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L’INTERAZIONE POSSIBILE : VOCI FUORI DAL CORO

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Academic year: 2021

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CAPITOLO IV

L’INTERAZIONE POSSIBILE : VOCI FUORI DAL CORO

4.1 IL PROGRAMMA “ LE CITTA’ SOTTILI” DEL COMUNE DI PISA. LUCI ED OMBRE DEL “MODELLO PISANO ”

Nell’introduzione della sintesi del Programma “Le Città Sottili” dal 2002 al 2007 si legge:

“Circa 400 persone inserite in alloggi e strutture di transizione delle 500 censite al momento di avvio del programma, la chiusura di 4 campi sosta ed un importante innalzamento della qualità della vita e di inclusione sociale assieme ad una forte partecipazione della comunità rom alla programmazione gestione di tutti gli interventi rappresentano il risultato tangibile di questa sfida. Se si rapportano questi dati alla popolazione pisana che si attesta ormai sotto i 90.000 abitanti si vede che in rapporto alla popolazione nella realtà pisana la presenza rom è considerevolmente più alta di quella che vive ad esempio nella realtà dell’area metropolitana fiorentina e verosimilmente di molte altre realtà italiane”

Queste poche righe rivelano una malcelata ed evidente soddisfazione per i risultati raggiunti dal programma degli amministratori della Società della Salute Zona di Pisa, che insieme al Comune di Pisa e all’Azienda USL 5 rappresentano i soggetti ideatori. Naturalmente oltre ai risultati conseguiti influisce sulla valutazione positiva anche la consapevolezza dell’arretratezza delle politiche di integrazione per Rom e Sinti sul piano nazionale e di conseguenza la sicurezza di “essere un programma all’avanguardia” in Italia. Questa affermazione è altresì fondata sul fatto che per la prima volta in Italia un Comune predispone un Programma “in favore” delle comunità rom presenti sul territorio che comprende potenzialmente ogni ambito della vita sociale.

L’obiettivo generale del programma è infatti quello di “creare percorsi di cittadinanza sociale”, riformulato in sette diversi obiettivi: favorire il processo di inclusione del cittadino rom; di uscire dalle ottiche dell’assistenzialismo; creare i presupposti per la mediazione sociale; eliminare il concetto di “campo nomadi”; dare una risposta concreta al problema delle

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abitazioni; creare un sistema di supporto per il cittadino rom; fornire gli elementi per comuni percorsi di cittadinanza.

In realtà il Programma nasce come risposta alla situazione di emergenza sociale ed igienico – sanitaria che nel settembre 2001 viveva il campo rom autorizzato di Coltano, sito nella campagna pisana, fra un’autostrada e una ferrovia. Prendono avvio le fasi preliminari del programma, consistenti in una mappatura dell’area e ai primi contatti fra operatori del comune e comunità rom. Il programma viene poi esteso ad altri campi rom tutti non autorizzati della zona pisana, situati ad Oratoio, Viale tirreno, San. Biagio, Via Tulipani.

Nell’estate del 2002 viene effettuato un censimento delle comunità rom presenti in questi insediamenti: essi in totale circa 500 persone) vengono inclusi nel programma. Le famiglie che al momento del censimento non erano presenti e quelle che arrivano nei campi dopo il censimento sono automaticamente esclusi dal programma. Nel 2004, la giunta comunale delibera sull’attivazione del programma e autorizza l’azienda USL 5 di Pisa ad operare in suo conto in somma urgenza. Viene urbanizzata un’area adiacente al campo sosta e vi sono collocati 16 container della protezione civile.1

I progetti attuativi del programma sono tre. I primi due si occupano delle famiglie che vivono nei campi, mentre l’ultimo riguarda gli inserimenti abitativi. Ad aprile 2002 prende avvio il progetto “Anglunipé” comprendente le seguenti attività: ascolto, informazione, accompagnamento, mediazione per quanto concerne la salute, la legalità, il lavoro, l’abitazione, la scuola, la cultura e il tempo libero. A settembre 2002 viene attivato il progetto “Amen bask dza” riguardante l’inserimento scolastico dei bambini rom, dall’accompagnamento sugli scuolabus al sostegno scolastico e allo studio, dall’animazione al supporto alle famiglie.

Il Programma si propone di risolvere i problemi che le famiglie Rom dei campi nomadi devono affrontare quotidianamente, legati alla condizione di emarginazione e segregazione della vita nei campi, attraverso tre strategie : la mediazione ( non meglio definita) da attivare nel sistema dei servizi, l’empowerment per costruire percorsi di cittadinanza sociale condivisi con la comunità rom, riconoscendo il terreno del confronto culturale nel rispetto delle differenze come elemento fondante del programma e la negoziazione con prefettura e questura e le altre istituzioni del territorio per ricostruire percorsi amministrativi circa l’ottenimento del permesso di soggiorno.

1 Secondo alcuni operatori, questi container erano già stati utilizzati dalle famiglie terremotate

dell’Umbria e dunque non erano perfettamente integri al momento della loro istallazione nell’area adiacente il campo sosta. Questo spiegherebbe in parte i continui guasti (come la rottura dei servizi igienici, le infiltrazioni di acqua dal tetto…) lamentati dalle famiglie negli anni successivi.

