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Schegge di città, urbanistica e società. Italia dagli anni ‘60 agli anni ‘90.

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Academic year: 2021

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Capitolo 1

Schegge di città, urbanistica e società.

Italia dagli anni ‘60 agli anni ‘90.

« L’architetto non è una figura professionale, è un’entità scelta dal gruppo sociale per

visualizzare e costruire il livello di qualità raggiunto da quel gruppo; l’organismo realizzato funzionerà, allora, da incubatrice, organizzando in scambi positivi i conflitti reali del momento ».

Luigi Pellegrin

L’Architettura è il frutto di processi complessi di tipo economico, politico, culturale, tecnologico, ambientale e, al tempo stesso, è indicatore storico delle dinamiche e dell’evoluzione del contesto da cui scaturisce.

Gli anni ‘60 hanno rappresentato un momento critico per il panorama economico e sociale italiano. Il cosiddetto “boom economico” e le istanze della ricostruzione post-bellica innescarono fenomeni di forte inurbamento della popolazione rurale e di migrazione interna. Il nord della penisola ne fu il “motore economico” e il polo d’attrazione, grazie all’offerta di lavoro che riuscì a proporre la nuova industria nascente. I tumultuosi fenomeni che vennero a generarsi, per l’intensità con cui si manifestarono, suscitarono urgenze di carattere sociale che si tradussero, sul piano urbanistico ed edilizio, in una forte domanda di residenze e di servizi connessi.

L’espansione delle città avvenne, spesso, in maniera incontrollata, sfruttando le lacune della pur unitaria e aggiornata “Legge Urbanistica Nazionale” del 1942 che si dimostrò inadeguata a governare l’improvvisa, inedita e diffusa situazione di emergenza venutasi a creare durante la ricostruzione. Gli strumenti normativi, in sintesi, non garantirono un’equilibrata convergenza tra le finalità degli “attori” coinvolti, pubblici e privati, che si

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fronteggiarono. La conseguenza principale fu il proliferare di insediamenti sorti nelle aree limitrofe alla città storica, talvolta abusivi, inadeguati nella qualità e nella quantità degli alloggi, privi dei servizi essenziali e complementari per l’istruzione, la sanità, il commercio, la mobilità, il tempo libero, il verde pubblico, etc. I nuclei di nuova costruzione, i cosiddetti “quartieri dormitorio” nelle “zone di espansione”, costituirono, negli anni a seguire, entità estranee alla città nella totale assenza di un rapporto “organico” con questa e, al tempo stesso, totalmente dipendenti da essa. Dal punto di vista sociale, l’inospitalità e le carenze degli insediamenti, la “dissociazione” tra il centro e la periferia urbana, resero difficile per gli abitanti condurre stili di vita soddisfacenti e dignitosi, sia in forma privata che collettiva, generando fenomeni di vera e propria alienazione dei nuovi insediati. Questa situazione esplosiva non mancò di suscitare reazioni da parte della comunità intellettuale e azioni da parte delle istituzioni che, in un contesto di emergenza, si tradussero, sovente, in soluzioni “tampone” estemporanee, parziali, non risolutive.

Il radicale mutamento del tradizionale modo familiare di percepire i luoghi, fu una delle conseguenze indotte dall’insorgere del fermento della ricostruzione. Ragioni politiche, disciplinari e speculative si intrecciarono sullo sfondo della normativa di settore. La legge che regolava il governo del territorio (Legge Urbanistica Nazionale n.1150, del 1942) e le leggi di tutela dei beni culturali e paesaggistici (leggi n.1089 e n.1497, del 1939) furono ereditate, tout

court, dal precedente Regime. Le leggi n.1089 e n.1497 continuarono ad essere, nell’Italia

repubblicana, gli unici strumenti di indirizzo e controllo, svolgendo l’importante funzione di argine alla degradazione del patrimonio artistico e naturale (1).

