. Non separa il pensiero dall’azione, ragionando sul problema sino a raggiungere una decisione che successivamente dovrà trasformare in azione (Schön, 1993, p. 94).

Donald Schön (2006) sostiene che nella pratica professionale vi è un terreno stabile che sovrasta una palude. Nella parte superiore del terreno, in superficie, troviamo i problemi che è possibile risolvere applicando teorie e procedure stan-dardizzate apprese anche, ma non solo, nel percorso formativo, mentre nella parte sottostante, quella paludosa, vi sono i cosiddetti problemi della pratica che si presentano in forma caotica e indeterminata e che hanno bisogno di essere ana-lizzati in profondità e con metodo per essere affrontati con professionalità e senza improvvisazione. I problemi della palude sono quelli più comuni, di maggior rilevanza. Sono i problemi reali che caratterizzano le cosiddette “professioni mi-nori”2, tra cui certamente rientrano quelle educative, più instabili e con maggiore difficoltà a sviluppare una conoscenza professionale sistematica/tecnica.

Proprio perché nel campo dell’educazione abbiamo a che fare con casi unici e non prevedibili (Schön, 1993), che non si trovano sui manuali, quando educhiamo e educhiamo a educare dobbiamo imparare ad acquisire un metodo sistematico di ricerca e d’analisi dei problemi e di riflessione su di essi, evitando di separare la ricerca dalla attività pratica, il ruolo dello studioso da quello dell’operatore sul campo e ogni gerarchia di tipi di conoscenza.3 Ciò significa che, nell’affrontare i problemi che incontriamo nella pratica e nel prendere decisioni, dobbiamo seguire

2 Le definizioni professioni “maggiori” (medicina, diritto, economia) e “minori” (come insegnamento,

servizio sociale ecc.) sono riprese da Donald Schön (1993) riferendosi a un lavoro di Glazer (1974).

3 Ne Le fonti di una scienza dell’educazione John Dewey (1929, p. 44, traduzione mia), riflettendo

su “Le scienze da salotto”, afferma la necessità di una connessione vitale tra il settore dell’attività pratica e il lavoro di ricerca: «Ciò che è assolutamente necessario è che fluisca una qualche sorta di corrente vitale tra l’operatore in campo e il ricercatore. Senza questo flusso, il secondo non è in grado di giudicare la reale portata del problema al quale si dedica».

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una serie d’azioni tipiche di un procedere riflessivo, abbandonando la visione dominante del sapere professionale che vede l’applicazione di teorie e tecniche ai problemi della pratica. Dobbiamo cioè imparare a impostare il problema ovvero raccogliere tutte le informazioni necessarie ad analizzare la situazione unica che ci si presenta, esaminare le “fonti” disponibili, considerare i diversi punti di vista, verificare se ci siamo già imbattuti in situazioni simili o se si tratta di situazioni originali, scegliere strumenti e strategie adeguate, valutare e riflettere nel corso dell’intervento, così come al termine di esso, su ciò che si è compiuto e su ciò che si potrebbe fare o non fare in circostanze simili che potrebbero presentarsi in fu-turo, condividere con gli altri le esperienze vissute, individuare, ammettere e con-dividere gli errori compiuti. Insomma, per agire in modo riflessivo non possiamo pensare di scegliere fra i mezzi a disposizione quello migliore per raggiungere un determinato fine, perché così facendo non ci mettiamo nella condizione di esa-minare in tutta la sua completezza il problema e d’impostarlo, ma ci muoviamo solo per trovare una soluzione applicando determinate tecniche e affidandoci al senso comune. Per dirla sempre con le parole di Schön, «un caso unico ricade al di fuori delle categorie della teoria applicata. Un medico non può applicare tecni-che standard a un caso tecni-che non è sui libri» (1993, p. 68).

Il modello epistemologico della «razionalità riflessiva» di cui ci parla Donald Schön, che dovrebbe caratterizzare le professioni, si contrappone pertanto al mo-dello della «razionalità tecnica» che fa riferimento a schemi e repertori predeter-minati. I problemi che s’incontrano nei contesti lavorativi e professionali, infatti, non si presentano al professionista pronti per essere risolti, ma richiedono un attento esame iniziale della situazione, indispensabile per agire in modo consa-pevole e una continua apertura al nuovo e all’imprevisto necessaria per poter ge-nerare nuova conoscenza e poter agire in modo appropriato. Come spiega Schön ne Il professionista riflessivo, per effettuare un tale tipo d’indagine bisogna essere consapevoli della «incertezza, unicità, instabilità» della pratica professionale e non considerarla come una «minaccia» (1993, p. 94). Schön, nel presentare la sua idea di professionista, fa esplicitamente riferimento al modello deweyano d’indagine, ovvero di conoscenza acquisita attraverso l’azione e di riflessione costante su di essa. Conoscenza e azione sono assolutamente collegate tra loro. Ed è proprio in questa capacità d’affrontare eventi unici che entra in gioco l’abilità artistica del professionista necessaria, insieme alla riflessione, per procedere in maniera com-petente nei molteplici contesti indeterminati della pratica e per non operare in modo meccanico e tecnicistico (Schön, 2006, p. 48).

