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Nel 1937 Evelyn Sandberg Vavalà assocerà alcune opere ad un nuovo anonimo artista da lei denominato Maestro di San Torpè

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CAPITOLO 1

Il Maestro di San Torpè:

vicenda critica

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1.1. Gli anni dell’equivoco: dal 1799 al 1934.

Nel 1937 Evelyn Sandberg Vavalà assocerà alcune opere ad un nuovo anonimo artista da lei denominato Maestro di San Torpè. Prima che questo pittore fosse ricondotto, dai diversi studiosi che se ne interessarono, fra gli artisti che avevano lavorato a Pisa e Siena, tra la fine del XIII e la prima metà del XIV secolo, le sue opere erano state spesso assegnate ad altri pittori o scuole locali. Un primo e lontano esempio di quanto appena detto, si ha alla fine del Settecento, quando Giovanni Mariti pubblicò alcuni volumi contenenti le descrizioni epistolari dei luoghi e delle chiese di maggiore interesse presenti nella zona delle colline pisane.

G. Mariti1, all’interno del Volume II del suo Odeporico o sia itinerario per le colline, nel capitolo nominato “Lettera V”, dopo un accurato esame della chiesa di Casciana Terme e delle sue condizioni, descrisse anche le opere ivi contenute, tra cui la cosiddetta Madonna del Rosario, ancora in loco: si tratta di un dipinto realizzato verso la fine del XVI secolo con figure di santi nel cui centro è inserito un tabernacolo contenente una più antica tavola ritagliata, che raffigura la Madonna col Bambino e Angeli (scheda 3), in seguito assegnata al Maestro di San Torpè, ma che all’epoca G. Mariti preferì attribuire all’Orcagna.

Nel 1924 Raimond Van Marle, ricondusse la Madonna col Bambino, che attualmente si trova nel North Carolina Museum of Art di Raleigh (North Carolina) (scheda 19), ma che all’epoca faceva parte della collezione della Duchessa Melzi d’Eril Barbi di Milano, all’ambito dei lavori di cerchia duccesca2.

Anche la Madonna in trono col Bambino e Angeli fra i Santi Nicola e Giovanni Battista (scheda 14), oggi assegnata con assoluta certezza al Maestro ed attualmente

1 G. Mariti, Odeporico o sia itinerario per le colline pisane, Vol. II, Firenze, 1799, p. 43.

2 R. Van Marle, The development of the Italian School of Painting, Vol. II, New York, 1970 (ristampa anastatica dell’edizione The Hague, 1924), p. 97.

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esposta nel Museo Nazionale di San Matteo di Pisa, può rappresentare un esempio di quanto sopra affermato.

Nel 1837, all’interno del catalogo, pubblicato da Bartolommeo Polloni3, di opere allora esposte nella I. e R. Accademia di Belle Arti di Pisa di Palazzo Pretorio4, la suddetta Madonna in trono col Bambino venne classificata come un’opera di Cimabue. Nel catalogo stesso era stato inventariato anche il San Bartolomeo che nel 1950 Giorgio Vigni ricondurrà al Maestro di San Torpè5.

Ancora nel 1906, l’opera, questa volta esposta nella seconda sala del Museo Civico di Pisa, fu schedata, sotto la supervisione di Augusto Bellini Pietri6, come un esempio di scuola di fiorentina del XIV secolo. Da tenere presente che nello stesso catalogo si trovano descritti, nella parte inerente la quinta sala, due santi a mezza figura con profeti nelle cuspidi, allora attribuiti a scuola senese, ma che nel 1973 E.

Sandberg Vavalà assegnerà al Maestro di San Torpè7.

In seguito, nel 1922 lo svedese Osvald Sirèn8, nel giudicare questa Madonna seduta su di un trono cosmatesco, allora catalogata n. 57 e contrassegnata dalla didascalia “Scuola Fiorentina”, la scambiò per una nuova opera del pittore lucchese Deodato Orlandi. L’errore fu causato dal confronto di questa tavola con un’opera certa del pittore lucchese, la Madonna della rosa (fig. 1), custodita nel medesimo museo9. Nonostante l’errata attribuzione, lo studioso riconobbe subito nella Madonna catalogata n. 57 una chiara influenza senese, derivante in particolar modo dalle Madonne di Duccio di Buoninsegna. In aggiunta, questa tavola dipinta gli ricordò in

3 B. Polloni, catalogo delle opere di pittura modelli in gesso ed altri oggetti riuniti dell’I. e R.

Accademia di Belle Arti di Pisa con alcune osservazioni sopra diversi lavori di scuola quali esistono tuttora o che sono esistiti nella stessa città con corredo di annotazioni istorico-artistico-critiche, Pisa, 1837, p. 21 scheda CX. 5.

4 S. Renzoni, Gli esordi dell'Accademia di Belle Arti di Pisa in "Bollettino Storico Pisano", LIX, Pisa 1990, p. 166.

5 B. Polloni, op. cit., p.17 scheda XC.

6 Catalogo del Museo Civico di Pisa, a cura di A. Bellini Pietri, Pisa, 1906, p. 66 scheda 18.

7 Ibidem, pp. 139 scheda 46, 140 scheda 50.

8 O. Sirèn, Toskanische Maler im XIII. Jahrhundert, Berlin, 1922, p. 126.

9 Ibidem, pp. 125-126.

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particolare una delle prime Madonne di Duccio, la Madonna dei Francescani (fig. 2), dove sono raffigurati tre francescani inginocchiati e dove il Bambino tende il braccio in ugual maniera a quello della tavola del Maestro di San Torpè10.

Infine, sempre riguardo a questa Madonna in trono col Bambino, nel 1927, il medievista Pietro Toesca11 respinse l’attribuzione di O. Sirèn sopra citata ma, come lui, si accorse di una serie di elementi derivanti dalla scuola di Duccio di Buoninsegna, per cui giunse alla conclusione che l’autore di questa tavola doveva esserne un seguace, anticipando così la strada poi percorsa da E. Sandberg Vavalà.

In un altro errore di attribuzione incorse anche Bernard Berenson12 nel 1932, quando assegnò al pittore, da lui convenzionalmente chiamato “Ugolino Lorenzetti”, la Madonna col Bambino esposta nella chiesa di San Torpè.

