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Vita e Opere

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Academic year: 2021

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Capitolo I

Vita e Opere

1. Boris Andreevič Pil’njak: individualità isolata nel panorama della prima letteratura sovietica

Boris Andreevič Pil’njak (Možaijsk, 11 ottobre 1894 — Mosca, 21 aprile 1938), pseudonimo di Boris Andreevič Vogau, è figlio di un veterinario tedesco originario della media Volga ed è di stirpe mercantile da parte materna. Come egli stesso afferma: «porto in me quattro tipi di sangue: tedesco (con qualche goccia di ebraico, da parte di padre), slavo e mongolo (tartaro), da parte di madre» . Vive l’infanzia e l’adolescenza nella profonda 1 provincia russa, lontano dai grandi centri culturali, circondato dall’inteligencija tedesca e da contadini, insieme alla madre, al padre e alla sorella Nina. Frequenta un anno di ginnasio a Saratov, per poi trasferirsi a Bogorodsk, e completare gli studi a Nižnij Novgorod nel 1913. Si diploma presso l’Istituto Commerciale di Mosca (ora Istituto d’economia nazionale Marx) nel 1920, seguendo il corso amministrativo-finanziario.

Scrittore precoce, a soli 14 anni pubblica sul supplemento letterario del giornale Kopejka, con il nome di Boris Vogau, la miniatura «Di primavera» (Vesnoj, 1909). Entra così in contatto con il panorama letterario degli anni Dieci, recependo in modo caotico e indifferenziato le varie

Cit. in B. Pil’njak, Avtobiografičeskie zametki, 1930.

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scuole, dal neorealismo all’avanguardia, con una marcata predilezione iniziale per il simbolismo.

Lo pseudonimo Pil’njak apparve per la prima volta nel 1915 e proviene dall’appellativo ucraino pilà, strumento utilizzato per il taglio degli alberi, da cui pil’nja, luogo di disboscamento meccanico. Nelle zone di campagna dove Boris Andreevič trascorreva le estati vivevano i cosiddetti «pil’njaki», termine che significa approssimativamente «boscaioli» e pare che anche la cittadina bielorussa in cui passò un periodo dell’adolescenza presso lo zio paterno si chiamasse Pil’njanka. Da lì trasse spunto per firmare i suoi successivi lavori. Già nella scelta del nome d’arte, che lo accompagnerà per tutta la carriera letteraria, si ritrovano due dei temi più cari all’autore, anch’essi instancabili compagni del suo processo creativo: la provincia russa e la natura.

Trascorse gli anni della rivoluzione prevalentemente nella città di Kolomna, a sud-est di Mosca, che rimarrà cruciale per la descrizione della provincialità russa riproposta costantemente nella sua opera. Nel 1917 è accompagnato dalla prima delle sue tre mogli, Marija Alekseevna Sokolovna (la seconda fu Ol’ga Sergeevna Šerbinovskaja, attrice di teatro, e l’ultima Kira Georgievna Andronikavšili, attrice e regista, che diede alla luce il suo terzo figlio, Boris) da cui ebbe due dei suoi tre figli, Natal’ja e Andrej. Grazie al successo de «L’Anno Nudo» (Golyj god, 1922) Pil’njak fu il primo scrittore sovietico a ricevere un passaporto per l’estero, che gli permise di compiere numerosi viaggi: per primi Berlino nel 1922 e l’Inghilterra nel 1923, che, come lui stesso testimonia, lo arricchirono enormemente. Durante tutto il periodo sovietico si sposta tra la Turchia, la Palestina, sul confine afgano, in Mongolia, Cina e Giappone.

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La figura di Pil’njak è molto difficile da collocare dentro una specifica corrente: è piuttosto un’individualità a sostegno della crisi dell’intellettuale dell’epoca, che non percepisce più il mondo nel quale vive.

Nel 1930 in «Note autobiografiche» (Avtobiografičeskie zametki, 1930) riporta: «За исключением семёрки случаев, когда я писал на заказ (и написал худшие мои вещи), я писал не потому, что хотел написать на заданную тему, но потому, что эта тема родилась помимо моей воли, каждый раз неожиданно. Каждый из нас видит, слышит, продумывает тысячи вещей, из этой тысячи для письменного стола остаётся десяток, и каждая единица этого десятка неожиданна.»