John Dewey ne Le fonti di una scienza dell’educazione, riflettendo sull’edu-cazione come arte e sulla necessità d’applicare il metodo scientifico anche in campo educativo, afferma: «Quando nell’educazione, lo psicologo o l’osservatore e lo sperimentalista, in qualsiasi campo, riduce le sue scoperte a una regola che

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dev’essere rigidamente adottata, solo allora il risultato ottenuto è criticabile e nocivo al libero gioco dell’educazione intesa come arte» (Dewey, 1929, p. 14, traduzione mia).

2. Lasciarsi cogliere di sorpresa per imparare a riflettere

Nelle professioni educative, come del resto in ogni professione, la riflessione dovrebbe diventare una disciplina mentale, perché è solo attraverso la riflessione su ciò che si fa che l’azione futura può migliorare in termini tanto di conoscenze quanto di comportamenti. Ma la riflessione non può essere imposta dall’alto, definita a priori; essa richiede un’assunzione di consapevolezza, una presa di co-scienza, che ha inizio quando ci si trova davanti a un’«esperienza di sorpresa». In altre parole, «quando una prestazione intuitiva, spontanea, non produce altro che i risultati attesi, allora tendiamo a non rifletterci sopra. Ma allorquando una prestazione intuitiva porta alla sorpresa, piacevole e promettente, o non voluta, è possibile rispondere con una riflessione nel corso dell’azione» (Schön, 1993, p. 82). In tal modo l’elemento di sorpresa ci allontana da una pratica routinaria e da un modo d’agire spontaneo e ripetitivo e gradualmente, attraverso l’esercizio, ci direziona verso una pratica riflessiva permanente.

La riflessione è componente irrinunciabile dei processi d’apprendimento e dev’essere intesa come la capacità di fermare le azioni (la pratica) e d’interrogarsi criticamente sul loro senso con l’obiettivo di rivedere costantemente il proprio modo d’agire e di comprendere meglio ciò che si sa e si fa nell’azione senza darlo per scontato e già noto. Così, attraverso la riflessione, è possibile individuare le azioni compiute per abitudine e scoprire il senso di ciò che si fa spesso in maniera meccanica.

Per questo potremmo identificare la riflessione non già come il generico pensare ma, meglio, con l’essere pensosi e pensierosi: con l’essere assorti e assorbiti dai pensieri, con l’essere sprofondati, rapiti e catturati: più che un pensare, giustamente un ripensare.

Se ciò che è riflessivo ci fa intendere la riflessione anzitutto come ri-pensamento, allora possiamo afferrare come essa operi da un lato restituendoci ciò che è accaduto (facendolo rincasare, facen-dolo rimpatriare, facendogli rinnovare dimora presso di noi) e dall’altro, restituendoci a ciò che è accaduto. Il ripensare, infatti, non è solo un ritornare a noi, ma pure (in quel prefisso, ri) un ritornare “a prima” (Quaglino, 2011, p. 41).

Riflettere, dal latino reflěctere, significa “ripiegare, volgere indietro”: il termine, usato in senso intransitivo, indica il rivolgere la mente su un oggetto del pensiero ossia considerare con attenzione, ripensare ed esaminare le esperienze dando loro

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un significato, trasformando il vissuto in apprendimento. Attraverso la pratica riflessiva è possibile sviluppare una maggior consapevolezza rispetto al sapere che guida la propria pratica professionale e imparare sia a conoscere se stessi (reazioni, pensieri, emozioni ecc.) sia a modificare il proprio modo d’agire in situazioni fu-ture. La riflessione è infatti frutto di «un processo con cui si valutano criticamen-te il concriticamen-tenuto, il processo o le premesse dei nostri sforzi finalizzati a incriticamen-terpretare un’esperienza e a darvi significato» (Mezirow, 2003, p. 106).

A partire dal modello di pensiero riflessivo di John Dewey il concetto di ri-flessione come «sospensione dell’azione» (Dewey, 1961) è stato ripreso in molti studiosi che si sono occupati delle teorie dell’apprendimento e, nello specifico, dell’apprendimento degli adulti.4

I termini e le espressioni usate per indicare questo campo di studi, quali “ri-flessione”, “pensiero riflessivo”, “riflessione critica”, “pratica riflessiva”, fanno parte dello stesso campo semantico, ma non sono tra loro interscambiabili (Nuzzaci, 2011). Certamente quando si parla di “riflessione”, nei diversi contesti professionali (medico, infermieristico, sociale, giuridico, dell’organizzazione e gestione delle ri-sorse umane, dell’insegnamento), l’intenzione è quella di partire dalle esperienze vissute dai soggetti5 con l’obiettivo di sviluppare nuove conoscenze, attraverso di-verse pratiche e per mezzo di una riflessione, un ripensamento – tanto individuale quanto di gruppo – in una prospettiva che sia trasformativa, ossia volta a rivedere il proprio agire (valori, aspettative, credenze, schemi mentali, sentimenti) così da integrare effettivamente la teoria con la pratica creando quel rapporto circolare in cui l’esperienza favorisce la riflessione che a sua volta alimenta l’azione.