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Fra i limiti evidenziati dal programma dal 2002 al 2007 solamente uno è esogeno ad esso e consiste negli ostacoli posti dalla legislazione italiana vigente alla costruzione di percorsi di cittadinanza per le comunità Rom. Il programma ha però mostrato numerose le criticità interne irrisolte sia in fase di programmazione, dia in fase di applicazione e gestione, sia infine, in fase di verifica. L’analisi di tali criticità non ha lo scopo di demonizzare il programma, bensì quello di sviluppare delle critiche costruttive per un miglioramento del programma stesso.

Avviato per far fronte ad una situazione di emergenza sanitaria e abitativa, il programma non ha mai del tutto abbandonato la modalità di intervento in situazioni di continua emergenza. Concretamente le linee guide del programma e la priorità negli interventi sono state decise non in un’ottica di superamento duraturo delle situazioni di emergenza, bensì in quella di un tamponamento delle situazioni più critiche, al prezzo di sottrarre ingenti risorse umane ed economiche ad un integrazione di successo nel lungo periodo.

Il paradigma dell’assistenzialismo, al di là di quanto dichiarato sulla carta, non è stato superato, proprio perché ad un sostegno, non tanto economico quanto di mediazione culturale, ed un supporto ai processi endogeni di interazione delle famiglie rom col territorio, si è preferito puntare su un sovvenzionamento economico consistente, di interventi il cui unico scopo era quello di impedire una degenerazione esplosiva di problematiche socio-sanitarie e di devianza.

Inoltre, secondo il rapporto 2007 della Fondazione Michelucci sui Rom e i Sinti in Toscana la scelta delle “ Città sottili” di operare prevalentemente sul mercato privato (per il reperimento degli immobili) rappresenta un punto critico dei progetti, sia per i costi alti della fase di sostegno e di accompagnamento, sia soprattutto perché per le famiglie coinvolte è difficile raggiungere e mantenere un’autonomia economica che permetta loro di sostenere i costi di un affitto di mercato.2 La ricerca di soluzioni diversificate, ad esempio l’implementazione di progetti di autocostruzione, la ricerca di immobili di proprietà dello stato o di enti religiosi e/o l’imitazione di progetti innovativi quali ad esempio quelli della associazione Comunità e Famiglia, potrebbero condurre a risultati interessanti.

L’altro elemento cruciale, che ha condotto in maniera analoga al prevalere di logiche assistenzialiste, è lo scarso coinvolgimento della comunità rom nei processi decisionali. In effetti la struttura del programma si presenta articolata su diversi livelli, gerarchicamente ordinati e ognuno preposto a decidere su diversi aspetti del programma. Al vertice della struttura troviamo l’Articolazione Zonale Pisana, l’Azienda USL 5 e il Direttore dei Servizi Sociali. Essi operano per conto del Comune di Pisa e ricevono finanziamenti e operano

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secondo linee organizzative stabilite dalla Regione Toscana. Ad un livello inferiore si trova l’Unità di Coordinamento “Le città sottili- comunità rom”, composta da tre dipendenti della Società della Salute, che costituisce il centro decisionale per tutto ciò che riguarda l’implementazione dei progetti attuativi del programma. L’Unità di Coordinamento coordina appunto le attività realizzate da 6 cooperative di servizi operanti nella provincia di Pisa all’interno dei tre progetti Anglunipé, Amen bask dza e i Progetti di inserimento abitativo. L’Unità di Coordinamento supervisiona inoltre il lavoro svolto dalle equipés di operatori che lavorano più a stretto contatto con le comunità rom dei campi. Il programma poi si avvale della collaborazione della Caritas Diocesana, del SERT, dell’ENAIP, dell’Unità Servizi Sociali Minori, e dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna.

Dallo schema tracciato si evince che la struttura del programma è altamente complessa e non essendoci una precisa delimitazione dei ruoli e dei compiti di ciascun livello, spesso si verificano sovrapposizioni dei ruoli e rallentamenti e blocchi nei processi decisionali. In particolare il peso della struttura verticistica e della mancanza di chiarezza nei processi decisionali si riversa sull’operatore e in definitiva sulle relazioni fra operatori e comunità rom. Tuttavia a monte della difficoltà nell’ instaurarsi di relazioni efficaci fra operatori gagé e rom non vi è solo e non vi è tanto un limite puramente organizzativo, quanto piuttosto l’assenza dei Rom stessi dai centri decisionali. L’Unità di Coordinamento è infatti composta tutta da gagé, così come sono gagé gli operatori di tutti gli altri progetti, se si esclude due operatori rom che svolgono accompagnamento sui pulmini, e un altro operatore che svolge alcuni incontri nelle scuole sul tema della cultura rom. Su una quarantina di persone che lavorano nel Programma solamente tre sono rom e nessuno di essi ha potere decisionale diretto, cioè collabora alla scelta delle linee guida operative del programma. L’empowerment della comunità rom, indicata come una delle tre strategie messe in atto dal programma, a fronte dell’effettiva assenza fisica di questa dai centri decisionali del Programma, resta un proposito tradito.

Altro proposito tradito a metà è quello della mediazione. Infatti il programma non si avvale della presenza fondamentale di nessun mediatore linguistico e culturale, se si esclude il ruolo svolto da un'unica persona rom con funzioni simili a quelle del mediatore, ma senza la qualifica di mediatore e soprattutto senza che il suo ruolo venga definito e integrato nel programma. In ogni caso un unico mediatore linguistico in un programma che coinvolge centinaia di persone rischia di essere addirittura controproducente, poiché mette questo soggetto in una posizione particolarmente privilegiata ( ma anche sovraccaricata di aspettative sia dei gagé che dei rom) rispetto al resto della comunità rom.