Dal 1949 al 1963, il “Piano Fanfani” darà corso ad una vasta programmazione di edilizia sovvenzionata orientata alla realizzazione di quartieri organizzati. L’agenzia centrale, creata presso l’Istituto Nazionale delle Assicurazioni (Ina-Casa), gestì l’aspetto tecnico finanziario, conducendo un’operazione che, di fatto, fu affidata alle regole del mercato edilizio. Estromessi, in pratica, dalla progettazione in scala urbana, i migliori architetti italiani furono confinati a lavorare nella scala edilizia. Offrirono, in questo ambito le loro migliori prove che costituirono, tuttavia, un’eccezione rispetto alla prassi costruttiva, non riuscendo ad incidere significativamente rispetto alla regola generale. Giovanni Michelucci, Franco Albini, Ignazio Gardella, il gruppo di architetti BBPR realizzarono pezzi unici e raffinati: la Cassa di Risparmio di Firenze, il Tesoro di San Lorenzo a Genova, la Torre Velasca a Milano (fig. 15). Altri progettisti si orientano, rinnovandolo, al disegno industriale catturando l’attenzione di un

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vasto pubblico, anche oltre confine. Per altra via artisti e designer compirono i propri percorsi in un moltiplicarsi di scelte formali. Gli artisti Lucio Fantana e Alberto Burri si affermarono in campi rigorosamente delimitati, mentre, nel suo isolamento, Giorgio Morandi raggiunge, con le sue nature morte, la pulizia e la leggerezza dei lavori astratti di Mondrian e Malevič, che aprirono la strada all’architettura di Mies van der Rohe (2).

Dagli anni cinquanta in poi gli architetti “moderni” tornarono ad essere un’isola culturale sulla difensiva, come già accaduto nel periodo tra le due guerre mondiali. Il dialogo con le autorità passò attraverso l’Istituto Nazionale di Urbanistica presieduto, dal 1951, da Adriano Olivetti e, più tardi, dall’Istituto Nazionale di Architettura, fondato nel 1959 per iniziativa di Bruno Zevi.

Nel 1956, Ludovico Quaroni scrisse un ampio articolo per la rivista Ina-Casa, dal titolo

Città e quartiere nell’attuale fase critica di cultura. Attorno alla nozione di quartiere, l’analisi

di Quaroni passò in rassegna gli ostacoli tecnici, culturali, istituzionali che stavano impedendo un lavoro produttivo, in Italia. Il testo venne corredato da una serie di schede, rigorosamente redatte, sui protagonisti della storia dell’architettura mondiale: Howard, Geddes, Garnier, Le Corbusier, Gropius, Wright, i russi, Dudok, Mies van der Rohe, gli inglesi, Mumford, Stein, Neutra, Aalto.

Il cinema, come sempre in anticipo, scoprì ed elaborò un modo nuovo, più consapevole, di guardare e riflettere sul paesaggio moderno, prodotto nei vent’anni precedenti e ormai diversissimo da quello decritto dai film neorealisti. Attraverso la sua lente, estrapolò dalla realtà alcuni aspetti rendendoli più pregnanti nelle loro atmosfere.

Per Federico Fellini, Roma è la città del mito, enorme teatro di posa dove, come dice il protagonista in La dolce vita (1960) « ci si può nascondere e mimetizzare ». La città può essere soltanto vista da lontano in La strada (1954), come un miraggio. Essa diviene sempre più protagonista, per poi tendere alla rarefazione: smaterializzandosi si priva di connotazioni topografiche divenendo spazio dell’altrove le cui tracce hanno la consistenza di voci, rumori, colori, sapori da evocare, come una lontana reminiscenza.

Nel cinema di Pier Paolo Pasolini prevale il concetto di “sfondo” su quello di paesaggio. La città, vista com’è, funge da controcanto ai personaggi. Come afferma lo stesso intellettuale: « nessuna mia inquadratura può cominciare con il “campo”, ossia con il paesaggio vuoto ». Nel suo cinema, l’urbano è punteggiato dall’architettura spontanea; è

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spazio astorico ripreso ad altezza d’uomo. Secondo l’autore, le città ormai testimoniano un « genocidio culturale », appartengono ad un terzo mondo, o ad una civiltà sopravvissuta. La finzione cinematografica e la realtà sociale sono testimoni di una « Dopostoria » fatta di strade larghe e desolate, su cui si incrociano vite di uomini che, nonostante tutto, aspettano ancora qualche miracolo (3).