L’azione riflessiva dev’essere continua e non diacronica, ovvero dev’essere

contem-poranea, ossia avvenire in modo istantaneo nel presente dell’azione; retrospettiva,

ovvero come ripensamento sull’azione vissuta e relazione con le proprie esperienze e conoscenze; prospettica/anticipata, cioè effettuata in funzione delle azioni future che si compiranno e delle strategie che potrebbero essere impiegate e che possono essere affermate e/o rafforzate alla luce dell’esperienza vissuta (van Manen, 1991).

In particolare Schön, a cui si può attribuire il costrutto epistemologico dell’“agire riflessivo”, riprendendo il pensiero riflessivo di Dewey, considera il professionista riflessivo come colui che, colto da un elemento di sorpresa che

4 La letteratura su tema del rapporto tra apprendimento e riflessione è decisamente vasta; senza

nessuna pretesa di essere esaustivi, si riportano alcuni principali riferimenti a livello internazionale: Kolb e Fry (1975), Kolb (1984), Schön (1993), Argyris e Schön (1998), Boud et al. (1985), Jarvis (1987), Gibbs (1988), Mezirow et al. (1990), Brookfield (1995), Fook (2010), Fook e Gardner (2007, 2013), Gardner (2009), Cranton (2006), Mälkki (2012) e Taylor e Cranton (2013).

5 I termini e le espressioni utilizzate per indicare i soggetti a cui si rivolge l’intervento educativo sono

molteplici e variano in relazione ai contesti e al tipo d’intervento e di relazione. I più comuni sono “utenti, clienti, persone, pazienti, beneficiari, partecipanti, educandi, destinatari, interlocutori”.

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rende insolito ciò che accade, riflette nei diversi momenti dell’azione. Egli si pone come ricercatore che opera nel contesto della pratica per costruire una nuova teoria dal caso unico (1993). Il professionista riflessivo è per Schön colui che riflette sia su ciò che fa, mentre vive una determinata situazione, così da essere consapevole di quanto sta pensando, sentendo e facendo, sia successiva-mente, a conclusione dell’azione, ripensando agli eventi accaduti e ricordando ciò che stava pensando, sentendo e facendo.

Per Schön la riflessione su ciò che si fa nel corso dell’azione avviene in contem-poranea rispetto all’azione ed è considerata una competenza necessaria per evitare gli effetti negativi propri della routine e della ripetizione di determinate azioni in cui il conoscere diventa tacito (Polanyi, 1966).

Il professionista riflessivo, infatti, mediante la riflessione «può fare emergere e criticare le tacite comprensioni sorte attorno alle esperienze ripetitive di una pratica specialista e può trovare un nuovo senso nelle situazioni caratterizzate da incertezza o unicità che può concedersi di sperimentare» (Schön, 1993, p. 87).

La riflessione nell’azione, nel mentre si fa, osservando e correggendo contem-poraneamente il proprio agire aiuta a superare la scissione tra sapere e fare, ovvero quel modo d’operare “tecnico” per cui si applicano teorie e regole predefinite indipendentemente dal caso specifico che si presenta. L’agire e il pensare debbono essere complementari: «l’agire amplia il pensare nelle prove, nelle mosse e nei son-daggi dell’azione sperimentale, e la riflessione si nutre del fare e dei suoi risultati. Ciascuno si nutre dell’altro» (Schön, 2006, p. 286).

Ma, per agire in modo consapevole, è necessario che, oltre alla riflessione nell’azione e al termine di essa, vi sia anche una riflessione per l’azione futura con funzione prospettica/anticipatrice (van Manen, 1991), ovvero un tipo di ri-flessione che implica sempre un distanziamento dall’azione ma per progettare, alla luce delle esperienze e dei saperi di cui ciascuno dispone, le azioni future. Una riflessione, insomma, che consenta di rivedere le proprie teorie e credenze in considerazione di quanto sperimentato, ancora una volta per evitare che la teoria sia indipendente dall’azione.

Tutte queste diverse forme di riflessioni contribuiscono, in egual misura, alla formazione di una competenza riflessiva che dovrebbe essere strumento indispen-sabile per un professionista e non solo per chi lavora in ambito educativo. Come abbiamo detto, ogni azione è unica e diversa dalle altre e agire in modo riflessivo significa proprio essere in grado di trasformare quanto si è vissuto, l’esperienza, in occasioni d’apprendimento evitando, come ci ricorda Dewey, che le scoperte scientifiche siano trasformate in rigide regole di azione, ma, al contrario, produt-tori di nuova conoscenza.