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L’assenza di mediatori culturali e linguistici, Rom, ma anche italiani, pesa enormemente sull’efficacia di tutto il Programma, poiché senza una conoscenza approfondita della lingua e della cultura Rom, le relazioni fra operatori e Rom stessi non potranno mai essere totalmente efficaci e prive di pericolose ambiguità. Il mediatore culturale Rom, affiancato da un mediatore culturale gagè , è infatti una figura indispensabile il cui lavoro ha lo scopo di creare un clima di fiducia della comunità rom e di apertura all’ascolto reciproco e al dialogo. Il mediatore culturale consente che la comunicazione sia fluida e chiara in entrambe le direzioni, evitando fraintendimenti, che potrebbero provocare lo scoppio di conflitti ed interrompere la comunicazione.

Nella sintesi del Programma il ruolo dell’operatore viene più volte indicato come un’area di criticità. Questa criticità è dovuta principalmente a due problemi. Da un lato poiché le decisioni vengono prese all’esterno della comunità Rom, l’operatore che è incaricato di comunicarle alla comunità, viene talvolta guardato con diffidenza e/o sospetto, talvolta come intruso. D’altro lato poiché il programma non ha investito sulla formazione degli operatori alla mediazione linguistica e culturale, essi non sempre sono in grado di interpretare le necessità e le istanze delle comunità Rom del territorio.

Riconoscere l’importanza e il significato del ruolo degli operatori, significa evitare di comprimerlo a quello di veicolatore bidirezionale di informazioni ed al contrario potenziarne maggiormente la cura delle relazioni con le famiglie, prevedendo tempi più lunghi per condividere insieme desideri e progettualità ed affrontare insieme problemi e conflitti.

Il concetto di campo nomadi, il cui superamento è uno degli obiettivi del programma, se da un lato viene rovesciato attraverso gli inserimenti abitativi, dall’altro viene almeno in parte riconfermato dalla scelta di costruire un villaggio di 17 unità abitative in muratura nella stessa area lontana dai centri abitati di Coltano e Pisa, dai servizi territoriali e dalle scuole, dove prima sorgeva il campo nomadi. Dal campo nomadi si passa dunque ad un villaggio nomadi, sicuramente un salto di qualità notevole per quel che riguarda gli standard igienico-sanitari ed architettonici, ma che non modifica in nulla la logica ghettizzante del campo nomadi.

L’ultimo importante limite del Programma “Le città sottili” è costituito dal “numero chiuso” delle famiglie beneficiarie, stabilito dal censimento del 2002. Nei mesi e negli anni successivi al censimento, sono giunte a Pisa numerose famiglie Rom (in particolare nel campo di Oratoio), che però non sono potute entrare nel programma unicamente perché “ arrivate tardi”. L’arbitrarietà di questo criterio che fra l’altro ha contribuito non poco al sorgere di dispute e di conflittualità permanenti fra i nuovi arrivati (gli “extra-censimento”) e i censiti,

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come sempre accade quando in gioco ci sono risorse economiche e sociali scarse, è stata messa in evidenza anche dal rapporto 2007 della Fondazione Michelucci.

Il Programma oltre a non comprendere numerose famiglie degli insediamenti censiti nel 2002, non comprende nemmeno i Rom romeni arrivati a Pisa nel 2002. In pratica questa situazione aveva creato una nuova stratificazione sociale ed economica e di diritti delle popolazioni Rom nel territorio cittadino, legato all’inclusione o esclusione dal programma “Città sottili”. Negli ultimi due anni sono entrate nelle “ Città sottili” alcune famiglie Rom rumene, elemento che induce la Fondazione Michelucci a sperare in un ripensamento delle “ politiche del numero chiuso”:

“ Come il processo di decostruzione della “politica dei campi” sta portando via via allo scoperto altre soluzioni abitative praticabili e altre strade percorribili, l’abbandono (ma siamo ancora all’inizio!) di una “ politica dei censimenti”, del “ numero chiuso” e delle azioni repressive sarebbe in grado di “trattare” ciò che al momento appare “intrattabile”, rendere cioè reale l’accoglienza dei gruppi rom (ma non solo) all’interno di una politica più ampia della città.”3

4.2 IL COMITATO ROM E SINTI INSIEME: UNA SCELTA POLITICA INNOVATIVA.

L’ integrazione fra Rom e Sinti e italiani non Rom e Sinti è un processo multilivello che comporta il coinvolgimento di quanti più attori possibili. I livelli implicati sono quello legislativo, dei mezzi di comunicazione di massa, politico, amministrativo, giudiziario, educativo, lavorativo, sanitario, della comunicazione informale della vita quotidiana. Gli attori coinvolti sono potenzialmente tutti i membri di una società, ma quelli chiamati in causa in maniera più immediata e decisiva sono le comunità Rom e Sinte, i governanti (i legislatori ), gli amministratori locali, i giornalisti e coloro che lavorano nelle telecomunicazioni, docenti, operatori sociali e sanitari,educatori e datori di lavoro. Costoro in ciascuno degli ambiti nei quali operano e, in virtù del ruolo che ricoprono e delle responsabilità ed esso annesse, idealmente dovrebbero favorire l ‘integrazione delle persone di etnia Rom e Sinta, anche attraverso la conoscenza e la diffusione di buone pratiche già realizzate in quegli ambiti.

