• Non ci sono risultati.

CAPITOLO 2

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "CAPITOLO 2"

Copied!
33
0
0

Testo completo

(1)

CAPITOLO 2

Il Maestro di San Torpè:

confronti fra le arti.

(2)

2.1. Le “arti maggiori”: pittura e scultura.

Nel precedente capitolo, si è potuto osservare come la figura del Maestro di San Torpè si sia evoluta sino ad oggi, grazie un lungo lavoro di studio, talvolta discordante, da parte della critica. Dall’iniziale gruppo di opere ricostruito nel 1937 da Evelyn Sandberg Vavalà1 che constava di cinque lavori (due dei quali successivamente ricondotti a Memmo di Filippuccio), a questo sconosciuto ma singolare pittore è stata ridata non solo la giusta importanza all’interno di un ambiente portato al limite del suo splendore prima dell’iniziale declino, ossia la Pisa nella prima metà del XIV secolo, ma anche un corpus di dipinti che supera attualmente le venticinque opere.

Ovviamente, la ricerca da parte degli studiosi dell’esatta datazione dei lavori assegnati all’anonimo Maestro ha portato spesso ad esiti molto diversi. Tuttavia, dopo molti anni di studi e suggerimenti, in alcuni gruppi di opere sono state evidenziate alcune caratteristiche stilistiche che dovrebbero facilitare la loro collocazione nel tempo: come è stato più volte ribadito, il Maestro di San Torpè all’inizio della sua carriera venne influenzato soprattutto dall’arte di Duccio di Buoninsegna, ma ad un certo punto i volti e le fisionomie dei suoi protagonisti si avvicinarono all’arte di Simone Martini; talvolta, accanto ad argomenti strettamente figurativi, furono usate come strumenti di datazione anche le tecniche manuali oppure meccaniche utilizzate nella realizzazione dei nimbi dorati. Sulla base di tutti questi elementi, la maggioranza della critica ha ormai riconosciuto che le opere più precoci del Maestro sono gli affreschi della Madonna col Bambino nel Duomo di Pisa e l’Arcangelo nella lunetta della chiesa di San Michele a Pisa, che per Luciano

1

(3)

Bellosi2 (1998) molto ricorda dello stile di Cimabue. Invece, la Madonna proveniente dalla chiesa dei SS. Pietro e Paolo di Latignano venne forse realizzata tra il 1315 ed il 1320 o subito dopo, mentre secondo l’indagine svolta da Linda Pisani3 nel 2010, il

San Paolo ed il San Giovanni Evangelista esposti nel Museo Nazionale di San

Matteo vennero eseguiti o nel 1320 o nel 1324, come la Madonna della Galleria degli Uffizi di Firenze. Nell’analisi di altre opere la critica si trovò molto in disaccordo, come nel caso della Madonna di Campiglia Marittima, sulla la quale fu a lungo dibattuto se la tavola fosse stata eseguita, all’incirca, nel decennio precedente o posteriore il 1320. In merito a quest’argomento, L. Pisani4

propose che l’opera risalisse all’ultimo decennio del Duecento basandosi sul motivo della stoffa sullo sfondo che, come Andrea De Marchi5 (1998) aveva precedentemente riconosciuto, ripete quello di un’opera giovanile di Duccio di Buoninsegna. La datazione della Madonna della Badia di Morrona, invece, dopo una prima collocazione verso il primo decennio del Trecento, fu spostata dagli ultimi studi verso il terzo decennio del Trecento, soprattutto dato che, come dimostrò L. Bellosi6 nel 1974, è contraddistinta da un nimbo realizzato con un sistema di punzonatura meccanico e non manuale. Tra le opere considerate più tarde, cioè eseguite in un arco di tempo che spazia all’incirca dal secondo al terzo decennio del Trecento, si trovano alcune delle ultime opere attribuite al Maestro di San Torpè, tra le quali la Madonna di Providence (anche se L. Pisani7 preferì considerarla eseguita nel 1310), il San Giovanni Evangelista di

2

Vedi nota 284 nel primo capitolo.

3

Vedi note 354-357 nel primo capitolo.

4

Vedi scheda 2.

5

Vedi nota 294 nel primo capitolo.

6

Vedi note 144-145 nel primo capitolo.

7

(4)

ubicazione sconosciuta e la Madonna di Digione (De Marchi8 ha portato entrambe le ultime due tavole indicate, dal 1320 al 1330).

Al di là della questione se il Maestro di San Torpè fosse un artista senese trapiantato a Pisa o piuttosto un pisano, tornando ai confronti proposti dagli studiosi tra le opere del Maestro di San Torpè e quelle di altri artisti, bisogna considerare che questi ultimi, ovviamente, non si limitarono a Duccio di Buoninsegna e Simone Martini. Nel precedente capitolo è stato dato ampio spazio a diversi pittori dell’epoca, pisani, senesi, fiorentini, etc., che per una stessa base culturale o per altre caratteristiche in comune hanno visto confrontare alcune delle loro opere più famose con quelle del Maestro. A parte ciò, alcuni degli interventi più recenti della critica hanno tentato di estendere l’area delle influenze acquisite da parte del Maestro di San Torpè dalla scultura che a Pisa, sin dalla metà del XIII secolo, era stata portata a livelli eccezionali. Come è stato evidenziato a suo luogo, Cecilia Martelli, Mariagiulia Burresi, Antonino Caleca e Linda Pisani riuscirono, con successo, a dimostrare che il Maestro di San Torpè per alcune delle sue tavole dipinte aveva attinto alle opere scultoree di Giovanni Pisano e Tino di Camaino, oltre a disporre di un ampio repertorio di scultura classica nel Camposanto pisano. Però, tutto sommato, l’anonimo artista rimaneva pur sempre un pittore, sicché era forse più che logico andare a cercare nelle sue opere elementi che si ispirassero alle altre tavole dipinte che circolavano all’epoca e che, per coloro che praticavano questo mestiere, era quasi un obbligo conoscere. Difatti, si è già accennato che A. De Marchi, prima di chiunque altro, aveva notato che il motivo geometrico proposto da Duccio di Buoninsegna nella verde stoffa che fa da sfondo alla sua Madonna dei Francescani era stato poi ripreso dal Maestro di San Torpè nella rossa stoffa che fa da sfondo alla

8

(5)

Madonna col Bambino della chiesa di Campiglia Marittima. Se, come sostenuto

sinora, è possibile trovare nelle tavole del Maestro molti elementi in comune con altre opere precedenti o coeve, è più che lecito andare a cercare altri esempi che possano confermare quanto sinora è stato detto, magari anche in ambiti artistici diversi da quelli appena menzionati. Dunque, quello che si vuole proporre in questo capitolo è una nuova pista d’indagine: riesaminati i confronti proposti dalla critica, si procederà con una serie di esempi che una più ampia ricerca potrebbe estendere, ma che comunque porterà ad una idea più precisa di ciò che può aver suggestionato il Maestro di San Torpè nel corso della sua attività artistica.

Come è stato più e più volte ripetuto anche nel precedente capitolo, il pittore a cui il Maestro di San Torpè si riferì maggiormente durante la prima fase della sua carriera fu Duccio di Buoninsegna, una scelta a causa della quale il Maestro venne spesso ritenuto, da parte della critica citata, un senese. Tra le opere più significative al riguardo, compare la duccesca Madonna col Bambino e due Angeli adoranti, soprannominata “Madonna di Crevole”, citata nel 1994 da Enzo Carli9

(assieme alla Madonna Stoclet) per il particolare del braccio del Bambino che si allunga per giocare con il velo della Madre, imitato dal Maestro nella Madonna col Bambino di Campiglia Marittima. Da quella Madonna di Duccio, si potrebbe trarre anche un altro confronto con la Madonna col Bambino e sei Angeli della Badia di Morrona del Maestro di San Torpè: già nel 1972 Silvia Meloni Trkulja10, era rimasta estasiata dal piccolo gruppo di angeli adoranti di quest’ultima opera, e che aveva definito di una qualità pari a quella di Duccio di Buoninsegna; osservando da vicino nella tavola del Maestro questo gruppo di angeli che quasi sbucano da dietro la cornice, inclinati in avanti come volessero esporre la loro presenza, si potrebbe pensare che tale idea sia

9

Vedi nota 196 nel primo capitolo.

10

(6)

nata in seguito alla visione della tavola di Duccio di Buoninsegna, dove un minor numero di angeli gioca lo stesso effetto protendendosi e quasi sbucando fuori dalle nuvole azzurre nella parte superiore della cornice.