Come sostiene Jack Mezirow, nella sua teoria dell’apprendimento trasformativo negli adulti, l’apprendimento consiste nella capacità di saper reinterpretare una

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esperienza passata (o una nuova esperienza) trasformando quelli che lo studioso definisce «schemi» e «prospettive di significato» personali attraverso un’azione guidata dalla riflessione. Ciò significa capacità del soggetto che agisce di rifor-mulare continuamente le proprie cornici di riferimento6 riflettendo sulla pro-pria esperienza partendo da un «dilemma disorientante» ovvero iniziando da un problema, «da uno stato di dubbio, esitazione, perplessità, difficoltà mentale» (Dewey, 1961, p. 72) per il quale le esperienze e le conoscenze pregresse non rie-scono a fornire soluzioni. La riflessione comporta una critica (riflessività critica) che non va confusa con l’introspezione,

visto che quest’ultima indica semplicemente la presa di coscienza del fatto che stiamo percepen-do, pensanpercepen-do, sentendo o agendo in un certo modo. Per gran parte (se non la maggior parte) del tempo, noi pensiamo e impariamo senza riflettere (Mezirow, 2003, p. 22).

Mezirow individua quattro diverse forme d’apprendimento adulto. La pri-ma forpri-ma è relativa all’apprendere che fa riferimento agli schemi interpretativi già posseduti, i quali possono essere immediatamente utilizzati senza bisogno d’alcun adattamento o in parte riadattati. La seconda forma d’apprendimento riguarda la costruzione di un nuovo schema interpretativo ovvero la creazione di nuovi significati compatibili con le prospettive di senso già esistenti. La terza forma d’apprendimento si verifica attraverso la trasformazione dei propri schemi di significato e ciò avviene quando determinati punti di vista e particolari con-vinzioni risultano inadeguati rispetto a una nuova situazione o esperienza. La quarta forma, propria dell’apprendimento trasformativo, si ha quando si diventa consapevoli, attraverso la riflessione e la capacità critica, della natura sbagliata dei presupposti sui quali si basa una determinata distorta o incompleta prospettiva di significato (quadro di riferimento) e a partire da questa consapevolezza, ci s’impe-gna nel trasformare tale prospettiva attraverso una riorganizzazione dei significati mettendo da parte giudizi precedenti e preconcetti. Il processo d’apprendimento trasformativo prevede quindi riflessione e autoriflessione critica sugli assunti di fondo insieme a un dialogo critidialettico con gli altri (apprendimento co-municativo) per validare il miglior giudizio “provvisorio” possibile. Le nostre conclusioni, infatti, sostiene Mezirow (2016, p. 101), «sono sempre provvisorie: possiamo sempre incontrare altri che hanno nuove prove, nuove argomentazioni o nuove prospettive».

6 Per Mezirow una cornice di riferimento comprende componenti cognitive, emotive e conative ed

è composta da due dimensioni: abitudini mentali (modi di pensare, di sentire e di agire) e punti di vista (conseguenza delle abitudini mentali).

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3. Rendere educative le esperienze

Per imparare ad affrontare la pratica e ad agire con professionalità è dunque im-portante partire dall’esperienza vissuta e saper dare valore a essa. Come abbiamo visto, non basta fare esperienza per imparare, ma è necessario saper riflettere in modo critico su di essa in modo da renderla educativa, così da poter affrontare ul-teriori esperienze e acquisire nuove competenze in un processo continuo di crescita e sviluppo. Come c’insegna Dewey (1955, p. 23), è fondamentale il principio della continuità dell’esperienza: «ogni esperienza riceve qualcosa da quelle che l’hanno preceduta e modifica in qualche modo la qualità di quelle che seguiranno».

Imparare dall’esperienza significa perciò saper integrare la pratica con la teo-ria mettendo fine a quel binomio che vede la teoteo-ria precedere la pratica come se l’una fosse distaccata dall’altra o conseguente dall’altra. Imparare dall’esperienza significa rifiutare una forma d’insegnamento trasmissivo e dunque una logica depositaria del sapere da chi lo possiede a chi non lo ha.

A una concezione depositaria e trasmissiva del sapere si contrappone una pro-spettiva d’educazione attiva dei soggetti alla costruzione di conoscenza attraverso un costante confronto tra saperi teorici e saperi pratici. Per mezzo di un interven-to di natura educativa si acquisisce una «coscienza transitiva critica» che dev’esse-re insegnata, come sosteneva Paolo Fdev’esse-reidev’esse-re (2004, 2011), attraverso un processo di natura problematizzante e dialogico. Si tratta di quel processo di «coscientizzazio-ne» che è il risultato di percorsi di dialogo, di ricerca di situazioni problematiche e di interrogazioni alla realtà e a se stessi.