Davanti allo sguardo di Michelangelo Antonioni, la città diviene un teatro scarno, in cui si muovono personaggi estenuati. Lo spazio urbano è svuotato, come le vite che lo attraversano, denudato dai suoi odori e sapori, è ormai rarefatto, dissolto, privato della propria identità.

A questa svolta fece da contrappunto una presa di coscienza realista: le enormi periferie, per quanto insoddisfacenti, apparvero ormai come luoghi inevitabili di vita e di lavoro per gran parte della popolazione. Lo scarto tra la qualità dei centri storici e quella delle periferie si palesò in tutta la sua evidenza, e indusse gli architetti a sondare le ragioni di questa enorme distanza.

Un anticipatore di questi studi fu Saverio Muratori che, a differenza di Quaroni, mantenne le scelta stilistiche d’anteguerra, argomentando in modo nuovo il rifiuto del modernismo architettonico. Individuò nelle tipologie distributive e costruttive accettate tradizionalmente, gli elementi caratterizzanti la città. Il suo insegnamento, alle facoltà di Roma e Venezia, offrì ai giovani un ancoraggio oggettivo alle scelte progettuali. Tuttavia questo approccio, non fu sostenibile nella progettazione architettonica, ma si rivelò di grande ausilio nell’analisi e nel restauro delle architetture storiche, orientando l’attività didattica di Paolo Marconi, alfiere del rifacimento accurato delle parti degradate nella manutenzione dei monumenti (4).

Intanto nel 1962, con la legge n.167, i comuni acquisirono uno strumento di intervento sull’edilizia sovvenzionata, fino ad allora ad esclusiva gestione delle agenzie nazionali: ai comuni, infatti, furono affidati l’acquisto, la sistemazione e la cessione di aree per l’edilizia economica e popolare. I PEEP (Piani di Edilizia Economica Popolare) che seguirono rappresentano la risposta italiana alle new town inglesi e alle villes nouvelles francesi di seconda generazioni. Il 1966 fu un anno cruciale per le alluvioni di Firenze e Venezia e la disastrosa frana che investì un’intera zona di Agrigento. Il dibattito che ne seguì condusse alla legge n.765 del 1967 e alla legge n.1444 del 1968, che fissarono limiti inderogabili di edificabilità e il rispetto di standard minimi di dotazione dei servizi collettivi. Il dibattito professionale, per suo conto, alimentò la discussione sul luogo e le modificazioni dei suoi

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caratteri. Nel 1966 furono pubblicati i testi programmatici di due antichi collaboratori di Ernesto Nathan Rogers: Il territorio dell’architettura di Vittorio Gregotti e L’architettura

della città di Aldo Rossi. Provenienti da esperienze divergenti, entrambi indicano

l’architettura come campo di confronto tra esigenze e “attori” differenti, e convergono, nella loro sintesi, sulla necessità di armonizzare l’opera al luogo concreto in cui va ad inserirsi.

Il forte inurbamento delle popolazioni rurali iniziò ad attenuarsi in seguito al mutato scenario economico nazionale e internazionale che culminò, a metà degli anni ’70, con la crisi petrolifera. Questa pose nuove urgenze, determinando una cesura con il periodo precedente; fu un evento emblematico e sostanziale al tempo stesso: segnò il tramonto definitivo, in Occidente, di un modo di pensare e affrontare il “progetto del futuro” basato su soluzioni e prefigurazioni definitive, organiche, unitarie, valide indipendentemente dal contesto e che prescindessero dalla disponibilità delle risorse economiche e ambientali.

In architettura, il riduzionismo funzionalista aveva mostrato i limiti dello Stile

Internazionale e della sua componente “utopica”, ereditata dalle prime avanguardie artistiche.

Nuove declinazioni del rapporto Uomo - Società - Ambiente trovarono spazio di discussione e approfondimento.