Nella Madonna appena esaminata di Duccio di Buoninsegna, era ancora presente un piccolo arcaismo, poi eliminato dal pittore senese nelle sue opere successive. Si tratta del “maforion” o cuffia all’orientale come fu definita da E. Carli11, che Duccio aveva sostituito con un velo bianco. Per L. Bellosi12 un motivo assolutamente nuovo da attribuire con sicurezza all’inventiva del pittore senese, che, come è già stato notato nel capitolo precedente, si ritrova nel Trittico della Galleria Nazionale di Londra e nella Madonna col Bambino della Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia, due opere apprezzate sia da E. Carli13

che L. Bellosi14 per le loro innovazioni e qualità plastiche. Oltre al fatto che questo nuova sorta di bianco “copricapo” per la Madonna fu subito imitato dal Maestro di San Torpè in quello che la maggior parte degli studiosi ritenne essere il suo dipinto più antico, l’affresco della

Madonna col Bambino nel Duomo di Pisa, occorre anche evidenziare la fortissima

somiglianza tra i volti delle due Madonne duccesche, non solo tra di loro ma anche con la Madonna col Bambino della chiesa di Casciana Terme eseguita dal Maestro, specialmente nell’ovale del viso, nel lungo e stretto naso e nella piccola bocca, che conferiscono a queste tre figure una forte aura di solennità.

Riguardo ad altri esempi di somiglianza tra figure dipinte dal Maestro di San Torpè e quelle di altri artisti, non è possibile non tener conto del polittico di Ugolino di Nerio15, realizzato per la chiesa di Santa Croce a Firenze, oggi suddiviso tra collezioni private, i Musei Statali a Berlino, la National Gallery di Londra, ed altri

11

E. Carli, La pittura senese…, cit., p. 29.

12

L. Bellosi, Il percorso di Duccio, in Duccio, cit. p. 135.

13

E. Carli, La pittura senese…, op. cit., p. 44.

14

L. Bellosi, Il percorso di Duccio, in Duccio, cit., p. 135.

15

(7)

musei americani, già citato nel precedente capitolo da C. Martelli16 (1996) rendendo conto del soggetto. L’opera aveva colpito la studiosa per i piccoli angeli adoranti, appoggiati sopra le cornici archiacute che racchiudono i santi del polittico, che le ricordavano gli angeli prima nominati della Madonna della Badia di Morrona, oltre che per altre piccole caratteristiche in comune tra le due opere. Ugolino di Nerio, come il Maestro di San Torpè, pur basando la sua formazione fondamentalmente sullo stile di Duccio di Buoninsegna, era stato condizionato anche dallo stile pittorico adoperato nelle botteghe di Firenze. Di conseguenza nel polittico di Santa Croce, i santi da lui dipinti, per le lunghe e ricciute barbe, per le alte fronti e l’intensità degli sguardi, ricordano molto alcuni dei santi realizzati dall’anonimo Maestro, in particolare, i tre singoli santi con profeti esposti nel Museo Nazionale di San Matteo a Pisa, e le tre tavole dell’Art Museum di Saint Louis raffiguranti un San Giovanni

Battista presenta Cristo al Popolo, un San Ranieri ed un San Giovanni Battista. I

volti composti dal Maestro di San Torpè, però, ad una prima occhiata sembrerebbero meno severi di quelli di Ugolino.

Fra le opere attribuite al Maestro di San Torpè, vi è anche una tavola raffigurante una Crocifissione di ubicazione sconosciuta, che C. Martelli17, come riportato nella relativa scheda, ritiene eseguita circa tra il 1310 ed il 1315. Questo soggetto assai comune venne trattato da moltissimi altri artisti contemporanei, tra i quali si ritrova nuovamente Ugolino di Nerio. La Crocifissione di quest’ultimo (fig. 1) è conservata nella Pinacoteca Nazionale di Siena ed è stata collocata oltre il 1325 da Pietro Torriti, visto che l’influsso di Duccio di Buoninsegna appare smorzato da un gusto più gotico e trecentesco oltre che da un plasticismo ripreso successivamente

16

Vedi nota 268 nel primo capitolo.

17

(8)

dai fratelli Lorenzetti18. Qui, le pose ed i gesti dei dolenti appaiono quasi del tutto identici a quelli raffigurati nella tavola del Maestro di San Torpè. Inoltre, in entrambe è presente un Cristo dal capo estremamente reclinato, da cui scende una lunga ciocca di capelli. Quest’ultimo particolare, venne adoperato dal Maestro anche nel

Crocifisso del Belvedere di Crespina, dove, nonostante il pessimo stato della

superficie pittorica di questa zona, si riesce ancora a vedere parte della ciocca che dalla spalla scende giù al petto.

P. Torriti fece anche notare che nella Crocifissione di Ugolino di Nerio, l’iconografia del Cristo ricordava molto quella delle opere scultoree di Nicola e Giovanni Pisano19 (fig. 2), oppure come meglio ancora propose E. Carli, quella dei Crocifissi lignei di Giovanni Pisano custoditi nel Museo dell’Opera del Duomo di Siena (fig. 3) e nella chiesa di Sant’Andrea a Pistoia20. Queste due opere si trovano descritte in un articolo di Max Seidel dedicato ai principali nove Crocifissi lignei di Giovanni Pisano21, tra i quali figura anche quello dell’Opera del Duomo di Pisa (fig. 4), che, come quello di Siena, sembra aver influenzato la croce a forma di albero dipinta da Ugolino di Nerio nella sua opera. A differenza di questo pittore, il Maestro di San Torpè, piuttosto, nella sua Crocifissione ripropone l’alta croce costituita da tavole piuttosto sottili dipinta da Duccio di Buoninsegna nella sua Crocifissione con

Maria e Giovanni dolenti (corredata da sportelli raffiguranti una Annunciazione e

una Madonna col Bambino a sinistra e le Stimmate di San Francesco e la Madonna e

Cristo in trono a destra) (fig. 5), appartenente alla collezione privata della Regina

18

P. Torriti, La Pinacoteca Nazionale di Siena, Genova, 1977-1981, p. 64 scheda 34.

19

Ibidem.

20

E. Carli, La pittura senese…, p. 76.

21

M. Seidel, “Sculpens in ligno splendida”. Sculture lignee di Giovanni Pisano, in Sacre Passioni:

scultura lignea a Pisa dal XII al XV secolo, catalogo della mostra a cura di M. Burresi, Milano, 2000,

(9)

Elisabetta II22. Inoltre, poiché M. Seidel nel suo elaborato afferma che tra i generi artistici in cui Giovanni Pisano si era cimentato, la scultura lignea occupava il secondo posto (sottoposta alla scultura marmorea ma anteposta a quella orafa) e che in questo campo nessun’altro artista aveva osato entrare in competizione con quest’ultimo23

, appare ormai indubbio che sia Ugolino di Nerio che il Maestro di San Torpè avessero ricevuto un fortissimo ascendente da queste opere lignee. Come si può ben notare in entrambe le tavole dipinte dai due maestri, le masse di capelli cadenti, il corpo di Cristo, che nel suo abbandono mostra un busto estremamente magro ed evidenziato dalle costole, ed i piedi incrociati perché trafitti da un unico chiodo, sono particolari che si ritrovano in ognuno dei crocifissi lignei realizzati dal più giovane dei Pisano. Si potrebbe anche ipotizzare che il crocifisso ligneo, che tanto influenzò sia il Maestro di San Torpè che Ugolino di Nerio, sia stato quello di Giovanni di Balduccio (fig. 6), scoperto da M. Burresi nella chiesa di Santa Marta a Pisa e pubblicato da M. Seidel in un altro articolo dedicato a questa opera. Purtroppo, questa supposizione potrebbe valere solo per l’opera di Ugolino, dato che per lo studioso quest’ultimo manufatto ligneo fu eseguito dall’aiutante di Giovanni Pisano verso il 132024, a meno che futuri studi non pospongano la datazione proposta da C. Martelli per la tavola del Maestro, che, come è già stato detto, indicava i primi due o tre lustri del Trecento.

Abbandonando questa parentesi sulla scultura lignea e tornando agli accostamenti fra le opere del Maestro di San Torpè ed altre opere pittoriche, nel capitolo precedente abbiamo citato un’altra tavola, raffigurante sempre una crocifissione, evocata dalla critica per spiegare delle particolarità in alcune opere del

22

L. Bellosi, Duccio di Buoninsegna: Crocifissione con Maria e Giovanni dolenti (al centro), in

Duccio, op. cit., p. 192 scheda 29.

23

Ibidem p. 82.