Una teoria di riferimento, tra le tante proposte, per imparare dall’esperienza è quella dell’Experiential Learning (Kolb, 1984), paradigma che si è sviluppato in contrapposizione al tradizionale modello d’insegnamento trasmissivo che mette al centro il docente/formatore. Si tratta del cosiddetto processo ciclico di «appren-dimento esperienziale» che si realizza attraverso l’azione e la sperimentazione di situazioni, di compiti e di ruoli in cui il soggetto mette in campo le proprie risorse e competenze per l’elaborazione e/o la riorganizzazione di teorie e concetti volti al raggiungimento di un obiettivo.

Pertanto, affinché si costruisca sapere dall’esperienza è necessario acquisire l’a-bitudine a pensare in modo riflessivo a ciò che succede ripiegandosi «mentalmen-te su un soggetto e nel rivolgere ad esso una seria e continuata considerazione» (Dewey, 1961, p. 61).

In altre parole, la pratica non va intesa come il campo d’applicazione della teoria, poiché essa dev’essere tanto il punto d’elaborazione della teoria quanto il punto d’arrivo. Teoria e pratica si sostengono e s’incrementano a vicenda.

La pratica giunge per prima e per ultima e rappresenta l’inizio e la conclusione: l’inizio perché definisce i problemi che da soli conferiscono alla ricerca qualità e

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senso educativo; la conclusione, perché solo la pratica è in grado di testare, verifi-care, modificare e sviluppare le conclusioni di queste indagini (Dewey, 1929, pp. 33-34, traduzione mia).

Il modello esperienziale, elaborato da David Kolb insieme a Roger Fry nel 1975, si compone di quattro fasi in un ciclo ricorsivo, dove ogni conoscenza si realizza a partire da una precedente esperienza di cui è il risultato, che può aver inizio da uno qualsiasi dei quattro punti, trattandosi di una spirale continua sen-za una fine. Le fasi del modello sono le seguenti:

1. esperienze concrete;

2. osservazione e riflessione sulle esperienze;

3. formazione di concetti astratti a partire da situazioni reali;

4. sperimentazione attiva di una teoria e di un’idea su una nuova situazione. Il modello d’apprendimento esperienziale di Kolb, che ha ispirato molte stra-tegie formative impostate sulla riflessione, evidenzia chiaramente come un pro-cesso d’apprendimento sia caratterizzato da un rapporto circolare tra azione e riflessione, tra concreto e astratto e come l’uno rimandi necessariamente all’altro, allargando via via il campo di conoscenze e di saperi. La riflessione sull’esperienza serve per acquisire consapevolezza e dar senso alle situazioni vissute, per confron-tarle con precedenti esperienze, per rivedere i propri quadri di riferimento facen-do ricorso a una nuova prospettiva nel mofacen-do di vedere e d’affrontare i problemi che s’incontrano nella pratica e per favorire il collegamento tra il piano empirico dell’azione e quello della concettualizzazione.

4. Educare eticamente “come se...”

Il cuore, come abbiamo detto all’inizio di questo capitolo, influenza fortemente e necessariamente il nostro agire e l’agire dell’altro a cui ci rivolgiamo. L’affettività intesa come attenzione all’altro con responsabilità etica è fondamentale nell’azione educativa e non bisogna aver paura d’esprimerla. Avendo a che fare nel lavoro edu-cativo con soggetti, diversi per età e bisogni, non possiamo infatti abbandonarci «per quanto possa fare piacere, alla riflessione teorica e critica sulla pratica». Scrive Freire, come educatore «non posso rifiutare la mia attenzione vigile e amorevole alla problematica più personale di questo e quell’alunno o alunna», di questa o quella persona a cui rivolgo la mia azione e il mio lavoro (Freire, 2004, p. 117).

Prendersi cura dell’altro, nel suo rispetto,è centrale nell’azione educativa e non significa plasmarlo, modellarlo, imporgli un sentiero da seguire, un modo di es-sere, ma, stando proprio all’etimo della parola educazione – dal lat. educare (“alle-vare, coltivare”), stessa radice di ducěre “portare, condurre” – vuol dire tirar fuori,

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guidare la persona di cui ci si prende cura.7 Nell’azione educativa è importante fare in modo che l’altro a cui rivolgiamo la nostra azione possa raggiungere una sua autonomia, un suo benessere, in un giusto equilibrio tra insegnamento, esem-pio, cura, attenzione e guida. In un’ottica costruttivista, il compito dell’educatore è quello di realizzare contesti favorevoli alla costruzione attiva di conoscenze, non dimenticando mai la relazione e il confronto con gli altri. Il professionista dell’e-ducazione deve comportarsi «più come un ricercatore che cerca di modellizzare un sistema esperto piuttosto che come un “esperto” il cui comportamento è già modellizzato» (Schön, 2006, p. 69).