Nonostante in Italia siano già state avviate e realizzate alcune importante esperienze pilota di successo per l’integrazione di Rom e Sinti, la maggior parte delle attività e dei

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progetti restano ancora troppo fortemente legati ad una prassi assistenziale, basata su sostanziali squilibri di potere fra comunità Rom e Sinte e membri della società maggioritaria , che ha sin qui inficiato l’ emancipazione effettiva e l’assunzione piena dei diritti e doveri connessi allo status di cittadini di uno stato dei primi. Inoltre l’altro grave ostacolo al processo di integrazione è l’assenza di un quadro legislativo di tutela delle minoranze Rom e Sinte a livello nazionale, la mancata risoluzione della questione dell’apolidia dei Rom provenienti dalla ex-Jugoslavia e il recente inasprimento delle norme sull’immigrazione.

A causa delle criticità fin qui evidenziate, è necessario che le azioni positive per l’implementazione del processo di inte(g)razione avvengano su due piani diversi e complementari. A livello macro, per creare le condizioni di base é necessaria la ricerca di soluzioni politiche e legislative, attraverso un intenso scambio fra associazioni e attivisti Rom e Sinti ed istituzioni, un attento monitoraggio del rispetto delle leggi e delle norme europee contro la discriminazione razziale di Rom e Sinti, per denunciarne prontamente i casi più eclatanti. D’altra parte a livello micro è opportuno incentivare l’attuazione di progetti d’integrazione che vedano il coinvolgimento diretto e paritario di membri della società civile maggioritaria, delle comunità Rom e Sinti e delle istituzioni. Utile sarà a questo proposito lo strumento della progettazione partecipata, avendo cura di rendere partecipi in eguale misura Rom, Sinti e gagés. A tali progetti dovrebbe essere dato ampio risalto attraverso incontri pubblici aperti a tutta la cittadinanza e un’attenta partnership degli enti locali direttamente interessati.

Se intesi come laboratori working in progress aventi per obiettivo la conoscenza reciproca e la valorizzazione delle abilità e delle usanze dei Rom e Sinti in ambito scolastico, lavorativo, artistico-creativo, e se aperti ad una ri-progettazione in base al mutamento delle priorità, dei partecipanti, delle condizioni di partenza, tali progetti potrebbero essere veramente in grado di produrre micro cambiamenti nel tessuto sociale e culturale del paese. L’obiettivo principale di progetti d’integrazione è quello di creare un clima di fiducia e serenità nelle relazioni interculturali fra Rom e Sinti e Gagé, clima che può essere ottenuto solamente grazie ad una reciproca conoscenza e frequentazione, cioè tramite l’abbattimento della segregazione razziale ad oggi onnipresente in Italia. Le relazioni di prossimità e la condivisione di obiettivi comuni, sono due metodi per vincere stereotipi e pregiudizi coi quali i rappresentanti delle due culture si trincerano nei propri modi di pensare e di vedere l’altro. La mediazione culturale ha il compito di aiutare il processo di avvicinamento reciproco e l’individuazione di scopi comuni.

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Ingrediente essenziale per la buona riuscita di qualsiasi azione per l’integrazione culturale è la volontà di chi li progetta e di coloro che ne prendono parte di trovare un accordo che rispetti i desideri e le necessità altrui. Purtroppo in situazioni di squilibrio di potere degli attori coinvolti, l’attore con maggiore potere politico, sociale ed economico si sente legittimato a cooptare e a volte a plagiare la volontà della parte con meno potere (solitamente le comunità Rom e Sinte). Azioni di cooptazione e plagio della volontà di Rom e Sinti accadono perché essi consci del loro scarso potere contrattuale, preferiscono cedere il loro diritto di autodeterminazione, e acconsentire al volere dei gagés, piuttosto che non ricevere più nessun appoggio dalla società maggioritaria.

Il prezzo che storicamente la società intera ha pagato e che continua a pagare per violenze di questo genere, è la perdita della fiducia nelle relazioni fra soggetti appartenenti ad universi culturali differenti. Quando le relazioni si imbastiscono senza che i rapporti di potere siano mutate, la posta in gioco è solamente capire fino a che punto gli appartenenti alla cultura minoritaria si possono spingere nella richiesta di diritti (leggi concessioni) da parte di quella maggioritaria.

Probabilmente l’unico modo per rompere il circolo vizioso della dipendenza e dell’assistenzialismo è per i Rom e Sinti chiamarsi fuori dal rapporto di subordinazione e rivendicare a voce alta la propria dignità e la libertà di autodeterminarsi indipendentemente da un riconoscimento di parità ed uguaglianza da parte della società maggioritaria.

Il Comitato Rom e Sinti Insieme, nato il 14 marzo 2007 e costituitosi il 19 maggio di quest’anno in una Federazione delle associazioni di Rom e Sinti italiani e stranieri presenti sul territorio nazionale, rappresenta un’importante novità politica in Italia. Ad ottobre 2007 ecco come parlano di questa organizzazione due dei fondatori, Yuri Del Bar ed Eva Rizzin, che sono stati intervistati4:

“Sono Yuri del Bar, sono un sinto italiano, mediatore culturale dell’associazione Sucar Drom che fa parte del Comitato Rom e Sinti Insieme. Per diventare mediatore culturale ho fatto un corso dell’Unione Europea nel ’96. Dopo diversi anni di tirocinio nell’associazione sono diventato mediatore culturale. Il Comitato Rom e Sinti Insieme nasce per lavorare sul riconoscimento dei Rom e Sinti come minoranza storico linguistica. Poi però abbiamo visto che il Comitato poteva lavorare su tante altre cose, cioè lavorare su temi quali discriminazione, scuola, habitat, sanità…Il 25 luglio a Cecina, al meeting nazionale antirazzista, abbiamo presentato un documento al governo e giovedì scorso siamo stati a Roma con la parlamentare Frias e altri parlamentari per la presentazione della proposta di legge. La prossima settimana abbiamo un’assemblea per parlare di questa proposta e di azioni per bloccare la

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crescente discriminazione di Rom e Sinti in Italia. Quindi le richieste dei partecipanti al Comitato sono molte e al Comitato partecipano quasi tutti i leaders d’Italia dei Rom e dei Sinti. (…)”

“ Sono Eva Rizzin, sono sinta italiana, da parte di mamma, perché mio papà non è sinto, ho appena terminato un dottorato in Geopolitica e Geostrategia, un dottorato dove mi sono specializzata nel fenomeno della discriminazione razziale nei confronti dei Rom e Sinti. Ho svolto una ricerca al Parlamento Europeo, affiancando una deputata di origine Rom, Livia Jaròka, una deputata ungherese che svolge il suo attivismo per i diritti umani all’interno della struttura parlamentare. E’ stata un’esperienza molto importante perché mi ha fatto capire qual’è il livello di rappresentatività politica che hanno le organizzazioni non governative europee per i Rom e il livello di arretratezza che c’è su queste questioni in Italia. Attualmente collaboro con l’ associazione Sucar Drom e con l’Istituto di Cultura Sinta, sui progetti di mediazione culturale e faccio parte anche di un’associazione che si chiama OsservAzione che è un centro di ricerca contro la discriminazione di Rom e Sinti che si è creata nel 2005. OsservAzione fa parte assieme ad altri ricercatori del Comitato Rom e Sinti Insieme. Il Comitato al momento attuale raggruppa 14 associazioni. Il Comitato è aperto a tutti. L’obiettivo del Comitato è quello di dare una svolta politica di partecipazione, perché per troppo tempo i progetti e le politiche adottate per i Rom e per i Sinti in Italia sono fallite e noi riteniamo che questo fallimento sia stato causato da una logica assistenzialista condotta da numerose organizzazioni che hanno sempre considerato i Rom e i Sinti come persone incapaci di pensare con la propria testa, associazioni che non riuscivano a garantire l’autonomia sociale e politica dei Rom e dei Sinti. Noi diciamo che ci siamo, abbiamo una voce e vogliamo partecipare alle politiche che riguardano la nostra esistenza attraverso il dialogo e la collaborazione con le istituzioni e anche riunire in questo Comitato l’eterogeneità dei Rom e dei Sinti, poiché quando si parla dei Rom e dei Sinti si tende a vederli solo come immigrati, in realtà è un mondo eterogeneo fatto di diverse comunità, diversi gruppi, con diverse storie e diverse culture. Ci sono comunità italiane, di Rom e Sinti che sono presenti in Italia dal XIV secolo e poi Rom che vengono da diversi paesi europei. Il nostro obiettivo è proprio quello di riunirci tutti insieme, per partecipare e trovare anche delle soluzioni alla diffusa discriminazione razziale, come diceva Yuri, che è presente in vari settori come l’habitat.”

Secondo Yuri del Bar , Rom e Sinti partecipano a questo Comitato sempre più numerosi, perché in questo comitato si sentono protagonisti nell’agire, mentre nelle altre associazioni che si dichiarano pro-Rom e pro-Sinti, non si sentono assolutamente protagonisti. Per quanto concerne la collaborazione con le istituzioni, Yuri afferma:

“ A Mantova le associazioni Rom e Sinti ci sono dal 1978, però nei primi anni di vita queste associazioni non coinvolgono al loro interno Rom e Sinti. Dal 1990 è cambiata

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’associazione. Quindi le decisioni prese in Consiglio Direttivo iniziano ad essere prese assieme. Faccio un esempio pratico del modo di prendere decisioni senza consultare Rom e Sinti . Quando c’è da costruire un campo nomadi, non si tiene conto che lì ci devono andare a vivere Rom e Sinti, la cultura maggioritaria ha il progetto, applica il progetto senza veramente sentire chi ci va ad abitare. Da quando si è fatto questo Patto nel 91 con le istituzioni locali, dopo 4 o 5 anni la mediazione culturale ha dato i suoi frutti. Ad esempio prima quasi tutti i bambini non erano vaccinati, ora tutti i bambini sono vaccinati. I bambini arrivavano in quarta e quinta elementare e poi finivano lì. Adesso abbiamo ragazzi che vanno alle superiori. Prima i progetti non riuscivano a svilupparsi perché all’interno delle associazioni non c’erano Rom e Sinti. Andando avanti abbiamo creato altre associazioni. La Sucar Drom è nata per fare mediazione culturale a livello provinciale. Dalla Sucar Drom è nato l’Istituto di Cultura Sinta, che è un’altra associazione che si occupa della promozione della cultura: manifestazioni, concerti e altro. Dall’Istituto di Cultura Sinta è nato un altro progetto di cui si occupa Eva che è “ Spazio alla Donna” cioè mediazione al femminile, che si occupa di tutti i problemi che le donne possono avere nelle famiglie. Poi sono nati molti altri progetti. Quindi quello che diciamo noi è che lo sviluppo continuo si ha solo quando si interagisce fra persone(...)”