24

M. Seidel, un importante ritrovamento: Giovanni di Balduccio in Santa Maria, in Sacre Passioni…, op. cit., pp. 95, 99.

(10)

Maestro. Si tratta del Crocifisso con i dolenti e due sante di Pietro Lorenzetti usata da A. De Marchi25 e L. Pisani26 nei loro articoli, rispettivamente del 1998 e del 2010, per suggerire l’origine dell’idea del Maestro di racchiudere entro strutture voltate i santi da lui dipinti nella Madonna col Bambino, Cristo in pietà e i Santi Francesco e

Domenico di Providence e nella Madonna col Bambino fra due Angeli adoranti e i Santi Stefano, Giovanni Battista e Lorenzo di ubicazione sconosciuta. La fonte di

questa singolare gabbia architettonica sarebbe potuta derivare anche da altre opere scultoree presenti a Pisa che, come è già stato sopra spiegato, in quel momento erano in altissima considerazione presso ogni artista della Toscana. Ma non è neppure da escludere che la soluzione adottata nell’opera di Pietro Lorenzetti, come ha suggerito L. Pisani nel 2010, riferendosi ad un articolo di M. Laclotte27 (2003), fosse derivata da alcuni tabernacoli o trittici provenienti da oltralpe e lavorati in avorio od in oreficeria piuttosto che in pittura, mostrando così il forte interessamento del XIV secolo verso queste arti suntuarie.

Al di la di determinati particolari innovatori o di stili particolari, nelle opere dei grandi maestri del XIII e XIV secolo alcuni elementi o strutture rimangono sempre coerenti ed in comune. Ad esempio, nonostante il San Paolo ed il San Giovanni

Evangelista, esposti nel Museo Nazionale di San Matteo di Pisa, siano rimasti isolati

dagli altri scomparti che dovevano completare il polittico del Maestro, semplicemente osservando quello di Duccio di Buoninsegna con la Madonna col

Bambino tra Sant’Agostino, San Paolo, San Pietro e San Domenico (fig. 7) descritto

da P. Torriti28 (dove oltretutto i volti di Madre e Figlio ricordano moltissimo quelli delle tavole di Casciana Terme e di Digione) si può benissimo risalire all’idea della

25

Vedi nota 288 nel primo capitolo.

26

Vedi nota 347 nel primo capitolo.

27

Vedi nota 346 nel primo capitolo.

28

(11)

composizione originaria dell’opera; lo stesso anche nel caso che il più piccolo San

Bartolomeo del Museo pisano fosse stato parte del polittico con i due santi pisani

esposti nella medesima sala del Museo. Per dimostrare ulteriormente che nella pittura di quest’epoca determinati elementi erano soggetti a pochissime variazioni, basterà osservare come la prospettiva del libro tenuto in mano dal San Francesco (fig. 8)29 del polittico di Ugolino di Nerio nella Pinacoteca Nazionale di Siena sia molto simile a quella del libro tenuto in mano dal San Giovanni Evangelista del museo pisano, tranne che in quest’ultimo i legacci che serrano il libro in mano al santo, tendono verso il basso rispetto a quelli raffigurati nella tavola di Ugolino, forse per un tentativo di dare una “prospettiva” leggermente diversa. Un esempio simile era stato osservato anche da A. De Marchi, sempre tra il San Giovanni Evangelista del Museo Nazionale di San Matteo ed un’altra opera del Maestro, come abbiamo riportato nella scheda relativa al santo pisano.

Piuttosto, le opere più mature del Maestro, che subirono l’influsso del polittico di Santa Caterina di Simone Martini, assunsero uno stile che le rendeva leggermente diverse dalle precedenti L’opera citata del grande pittore senese si trova esposta nel Museo Nazionale di San Matteo di Pisa, e attraverso una scheda di E. Carli30, nel suo libro del 1974 dedicato al museo pisano, si può ben verificare come nell’elemento centrale della predella di quest’opera siano racchiusi, entro degli archetti, un Cristo

in pietà tra la Madonna e S. Marco. E. Carli nel suo libro scrisse: “La penetrazione della pittura senese a Pisa, iniziatasi col “Maestro di San Torpè”, ebbe il più fulgido episodio nel polittico di Simone Martini del 1319…”31

, ma la similarità della figura centrale di questa predella (fig. 9), con il Cristo morto raffigurato nella tavola di

29

Ibidem, p. 62 figura 51.

30

E. Carli, Il museo…, cit. pp. 51-52 scheda 40, Tav. X.

31

(12)

Providence, che L. Pisani32 (2010) dichiarò quasi sicuramente ispirato dal leggio con lo stesso soggetto del pergamo di Giovanni Pisano del Duomo di Pisa, dimostra come, in un Trecento ormai avanzato, le più famose opere scultoree di Pisa venissero ancora plagiate. Già nel 1962 M. Bucci33 nel descrivere la Madonna della pisana chiesa di San Torpè aveva fatto notare, come è riportato nella relativa scheda, che le opere del Maestro di San Torpè assumevano delle connotazioni e dei rilievi che richiamavano la scultura contemporanea.

Inoltre, L. Pisani, come i suoi colleghi C. Martelli34 (1996), M. Burresi ed A. Caleca35 (2003, 2005), ha dimostrato che il Maestro di San Torpè, per alcune sue opere, aveva attinto specifiche pose o particolari dalla Tomba-altare di San Ranieri e dal monumento funebre per Arrigo VII di Tino di Camaino (sotto il quale aveva lavorato, nel caso egli sia realmente identificabile col documentato pittore Vanni di Bindo). Al di la di questi esempi si dimostrerà che il Maestro, in altre occasioni, si ispirò anche ad altre opere scultoree che si potevano osservare nella Pisa dell’epoca. Ad esempio, da quanto visibile, sia nella tavola capostipite della chiesa di San Torpè sia nel Santuario della Madonna di Ripaia a Treggiaia vicino Pontedera (o per lo meno da quanto si può intuire date le terribili condizioni di quest’opera), la Vergine sorregge con la mano il piedino sinistro fortemente scorciato verso l’alto del Bambino, esattamente come nella statua della Madonna col Bambino che si trova, in uno degli angoli tra le lastre istoriate raffiguranti l’Adorazione dei Magi e Presentazione al Tempio e Fuga in Egitto, del pulpito della Cattedrale di Siena, realizzato da Nicola Pisano (fig. 10), come si può osservare in particolare nella

32

Vedi nota 348 nel primo capitolo.

33

Vedi scheda 10.

34

Vedi nota 230 nel primo capitolo.

35

(13)

fotografia realizzata da David Dinn36. Il dettaglio del piedino fortemente scorciato del Bambino venne ripreso anche da Memmo di Filippuccio nella sua Madonna proveniente dalla chiesa di San Francesco a Pisa, anche se l’artista non riportò quello della mano della Madre che funge da sostegno. Di conseguenza si intuisce chiaramente a chi il Maestro si fosse ispirato nelle sue opere. Lo stesso si può affermare per la statua di San Paolo nella Fontana maggiore di Piazza Grande (ora Piazza IV Novembre) di Perugia (fig. 11). In questa opera, forse realizzata da Nicola ma preannunciante la più evoluta personalità di Giovanni37, il santo con la mano destra impugna la spada che poggia appena sulla spalla, mentre con la sinistra regge il pallio, l’abito di provenienza greca dei filosofi portato da Cristo e dagli Apostoli38, e punta il dito indice verso il basso. In pittura, di solito, San Paolo viene raffigurato con la spada in mano, ma esistono anche altre versioni dove il santo, inoltre, tiene un libro nell’altra mano libera. Osservando, però, la tavola dipinta con il San Paolo esposta nel Museo Nazionale di San Matteo di Pisa, si nota che questa figura tiene la spada appoggiata alla stessa spalla e nella stessa maniera del San Paolo nella sopracitata fontana, tiene socchiusa la sua veste che ricorda un piviale di un rosso intenso, e la sua la mano termina con lo stesso dito indice puntato. È forte la sensazione che il Maestro abbia osservato e copiato questo dettaglio dalla statua della fontana di Perugia.

Continuando su questa linea d’approccio e sempre riferendosi alla scultura, il tondo marmoreo con la Madonna col Bambino del Museo della Collegiata di Empoli (fig. 12), forse realizzato da Giovanni Pisano verso il 1270-127539, e da alcuni

36

A. F. Moskowitz, Nicola & Giovanni Pisano. The pulpits: pious devotion, pious diversion, with photographs by D. Dinn, Londra, 2005, p. 64 figura 54.