Educare vuol dire saper riconoscere e sentire le emozioni altrui e di conseguen-za guidare l’altro a sviluppare autonomamente le sue facoltà e le sue potenzialità. Il cuore, in un intervento educativo, non può e non dev’essere disgiunto dalla mente perché, come si è detto, l’educazione non dev’essere intesa come azione da compiere o strada da far percorrere indipendentemente da chi si ha di fronte e dai contesti nei quali ci si trova ad agire. Insieme a una disposizione a prendersi cura dell’altro, che è propria del cuore, dev’esserci anche una cultura della cura ovvero un’educazione ai comportamenti di cura intesi come dimensione relazionale di rapporto con gli altri, propria delle professioni educative. La cura, afferma infatti Luigina Mortari, è una «postura della mente» che richiede una specifica educa-zione e una costante riflessione sul proprio agire.

Proprio dell’educare è orientare l’altro nella direzione del pieno fiorire delle sue facoltà e delle sue potenzialità, perché possa portare il suo essere alla pienezza della sua attuazione. Più specifi-catamente il proprium dell’educazione sta nell’aver cura che l’altro sviluppi il desiderio, e quindi acquisisca le competenze di aver cura di sé (2013, p. 39).

Chi fa un lavoro educativo, abbiamo detto, deve acquisire una competenza riflessiva e critica su ciò che fa – necessaria per un atteggiamento scientifico – in funzione di quanto sta svolgendo o ha appena finito di svolgere e di quanto farà in futuro, proprio perché ogni azione è unica, irripetibile e imprevedibile. L’at-teggiamento riflessivo è segno d’intelligenza emotiva, ovvero di quell’intelligenza che si caratterizza per l’attenzione ai sentimenti degli altri e per l’apertura ai punti di vista diversi dal proprio (empatia e interesse per ciò che gli altri pensano e sentono). Prestare attenzione ai sentimenti degli altri significa trovarsi nella con-dizione di “come se”.

7 Quando si parla del prendersi cura di qualcuno non si intende riferirsi solo alle persone che si

trova-no in condizioni di particolare fragilità o debolezza, ma occuparsi di tutte le persone che si hantrova-no di fronte. Aver cura per l’altro significa dedicare in modo intenzionale attenzione all’altro, valorizzando la sua unicità e singolarità (Mortari, 2013).

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Significa perciò sentire la ferita o il piacere di un altro come lui lo sente, e percepirne le cause come lui le percepisce, ma senza mai dimenticarsi che è come se io fossi ferito o provassi piacere, e così via. Se questa qualità di “come se” manca, allora lo stato è quello dell’identificazione (Rogers, 2012, p. 149).

Aver cura degli altri significa dunque avere un comportamento etico8 e demo-cratico, che si realizza nel far posto dentro alla propria mente all’altro (ovvero nel prestare attenzione e nell’avere considerazione per l’altro), nel comprendere e nel sentire empaticamente l’altro (Mortari, 2013).

In termini operativi, prestare attenzione e avere rispetto per i vissuti di chi si ha di fronte significa ascoltare l’altro.

Ascoltare [...] comporta la disponibilità permanente da parte del soggetto che ascolta, a essere aperto nei confronti del discorso dell’altro, nei confronti del suo gesto e nei confronti delle sue differenze. Tutto questo, evidentemente, non vuol dire che ascoltare esiga da chi ascolta di ridursi semplicemente all’altro che parla. Questo non sarebbe ascolto, ma auto-annullamento. L’ascolto autentico non sminuisce per nulla la mia capacità di esercitare il diritto a non essere d’accordo, a oppormi, a prendere decisioni. Al contrario, è ascoltando bene che mi preparo a pormi in una posizione migliore dal punto di vista delle idee. Come soggetto che si dedica al discorso dell’altro, senza pregiudizi, il buon ascoltatore parla ed esprime la sua posizione con disinvoltura (Freire, 2004, pp. 98-99).

Dedicarsi con attenzione all’altro per porsi nella posizione migliore richiede ovviamente al professionista dell’educazione un atteggiamento non giudicante e, come vedremo meglio nel prossimo capitolo, la capacità di gestire i propri pre-giudizi e di sospendere i propri pre-giudizi. Ancora una volta, approccio riflessivo e pensiero critico sono per il professionista che opera in campo educativo elementi indispensabili in quanto – non ci stancheremo mai di dirlo – non si possono ero-gare prestazioni in modo standardizzato senza riflettere su di esse, prima, durante e dopo, ed escludendo il confronto con gli altri (utenti, operatori, contesto).

Per agire in modo efficace e favorire l’autonomia del soggetto destinatario dell’azione educativa è pertanto fondamentale un approccio centrato sulla persona, in cui si presta attenzione ai sentimenti e alle emozioni (ascolto empatico) oltre che alle parole. L’empatia, intesa come un processo di riflessione sui sentimenti dell’altro, è per Rogers – uno dei padri della psicologia umanistica – il fattore più potente nell’apportare trasformazione, apprendimento e cambiamento e in quanto

8 Ricordiamo che Gardner (2011) ha definito «intelligenza etica» una delle «cinque chiavi» necessarie

a fronteggiare le sfide emergenti della società contemporanea, ritenendo che essa andrebbe coltivata a partire dall’età infantile per essere potenziata.