Più vicina all’itinerario seguito da E. Sandberg Vavalà, fu invece Liana Strenta13, che nel 1934 nella pieve di Latignano presso Cascina individuò una Madonna col Bambino e Angeli (scheda 13), in seguito entrata a far parte delle opere assegnate al Maestro di San Torpè. La tavola si trova attualmente esposta nel Museo pisano di San Matteo. Questa studiosa, in considerazione delle influenze esercitate da Siena nella prima metà del Trecento su tutta la Toscana (ed anche in altri luoghi come Napoli ed Assisi, grazie alla figura di Simone Martini) e sentite maggiormente a Pisa che a Firenze, visti i rapporti che la prima aveva avuto con l’arte bizantina, anticipò alla fine della sua analisi dell’opera il percorso che sarebbe stato poi esposto dalla Sandberg Vavalà nel 1937, ritrovando nel dipinto di Latignano elementi

10 Ibidem, p. 126.

11 P. Toesca, Il Medioevo, in Storia dell’arte italiana, Vol. I, Tomo III, Torino 1927, p. 1037 nota 42.

12 B. Berenson, Pitture italiane del Rinascimento: catalogo dei principali artisti e delle loro opere con un indice dei luoghi, traduz. italiana a cura di M. Cecchi, Milano, 1936 (ed. originale, Oxford, 1932), p. 294.

13 L. Strenta, Influenze senesi sull’arte pisana, in “Bollettino Storico Pisano”, anno III, n. 2, 1934, p.

1.

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riconducibili sia allo stile di Duccio di Buoninsegna che allo stile di Ambrogio Lorenzetti14.

1.2. La prima fase della critica: dal 1837 al 1959.

Come anticipato sopra, nel 1937, la studiosa E. Sandberg Vavalà pubblicò il suo articolo che diede inizio alla serie di studi, talvolta anche contrastanti tra loro, che hanno condotto il Maestro di San Torpè alla sua attuale posizione15. Detto articolo era teso alla descrizione di due tavole dipinte, entrambe rappresentanti una Madonna a mezzo busto con in braccio il Bambino, che la essa osservò nelle chiese pisane di San Francesco e di San Torpè. Inoltre, nell’articolo in questione erano state descritte altre tre tavole, ciascuna raffigurante un santo a mezza figura, due conservate nel Museo Nazionale di San Matteo a Pisa ed una conservata nel Museo di Altenburg in Turingia (Germania)16.

Il grande merito di questa studiosa fu l’intuizione che a realizzare tutte queste tavole fosse stata la medesima mano di un nuovo artista che compariva in quel momento sulla scena pisana, al quale fu necessario dare un nome convenzionale.

Infatti, la storica non era riuscita a scoprire chi si nascondeva sotto questo nuovo pittore, tuttora anonimo. Dovendo pertanto scegliere un appellativo, ella decise di far riferimento ad uno dei due nomi delle chiese in cui erano custodite le due principali tavole. Come dichiarò alla fine del suo articolo, la scelta cadde su quello che le apparve essere il più semplice, ossia San Torpè: da ciò la denominazione dell’artista come Maestro di San Torpè17. La sua analisi iniziò dalla tavola all’epoca collocata nel Convento di San Francesco, attualmente esposta nel pisano Museo Nazionale di

14 Ibidem.

15 E. Sandberg Vavalà, Some Partial Reconstructions II, in “The Burlington Magazine”, anno LXXI, 1937, p. 234.

16 Ibidem.

17 Ibidem.

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San Matteo, rappresentante una Madonna col Bambino (fig. 3), che essa ritenne essere certamente l’elemento centrale di un trittico o di un polittico a cinque scomparti raffigurante i quattro evangelisti. La storica durante le sue ricerche, inoltre, riuscì ad identificare uno dei possibili pannelli laterali di questa Madonna: la tavola rappresentante il San Giovanni Evangelista (fig. 4) che sin da allora si trova nel Lindenau Museum di Altenburg, da lei pubblicata nel medesimo articolo. Secondo E.

Sandberg Vavalà, queste ultime due opere erano state realizzate dalla nuova mano artistica da lei scoperta, ossia da un pisano locale appartenente alla scuola di Duccio di Buoninsegna, opere che in seguito saranno attribuite al pittore senese Memmo di Filippuccio18.

Per quanto riguarda l’altra principale tavola su cui si concentrò l’articolo, si deve subito segnalare un errore (segnalato anche da Mario Bucci19 nel suo saggio del 1962). L’immagine che fu pubblicata dalla storica non era in effetti quella della Madonna col Bambino esposta nella chiesa di San Torpè (scheda 10), ma quella di una tavola raffigurante lo stesso soggetto collocata nel Seminario Arcivescovile pisano di Santa Caterina (scheda 17). A prescindere da questo equivoco, ciò che conta veramente è che E. Sandberg Vavalà aveva già individuato un’altra opera del suddetto Maestro, o per lo meno la riteneva tale, sebbene non ne abbia parlato nel suo studio critico.

Chiusa questa parentesi, tornando alla Madonna di San Torpè, ella ipotizzò che i suoi laterali potessero essere il San Paolo col profeta Isaia nella cuspide ed il San Giovanni Evangelista col profeta Mosè nella cuspide (scheda 16) che oggi, come prima anticipato, si possono ammirare presso il Museo di San Matteo. Dall’esame di queste tre tavole, la studiosa riuscì ad individuare un'importante influenza stilistica proveniente dalla scuola di Duccio di Buoninsegna, influenza che contraddistingueva

18 Ibidem.

19 M. Bucci, Contributi al Maestro di San Torpè, in “Paragone”, anno XIII, n. 153, 1962, p. 8.

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la maggior parte opere del Maestro di San Torpè, assieme ad altri elementi distintivi che ricordavano la pittura dei fratelli Ambrogio e Pietro Lorenzetti20.

Dopo aver diviso tutte le tavole in due gruppi collegati rispettivamente alla chiesa di San Francesco e alla chiesa di San Torpè, proseguì nell’articolo con un confronto fra essi, dichiarando come le fosse stata subito evidente una differenza di qualità per cui il secondo gruppo risultava inferiore al primo. È probabile che, quando decise di attribuire le tavole del gruppo della chiesa di San Francesco al Maestro di San Torpè, fu forviata da alcuni particolari molto simili nei due gruppi di tavole; tra questi sono sicuramente elencabili la forma degli occhi caratterizzati da una pupilla a puntino e le mani contraddistinte da un indice separato rispetto al resto delle lunghe dita21.

Osservando ora i particolari sopra descritti, si può notare una maggiore somiglianza (specialmente negli occhi), fra la Madonna di Memmo di Filippuccio e la Madonna del Seminario Arcivescovile, per cui è lecito supporre che, durante la stesura del suo articolo, la studiosa stesse osservando anche questa tavola (Tab A).

Nel 1938, ossia l’anno successivo all’uscita dell’articolo di E. Sandberg Vavalà, Carlo Ludovico Ragghianti confermò tutte le ipotesi della studiosa sul nuovo pittore duccesco ed i vari collegamenti da lei proposti fra i due gruppi di dipinti22. Inoltre, suggerì come appartenenti al nuovo Maestro, altre due piccole opere. La prima è un trittico (91 x 182 cm.) raffigurante una Madonna col Bambino ed i Santi Giovanni Evangelista e Caterina (fig. 5), collocato nell’Ashmolean Museum di Oxford23. Egli lo indicò come già pubblicato da Tancred Borenius nel Burlington

20 Ibidem.

21 Ibidem.

22 C. L. Ragghianti, Notizie e letture: Burlington magazine, Novembre, in “Critica d’Arte”, anno III, n.

2, 1938, p. X.