Le realtà associative presenti in Italia, prima della nascita del Comitato Rom e Sinti Insieme, agiscono soprattutto a livello locale e mancano di un coordinamento nazionale. L’unica eccezione di rilievo è rappresentata dall’ Opera Nomadi, fondata nel 1963 da Don Bruno Nicolini e divenuta associazione nazionale nel 1970. Nel primo ventennio di esistenza l’Opera Nomadi adotta una politica favorevole alla costruzione dei campi nomadi e solamente negli anni ‘90 vi è un ripensamento e lentamente sono mutate le strategie per l’integrazione di Rom e Sinti, verso un superamento dei campi-nomadi.

Negli ultimi anni l’Opera Nomadi ha, in diverse realtà locali, contribuito all’empowerment della comunità Rom, attraverso la formazione di mediatori e mediatrici culturali nelle scuole, nei consultori e negli altri uffici pubblici. Pur essendo la più importante organizzazione italiana che “si occupa” di Rom e Sinti, e che più del 30% dei suoi iscritti sono Rom e Sinti, l’Opera Nomadi è stata fondata da membri della società maggioritaria ed è composta prevalentemente da membri della società maggioritaria e purtroppo ciò rappresenta un limite difficilmente superabile. Non essendo i vertici dell’organizzazione Rom e Sinti il rischio concreto è che i membri di una cultura parlino per o a nome di Rom e Sinti, col risultato di diffondere l’impressione che Rom e Sinti non siano in grado di parlare di loro

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stessi, né di relazionarsi verbalmente con giornalisti, istituzioni, esponenti politici ed opinione pubblica.

Nel 1996 esce il volume L’urbanistica del disprezzo. Campi Rom e società italiana, già citato sopra, che raccoglie le ricerche e le esperienze legate al fenomeno dei campi rom, di studiosi di ogni parte d’Italia. Questo volume inaugura una collaborazione più stretta fra questi studiosi che nel 2005 porta alla fondazione dell’associazione di promozione sociale OsservAzione. L’associazione lavora fin dall’inizio in stretto contatto con le organizzazioni europee che si occupano della tutela dei diritti di Rom e Sinti.

Il Comitato Rom e Sinti Insieme nasce dunque con l’esplicito proposito di conferire alle istanze di Rom e Sinti, maggior risonanza e peso politico a livello nazionale, attraverso la costruzione di un coordinamento nazionale delle principali associazioni e dei singoli. Il Comitato anche attraverso la partecipazione e l’organizzazione di conferenze e assemblee, intesse nel suo primo anno di vita una rete di relazioni con associazioni di volontariato, parlamentari e politici di diversi schieramenti, esponenti del mondo accademico, e organismi internazionali e organizzazioni di altri paesi europei, impegnati nella tutela dei diritti di Rom e Sinti .

Le azioni che il Comitato ha compiuto nel suo primo anno di vita, possono essere suddivise in quattro tipologie. Da un lato esso accoglie le diverse istanze dei Rom e dei Sinti sparsi su tutto il territorio nazionale per conferire loro un peso politico ed un’eco all’interno delle istituzioni e dei mass media più forte a livello nazionale. Dall’altro attraverso assemblee mensili o bimensili, il Comitato aggiorna i partecipanti sui principali provvedimenti legislativi adottati dal governo in quel lasso di tempo, e fornisce consigli per fronteggiare meglio la discriminazione e l’esclusione. In altre parole cerca di dare strumenti ai vari gruppi Rom e Sinti, per permettere loro di acquisire una miglior consapevolezza dei propri diritti e della propria soggettività politica. Contemporaneamente il Comitato svolge anche un’importante opera di sensibilizzazione polita e culturale all’interno della società maggioritaria, attraverso assemblee, dibattiti pubblici, incontri nelle università e in convegni nazionali. Infine esso compie un monitoraggio costante degli eventi di cronaca e dell’evoluzione della linea politica del governo italiano e dell’opposizione, facendo pressione su di essi con lettere e comunicati e quando necessario denunciando situazioni di particolare gravità alle autorità europee competenti in materia.

Il Comitato Rom e Sinti Insieme rappresenta un interlocutore credibile sul piano nazionale per le istituzioni e per tutti i soggetti che “si occupano” di Rom e Sinti. Con questo

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/o ha pretese di onnicomprensività, bensì che grazie alla sua struttura reticolare, il sistema a partecipazione diretta di membri di diverse comunità Rom e Sinte (italiane e immigrate), esso dovrebbe essere un punto di riferimento per chiunque voglia ascoltare e comprendere voci di Rom e Sinti che parlano in prima persona della situazione di Rom e Sinti e non più affidarsi a rappresentanti (quasi sempre non Rom e Sinti ) che parlano “a nome o per conto di…”.

4.3 PER UNA RIVOLUZIONE CULTURALE

La caratteristica più saliente della metodologia di lavoro del ComitatoRom e Sinti insieme è che, diversamente da molte associazioni che lavorano per l’integrazione di Rom e Sinti occupandosi solamente di favorirne l’assimilazione attraverso l’inserimento scolastico, lavorativo e abitativo, esso si pone fin dall’inizio l’obiettivo di modificare l’assetto normativo e politico-istituzionale vigente, nel senso di un allargamento quantitativo, ma soprattutto qualitativo, dello spazio della partecipazione politica di Rom e Sinti a livello locale e nazionale. Il raggiungimento di questo obiettivo, in una società come quella italiana il cui orizzonte politico non sembra essere in grado di andare al di là dell’alternativa fra emarginazione, povertà e degrado e Stato di polizia, presuppone una rivoluzione culturale.