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tale competenza assolutamente necessaria per il professionista dell’educazione, che nel suo agire deve sapere «mettere da parte concezioni e valori personali per entrare nel mondo dell’altro, senza pregiudizi» (Rogers, 2012, p. 151) e con un atteggiamento non giudicante.

Chi educa, dunque, deve sviluppare una disposizione empatica ossia provare interesse per l’altro, controllando i propri pregiudizi, le proprie interpretazioni dei fatti, le proprie emozioni, convinzioni, teorie implicite che non hanno fon-damento scientifico, ma che si basano su quella che Bruner definisce «pedago-gia popolare»9. Assumere un atteggiamento scientifico significa proprio mettersi nella condizione d’aver esperienza dell’altro in quanto tale disposizione permette all’educatore di

agire per facilitare l’altro non sulla base solo del suo sentire (cioè su chi agisce l’azione di cura) né affidandosi completamente al sentire del soggetto educativo (cui è rivolto l’avere cura), ma a partire dal dialogo attivo fra sé e l’altro. [...] La relazione empatica salvaguarda l’alterità perché è un agire sulla base dell’ascolto dell’altro: delle sue mosse esistentive, dei suoi desideri vitali (Mortari, 2013, p. 23).

Ancora, educare “come se” vuol dire mettersi nei panni degli altri, mettersi nella condizione di voler comprendere le storie degli altri in senso oggettivo e umano intersoggettivo (Morin, 2001, p. 98). Infatti «comprendere è continua-mente apprendere e ri-apprendere» (ivi, p. 108). Scrive a tal proposito il sociologo Edgar Morin ne I sette saperi necessari all’educazione del futuro:

Questo comporta una conoscenza da soggetto a soggetto. Così, se vedo un bambino in lacrime, mi accingo a comprenderlo, non misurando il grado di salinità delle sue lacrime, ma ritrovando in me i miei sconforti infantili, identificandolo con me e identificandomi con lui. L’altro non è soltanto percepito oggettivamente, è percepito come un altro soggetto con il quale ci si identifica e che viene identificato con sé, un ego alter che diventa alter ego. Comprendere comporta neces-sariamente un processo di empatia, d’identificazione e di proiezione. Sempre intersoggettiva, la comprensione richiede apertura, simpatia, generosità (ivi, p. 99).

9 Bruner (1997) intende con l’espressione «pedagogia popolare» un insieme di «teorie ingenue» sul

funzionamento della mente del bambino, sul suo sviluppo, sull’apprendimento ecc. L’insegnante, per lo studioso statunitense, nella sua pratica quotidiana è guidato da un insieme di assunti impli-citi e intuitivi, in parte concezioni del senso comune e in parte assimilati dal docente durante la sua formazione e nell’interazione con gli altri docenti. I modelli pedagogici, ossia le idee, teorie, convinzioni e rappresentazioni sull’educazione, si sedimentano e si alimentano nell’educatore in modo implicito.

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In sintesi, aver cura degli altri significa impegnarsi con il cuore e con la mente a incontrare l’altro nella sua unicità e singolarità rifiutando di procedere in base a regole e procedure standardizzate, rifiutando una concezione tecnicistica dell’e-ducazione e mantenendo sempre fermo il rispetto e l’apertura a chi si ha di fronte, alla sua storia personale e al suo bagaglio esperienziale e comportamentale. Ciò «implica un attivo desiderio di dare ascolto a più di una parte; di badare ai fatti, da qualunque fonte provengano, di prestare piena attenzione a tutte le possibilità alternative; di riconoscere la possibilità dell’errore anche nelle credenze che ci sono più care» (Dewey, 1961, p. 93).

5. Documentare e comunicare il sapere professionale

Il professionista dell’educazione è dunque chiamato ad affrontare con metodo scientifico gli eventi unici e imprevisti che lo sorprendono nella pratica, rigettan-do un morigettan-do di procedere in cui vi siano regole e norme consolidate da seguire e una meccanicità nell’azione. Abbiamo detto che tale atteggiamento è favorito da una costante pratica riflessiva, che deve diventare un abito per il professionista. La realtà educativa non si può fermare a una conoscenza definitiva, ma dev’essere aperta a cogliere sempre nuovi aspetti, nuove prospettive, nuovi punti di vista, nuove possibilità. Ciò si realizza attraverso il pensiero riflessivo ovvero «il tentativo intenzionale di scoprire delle connessioni specifiche fra qualcosa che facciamo e le conseguenze che ne risultano, in modo che le due cose diventino continue» (Dewey, 1961, p. 187).