23 Ibidem.

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Magazine del 192224, e da quest’ultimo classificato come un lavoro tipico della Toscana od Umbria della prima metà del XIV secolo. Nel 1949, lo stesso trittico fu pubblicato da Edward B. Garrison25 come lavoro (forse un pentittico) di un possibile artista pisano eseguito verso 1315-1325. Il trittico fu alla fine ricondotto da Angela Protesti Faggi26 alle esperienze pittoriche lucchesi del primo Trecento, finendo dunque con l’essere completamente escluso dal repertorio delle opere del Maestro di San Torpè. La seconda opera citata da C. L. Ragghianti (fig. 6) è un dossale allora in una collezione privata di Londra27 che, nella sua opinione, ostentava caratteristiche analoghe alle tavole scoperte da E. Sandberg Vavalà. Lo studioso affermò anche che alcune di queste caratteristiche erano perfettamente riconducibili allo stile pisano dell’epoca presa in esame. Purtroppo, non avendole specificate all’interno del suo articolo, non ci è dato di sapere a quali si riferisse in particolare.

Nello stesso volume in cui E. B. Garrison pubblicò il trittico sopra indicato, compariva anche un’altra opera oggi attribuita al Maestro di San Torpè: la tavola dipinta raffigurante Santa Giulia, due Angeli e le storie della sua vita28 (scheda 6), del Museo dell’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di Santa Giulia a Livorno, che lo studioso considerò realizzata da un pisano influenzato da Cimabue nel passaggio tra il XIII ed il XIV secolo. E. B. Garrison tentò anche di associare al medesimo artista un’altra opera, un crocifisso dipinto raffigurante un Christus Triumphans29 (fig. 7) completato lateralmente da due tavole raffiguranti episodi della sua vita. Questo crocifisso, che lo storico trovò esposto nel pisano Museo Nazionale

24 T. Borenius, Notes of varius work of art, in “The Burlington Magazine”, n. CCXXVIII, Vol. XL, 1922, p. 139.

25 E. B. Garrison, Italian Romanesque Panel Painting. An Illustrated Index, Firenze, 1949, p. 169 n.

439.

26 A. Protesti Faggi, Un episodio di protogiottismo a Lucca: la “Madonna della Rosa”, in “Antichità viva”, anno XXVII, n. 2, 1988, p. 6.

27 C. L. Ragghianti, Notizie e letture: aggiunta, in “Critica d’Arte”, anno III, n. 4-6, 1938, p. XXXVII.

28 E. B. Garrison, op. cit., p. 155 scheda 406.

29 Ibidem, p. 199 scheda 512.

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di San Matteo e che datò all’anno 1320, non fu mai più collegato alla mano del Maestro di San Torpè ed infatti oggi non figura tra le opere che gli competono.

Sempre riguardo alla tavola raffigurante Santa Giulia, nel 1952 fu realizzata da George Kaftal30 una scheda meno breve, che aggiunge ulteriori informazioni all’unica voce bibliografica compilata da E. B. Garrison: tali informazioni riguardano la leggenda della Santa e la descrizione delle scene laterali rappresentate nell’opera.

Lo studioso non accennò minimamente agli interventi a cui la tavola era stata sottoposta, e che furono invece citati da E. B. Garrison. Infine, pure lui non riuscì a comprendere la vera origine di questa opera, in quanto la catalogò come un esempio di scuola fiorentina degli inizi del XIV secolo.

Ritornando alla Madonna in trono del Museo Nazionale di San Matteo, nel 1950 l’allora direttore del museo G. Vigni, pur accertando una certa somiglianza con lo stile del pittore Deodato Orlandi, concordò con le conclusioni espresse da P.

Toesca nel 1927, per cui l’opera non solo non era attribuibile a Deodato Orlandi ma presentava anche chiari segni di appartenenza alla scuola di Duccio di Buoninsegna31. Detto ciò, decise di attribuirla al Maestro di San Torpè, secondo lui un piccolo maestro locale ritardatario che definì “…una delle prime conquiste dell’arte senese in terra toscana…”32, in quanto precocemente influenzato da quest’arte che si espanderà a macchia d’olio in tutta la Toscana nei primi decenni del Trecento. Ed a proposito delle numerose opere che, secondo la testimonianza di Vasari33, sarebbero state dipinte a Pisa da Duccio di Buoninsegna, G. Vigni formulò una interessante ipotesi: lo studioso teorizzò che questi lavori ducceschi, di cui non sarebbe rimasta alcuna traccia, potessero essere in realtà alcune delle tavole eseguite

30 G. Kaftal, Iconography of the Saints in Tuscan Painting, Firenze, 1952, pp. 588-589.

31 G. Vigni, Pittura del Due e Trecento nel Museo di Pisa, Palermo, 1950, pp. 17, 75-76 scheda 57.

32 Ibidem, p. 17.

33 G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’

tempi nostri, ed. a cura di L. Bellosi e A. Rossi, presentazione di G. Previtali, Torino, 1986, (nell’edizione per i tipi di Lorenzo Tormentino, Firenze, 1550), p.181.

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da questo Maestro pisano. Dopodiché, confermò come appartenenti al corpus del Maestro la Madonna nella chiesa di San Torpè e i due santi sormontati da profeti del Museo pisano34, ma non accennò minimamente alla Madonna della chiesa di San Francesco e al suo laterale esposto nel Museo di Altenburg.

Infine, l’ex direttore, prima di lasciare la sua carica, riuscì a ritrovare nei magazzini del museo pisano una nuova opera del Maestro di San Torpè: un santo, oggi identificato con San Bartolomeo, con il Profeta Daniele collocato nella sua cuspide35 (scheda 15).

Molto duro con il Trecento pisano fu, invece, Enzo Carli che nel 1958 lo descrisse come “…uno dei quadri più desolati e lacrimevoli che immaginar si possano.”36, lamentandone la perdita di posizione rispetto a quello senese e fiorentino. Eccetto che per il Trionfo della Morte e il ciclo della Passione di Cristo nel Camposanto Monumentale, si lamentò aspramente di come i palazzi ed i chiostri pisani di quel secolo fossero poveri d’affreschi e di come la maggior parte dei dipinti su tavola appartenenti a quel periodo, che abbondavano nel cittadino Museo di San Matteo, non fossero pisani oppure, nel caso lo fossero, presentassero una tanto scarsa qualità, da equipararli (volendo usare le sue stesse parole) ad un garbato artigianato37.