In questo contesto esordì la nuova coscienza ecologica che, superando iniziali fughe verso nuovi “paradisi” e rassegnate rinunce all’intervento, trovò punti di convergenza, e nuovi strumenti d’azione, nello sviluppo scientifico e tecnologico. Indirizzando la tecnica verso un rapporto più equilibrato con l’ambiente e il territorio, orientò la propria proposta verso un approccio pragmatico ai problemi, volto a immaginare soluzioni, e a prefigurare scenari, che avessero carattere di esemplarità, in contesti più limitati e maggiormente governabili.

Il rapporto con la politica, a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70, prese due forme precise. Da un lato la filiera “organica” che trovò nei critici Manfredo Tafuri, Bruno Zevi, Leonardo Benevolo, figure politicamente e ideologicamente accreditate a negoziare tra società e sapere tecnico. Nascono, così, i piani di Bologna, Pesaro, Roma e i quartieri Gallaratese di Milano e ZEN di Palermo, e molti altri esempi che oggi sono vere e proprie fotografie del tempo. Dall’altro gli architetti “demiurghi”, utopisti e “radicali”, che pretesero di scavalcare la mediazione dell’ideologo e di proporre direttamente le loro visioni (più o meno realistiche) di “spazio sociale”, rivolgendosi soprattutto alla comunità globale. I primi, più integrati, dettero forma alla miglior periferia italiana. I secondi, più lontani dai processi reali di trasformazione,

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sperimentarono, invece, un piano privo di intermediazione con il “pubblico”. Il lavoro di

Superstudio, Archizoom e dei Radical, pur caratterizzato da una pura speculazione visiva

(figg. 31, 35), anticipò un metodo oggi universalmente diffuso, basato sul “colloquio” tra un architetto narratore, in cerca di consenso, e un “pubblico” in attesa di essere affascinato e sedotto.

Tra le contrapposte tendenze, di rinuncia e proposta, in una realtà ormai frammentata, in certi casi irrimediabilmente compromessa, la globalizzazione aprì nuovi interrogativi e motivò riflessioni sui temi dell’identità e dell’alterità. Si inaugurò, così, una stagione che puntava a proporre strategie complesse e diversificate, in obiettivi e prassi, basate sulla convergenza di diverse conoscenze e competenze, discipline e pensieri. Il destinatario ultimo delle azioni, nelle esperienze più felici, fu coinvolto nel processo decisionale, in un rapporto dialettico tra specialisti e collettività, pubblico e privato.

Gli anni ‘70 e ‘80 furono, infatti, caratterizzati da due storie della cultura architettonica italiana, per certi versi parallele. La prima storia riguarda le esperienze di controllo ambientale tra progettazione, esecuzione e verifica dei risultati, limitate ad alcune realtà locali, in ritardo rispetto alle esperienze internazionali. Lascerà prove riuscite nei centri di Urbino, Bologna, Brescia e Modena. L’altra storia è riferita alla mobilitazione per la casa che coinvolse direttamente gli utenti dello scenario urbano. Con la legge n.865 del 1971, furono introdotte nel mercato edilizio una serie di procedure che privilegiassero le situazioni di maggior bisogno.

Le proposte di questi anni in ambito architettonico, circoscrivendo il campo al contesto toscano, alle idee della “Scuola fiorentina” e a quelle dei Radical, trovarono eco e riscontro in campo internazionale. Furono proposte soluzioni sperimentali che, pur da una prospettiva meramente teorica, spostarono l’accento e la riflessione sul tema del progetto d’Architettura e d’Urbanistica, sulla loro portata culturale, sul loro aspetto documentale. Le cosiddette “architetture disegnate” (figg. 28, 38, 44) furono un contributo che riallacciava rapporti con le avanguardie storiche e la loro inquieta oscillazione tra provocazione e immaginazione.

Un approccio pragmatico e realista trovò diverse accentuazioni negli itinerari professionali di Giorgio Gregotti, Gino Valle, o di Giancarlo De Carlo e Renzo Piano che, partendo da tutt’altre premesse e confrontandosi con scenari difficili, dimostrarono quanto la consapevolezza dei luoghi fosse entrata stabilmente nel costume professionale italiano.