Infatti cambiare profondamente l’orizzonte politico significa liberarlo da una impostazione basata su una lettura dei fenomeni sociali che procede per generalizzazioni, accorpamenti di fenomeni che invece necessitano di un’analisi caso per caso, e che prevede una risposta delle istituzioni corrispondente alla lettura data del fenomeno. Le risposte date dalle istituzioni sono cioè quelle di eliminare completamente e il più rapidamente possibile la fonte di insicurezza ed instabilità sociale attraverso la compressione delle libertà fondamentali delle persone ritenute fonte di insicurezza e/ o l’ esportazione all’esterno dei confini nazionali di tali fonti di instabilità. L’importante di queste risposte è che siano immediate, generali e soprattutto che consentano alla società maggioritaria di mantenere inalterati ( o il più possibile inalterati) i rapporti di potere al suo interno.

Modificare l’orizzonte politico, significherebbe innanzitutto prevedere un probabile cambiamento dei rapporti di potere, ovvero lasciare che l’instabilità entri all’interno del sistema. Significherebbe estendere a tutti coloro che vivono su di un determinato territorio il diritto di scegliere dove e come abitare, quale lavoro fare e che tipo di formazione dare ai propri figli. In altre parole significherebbe dare la possibilità ai Rom e Sinti di scegliere se vivere in case o in roulottes e far sì che essi possano decidere dove e con chi abitare (come

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d’altronde ogni cittadino non Rom fa già). Significherebbe poi consentire ai Rom e Sinti di scegliere autonomamente che mestiere o professione esercitare e far entrare nelle istituzioni scolastiche “ tracce del mondo concreto” dei bambini Rom e Sinti. Significherebbe cioè liberare Rom e Sinti dal marchio etnico che li incastra in categorie stereotipate ed omogeneizzanti.

In realtà avviare un percorso di liberazione dagli stereotipi, comporterebbe anche una liberazione dalle barriere identitarie che ancora oggi separano in modo netto i gagés dai Rom e Sinti, cioè in definitiva la possibilità di un dialogo e di un confronto non più imbrigliato e limitato dalla “ fedeltà alla cultura di appartenenza”, bensì aperto alle interpretazioni e alle reinvenzioni personali.

In una prospettiva di mutamento delle dinamiche di potere e di separazione culturale fra Rom e Sinti e gagés, lo scambio interculturale, se realmente basato su rapporti di fiducia e di cooperazione, si prefigura come il luogo della creazione di culture ibride, relazionali, che scardinano le categorie del “ noi” e del “ loro”, che trasformano i vecchi canoni culturali.

Per impedire che trasformazioni del genere possano provocare l’accusa di tradimento da parte del gruppo su il soggetto che tenta di uscire dai confini simbolici o materiali) di esso per modificare i rapporti di potere e portare beneficio al gruppo stesso sono necessarie due condizioni. La prima è che vi sia una mediazione costante all’interno del gruppo che renda chiare e trasparenti le modalità e i fini delle relazioni interculturali, cioè renda consapevoli i membri del gruppo delle dinamiche interculturali in atto. La seconda è che non avvenga una cooptazione da parte dei membri del gruppo dominante ( ossia quasi sempre dei non- Rom e Sinti) delle intenzioni e degli obiettivi delle relazioni culturali. In quest’ultimo caso, le relazioni interculturali porterebbero non ad innovazioni positive, bensì a vecchi processi di assimilazione e di annullamento di una cultura nell’altra.

Cambiamenti sociali così consistenti al contrario dell’insediamento di uno Stato di polizia, sono processi che si svolgono su tempi molto lenti attraverso una mediazione culturale costante fra i membri di diverse culture e iniziano a produrre risultati solamente dopo che si inizia ad instaurarsi un clima di fiducia e di collaborazione.

La domanda che è necessario porsi a questo punto è la seguente: la società maggioritaria cioè i cittadini italiani, non Rom e Sinti, vogliono questo cambiamento? O meglio, la società italiana è disposta a rinegoziare le basi su cui è stato costruito il vivere comune? La modificazione dello status quo, comporta non un’erosione dei diritti dei cittadini italiani gagé, bensì un ‘estensione dei diritti a tutte le persone, o se si vuole un’erosione dei

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discussione è che l’essere italiani di “etnia” italiana5, costituisca un attributo innato che automaticamente conferisce, a chi ne è portatore, maggiori diritti e una superiorità morale, giuridica e psicologica nei confronti di chi non lo é.

Per combattere l’attitudine mentale, fomentata dai discorsi delle élites dominanti e dalla propaganda dei media, dei nazionali etnici a considerarsi naturalmente su un gradino più alto rispetto a chi appartiene ad un’etnia diversa, e diversi gradini più in alto rispetto a chi è di etnia Rom e Sinta, occorre innanzitutto smettere di considerare la nazione una proprietà privata dei cittadini nazionali, o meglio smettere di considerare l’Italia “casa propria”. Gli spazi pubblici e la sfera politica e sociale di una nazione in questa visione, non sono proprietà dei nazionali, bensì bene comune indisponibile all’appropriazione di qualsiasi gruppo di potere.