37

E. Carli, Giovanni Pisano, Pisa, 1977, p. 30.

38

M. Righetti, Manuale di storia liturgica, Vol. I, 1998, Milano, (ed. anastatica dell’originale edito nel 1959), p. 589.

39

(14)

semplicemente chiamato “Tondo di Empoli”, può essere confrontato con più di un’opera del Maestro di San Torpè. L’idea della Madonna che si sporge al di fuori della rotonda struttura, come se stesse per uscire da un momento all’altro, fu forse ripresa dal Maestro nel frammento rimasto col Cristo benedicente del Musèe du Petit Palais di Avignone, dove la testa e l’aureola del Cristo fuoriescono da quella che sembrerebbe una struttura voltata atta a contenerla. Anche il Bambino del Tondo empolese, che a sua volta sembra scivolare via dalla struttura che lo contiene, assomiglia moltissimo nella sua posa al Bambino raffigurato dall’anonimo Maestro nella tavola proveniente dalla chiesa dei SS. Pietro e Paolo di Latignano, esposta al Museo Nazionale di San Matteo. Una posa, questa, che ricorda anche quella del Bambino in braccio alla Madonna in trono nella parte superiore del monumento funebre per il cardinale francese Guglielmo De Braye (fig. 13), realizzato da Arnoldo di Cambio per la chiesa di San Domenico ad Orvieto40. Lo stesso Bambino del monumento di Orvieto, a sua volta ricorda altre due figure dipinte dal Maestro di San Torpè che si trovano a Pisa: il Bambino della tavola della chiesa di San Torpè ed il Bambino della Maestà nel Museo Nazionale di San Matteo. Infine, si può osservare che il Tondo di Empoli, insieme ad altre due opere di Giovanni Pisano che si trovano nel Museo dell’opera del Duomo, ossia la Madonna col Bambino conosciuta anche come “Madonna del Colloquio” (fig. 14), singolare in quanto a mezzo busto e un tempo collocata sopra un porta in questa sua forma come a voler imitare una immagine dipinta41, e la Madonna Eburnea (fig. 15) realizzata in questo materiale poco usato per la realizzazioni di opere focali nelle cattedrali italiane42, condividono uno stesso particolare che si ritrova nella Madonna col Bambino della pisana chiesa di San Torpè: un piccolo mantellino chiuso da una spilla rotonda, che avvolge il collo

40

E. Carli, Arnolfo, Firenze,1993, p. 82

41

E. Carli, Giovanni…, cit., p. 61.

42

(15)

e le spalle del Bambino, forse una lacerna, ossia un corto mantello adoperato in Africa dopo il I secolo d. C., utilizzato come scialle e fermato sul petto da una ligula (piccola striscia di panno o cuoio con due bottoni) o da una spilla43. Un particolare, quindi, molto usato da Giovanni Pisano e ripreso nuovamente dal Maestro di San Torpè, a dimostrazione che entrambi gli artisti, come si era già potuto intuire dalle descrizioni delle vesti dei due San Paolo sopra citati, ponevano una grandissima attenzione nel riprodurre l’esatto abbigliamento richiesto per determinate figure.

Ad esempio, osservando le vesti indossate della Santa Giulia del Maestro di San Torpè, esposta nel Museo dell’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di Santa Giulia a Livorno, e gli indumenti di due virtù (fig. 16) facenti parte del pulpito di Giovanni Pisano nella Cattedrale di Pisa44, si ritrova sempre una tunica a mezze maniche, più corte dell’intero avambraccio (comunque coperto da una manica più aderente, che nella Santa Giulia è dello stesso azzurro della tunica); ed anche se il

pallio, prima descritto nel San Paolo della Fontana Maggiore di Perugia, compare

solo nelle vesti della santa dipinta dall’anonimo Maestro, tutte e tre le figure appena citate sono accumunate dallo stesso gesto di sorreggere, con la propria mano sinistra, le ridondanti stoffe che altrimenti ne impedirebbero i movimenti. Continuando, quindi, con la riflessione sopra accennata, questa grande attenzione per rappresentare nella maniera dovuta non solo le fisionomie dei personaggi, ma anche il loro vestiario, si era mantenuta in entrambi gli artisti a distanza di mezzo secolo l’uno dall’altro.

Più sopra, si è accennato che il Maestro di San Torpè, in alcune sue opere, era solito racchiudere i santi raffigurati entro delle strutture voltate. Riguardo a questo

43

M. Righetti, op. cit., p. 589.

44

(16)

argomento, si è già ricordato che A. De Marchi e L. Pisani avevano proposto che il Maestro si fosse ispirato al Crocifisso con i dolenti e due sante di Pietro Lorenzetti.

L. Pisani, però, nel suo articolo del 2010, ha suggerito anche altre fonti di ispirazione: gli antichi sarcofagi romani che si potevano trovare esposti nel camposanto pisano; il monumento funebre di Arrigo VII, eseguito da Tino di Camaino, la cui storia è stata ben ricostruita di Roberto Paolo Novello45, dove nella parte frontale del sarcofago con sopra il giacente sono raffigurati undici figure di Apostoli divisi da arcate pensili; ed infine il sepolcro dei conti della Gherardesca realizzato da Lupo di Francesco, le cui vicende sono state riassunte da M. Burresi46, dove tra l’altro al centro della cassa del defunto si trovano, divisi da archetti, ai lati i busti della Madonna e di Giovanni, ed al centro di nuovo il busto di un Cristo in pietà come quello già analizzato nel pergamo di Giovanni Pisano e nel polittico di Simone Martini.

Dato però, che secondo diversi studiosi il Maestro di San Torpè durante il suo percorso come artista si sarebbe avvalso anche di alcune proposte pittoriche provenienti da Firenze, facendo così presupporre almeno una sua visita nella futura culla del Rinascimento, si potrebbe tentare di aggiungere un ulteriore esempio a quelli appena menzionati. Si tratta di un bassorilievo in marmo riproducente una

Annunciazione (fig. 17), di cui non è conosciuta la collocazione originaria, ma che

nel 1751 si trovava sicuramente nel chiostro del convento di Santa Maria Maggiore a Firenze47. Fu acquistata dalla collezione Gigli-Campana per il Victoria and Albert Museum di Londra, e forse si tratta di un paliotto o antependium per un altare, e che secondo lo studioso “…suole essere posto in dipendenza di Nicola Pisano e

45

R. P. Novello, Sarcofago e giacente di Arrigo VII, in I marmi di Lasinio: la collezione di sculture medievali e moderne nel Camposanto di Pisa, a cura di C. Baracchini, Firenze, 1993, pp. 216-218

scheda 46.

46

M. Burresi, Sepolcro dei conti della Gherardesca, in I marmi …, cit., pp. 229-231 scheda 56.

47

(17)

specialmente dell’arte di Arnolfo…”48

, due nomi che sicuramente avrebbero attirato l’attenzione del Maestro su questa lastra marmorea. Al centro del bassorilievo si trova un’edicola con colonne tortili, in cui era stata inserita posteriormente la figura intera in piedi di un Redentore benedicente49 oggi non più presente nell’opera. Ovviamente non si vuole affermare con certezza che il Maestro di San Torpè si rifece a questo bassorilievo, ma piuttosto si vuole suggerire che per questo anonimo pittore, così attento alla scultura della sua epoca oltre che a quella anteriore, vi erano molti altri esempi, oltre a quelli citati, da cui poter attingere la singolare idea di una gabbia architettonica all’interno di un dipinto.

D'altra parte, come si è accennato all’inizio, non erano state solo la pittura o la scultura ad ispirare l’anonimo pittore. Ad esempio, nel ciborio di Arnolfo di Cambio in San Paolo fuori le mura a Roma, a cui Anna Maria D’Achille50

ha dedicato un articolo sul restauro mimetico dell’opera in seguito all’incendio della chiesa del 1823, l’elemento centrale dei timpani che imita i grandi rosoni francesi (fig. 18), richiama nel suo disegno il centro del retro di una spilla veneziana (fig. 19), esposta in una teca con altri rarissimi gioielli trecenteschi, in una delle sale al piano superiore del Museo Civico di Castelvecchio a Verona51. Come sopra, sia il rosone del Ciborio di Arnolfo sia il retro della spilla vogliono essere esempi generici di un motivo piuttosto comune che poteva essere ritrovato in diverse forme d’arte. Ciò che si vuole evidenziare è come la forma riprodotta da questo elemento decorativo, che ricorda un fiore con petali a goccia racchiuso entro un cerchio, assomigli moltissimo al motivo

48 Ibidem, p. 246. 49 Ibidem, p. 249. 50

A. M. D’Achille, Il ciborio di San Paolo fuori le mura tra autografia e restauro mimetico, in Arnolfo di Cambio e la sua epoca. Costruire, scolpire, dipingere, decorare. Atti del Convegno Internazionale di Studi. Firenze-Colle di val d’elsa. 7-10 marzo 2006, a cura di V. Franchetti Pardo,

Roma, 2006, pp. 157-166.