Lo studioso fu concorde con la sopra esposta teoria di G. Vigni, per cui le perdute opere pisane che Vasari dichiarò realizzate da Duccio di Buoninsegna, in realtà coinciderebbero con quel gruppo di opere dai ricordi ducceschi che sino a quel momento erano state attribuite al Maestro di San Torpè. Però, rispetto alle valutazioni ed alle ipotesi dei critici e studiosi sinora elencati, scrisse che

34 G. Vigni, op. cit., p. 76 scheda 58.

35 Ibidem, pp. 76-77 scheda 59.

36 E. Carli, Pittura Pisana del Trecento: dal Maestro di San Torpè al Trionfo della morte, Vol. I, Milano, 1958, p. 11.

37 Ibidem, p. 13.

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difficilmente tutti quei dipinti di modesta o di infima qualità potessero appartenere solo ed esclusivamente a quel Maestro (in particolar modo quelli suggeriti da Ragghianti)38.

E. Carli, come faticò a credere che il Maestro di San Torpè si fosse ispirato direttamente alle opere realizzate da Duccio di Buoninsegna, data la qualità dei suoi lavori, così non notò alcun attaccamento ad una tradizione pisana locale, anche se occorre sottolineare che, secondo quanto si legge nel suo testo critico, egli nutriva forti dubbi sul fatto che ne fosse rimasta alcuna. Cominciò, persino, a dubitare sulla formazione pisana del Maestro, in quanto la sola locazione delle sue opere sinora citate non dimostrava alcunché, dichiarando che l’autore o gli autori di quei lavori artistici avrebbero potuto benissimo essere dei senesi39.

Dopo aver scritto nero su bianco i suoi pensieri, all’improvviso, attraverso una sua nota del testo, Carli cambiò completamente direzione: “Il testo di questo studio era già stato composto quando un importante rinvenimento è venuto insperatamente ad arricchire le nostre scarse conoscenze intorno alla pittura pisana del primissimo Trecento.”40 Rimuovendo lo stemma mediceo cinquecentesco di legno, posto nell’arcone orientale della crociera che sostiene la cupola del Duomo pisano, era stato trovato l’affresco ben conservato di una Madonna col Bambino (scheda 11) che venne subito attribuito senza alcun dubbio dallo studioso al Maestro di San Torpè. A dispetto delle sue precedenti teorie che denigravano il Trecento pisano, lo storico dell’arte fu totalmente entusiasta di questa opera, della sua grandiosità nella impostazione, della sua energica essenzialità del disegno e della sua potente intensità nel modellato. Di conseguenza, cominciò a riconsiderare la figura stessa del Maestro ed i suoi meriti artistici che, a suo avviso, sarebbero stati ulteriormente chiariti una

38 Ibidem, p. 15.

39 Ibidem, pp. 15-16.

40 Ibidem, p. 16-17 NOTA.

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volta che la Madonna di San Francesco fosse stata liberata dalle ridipinture che la opprimevano (chiaramente l’opera, oggi al museo pisano, non era stata ancora ricondotta a Memmo di Filippuccio)41.

Dopo aver datato l’affresco ai primi del Trecento, vi percepì una dipendenza dalla scuola di Duccio di Buoninsegna, rendendo la scoperta ancora più importante vista la rarità degli affreschi di scuola duccesca. In particolare, E. Carli sperava di identificare il Maestro di San Torpè con uno dei maggiori Maestri, che durante i primi anni del Trecento, avevano operato nel Duomo pisano. I nomi degli artisti in cui egli ripose maggiormente le sue speranze furono: Francesco da S. Simone della Porta a Mare, predecessore e compagno di Cimabue; Feuccio di Paolo a Monte di Guido; Vanni da Siena; Vanni fiorentino; Vincino di Vanni da Pistoia; Giovanni d’Apparecchiato alias Nuccaro da Lucca. E proprio sulla figura di Vanni da Siena si sarebbero concentrate in futuro le ricerche di alcuni studiosi42.

Nel 1959, fu pubblicato dall’ingegniere Piero Sanpaolesi (Soprintendente ai Monumenti e alle Gallerie di Pisa, Livorno, Lucca e Massa Carrara dal 1943 al 1960) un articolo riguardante i restauri, eseguiti sulle strutture della cupola della Cattedrale di Pisa, iniziati circa un anno prima sotto la sua direzione. Secondo P. Sanpaolesi43, i lavori di restauro compiuti sulla cupola, dimostravano che questa non risaliva ai tempi di Buscheto come si pensava, ma era posteriore. Il principale scopo di tali lavori era di eliminare gli elementi moderni che vi erano stati aggiunti in seguito all’incendio, che coinvolse il Duomo nel 159644. Il tragico evento era stato usato come scusa per modernizzare la chiesa, e di conseguenza anche il sottostante presbiterio ed il resto dell’edificio avevano subito una serie di interventi, che tuttavia

41 Ibidem.

42 Ibidem, p. 17 NOTA.

43 P. Sanpaolesi, Il restauro delle strutture della cupola della Cattedrale di Pisa, in “Bollettino d’Arte”, anno XLIV, s. IV, n. III, 1959, pp. 218-219.

44 Ibidem, p. 205.

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non erano riusciti a nascondere la sovrastante struttura romanica. Durante la verifica della autenticità dell’intonaco che copriva l’interno del tamburo (e che risultò essere una copertura seicentesca del semplice intonaco originale) fu rinvenuta sotto lo stemma mediceo la grande Madonna col Bambino, pubblicata l’anno precedente da E. Carli e ritenuta da Sanpaolesi come uno dei primi affreschi realizzati nella chiesa45. Inoltre, secondo lo studioso l’area che era stata occupata dalla composizione di questo affresco, doveva essere molto più vasta di quel che appare oggi46.

1.3. La seconda fase della critica: dal 1962 al 1995.

L’articolo di Mario Bucci del 1962 presentava il Crocifisso del Belvedere di Crespina (scheda 12), l’unica croce dipinta che sino ad oggi è attribuita con certezza dalla critica al Maestro di San Torpè, e che attualmente si trova esposta nel Museo Nazionale di San Matteo di Pisa. Lo studioso iniziò il suo articolo dicendo che:

“Nella contrada di Belvedere di Crespina, quattro case arrampicate tra i vigneti delle colline che da Pontedera si dirigono verso Volterra e Siena, dentro una chiesetta di bella scenografia settecentesca, architettura del Tarocchi e affreschi del Tempesti, stava fino a pochi anni fa, quasi dimenticato, un crocifisso su tavola, sperduto in un ambiente che non era il suo e in condizioni lamentevoli.”47.