La concezione di nazione come bene comune da salvaguardare e non come proprietà privata di questo o quel gruppo di cittadini, garantendo a tutte le comunità di un territorio, ivi comprese le minoranze, accesso ad essa e possibilità di partecipare attivamente al suo progresso culturale, sociale e materiale, presuppone una visione ecologica della vita politica e sociale, complementare ad una visione ecologica della gestione dell’ambiente naturale6.

La prassi che si è andata affermando almeno a partire dagli anni ‘70 in ambito politico, inteso come ambito di gestione condivisa e partecipata della cosa pubblica e in particolare nelle politiche migratorie dell’Italia, è una prassi che giudicando le minoranze Rom e Sinti dannose e pericolose per lo Stato, mira a racchiuderli in siti ad hoc (i campi nomadi) e ad eliminarli dal territorio statale, proprio come si fa coi rifiuti pericolosi. Queste politiche, oltre a ledere la dignità della persona, respingendo, cioè non riconoscendo e valorizzando, le energie e le risorse culturali, sociali e politici di una componente della società, agiscono in senso profondamente antiecologico. Le ideologie dello spreco e dell’usa e getta purtroppo non dominano solamente nella gestione delle risorse naturali, ma sono intrinseche anche alle

5 Si vuol sottolineare che non è solo, o non è tanto, l’essere in possesso della cittadinanza italiana a

creare automaticamente una disparità con coloro che non posseggono questo titolo. La dimostrazione evidente di questo fatto è che cittadini italiani di etnia Rom e Sinta, che rappresentano il 60% circa delle popolazioni Rom e Sinte presenti sul territorio italiano, subiscono ancora oggi gravi discriminazioni sul piano lavorativo, abitativo e scolastico, al punto da arrivare in alcuni casi a richiedere il cambio del cognome, per non essere più riconosciuti in quanto Rom e Sinti.

In moltissimi stati europei i cittadini di etnia Rom e Sinta vengono trattati come cittadini di seconda classe. Il caso della Romania, rappresenta su tutti un esempio convincente in questo senso. Infatti i cittadini romeni di etnia Rom vivono da centinaia di anni in condizioni di pesante discriminazione da parte del resto della società, nonostante essi siano a tutti gli effetti romeni. Non casualmente nell’ultimo censimento rumeno soltanto meno di un terzo dei Rom ha dichiarato la propria appartenenza etnica.

6 Questa interpretazione mi è stata suggerita in particolare dalla lettura del saggio di Leonardo

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relazioni fra membri di culture diverse. La veridicità di tale analogia è dimostrata dal fatto che Rom e Sinti sono spesso costretti dalle politiche della società maggioritaria, a vivere in luoghi malsani, spesso vicino a discariche, autorizzate o abusive, o in siti di ex- discariche.

Nel suo saggio I popoli delle discariche, Leonardo Piasere afferma che in Europa l’accusa di spargere sporcizia e malattie è, fra i pregiudizi anti-zingari, quello più comune e meno contestato. Descrivendo la sua esperienza di etnografo che l’ha portato a vivere a fianco di un gruppo Rom (più precisamente di xoraxané Romà ), egli afferma :

“ Dopo un tirocinio universitario passato a studiare popoli e genti della foresta, della montagna, di laguna, ecc., mi ero trovato insomma a condividere la mia vita coi popoli delle discariche, popoli il cui – come dire – ecosistema più immediato era costituito dai rifiuti degli altri.”7

Piasere racconta che ai xoraxané Romà veniva impedito di insediarsi in luoghi salubri e lontani dalle discariche, poiché venivano accusati dai cittadini gagé di essere essi stessi delle discariche ambulanti. Storicamente le popolazioni non Rom e Sinte si sono opposte all’insediamento di comunità Rom e Sinte nelle vicinanze dei centri abitati, con lo stesso vigore, e a volte anche con maggior vigore, come recentemente ad Opera, con il quale si sono opposte all’ insediamento di discariche o di impianti di smaltimento di rifiuti. D’altra parte storicamente molte comunità Rom e Sinte si sono sapute adattare creando economie di nicchia basate sullo smaltimento dei rifiuti (prodotti dalla società maggioritaria) e sul recupero, la raccolta e la rivendita di materiali di scarto industriali.8

I pregiudizi antizingari non solo rivelano il grado di inciviltà di un gruppo di persone o di una popolazione, ma costituiscono anche una barriera eretta dalla società maggioritaria per non modificare i meccanismi che regolano il proprio vivere sociale. Esso, in una società come quella italiana, è sostanzialmente regolato sul criterio dell’utilitarismo in ogni settore, soprattutto in quello delle relazioni interculturali.

Le popolazioni Rom e Sinte storicamente hanno rifiutato di essere proletarizzati, di finire totalmente assimilati negli ingranaggi del capitalismo, ed hanno invece sempre rivendicato il diritto sia a conservare un’autonomia lavorativa che a trasmettere ai propri figli la lingua, le tradizioni e i costumi della propria cultura.

Per questa insubordinazione al sistema dominante, per non aver voluto rinunciare alla propria identità, così come gli ebrei ed altri gruppi minoritari, e con vigore ancora maggiore

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per non aver voluto partecipare alla universale folle corsa dell’economia capitalista, Rom e Sinti sono stati considerati una minoranza inutile, parassitaria. Per questo essi hanno “meritato” e continuano a “meritare” il bando dalla società, l’allontanamento e la segregazione nei ghetti, la violenza dei pogrom.

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