51

(18)

centrale della spilla che chiude il manto della Madonna col Bambino del Maestro di San Torpè (fig. 20), custodita dal Museo Magnin di Digione.

2.2. Le “arti minori”: oreficeria, stoffe e vestiti.

Sino a questo punto si è osservato che la città di Pisa, tra il XIII e d il XIV secolo, fu protagonista di una delle fasi più importanti della storia della scultura medievale. Ma in quei due secoli, la città toscana deteneva un altro primato a cui si era indirettamente accennato prima con l’esempio della spilla veronese: l’oreficeria. Una spilla è un oggetto di uso comune, per cui anche se il Maestro non fosse entrato in contatto diretto con quella appena citata, ci sarebbe comunque la possibilità che ne avesse osservata un’altra riproducente lo stesso disegno, o quantomeno un’oggetto simile. Su questo argomento bisogna considerare anche che il Maestro di San Torpè, come tutti i pittori dell’epoca, per le decorazioni in oro delle sue tavole dipinte, ad esempio nei nimbi delle figure sacre, nelle fasce che orlano i manti delle Madonne, od altro ancora, si rivolgeva a coloro che praticavano il mestiere di “battiloro”. Quindi, attraverso queste ultime figure il Maestro poteva avere avuto dei contatti diretti con gli orefici dell’epoca ed i loro lavori, ed è più che possibile, anzi sarà dimostrato, che egli rimase affascinato in particolar modo dalle figurazioni nei piccoli smalti che completavano questi oggetti in oreficeria. Elisabetta Cioni52 ha scritto un libro dedicato ai più famosi Maestri orafi senesi che operarono tra il Duecento ed il Trecento, e ai più importanti manufatti di questa arte. Attraverso le immagini di alcuni dei particolari delle opere descritte nel volume sopra citato,

52

(19)

saranno presentate delle forme che ricompaiono nelle tavole del Maestro di San Torpè, e non solo.

Delle opere dell’anonimo Maestro, si potrebbe cominciare ad esaminare la spilla che chiude il mantellino del Bambino nella tavola dipinta della chiesa di San Torpè, la cui forma esterna quadrilobata ricorda la spilla della Madonna di Digione, ma al cui centro è raffigurato, invece di un rosone, un volatile voltato di tre quarti (fig. 21) che sembra stia per spiccare il volo, molto simile a quello riprodotto nell’elsa della spada del San Giuliano nel Courtauld Institute of Art di Londra, anche se in quest’ultimo l’angolazione dell’animale è leggermente diversa (fig. 22). Anche l’elsa della spada del santo propone la stessa forma quadrilobata della spilla, salvo per la mancanza di un lato a causa della spada. Invece, nella spilla del San Giuliano, la cui forma esterna ripete quella quadrilobata completa, ma in più evidenziata da delle linee scure, nel centro compare un’aquila quasi del tutto identica a quella “imperiale” (fig. 23) citata nel precedente capitolo come l’unica figura riconoscibile nei “velari” che decoravano la parete dell’abside del Duomo di Pisa, in cui era posizionato il monumento funebre di Arrigo VII. Occorre dunque aprire qui una piccola parentesi su questo argomento.

Dal libro già consultato di M. Burresi ed A. Caleca sugli affreschi medievali presenti a Pisa, si legge che i “velari”, oltre a rappresentare scene figurative, erano comunemente adoperati per adornare con motivi geometrici, tralci vegetali, imitazioni di paramenti murari o di stoffe, non solo le pareti delle chiese ma anche quelle dei palazzi. Tra gli esempi forniti dai due studiosi, vengono citati palazzo Lanfranchi e la chiesa di San Michele in Borgo, un tempo decorata da falsi tendaggi ad orbicoli o quadrettati datati al XIII secolo53; in questa chiesa le volte della cripta,

53

(20)

indicata nel testo da M. Burresi ed A. Caleca come inaccessibile perché invasa dall’acqua, furono designate dai due studiosi come il punto in cui la decorazione ad affresco, forse risalente addirittura al XII secolo, si era meglio conservata, esibendo così una serie di orbicoli includenti animali reali e fantastici (fig. 24), che dovevano imitare le stoffe preziose di fabbricazione bizantina o islamica, possedute nella Pisa dell’epoca, oltre che dai tesori delle chiese, anche dai cittadini più ricchi54

.

Si è dunque appena dimostrato, ancora prima di presentare i manufatti in oreficeria, come alcune figurazioni fossero in comune almeno tra gli affreschi, le stoffe e la pittura su tavola. Più difficile è dire da quale di esse si originarono queste immagini. Sicuramente le stoffe orientali potrebbero aver contribuito molto, ma come si è già accennato anche l’oreficeria in questo momento aveva raggiunto dei livelli straordinari per cui è molto difficile che non producesse alcun impatto sulle altre arti. D'altronde la stessa forma quadrilobata delle spille dipinte dal Maestro nelle sue opere, ricorda le placchette di alcuni smalti che saranno ora presentati attraverso il citato libro di E. Cioni.

L’artista, ad esempio, per le aquile dipinte nella spilla del Bambino di San Torpè e nell’elsa del San Giuliano, avrebbe potuto ispirarsi agli smalti con rapaci (fig. 25), che decorano il Pastorale conosciuto come “Baluco di Benedetto XIII” del Museo Arqueológico Nacional di Madrid55. Secondo le ricerche di E. Cioni questo oggetto, poteva forse provenire da Avignone, dove nello stesso periodo avrebbe lavorato ad un Pastorale simile un orafo senese della stessa generazione e dalla cultura simile a quella di Duccio di Donato56. Di nuovo una dimostrazione di un forte interesse culturale verso questa arte, per cui con l’attraversamento delle frontiere estere degli oggetti o degli stessi artisti, le conoscenze si arricchivano e divenivano

54

Ibidem, pp. 154-159.

55

E. Cioni, op. cit., p. 124.

56

(21)

comuni. Ecco come la fisionomia di questo volatile sarebbe potuta giungere al Maestro. Un altro esempio invece, si avrebbe attraverso l’Ostensorio in argento dorato del Tesoro della Co-Cattedrale di San Giovanni a Valletta di Malta57, attribuito da E. Cioni a Duccio di Donato, dove, nell’elemento di raccordo tra la base ed il fusto dell’opera, vi sono delle placchette quadrate con smalti champlevè realizzati su supporto d’argento, nuovamente rappresentanti uccelli o meglio rapaci (fig. 26)58. Infine, il Pastorale proveniente dall’Abbazia di San Galgano presso Chiusdino ed ora a Siena59, per la studiosa importantissimo perché collegherebbe tra di loro manufatti di diversa tipologia (tra i quali un polittico di Pietro Lorenzetti per la Pieve di Santa Maria ad Arezzo del 1320)60. Come descritto nel testo di E. Cioni61, le placchette si integrano perfettamente nella struttura dell’oggetto, specialmente nella decorazione del riccio: qui una serie di quadrilobi (di forma analoga a quella delle spille dipinte dal Maestro), entro cui si ritrovano le solite aquile (fig. 27), in questo caso forse più simili a quella del San Giuliano londinese, mano a mano si restringono verso l’alto.

Quello dell’aquila, era comunque un motivo che si ritrovava spesso anche in un altro tipo di manufatto metallico: le monete. Nel 2010 è stato realizzato uno splendido volume da Monica Baldassarri inerente proprio le monete del Comune di Pisa dal XII secolo all’inizio del XV. La studiosa vi spiega che, purtroppo, sino alle sue ricerche pubblicate in questo volume, gli studi sulla monetazione del Comune di Pisa erano stati a lungo offuscati da quelli inerenti le zecche di Lucca e, soprattutto,

57 Ibidem, pp. 173-178. 58 Ibidem, p. 173. 59 Ibidem, p. 417. 60 Ibidem. 61 Ibidem, p. 424.

(22)

Firenze62. In questa opera, salta subito all’occhio che i vari tipi di monete adoperate nell’arco di quei secoli, raffiguravano quasi sempre, salvo alcune eccezioni, o una croce, o una Madonna col Bambino, oppure un’aquila. Oltre alle monete, su cui si ritornerà in seguito, M. Baldassarri espose nel suo testo anche il sigillo del Comune di Pisa, oggi conservato nel Museo Nazionale di San Matteo, dove ugualmente è raffigurata un’aquila ad ali spiegate63

, segno della grande importanza data al simbolo riprodotto quasi ovunque.