Su questa opera erano già state redatte almeno due schede, che M. Bucci, indirettamente, definì inaccurate ed inesatte48: secondo quanto riportò, nella prima scheda, redatta nel 1912 dall’Ispettore Nello Tarchiani, la croce sarebbe stata velocemente definita come appartenente alla scuola di Giotto; dalla seconda scheda, scritta nel 1934 dall’Ispettore onorario Alfredo Masoni, e giudicata dallo studioso

45 Ibidem, pp. 214-216.

46 Ibidem, p. 216.

47 M. Bucci, op. cit., p. 3.

48 Ibidem.

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come un foglio redatto velocemente tra la visita di un luogo e un altro, egli trasse queste parole “Tavola a croce greca, sulla quale è dipinto un crocifisso colla ferita del costato a destra. Nelle lunette (sic!) delle estremità son dipinti alcuni Santi (sic!) in una è detto che il dipinto fu restaurato nel 1662, ma per disgrazia malamente…opera assai interessante di stile bizantino…”. M. Bucci, catalogò questa croce dipinta come dugentesca e di derivazione pisano-lucchese basandosi sulle due tavole laterali alla stessa; la caratteristica di queste tavole laterali era già stata da lui riscontrata in quasi tutte le croci provenienti dai territori posti tra Pisa e Lucca, tra la fine del XII secolo e la fine XIII secolo49. Terminato in quello stesso anno il restauro da parte della restauratrice Nicola Carusi50, egli vide nel modellato del corpo la scuola del primo Duccio di Buoninsegna anche se gli occhi chiusi nel dramma dell’avvenimento gli ricordarono più lo stile di Giunta Pisano51. Dunque M. Bucci rintracciò in questa opera da un lato la plasticità costruttiva tipica del Duecento e soprattutto di Giunta Pisano e dall’altro il tipico raffinato gusto senese per il colore52. E come si può leggere nel testo dello studioso “…di questo innesto di Siena su Pisa, non senza un chiaro passaggio da Firenze, è infatti tipico rappresentante proprio il Maestro di San Torpè.”53. Indipendentemente da quanto appena riportato, per lo studioso, il Maestro sarebbe comunque stato fermamente pisano piuttosto che senese, dato che la maggioranza delle sue opere erano state ritrovate nei dintorni di Pisa e provincia54.

Dopo la presentazione del Crocifisso, Bucci riassunse nel suo saggio i testi critici che avevano delineato la figura del Maestro di San Torpè, gli stessi sinora

49 Ibidem, p. 4.

50 Ibidem, p. 3.

51 Ibidem, p. 4.

52 Ibidem, p. 5.

53 Ibidem.

54 Ibidem.

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citati, dall’articolo di E. Sanderberg Vavalà sino alla nota del libro di E. Carli55. Dopodiché, l’articolo prosegue con la descrizione da parte dello studioso di altre opere del Maestro, tra le quali l’affresco della sopra citata Madonna col Bambino del Duomo pisano. Poco prima che quest’opera fosse pubblicata da E. Carli, M. Bucci l’aveva segnalata a Roberto Longhi, che ne suggerì, immediatamente, l’attribuzione al Maestro di San Torpè. Bucci considerò questa gigantesca Madonna come trecentesca e chiaramente ispirata allo stile di Cimabue. Infine, nel confrontarla alle altre Madonne assegnate al Maestro, la giudicò più arcaica di quella di San Torpè e più vicina cronologicamente a quella di San Francesco56.

Proprio riguardo alla Madonna col Bambino proveniente dalla pisana chiesa di San Francesco, la novità di questo articolo è che per la prima volta, sono commentati i dubbi sull’appartenenza di questa opera (e del relativo San Giovanni del Museo di Altenburg) al repertorio delle opere attribuite al Maestro di San Torpè, dubbi espressi sia da parte di P. Toesca sia da R. Longhi. Prima dell’intervento di M. Bucci, P.

Toesca57, non essendo a conoscenza della ricostruzione di E. Sandberg Vavalà, aveva sostenuto che l’opera ed il suo laterale risentivano della maniera giottesca degli inizi del Trecento, il che per R. Longhi58 equivaleva a parlare di Assisi. Infatti, Longhi volle associare l’opera specificatamente all’ambiente protogiottesco della Basilica di San Francesco ad Assisi, dove stavano prendendo il posto di Cimabue, oltre che Duccio ed il giovane Giotto, artisti come il Maestro del Farneto ed il senese Memmo di Filippuccio, quest’ultimo famoso per le sue opere civiche a San Gimignano dei primi anni del Trecento59. Nello stesso anno, Giovanni Previtali confermò la teoria di R. Longhi, che la Madonna custodita nella chiesa di San Francesco ed il relativo

55 Ibidem, pp. 5-6.

56 Ibidem, p. 6.

57 P. Toesca, Il Trecento in Storia dell’arte italiana , Vol. II, Torino 1951, p. 657 nota 178.

58 R. Longhi, Qualità del Maestro di San Torpè, in “Paragone”, anno XIII, n. 153, 1962, p. 11.

59 Ibidem.

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laterale di Altenburg si dovessero a Memmo di Filippuccio60. Inoltre, dopo aver affermato che lo scorcio del piede del Bambino di quest’opera, forse di origine giottesca, aveva impressionato molto i contemporanei di Memmo, ad un punto tale che anche il Maestro di San Torpè lo riprese nella sua tavola eponima, ipotizzò che la tavola di San Francesco fosse stata realizzata in una data molto vicina al 1303 quando l’artista fu segnalato per la prima volta a San Gimignano61.

Tornando al saggio di M. Bucci, egli giunse ad una interessante considerazione62: se in effetti l’affresco della Madonna col Bambino risalisse ai primissimi anni del Trecento, quindi vicino agli anni in cui furono realizzati i mosaici di Cimabue, si potrebbe ipotizzare che il Maestro di San Torpè, per ottenere un incarico così prestigioso, avrebbe dovuto iniziare la sua carriera artistica almeno verso la fine del Duecento. Seguendo dunque le teorie dello studioso, dopo una iniziale carriera, il Maestro di San Torpè avrebbe realizzato la Madonna del Duomo di Pisa proprio nei primissimi anni del Trecento63. Poi, dopo aver affinato il suo stile tramite un contatto diretto con le opere di Duccio di Buoninsegna a Siena o Firenze o nella stessa Pisa, dove pare che Duccio abbia soggiornato, compose quasi contemporaneamente, all’incirca nel secondo decennio del Trecento, sia la Madonna della chiesa di San Torpè che il Crocifisso di Crespina64. A proposito della Madonna di San Torpè, M. Bucci non si limitò ad elencarla nel suo testo come fecero gli altri storici sinora citati ma, dopo averla esaminata e posta a confronto con le altre opere del Maestro, espose le sue nuove teorie su questa tavola65 (riportate nella scheda 10).