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Al culmine di questo processo si pose la stagione del Post Modern, caratterizzata dalla “poetica del frammento”. La citazione iconica, capace di coagulare attorno alla propria pregnanza, archetipi simbolici di facile consumo, una volta decontestualizzata, si presta ad un riuso inedito, ad una sorta di riappropriazione che può alimentare nuovi significati e scenari. Nel “montaggio”, gli eterogenei frammenti formano un patchwork che suggerisce possibili rapporti e riflessioni, altrimenti non evocabili. Il Post Modern e gli anni ‘80 sancirono la fine del pensiero moderno, capace di immaginare rivoluzioni, grandi scenari e soluzioni globali, a favore di un approccio circoscritto, contingente e contestualizzato. La fase di ideazione nell’opera d’Architettura non potette più prescindere dall’analisi oggettiva dello stato di fatto. I suoi elementi caratterizzanti suggeriscono soluzioni e prospettive più aderenti alle specifiche realtà e alle loro peculiarità.

Un caso a parte fu rappresentato da Aldo Rossi che, negli anni ‘60, iniziò una ricerca sul

luogo urbano nelle sue forme “esiliate”, ma che di tale esilio intendessero parlare per proporre

una teoria della città, quale luogo della memoria collettiva. L’immaginario è il nuovo bisogno collettivo e argina un “universo” che tende ad espropriare l’individuo delle sue qualità fantastiche. La città si rivelò nella sua ricerca come campo o semplice pretesto ove rilevare e rivelare modelli, archetipi, figure di riferimento. Spazio e tempo sono annullati nel silenzio del tipo edilizio: modello immoto e astorico. Con il suo rigorismo Rossi sembrò voler mostrare che l’estraneazione è raccontabile (6).

Frequentando abitualmente l’architettura facciamo sì che rappresenti un’esperienza consuetudinaria e inconscia della nostra vita. Anche un film può entrare a far parte della nostra memoria profonda. Ombreggia l’impressione di luoghi che non abbiamo mai sperimentato o che non sperimenteremo mai. Ci influenza a tal punto da dettare come dovremmo sentire, pensare e operare in uno spazio particolare. Memoria sperimentata e memoria “indotta” si sedimentano in una miscela indistinta, da cui attingiamo le nostre suggestioni.

Spazio e tempo in apparenza sono due dimensioni inconciliabili, se pensiamo alla città e al cinema: la prima delimita con i suoi elementi, il secondo li scorre sulla pellicola. Alle soglie del nuovo millennio, quella rarefazione che la città restituisce quale immagine di un’atmosfera fuori dal tempo è la percezione reale e urbana, virtuale e cinematografica che sperimenta l’individuo, non riconoscendosi nello stesso ambiente che ha costruito. Due possibilità gli si offrono. Intervenire per exempla con elementi che evochino e segnino un

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contesto destrutturato e irrimediabilmente compromesso. Accettare un nuovo modo di vedere e sperimentare trovando negli interstizi, negli spazi residuali, nuove possibilità di movimento e azione. L’Architettura e il Cinema agiscono sulla “costruzione” della memoria: attraverso il vivere quotidiano e attraverso la sua evocazione. Oggetto di questa convergenza non è tanto la città con i suoi pieni e vuoti concreti, né la scena, il campo dell’azione cinematografica, ma piuttosto il Luogo. Il Luogo evoca la memoria collettiva di ognuno basata sull’esperienza diretta e indiretta; è il simbolo attorno al quale si coagula il senso di appartenenza. La dissoluzione di questo agente collettivo destabilizza e porta ad un senso di esclusione e di isolamento, ad una impasse. Ma la sostanza immateriale di cui è costituito dà campo a nuove opportunità: consente di superare le barriere fisiche e psicologiche in cui il cittadino resta impigliato; suggerisce all’architetto e al cineasta, di andare oltre l’utopia e la fantascienza, riconducendo l’immaginario al “nido” che gli è stato negato.

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