Tornando alla tavola del Maestro col San Giuliano, si è accennato che la sua spilla assume un disegno più marcato, simile al medaglione quadrilobo riproducente l’Angelo simbolo di San Matteo (fig. 28) collocato nel verso della Croce da altare scomparsa dalla Cattedrale di Tortosa64, definita anche Croce “dels Ileonets”, forse realizzata da Duccio di Donato o da un artista dallo stile molto simile al suo65. Riguardo invece alla forma della croce che il santo tiene in mano, si possono citare le seguenti croci: il verso della Croce decorata da placchete smaltate che si trova nel Museo Nazionale del Bargello di Firenze66, per lo studioso Leone de Castris realizzata da Guccio di Mannaia (fig. 29)67; la Croce-reliquario della Cattedrale di Santa Maria Assunta a Sarzana68, che E. Cioni proponeva di ricondurre ad una produzione pisana (fig. 30)69; la Croce ornata da placchette smaltate del Victoria and Albert Museum di Londra70, che sempre L. de Castris voleva attribuire al Maestro dei Medaglioni Vaticani (fig. 31) 71.

62

M. Baldassarri, Zecche e monete del Comune di Pisa. Dalle origini alla seconda Repubblica: XII

secolo-1406, Vol. I, Ghezzano (Pi), 2010, p. 17.

63

Ibidem, p. 19 figura 3

64

E. Cioni, op. cit., p. 178-180.

65 Ibidem. p. 178. 66 Ibidem, p. 86. 67 Ibidem,. 68 Ibidem, p. 144. 69 Ibidem,. 70 Ibidem, p. 365. 71 Ibidem, .

(23)

L’elenco degli oggetti di oreficeria che, senza alcun dubbio hanno incuriosito il Maestro di San Torpè potrebbe continuare all’infinito. Si citeranno dunque solo pochi altri esempi che vogliono avvalorare quanto sino ad ora affermato e che presentano ulteriori particolari visibili anche nelle opere dell’anonimo artista.

Nella Croce-reliquario detta di Roberto il Guiscardo del Museo Diocesano di Salerno72 si trova uno smalto (fig. 32) che riproduce lo stesso Cristo morto già osservato nella tavola dipinta di Providence del Maestro, nel polittico di Simone Martini, nel pergamo di Nicola Pisano e nel sepolcro dei conti della Gherardesca eseguito da Lupo di Francesco. Invece, sia nell’Ostensorio prima citato del Tesoro della Co-Cattedrale di San Giovanni a Valletta di Malta (fig. 33) sia nel Calice di Lipnice del Museo di Arti Decorative di Praga73 (fig. 34) sia nel Calice firmato da Duccio di Donato e soci dell’Istituto “Bambin Gesù” di Gualdo Tadino74

(fig. 35) è inserito uno smalto con una figura la cui aureola, fuoriuscendo dall’elemento rotondo che la dovrebbe contenere, crea l’impressione che essa possa venire fuori da un momento all’altro, come nell’esempio già citato del Tondo di Empoli, contribuendo dunque a contestualizzare lo stesso effetto osservato nel Cristo benedicente di Avignone del Maestro.

Anche la scena riprodotta dal Maestro nella tavola dipinta con la Crocifissione di ubicazione sconosciuta, oltre che dai dipinti già citati, avrebbe potuto trarre ispirazione da oggetti orafi. Ad esempio, dal Sigillo della Società dei Raccomandati del Santissimo Crocifisso di Siena conservato a Palazzo Venezia a Roma (fig. 36)la cui cornice archiacuta è occupata da una crocifissione, mentre in basso sono relegati, provvisti di saio e cordone per flagellarsi, due rappresentanti di questa confraternita

72 Ibidem, p. 335, 336. 73 Ibidem, p. 22, 24. 74 Ibidem, p. .160-177.

(24)

che venne fondata nel 129575, oppure, dalla Placchetta con la Crocifissione di una collezione privata ad Arezzo (fig. 37), che purtroppo E. Cioni presentava in un cattivo stato di conservazione e piuttosto danneggiata nei volti delle figure76.

Per finire, è necessario attirare l’attenzione anche sulla splendida Santa Maria Maddalena all’interno dello smalto (fig. 38) che decora la parte terminale del recto della Croce conservata nel Museo del Louvre di Parigi, anche questa attribuita da L. de Castris al Maestro dei Medaglioni Vaticani77. La figura ricorda non tanto la Santa

Maria Maddalena della tavola dipinta che De Marchi nel suo saggio del 1998 aveva

tentato di attribuire al Maestro di San Torpè, ma piuttosto il San Ranieri dell’Art Museum di Saint Louis dell’anonimo artista, sia per la folta e morbida pelliccia, di una sinuosità pari a quella dei capelli della santa, sia per la posa dalle mani serrate in preghiera all’altezza del petto, esattamente come nel San Ranieri scolpito da Tino di Camaino nella tomba dello stesso santo.

Molto vicina all’ultime opere citate si può indicare un’altra scultura in legno: la piccola Piangente del Santuario di San Giovanni Battista a Calcinaia (fig. 39), descritta nel saggio di Michele Tommasi inerente nove crocifissi lignei del primo Trecento appartenenti alla tipologia del “Crocifisso doloroso”78

. Da quanto si evince dal testo dello studioso, tale tipologia di scultura lignea era solita essere accompagnata da questa e da altre figure di dolenti. Ciò che colpisce di questa Piangente lignea è la rigida posa in preghiera delle mani giunte, nuovamente identica a quella delle opere sopra citate. Dunque, si potrebbe affermare che spesso anche le figure minori rappresentate in scene di carattere religioso, nonostante la diversità delle dimensioni dei materiali e dei materiali adoperati nel realizzarle, erano 75 Ibidem, pp. 66, 68, 71. 76 Ibidem, p. 83. 77 Ibidem, p. 365. 78

M. Tomasi, Il Crocifisso di San Giorgio ai Tedeschi e la diffusione del “Crocifisso doloroso”, in Sacre Passioni…, op. cit., p. 61.

(25)

accumunate da una medesima iconografia, che forse in alcuni casi, poteva derivare da una fonte comune.

Più sopra, si è accennato agli studi realizzati da M. Baldassarri sulle monete che circolarono a Pisa tra la prima e la seconda Repubblica, corredati da un bell’archivio fotografico. Attraverso la ricerca della studiosa, è stato possibile notare come spesso le Madonne col Bambino raffigurate su queste monete, si richiamassero all’iconografia dello stesso soggetto nella coeva pittura. Secondo M. Baldassarri, nel grosso minore, un tipo di moneta prodotto all’incirca tra il 1316 ed il 1325, la figura della Vergine con il Bambino era divenuta più elegante ed aveva cominciato ad assumere profondità e movimento (fig. 40)79. Esattamente, nel suo trattato si può leggere: “La posizione leggermente volta a destra, i piedi appoggiati su due piani

spaziali differenti come il trono reso quasi in prospettiva ed il panneggio più mosso non possono non ricordare le madonne di Cimabue, che non a caso fu attivo a Pisa proprio tra gli ultimi decenni del XIII ed i primi anni del secolo successivo. Altre caratteristiche rimandano poi agli arricchimenti trecenteschi del ‘classico’ motivo della Madonna Hodighitria, che si notano ad esempio nell’opera del Maestro di San Torpè…In questo caso infatti il velo della Vergine è più aperto e lascia intravedere la veste, impreziosita da gioielli, così come il nimbo del Bambino, che mostra una folta chioma riccioluta.” 80. In quest’ultimo caso si è potuto esaminare anche una

inversione di tendenza rispetto a quanto è stato scritto sinora, ossia come questa volta sia stato lo stile adoperato dal Maestro di San Torpè ad influenzare un altro oggetto di uso estremamente quotidiano, non viceversa. D'altronde la pittura rimaneva una delle arti maggiori dell’epoca e non si poteva toglierle ogni merito al riguardo.