Altre due inedite tavole dipinte, che lo studioso definì “un po’ più di maniera”

e di un periodo un poco più tardo rispetto alla Madonna appena citata, furono

60 G. Previtali, Il possibile Memmo di Filippuccio, in “Paragone”, anno XIII, n. 155, 1962, p. 5.

61 Ibidem, p. 6.

62 M. Bucci, op. cit., p. 7.

63 Ibidem.

64 Ibidem, pp. 7-8.

65 Ibidem, p. 7.

(17)

presentate nel saggio con lo scopo di incrementare l’esiguo numero delle opere fino ad allora attribuite al Maestro di San Torpè: la Madonna col Bambino del Seattle Art Museum dello Stato di Washington 66 (scheda 22) e la Madonna col Bambino del Seminario di Pisa67, anche questa restaurata da Nicola Carusi. In queste due nuove opere, egli notò che il segno, l’iconografia e le caratteristiche della pittura corrispondevano perfettamente allo stile del Maestro. In più, la ripetizione alla lettera di alcuni particolari lo fece propendere verso l’idea di una possibile produzione in serie, senza che per questo le opere risentissero del loro valore; non esitò quindi a scrivere che queste opere, rispetto alle altre, non portavano segni di sciatteria o mediocrità. Riguardo ai particolari che egli ritenne identici nelle due tavole, evidenziò soprattutto l’estrema somiglianza nei volti dei Bambini. Per Bucci le caratteristiche tipiche del Maestro di San Torpè si ritrovavano nei volti dei due fanciulli, incorniciati da riccioletti “a truciolo” e caratterizzati da infantili mani squadrate e un po’ tozze (come i piedini) rispetto a quelle longilinee della Madre.

Purtroppo lo studioso non aveva avuto modo di vedere i colori della Madonna di Seattle, ma non ebbe dubbi che l’azzurro color lapislazzulo venuto fuori dal restauro della Madonna del Seminario fosse lo stesso della veste del flagellatore della rinvenuta storia laterale del Crocifisso di Crespina. Lo stesso per il rosa della veste del Bambino del Seminario rispetto alla veste del San Giovanni nel braccio della croce.

Come anticipato sopra, il correlato testo critico di R. Longhi fu pubblicato di seguito al saggio di M. Bucci, nello stesso numero della rivista “Paragone” del 1962.

In questo nuovo saggio, egli in principio lodò la studiosa E. Sandberg Vavalà per aver portato alla luce questo anonimo pittore, facendo così allontanare la Madonna col Bambino della chiesa di San Torpè dall’immaginario “Ugolino Lorenzetti”

66 Ibidem, pp. 8-9.

67 Ibidem.

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proposto nel 1932 da B. Berenson, ma poi criticò alcune conclusioni da lei espresse nell’articolo del 193768. Da un lato, R. Longhi affermò che E. Sandberg Vavalà non aveva reso giustizia alla pittura del Maestro, dando così l’impressione che si trattasse di un pittore abbastanza scarso. Dall’altro lato egli la giustificò, affermando che questo disconoscimento di valore era un destino comune ai poveri artisti anonimi, che spesso avevano visto i loro lavori trasformarsi in copie di altre opere più famose.

Secondo Longhi, talvolta, certi particolari che sembravano copiati da altri artisti od opere, in realtà potevano corrispondere ad uno stile parallelo o ad un precorrimento.

In questi casi, l’orologio temporale di queste opere minori doveva essere portato indietro69.

Per lo studioso, un altro esempio che il Maestro di San Torpè fosse stato estremamente sottovalutato, si trovava nella sopra citata definizione del pittore espressa da G. Vigni nel 1950. R. Longhi rimase meravigliato da questo severo giudizio, soprattutto dal momento che era stato lo stesso Vigni a riattribuire al Maestro la stupenda Madonna in trono col Bambino e a riscoprire la piccola tavola dell’artista raffigurante un San Bartolomeo, entrambe ancora oggi conservate nel pisano Museo di San Matteo70. Riguardo proprio alla Maestà pisana, R. Longhi affermò che l’opera poteva essere portata cronologicamente indietro sino ai primi ducceschi, ad Ugolino di Nerio, oppure a Segna di Bonaventura71.

R. Longhi si rese comunque conto che la visione sul Maestro di San Torpè era migliorata da allora, soprattutto grazie alle scoperte di alcune nuove opere recentemente attribuitegli72: l’affresco della Madonna con il Bambino scoperta nel Duomo pisano tra il 1957 ed il 1958, che lo stesso R. Longhi aveva attribuito al

68 R. Longhi, Qualità del Maestro…, cit., p. 10.

69 Ibidem.

70 Ibidem.

71 Ibidem.

72 Ibidem, pp. 10-11.

(19)

Maestro, ed il Crocifisso del Belvedere, presentato da M. Bucci nel 1962. Molto interessanti furono le sue considerazioni sulla Madonna affrescata, riportate nella relativa scheda, che lo indussero ad ipotizzare che il Maestro di San Torpè si fosse formato nel cantiere della Basilica di San Francesco ad Assisi dove, come detto sopra, molto probabilmente lavorò anche Memmo di Filippuccio. Quindi, a differenza di quanto precedentemente teorizzato da M. Bucci ed altri studiosi, per R.

Longhi questo Maestro era un senese che dopo lavorato ad Assisi nel passaggio tra i due secoli, si sarebbe stanziato a Pisa73. Inoltre, che questo artista seguisse una linea duccesca e fin guidesca, ma non mostrasse alcun riflesso del polittico di Santa Caterina d’Alessandria dipinto da Simone Martini (fig. 8) conservato nel Museo Nazionale di San Matteo di Pisa o dell’arte di Francesco Traini, era per lui un chiaro segno della sua prematura scomparsa entro i primi decenni del Trecento74. E qui, calcolando una ventennale attività del Maestro, si trovò concorde con la teoria di M.

Bucci che i primi lavori di questo pittore fossero iniziati prima dello scattare del secolo. Ma a differenza di questi, pur accettando che sia la Madonna col Bambino del Duomo pisano sia il Crocifisso del Belvedere potessero essere stati realizzati nei primissimi anni del Trecento, non si sentì di escludere che queste due opere potessero appartenere ancora all’ultimo decennio del Duecento75.