Il professionista dell’educazione è chiamato altresì a saper riconoscere gli er-rori e a saperli condividere come occasione di crescita personale e professionale. In ragione di ciò egli deve saper rendere visibile il suo agire, deve tener traccia delle sue esperienze, con l’intenzione di condividere, far conoscere e diffondere le esperienze vissute, le conoscenze e il sapere acquisito, tanto alla comunità più ristretta quanto a quella più ampia, considerando la documentazione/comunica-zione di un’esperienza necessaria per la riflessione di quanto si è vissuto. Dove la documentazione non va intesa solo come un atto burocratico, a volte necessario, ma come attività formativa in cui si riportano eventi ed esperienze per riflettere su di essi e poterli riconsiderare e comprendere e per poterli condividere. In altre pa-role, il professionista deve registrare le proprie esperienze e farle circolare sia per la propria crescita personale sia per far sì che diventino un sapere collettivo. «La sola attività – c’insegna infatti Dewey – non costituisce esperienza» (1988, p. 179).

Ecco perché documentare è fondamentale per comprendere il senso e i signifi-cati che emergono dalle esperienze. La documentazione va vista come strumento utile a dare a ciascuno, singolo o gruppo, consapevolezza del proprio agire, come

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forma di valutazione e autovalutazione nonché di formazione e autoformazione professionale. In Democrazia e educazione Dewey (1988, p. 5) scrive:

La società continua a esistere non solo per mezzo della trasmissione, per mezzo della comunica-zione, ma si può dire giustamente che esiste nella trasmissione, nella comunicazione. Gli uomini vivono in comunità in virtù delle cose che possiedono in comune. E la comunicazione è il modo con cui sono giunti a possedere delle cose in comune. Ciò che devono avere in comune per poter formare una comunità o società sono gli scopi, le credenze, le aspirazioni, la conoscenza e un comune modo d’intendere, o la medesima mentalità, come dicono i sociologi.

La comunicazione, dunque, intesa come scambio intersoggettivo.

Nelle professioni educative la condivisione dell’esperienza, orale o scritta, in funzione di uno sviluppo professionale del singolo e dell’intera collettività, ri-chiede impegno e disponibilità al confronto. Bisogna imparare e educarsi a sapere narrare e documentare fatti, emozioni e valutazioni delle situazioni lavorative vissute, andando oltre la descrizione degli eventi, ovvero bisogna imparare a met-tere in circolo e far conoscere non tanto quanto si è fatto, ma perché lo si è fatto e in che modo lo si è fatto per costruire e diffondere un sapere professionale. La documentazione del lavoro educativo, che – lo ribadiamo – non va intesa come sola raccolta burocratica di documenti (Sposetti, 2011, 2017), favorisce in tal sen-so il processen-so di riflessione e autoriflessione critica consentendo al professionista di rivedere costantemente il proprio agire anche in funzione del verificarsi di situazioni simili (riflessione per l’azione), di scoprire ciò che è tacito, inconsapevo-le, sommerso, nonché di favorire l’apprendimento e il cambiamento realizzando concretamente il collegamento tra il mondo della teoria e quello della pratica di cui si è tanto detto.

La documentazione dell’esperienza consente in tal modo sia a chi agisce di esplicitare e riflettere su una serie d’azioni compiute a volte in modo involontario e routinario sia ai destinatari dell’azione (primari e secondari) di lasciare una traccia di quanto si è fatto.

Chi narra e scrive prende le distanze da quanto ha vissuto e in tal modo ordina gli eventi vissuti trasmettendo il «sapere dell’esperienza» ovvero la conoscenza professionale. L’aver esperienza, insomma, non vuol dire avere vissuto o aver im-parato a fare certe cose, ma essere in grado, attraverso la riflessione e la rielabo-razione della propria esperienza, d’impadronirsi del vissuto, di raccontarlo, di dargli un senso e di far conoscere e comprendere agli altri la realtà e le esperienze vissute.

L’esperienza è ciò che ciascuno vive e conosce, ma è anche il processo attraverso cui il soggetto diviene consapevole di sé. Questa duplicità rende conto del suo carattere paradossale: perché

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l’esperienza è qualcosa che si fa sempre, e contemporaneamente qualcosa che si può non avere

mai (Jedlowski, 2008, p. 12).

La documentazione, dunque, svolge una funzione importante nella formazio-ne di un professionista riflessivo proprio perché, oltre all’autoriflessioformazio-ne, permette la condivisione d’esperienze e la possibilità di accogliere, attraverso il confronto, punti di vista diversi per poter crescere in termini di conoscenze e competenze. Certo rimane fermo un fatto:

una cosa è essere capaci di riflettere nel corso dell’azione, un’altra è essere in grado di riflettere sulla riflessione nel corso dell’azione in maniera tale da saper produrre una chiara descrizione verbale del processo stesso; ed è ancora un’altra cosa saper riflettere sulla descrizione che ne risulta (Schön, 2006, p. 65).

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