79

M. Baldassarri, op. cit., p.142.

80

(26)

È possibile però analizzare nelle tavole del Maestro un ulteriore elemento, a cui è già stato accennato nel corso di questo elaborato. All’inizio, si è ricordato come L. Pisani abbia cercato di datare la Madonna di Campiglia Marittima all’ultimo decennio del Duecento attraverso la stoffa rappresentata sullo sfondo dell’opera che, come De Marchi aveva notato nel 1998, ripete il motivo della Madonna dei

Francescani di Duccio di Buoninsegna. Ma, nessuno degli articoli citati nel

precedente capitolo ha riportato che un analogo motivo quadrettato torna nella stoffa che copre la tunica del San Bartolomeo esposto nel Museo Nazionale di San Matteo di Pisa. A parte qualche piccolo particolare nella decorazione, le stoffe delle tre opere appena chiamate si differenziano principalmente per il colore adoperato: la stoffa dell’opera di Duccio è di colore verde (fig. 41), quella della Madonna di Campiglia Marittima rossa (fig. 42), mentre questa di San Bartolomeo è rosa (fig. 43).

Nel 1967 fu pubblicato da B. Klesse81 un volume dedito ad una accurata storia dei motivi nell’arte tessile medievale, corredata da un catalogo dove sono riportati esempi di uso di un particolare motivo tessile all’interno di specifiche opere d’arte datate. Tra i motivi tessili schedati nel catalogo, si trovano degli esempi che possono ricordare quelli riprodotti dal Maestro di San Torpè in alcune delle sue tavole. Ad esempio, nel catalogo il motivo N.1 (fig. 45) da una opera di Giotto datata intorno al 1296-1305, raffigurante una serie di cerchietti sfalsati, che intrecciandosi formano all’interno di ogni stesso cerchio un motivo a stella dai lati curvilinei, decorata al suo centro da un motivo geometrico (oltre che da piccoli gigli posizionati all’interno degli incroci), ricorda, tranne che negli ultimi dettagli decorati appena elencati, il motivo della stoffa che si trova alle spalle della Madonna in trono col Bambino nel Museo Nazionale di San Matteo a Pisa (fig. 44). Questa Maestà del Maestro sarebbe

81

(27)

stata eseguita, secondo gli studiosi, in un periodo che spazia tra il primo ed il terzo decennio del Trecento, con una preponderanza verso il 1320 date le affinità con il polittico di Simone Martini ed il sistema meccanico di punzonatura. L’affinità nel motivo della stoffa col Giotto assisiate dimostra dunque la lunga durata di certe mode sul mercato. Ricordano, invece, la stoffa alle spalle della Madonna del North Carolina Museum of Art di Raleigh del Maestro (fig. 46), ben due modelli del catalogo: il N. 24 (fig. 47) da un’opera del Maestro di Badia a Isola ricondotta al nono decennio del Duecento ed il N. 46 (fig. 48) da un lavoro di Spinello Aretino attribuita all’ultimo decennio del Trecento, dove croci divise in quattro parti da motivi geometrici e semi geometrici, disposte in file verticali ed orizzontali, formano nella loro unione una stella a otto punte decorata all’interno da motivi floreali. Un motivo, questa volta, riproposto a distanza di quasi un secolo, prima e dopo questa opera del Maestro di San Torpè, che, come si può leggere nella relativa scheda, va datata, secondo gli studi eseguiti su di essa, tra il primo decennio del Trecento ed il 1320.

Piuttosto simile al motivo centrale della spilla del Bambino nella Tavola della pisana chiesa di San Torpè (fig. 21) considerata dagli studiosi per lo più eseguita nel secondo decennio del Trecento, è il modello tessile N. 228 (fig. 49) del libro della Klesse, utilizzato dalla scuola toscana nell’ultimo quarto del Duecento, dove linee semplici creano cerchi concentrici al cui interno è raffigurata un’aquila qui definita araldica. Altri due motivi, il N. 229 (fig. 50) usato da scuola pisana del sesto decennio del Duecento ed il N. 230 (fig. 51) adoperato da scuola romana del terzo decennio del Trecento, mostrano entro dei cerchi delle aquile araldiche raffigurate frontalmente come quella nella spilla del San Giuliano di Londra (fig. 22), che secondo A. De Marchi era stato eseguito tra il 1315 ed il 1320. Purtroppo, nel libro di

(28)

Klesse nessuno dei motivi da lei catalogati ricordano le tre stoffe quadrettate prima esaminate.

Come termine di questo percorso, dopo aver esaminato i motivi delle stoffe che hanno ispirato il Maestro di San Torpè, si potrebbe procedere con l’analisi del vestiario dipinto dall’anonimo artista nei personaggi sacri raffigurati nelle sue tavole. All’interno della nostra società, ancora oggi, come allora, è sufficiente un semplice sguardo per distinguere l’abito indossato da un laico da quello di un ecclesiastico e ritrovare, all’interno di queste due categorie, ulteriori sottocategorie che distinguono i vestiti dei primi in civili e militari, privati e pubblici, e quelli dei secondi in ecclesiastici e liturgici.

Fra le figure realizzate dal Maestro di San Torpè, è piuttosto semplice riconoscere i santi più antichi, non solo tramite gli attributi, ma soprattutto dall’abbigliamento composto da una tunica e dal pallio. Non saranno pertanto prese in esame qui le vesti indossate dalla Santa Giulia di Livorno, dal San Paolo del Museo di San Matteo a Pisa, dal San Ranieri nel Saint Louis Art Museum. Lo stesso dicasi per le vesti del San Bartolomeo nel Museo pisano, nella tavola di Raleigh ed in quella di Treggiaia. Non saranno prese in esame neppure quelle del San Giovanni Evangelista sul bracciolo destro del trono della Maestà e del singolo Evangelista conservati nel Museo pisano di San Matteo, oppure quelle del San Giovanni di ubicazione sconosciuta già Locko Park. Lo stesso dicasi, infine, per le vesti dei due San Giovanni Battista del Museo di Saint Louis, per il Battista nella tavola di Treggiaia e per quello nella tavola con la Madonna e due angeli adoranti di ubicazione sconosciuta.

Gli abiti di nostro interesse, invece, sono le vesti liturgiche del San Nicola sul bracciolo sinistro del trono della Maestà del Museo pisano (fig. 52), del San Lorenzo

(29)

nella tavola di Treggiaia (fig. 53), dei Santi Lorenzo e Stefano nella tavola con la Madonna ed i due angeli adoranti di ubicazione ignota (fig. 54), del San Lorenzo di ubicazione ignota (fig. 55). Saranno esaminate anche le vesti ecclesiastiche dei Santi Francesco e Domenico nella tavola di Providence (fig. 56) e quelle laicali del San Giuliano di Londra (fig. 57). Per ognuno di questi santi, di cui esistono diversi omonimi, è stata per prima cosa identificata l’esatta personalità rappresentata nella tavola dipinta dall’artista, attraverso i volumi della serie Bibliotheca Sanctorun, una collana di quattordici volumi pubblicati a Roma tra il 1962 ed il 1987, e l’individuazione dei relativi attributi illustrati nel volume di G. Kaftal del 1952.

L’analisi delle vesti indossate è stata condotta tramite uno dei manuali di M. Righetti editi dalla fine degli anni cinquanta alla fine degli anni sessanta.

Riguardo alla piccola figura di San Nicola in piedi sul bracciolo sinistro del trono della Madonna in trono col Bambino del Museo di San Matteo, non vi sono dubbi sul suo nome in quanto lo si trova scritto sul piedistallo del bracciolo che lo sostiene, ma si può anche precisare che senza alcun dubbio si tratti di San Nicola Vescovo di Mira e di Bari82. Questa piccola figura dipinta dal Maestro di San Torpè non mostra alcuno dei suoi attributi (tre palle d’oro; tre borse d’oro ai suoi piedi; in trono benedicente un bambino)83, ma è sicuramente identificabile col grande taumaturgo, poiché quest’ultimo è sempre rappresentato a capo scoperto, in vesti vescovili greche, con un libro o la croce a doppia traversa nella mano sinistra, mentre benedice con la destra84, esattamente come nel nostro caso. Egli indossa come sottoveste la bianca alba detta volgarmente camice, ossia l’antica tunica romana, sacerdotale e manicata, la cui falda inferiore nel medioevo era divenuta molto larga

82

Nicola, in Bibliotheca sanctorum, Vol. IX, Masabki – Ozanam, Roma, 1967, p. 923.