Ormai convintosi dell’importanza di questo anonimo artista, R. Longhi decise, sull’esempio di M. Bucci, di ampliarne il catalogo presentando altre tre opere dai chiari ricordi ducceschi, guideschi o giotteschi, ancora oggi attribuite al Maestro di San Torpè: la Madonna col Bambino fra i Santi Bartolomeo e Giovanni Battista ed Angeli reggicortina della collezione Samuel H. Kress nel North Carolina Museum of

73 Ibidem, pp. 11-12.

74 Ibidem, p. 12.

75 Ibidem.

(20)

Art di Raleigh76 (North Carolina)che mostrava di possedere elementi riconducibili a più di un’artista; la Madonna col Bambino del Museo Magnin a Digione77 (scheda 4), confrontata con la Madonna in trono col Bambino esposta nel Museo di San Matteo; la Madonna col Bambino, recuperata dall’Ufficio Restituzioni Opere d’Arte78, all’epoca depositata in Palazzo Vecchio di Firenze79 mentre ora è custodita nella Galleria degli Uffizi della stessa città (scheda 5). Tre opere che chiaramente richiamavano i maestri assisiati ai quali il Maestro di San Torpè sembrò in particolare rifarsi durante la sua carriera artistica, reinterpretando le loro idee secondo un proprio stile personale. Per R. Longhi, questo Maestro avrebbe utilizzato le novità introdotte dall’uno o dall’altro artista a seconda delle proprie esigenze: ad esempio, nella Madonna di Raleigh80, era ancora appena visibile un resto del vecchio maforion (ossia la cuffia rossa di origine bizantina) al posto del velo bianco introdotto da Duccio di Buoninsegna nella sua Madonna col Bambino e sei angeli della Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia81 (fig. 9) e nel Trittico a sportelli della Galleria Nazionale di Londra82 (fig. 10). Duccio, sin dalla Madonna dei Francescani, nel rappresentare le vesti aveva seguito il nuovo stile del gotico europeo per cui l’orlo dei manti veniva decorato con un sottile e semplice filo dorato, mentre il Maestro di San Torpè aveva preferito rimanere fedele alla spessa zagana poligonata di origine guidesca83. Per lo studioso, quest’ultimo lungo nastro che orlava il manto della Vergine creava degli effetti da lui definiti “…a collage…”84, e fu riutilizzato dai trecentisti pisani che seguivano la scia del Maestro, col solo scopo di ottenere un effetto artigianale. Riguardo alla datazione delle tavole appena

76 Ibidem, pp. 12-13.

77 Ibidem, pp. 13-14.

78 E. Carli, Il museo di Pisa, Pisa, 1974, p. 47 scheda 39.

79 R. Longhi, Qualità del Maestro…, cit., p. 14.

80 Ibidem, p. 12.

81 G. Ragionieri, Duccio: catalogo completo dei dipinti, Firenze, 1989, p 42.

82 Ibidem,. p. 136.

83 R. Longhi, Qualità del Maestro…, cit., p. 13.

84 Ibidem.

(21)

presentate, R. Longhi le considerò eseguite tra i primissimi anni ed il secondo decennio del Trecento, ossia poco prima della Madonna del Museo di Seattle e della Madonna del Seminario Arcivescovile di Pisa scoperte da M. Bucci85. Infine, R.

Longhi ipotizzò che la Madonna di Firenze provenisse da Pisa, in base alla misura ed ai particolari ornativi del nimbo, simili a quelli del San Giovanni Evangelista e del San Paolo del Museo Nazionale di San Matteo a Pisa. Così simili, da fargli ritenere che quest’ultimi fossero i suoi laterali perduti, oltre che per una corrispondenza somatica fra la Madonna fiorentina ed il San Giovanni86.

Nel 1964 G. Previtali, in un suo articolo di nuovo pubblicato sulla rivista

“Paragone” ed incentrato sulla figura di Memmo di Filippuccio, attribuì una nuova opera al Maestro di San Torpè: la Madonna col Bambino, Cristo in pietà e i Santi Francesco e Domenico conservata nel Rhode Island School of Design Museum of Art di Providence87 (scheda 18). Lo studioso non ebbe alcun dubbio riguardo a questa nuova attribuzione per le svariate somiglianze nei dettagli dell’opera con il Crocifisso del Belvedere attribuito al Maestro da M. Bucci nel 196288.

A questo punto della situazione, come era valutato il Maestro di San Torpè all'estero? L’anonimo Maestro, in un catalogo delle opere appartenenti alla Samuel H. Kress Collection del 1966, realizzato da. Fern Rusk Shapley, è descritto, sulla base dei saggi di E. Sandberg Vavalà, M. Bucci e R. Longhi, come un artista di scuola pisana-senese, attivo nella Pisa del primo Trecento, ma probabilmente originario di quella Siena dove era stato influenzato da Duccio di Buoninsegna e da Guido da Siena89. Nel Catalogo, sotto questa breve citazione sono elencate due sue opere appartenenti alla collezione: la Madonna col Bambino dell'Art Museum di

85 Ibidem, p. 14

86 Ibidem, pp. 14-15.

87 G. Previtali, Miniature di Memmo di Filippuccio, in “Paragone”, anno XV, n. 169, 1964, pp. 3-4.

88 Ibidem.

89 F. Rusk Shapley, Paintings from the Samuel H. Kress Collections, Italian Schools XIII-XV century, London, 1966, p. 18.

(22)

Seattle90 sopra presentata da M. Bucci e la Madonna col Bambino fra i Santi Bartolomeo e Giovanni Battista del North Carolina Museum of Art di Raleigh91 sopra presentata da R. Longhi. La prima di queste due opere, data la forma della tavola e la composizione a mezzo busto della Madonna, è descritta come la parte centrale di un polittico, sulla base di un confronto con la forma del supporto della Madonna col Bambino e quattro Santi del duccesco Goodhart Master92 esposta nel Museum of Art di Birmingham in Alabama (fig. 11).

Tornando agli studiosi italiani, Pier Paolo Donati, nella rivista di critica e d’arte

“Commentari” del 1968, scrisse che la figura del Maestro di San Torpè si stava finalmente precisando e che il numero delle opere a lui attribuite era notevolmente aumentato nel corso del tempo93. Egli giunse alla conclusione, come già a suo tempo M. Bucci, che questo artista doveva essere stato ben affermato fra i pisani del Trecento, sia per aver ottenuto uno spazio da affrescare all’interno del Duomo pisano sia per le innumerevoli opere ritrovate per lo più in zone gravitanti su Pisa. Su questa base, a parte R. Longhi che vide in questo artista un senese trapiantato a Pisa, la maggior parte dei critici sinora nominati avevano ritenuto che il Maestro fosse un pisano. Ma questo argomento non interessò al nostro studioso, in quanto non avrebbe portato alcun vantaggio all’indagine sulla formazione del Maestro94. Egli affermò semplicemente che l’aspetto dei dipinti del Maestro di San Torpè gli sembrava più pisano che senese. Quindi egli lo valutò diverso, anche se di poco, da quei ducceschi contemporanei al pittore, ovverosia dal Maestro di Badia a Isola, dal Maestro di Città di Castello, da Segna di Bonaventura e da Ugolino di Nerio95.