83

G. Kaftal, op. cit., p. 1094-1093.

84

M. C. Celletti, Nicola: V. Iconografia, in Bibliotheca sanctorum, Vol. IX, Masabki – Ozanam, Roma, 1989, pp. 941.

(30)

mentre le maniche e la vita erano assai strette85. Dopo il X secolo, tale veste cominciò ad essere ornata da ricami e stoffe preziose lungo l’intera falda ed i polsi, sino a che, per dare una maggiore libertà di movimento, le decorazioni vennero ridotte a due quadrati di stoffa applicati sul basso della parte anteriore e posteriore (come si vede nel San Nicola dipinto dal Maestro di san Torpè) nonché alle due estremità delle maniche86. La sopravveste del Vescovo, invece, consiste nella pianeta o casula, inizialmente comune a tutti i ministri sacri, dalle forme molto larghe sino a quando nel X-XI secolo la parte anteriore venne accorciata a forma di semicerchio od a punta87. In questo indumento un sistema ornamentale certo compare solo nell’XI secolo: una fascia mediana risale verso la nuca ma all’altezza delle spalle si divide in due braccia oblique (Y: crux bifida, trifida), che girando attorno all’apertura del collo si riuniscono sul petto per scendere fino all’orlo inferiore88. Questa fascia nel XIII secolo, in Francia e Germania, piuttosto che essere ricamata con ornati o figurazioni umane presenta una croce a braccia orizzontali, mentre nello stesso periodo in Italia prevale una semplice fascia verticale su entrambe le facce, la stessa raffigurata nel San Nicola della tavola dipinta presa in esame89.

Come si può ben notare, in ben tre delle tavole inizialmente citate compare la figura di San Lorenzo90, che esattamente come quella del protomartire Santo Stefano91 (raffigurato nella Madonna col Bambino fra due Angeli adoranti di ubicazione sconosciuta) non mostra in nessuno dei tre casi il suo attributo (San Lorenzo: in trono, con la graticola, con in mano un vessillo o un incensiere o un

85

M. Righetti, op. cit., p. 592.

86 Ibidem, pp. 592-593. 87 Ibidem, pp. 596-597, 600. 88 Ibidem, pp. 602-603. 89 Ibidem, p. 603. 90

Lorenzo, in Bibliotheca sanctorum, Vol. VIII, Liadan – Marzio, Roma, 1966, pp. 108-129.

91

Stefano, in Bibliotheca sanctorum, Vol. XI, Ragenfreda – Stefano, Roma, 1968, pp. 1376-1392. Cfr. G. Kaftal, op. cit., p. 1116.

(31)

calice pieno d’acqua; Santo Stefano: con pietre sulla testa, con in mano un incensiere con o senza la scritta “Agnus Dei”, accanto ad una pietra, con una ferita sulla testa)92

. In ognuna delle tre tavole, tuttavia, sia che i due santi siano rappresentati a figura intera o a mezza figura, e nonostante le pessime condizioni del San Lorenzo di Treggiaia, essi sono sempre riconoscibili come diaconi per la veste da loro indossata. Entrambi, indossano come sottoveste, l’amitto o anagolaium (che anche nell’uso moderno i ministri sacri mettono sulle spalle e attorno al collo prima di indossare l’alba, ossia un panno a forma oblunga che sin dal XII secolo venne ornato con bordi ricamati in oro od un gallone di stoffa che ripiegato sopra di esso forma un elegante collare, esattamente come quello rappresentato nelle tavole dipinte precedentemente elencate)93 e l’alba prima descritta. Come sopravveste, invece, essi vestono la dalmatica, una sorta ampia tunica manicata che dopo il Mille venne raccorciata e dal XII secolo aperta sui fianchi 94. Nei Santi Stefano e Lorenzo della tavola di ubicazione sconosciuta, infatti, le vesti superiori mostrano queste aperture nei fianchi e nel tentativo di esaltare ulteriormente questo particolare, l’artista dipinse i lembi della dalmatica arricciolati sul davanti, evidenziando così il colore della fodera dell’indumento, che si trova ripetuto anche all’interno delle larghe maniche. Col tempo i rossi clavi che decoravano questa sopravveste, vennero sostituiti con delle fasce ricamate (visibili nei due santi dipinti all’altezza del petto e vicino all’orlo in basso della dalmatica ), poi sostituite a loro volta dal XV secolo da bande orizzontali applicate in vario numero95.

92

G. Kaftal, op. cit., p. 1116.

93

M. Righetti, op. cit., pp. 590-593.

94

Ibidem, pp. 605-606.

95

(32)

Nella tavola di Providence, estremamente facili da riconoscere sono, sia San Francesco D’Assisi96

, fondatore dei tre Ordini francescani, che San Domenico97, fondatore dell’ordine dei frati predicatori, in quanto i loro tipici attributi sono proprio gli abiti che indossano, un saio marrone e la corda bianca annodata ai fianchi per il primo98 ed un nero mantello incappucciato sopra una bianca tunica per il secondo99.

L’ultimo santo rimasto da esaminare è il più difficoltoso di tutti, data l’incertezza che suscitano i suoi attributi. Poiché, però, è raffigurato come un giovane cavaliere munito di spada (possibile attributo del martirio), con indosso un indumento chiuso sul davanti da una spilla, forse lo si può ricondurre, in particolare, a due giovani santi. Uno dei due è il santo Giuliano di Brioude100, originario di Vienne. Il martire era un soldato che serviva nell’armata di s. Ferreolo. Durante una persecuzione fuggì a Brioude, ma essendo ricercato, si presentò spontaneamente ai soldati che lo decapitarono. Ma, dato che il santo raffigurato dal Maestro di San Torpè non indossa delle vesti romane, quasi certamente rappresenta Giuliano l’Ospedaliere101

. Il santo di nobile lignaggio, durante una battuta di caccia, fu avvisato da una cerva che egli stesso avrebbe ucciso i propri genitori. Allontanatosi da casa per questa ragione e sposatosi con una castellana, la tragedia ebbe modo sventuratamente di compiersi lo stesso. Per penitenza e spirito di carità, con l’aiuto della moglie, San Giuliano costruì sulle rive di un fiume un ospedale, da cui derivò il suo soprannome. La sua immagine più diffusa lo propone vestito da cacciatore con la spada al fianco ed un falcone in pugno.

96

Francesco, in Bibliotheca sanctorum, Vol. V, Erizzo - Galdino, Roma, 1964, pp. 1052- 1150.

97

Domenico, in Bibliotheca sanctorum, Vol. IV, Ciro – Erifrido, Roma, 1964, pp. 692-734.

98

G. Kaftal, op. cit., p. 1161.

99

G. Kaftal, op. cit., p. 1159.

100

Giuliano, in Bibliotheca sanctorum, Vol. VI, Galena – Giustiniani, Roma, 1965, p. 1191.

101

(33)

Rappresentare dei santi contemporanei, sicuramente, per l’anonimo Maestro voleva dire provarsi in una esatta riproduzione dei dettagli anche meno importanti perché, a differenza delle immagini dei santi antichi, le vesti appena descritte venivano usate, comunemente nello spazio sacro e profano, per cui il fedele oltre a venerare il santo nel quadro, si ritrovava a tarare il tasso di realismo delle raffigurazioni in un serrato confronto con la realtà quotidiana.

Anche in questo campo, si è dimostrato che il Maestro di San Torpè fu un pittore molto accorto che conosceva bene i dettagli di ciò che riproduceva, come si può vedere in particolar modo nella raffigurazione delle vesti dei due diaconi della tavola di ubicazione ignota.

Riferimenti

Documenti correlati

Ultima modifica scheda - data: 2020/07/24 Ultima modifica scheda - ora: 13.56 PUBBLICAZIONE SCHEDA. Pubblicazione scheda -

Tipo thesaurus: Thesaurus AESS, Archivi dell'Immagine - Regione Lombardia THESAURUS [2 / 6].

Relativo allo strato più' recente ( risalente alla seconda metà del XVI secolo), troviamo, a destra della cena e non ben leggibile, la raffigurazione dell'Arcangelo

Denominazione struttura conservativa - livello 1: Fondazione Memoria della Deportazione Denominazione struttura conservativa - livello 2: Archivio fotografico. Tipologia

Pubblicazione scheda - data precedente pubblicazione: 2021/03/03 Pubblicazione scheda - ora precedente pubblicazione: 02.00.

Denominazione struttura conservativa - livello 1: Fondazione Memoria della Deportazione Denominazione struttura conservativa - livello 2: Archivio fotografico. Tipologia

Ultima modifica scheda - data: 2020/11/11 Ultima modifica scheda - ora: 16.00 PUBBLICAZIONE SCHEDA. Pubblicazione scheda -

Pubblicazione scheda - data precedente pubblicazione: 2021/03/03 Pubblicazione scheda - ora precedente pubblicazione: 02.00.. SUPPORTO COLLEGATO: AFRLSUP - SUP-4t060-0000689 [1