90 Ibidem, scheda 38.

91 Ibidem, p. 19, scheda 39.

92 Ibidem, p. 18 scheda 38.

93 P. P. Donati, Aggiunte al Maestro di San Torpè, in “Commentari”, anno XIX, n. 4, 1968, p. 245.

94 Ibidem.

95 Ibidem.

(23)

A questo punto, per P. P. Donati, il Maestro di San Torpè avrebbe potuto costituire un precedente o addirittura un tramite a Francesco Traini che, secondo lo studioso, sicuramente aveva osservato i dipinti dell'anonimo pittore, soprattutto il Crocifisso del Belvedere ed il relativo tondo in cui era, per lui, riprodotto un Padreterno. Donati individuava così nel primo decennio del Trecento il primo nucleo di una tradizione gotica strettamente pisana che, dalla seconda metà del secolo, sarebbe decaduta in un modesto artigianato96. Entusiasmato dalla figura del Maestro di San Torpè, egli giunse a dire che, dalla visita di Cimabue nel 1302 sino all’arrivo di Simone Martini nel 1319, a Pisa non fu presente un altro artista che presentasse una così alta qualità nelle sue opere, e che avesse una così vasta ed informata cultura figurativa97.

Proprio sulla base di questa vasta cultura, lo storico assegnò al Maestro di San Torpè una nuova opera, in cui egli riscontrò quelle profonde ascendenze dugentesche segnalate da R. Longhi nei lavori del pittore come il frutto di una frequentazione del cantiere della Basilica di San Francesco ad Assisi, dove oltre ai già citati Giotto, Duccio, Memmo di Filippuccio ed il Maestro del Farneto, aveva lavorato anche il Maestro del Crocifisso di Montefalco98. La nuova opera che lo studioso avanzò, è la tavoletta col San Giovanni Battista presenta Cristo al Popolo del The St. Louis Art Museum di St Louis nel Missouri (scheda 20) che egli presentò come la

“Predicazione del Battista” 99, e che B. Berenson decise invece di ricondurre, nello stesso anno e con lo stesso titolo, ad Ugolino di Nerio100. Donati, dopo aver ripreso la teoria già accennata da R. Longhi nel 1962 di un rapporto tra Memmo di Filippuccio ed il Maestro di San Torpè nel cantiere di Assisi, affermò che quest’ultimo era

96 Ibidem, pp. 245-246.

97 Ibidem.

98 Ibidem, 246.

99 Ibidem, p. 247.

100 B. Berenson, Italian pictures of the Renaissance: a list of the principal artists and their works, with an index of placet: central italian and north italian shools, Vol. I, Londra, 1968, p. 439.

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proseguito anche negli anni successivi, quindi avvicinò la figura all’estrema sinistra di quest’opera del Maestro a quelle di Memmo di Filippuccio,. Come ulteriore conferma di questa teoria, lo studioso, dopo aver esaminato il trono dell’affresco di Memmo di Filippuccio con la Madonna tra le Sante Caterina d’Alessandria e Maria Maddalena della chiesa di San Pietro a San Gimignano (fig. 12), pubblicata da E.

Carli nella rivista “Paragone del 1963”, decise di avvicinarlo, in base alle nuove soluzioni giottesche e non duccesche presenti in esso, a quello del Maestro di San Torpè nella Madonna di Raleigh, con lo scopo di stabilire un legame stabile fra i due artisti101. Donati, sempre sulla scia di R. Longhi, datando la tavoletta agli ultimi anni del Duecento, finì col confermare le due ipotesi fatte dallo studioso nel 1962 per cui l’anonimo artista non aveva proseguito la sua attività oltre il secondo decennio del Trecento e che sicuramente era già affermato nell'anno del primo Giubileo102.

Lo stesso Donati, in una nota del suo testo, fece anche tre interessanti confronti fra alcuni dei protagonisti delle tavole del Maestro103 (Tab. B): il primo confronto, tra la seconda figura a sinistra nel San Giovanni Battista presenta Cristo al Popolo e il carnefice della Flagellazione nel Crocifisso del Belvedere; il secondo, tra la mano sinistra dell’interlocutore del Battista sempre nel San Giovanni Battista presenta Cristo al Popolo e la mano sinistra del San Paolo del Museo di San Matteo di Pisa; il terzo, tra la testa dello stesso San Paolo pisano, la testa del Battista nella Madonna col Bambino fra i Santi Bartolomeo e Giovanni Battista della collezione Kress nel Museo di Raleigh e tutte quelle nel San Giovanni Battista presenta Cristo al Popolo.

Dopodiché, nel presentare una nuova tavola attribuita a Memmo di Filippuccio, l’Adorazione dei Magi (fig. 13) della raccolta Stoclet di Bruxelles, lo studioso fece notare come la figura inginocchiata di Melchiorre fosse assai vicina alle soluzioni

101 P. P. Donati, op. cit., pp. 247-248.

102 Ibidem, p. 248.

103 Ibidem, p. 252 nota 4.

(25)

formali adottate dal Maestro di San Torpè, istituendo così una ulteriore prova del sicuro rapporto creatosi fra i due artisti104.

Egli, proseguendo il suo contributo al catalogo delle opere del Maestro, segnalò la tavoletta trilobata apparsa nel 1953 sul mercato antiquario di Colonia raffigurante una Madonna col Bambino105 (fig. 14), per lui assai vicina alla Madonna col Bambino fra i Santi Bartolomeo e Giovanni Battista di Raleigh. Come in quest’ultima Madonna, avvertì nella nuova tavoletta l’ascendente di un Duccio di Buoninsegna ormai maturo. Per lui, la grande Maestà (1308-1311) del Maestro senese doveva essere stata già realizzata, dato che nell’opera di Colonia notò sul capo della Vergine un grande velo bianco in sostituzione della vecchia cuffia rossa bizantina conosciuta come maforion.

Infine, un ulteriore confronto fu realizzato con la Madonna col Bambino del Museo di Santa Verdiana nel Comune di Castelfiorentino (fig. 15), un’opera di cui fu a lungo dibattuto se realizzata da Cimabue o da Duccio, dalla quale, a detta dello studioso, il Maestro di San Torpè avrebbe preso per diverse sue opere lo stravolto viso imbronciato del Bambino dagli occhi arrossati106. P. P. Donati, arrivò anche a notare la fortissima somiglianza fra i putti affrescati nelle fasce decorative della prima campata nella Chiesa superiore della Basilica di San Francesco ad Assisi, la cosiddetta volta dei Dottori della Chiesa107, ed i Bambini realizzati dal Maestro, giungendo così ad una nuova proposta di attribuzione, senza contare che nel saggio riportò anche come alcune delle figure adiacenti a questi putti erano state, pochi anni prima, messe in rapporto da G. Previtali con Memmo di Filippuccio108.

104 Ibidem, pp. 249-250

105 Ibidem, p. 250. Questa tavoletta ridotta alla misura di cm 80,5 x 61,5 poiché decurtata in tutti i suoi lati, fu proposta tra le opere del Maestro da P. P. Donati, poi indirettamente, da G. Previtali nel 1970 e da M. Ferretti nel 1972. Ma, poiché oggi non rientra tra le opere attribuite al Maestro di San Torpè, è stato preferito riportarla in questo capitolo senza crearne una specifica scheda.

106 Ibidem, p. 251.

107 Ibidem.

108 G. Previtali, Miniature…, cit., p 5.

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