«A eccezione dei sette casi in cui scrissi su commissione (e ho scritto le mie cose peggiori), scrivevo non perché volevo scrivere di un dato argomento, ma perché questo argomento era nato malgrado il mio volere, ogni volta improvvisamente. Ognuno di noi vede, sente, riflette su mille cose, tra queste mille cose per lo scrittoio ne rimangono una decina, e ogni unità di questa decina si presenta improvvisa.»


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«Есть разговор о том, почему я пишу. И ответа на этот вопрос я дать не могу, потому что все начала уходят в подсознательное, - и ещё потому, что, если б я знал это «почему», писать я не стал бы: у каждого писателя должна быть, своя трагедия, своя пропасть, своя неувязанность, которые творчеством он заполняет. Как я пишу? - сейчас, вот над этой строчкой, я просидел много минут, чтобы точно ответить, и точного ответа не нашёл. Не знаю, как пишу, - знаю как написал каждую вещь в отдельности, - как не знаю, почему пишу, и знаю, почему написал тот или иной рассказ.»2

«C’è una discussione sul perché io scriva. E la risposta a questa domanda non la posso dare, perché tutti i principi rifuggono nell’inconscio e se avessi conosciuto questo «perché» non avrei iniziato a scrivere: per ogni scrittore dev’esserci la propria tragedia, il proprio abisso, la propria incoerenza, che egli riempie tramite l’attività letteraria. Io come scrivo? Adesso, proprio su questa riga, mi sono soffermato vari minuti per rispondere chiaramente, e una risposta chiara non l’ho trovata. Non so come scrivo, so come scrivere di ogni cosa separatamente, così come non so perché scrivo e so perché scrivo quello o un altro racconto.»


Cit. in: B. B. Pil’njak Andronikašvili, O moëm otce in B. Pil’njak, Romany. Mosca:

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2. Esordi: gli anni Venti dei racconti post-rivoluzionari

L’impostazione passiva e ancora immatura dei racconti pre-rivoluzionari di Pil’njak, raccolti in «Con l’ultimo battello» (C poslednim

parochodom, 1918), dimostra la sua predilezione per l’impressionismo e il

soggettivismo mutuati da scrittori come Zajcev o Šmelëv. Densi di carattere suggestivo e ambiguo, presentano una tipica iconicità simbolista e la tecnica del leitmotiv, oltre al flusso continuo di frasi brevi, laconiche, ellissi e costruzioni paratattiche, chiaramente derivanti dallo stile di Andrej Belyj. Durante i primi anni della rivoluzione, Pil’njak non viene recepito come uno degli autori sovietici più popolari, sarà solo negli anni post-rivoluzionari che si inserisce profondamente nella vita culturale della neonata Repubblica Sovietica. A inizio anni Venti si lega a Pasternak e completa il suo capolavoro, «L’anno nudo» (Golyj God, 1922). Nello stesso periodo entra nella pseudo-organizzazione satirica di Remizov «Grande e libera Camera scimmiesca» e instaura un rapporto costante con Maksim Gor’kij, nonostante quest’ultimo lo considerasse uno scrittore cinico e sregolato.

Nel 1921 appare nei circoli letterari pietroburghesi, considerato come il rappresentante prototipo di un certo «elementarismo» russo, arcaico e neoslavofilo, senza disprezzare le tendenze letterarie europee, tanto da fare la conoscenza di Thomas Mann nella Berlino del marzo 1922.

Già la seconda raccolta, «Steli d’erba» (Byl’ë, 1922), composta da racconti scritti nell’immediato post-rivoluzione, dimostra un forte progresso nella tecnica narrativa, dovuto principalmente all’influenza di Belyj e di Remizov, oltre che alla prosa di Rozanov e Zamjatin. Scompare il punto di vista unico e si delinea un’originale versione di skaz,

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complicando la sintassi con lunghissimi periodi e abbondanza di proposizioni subordinate, talvolta incomplete. Comincia a farsi strada un marcato gusto per la raffigurazione del «lato oscuro», inteso come cinica violenza, spesso sessuale, praticata su esseri indifesi. La libertà primordiale, l’anarchia o la sospensione dei diritti civili, lo attraggono e repellono allo stesso tempo. Qui i modelli letterari spaziano da «Il demone meschino» di Sologub al «Nella conca» di Čechov, per confluire nel concreto vissuto dell’autore stesso: la rivoluzione e la guerra civile, dalle quali sorge l’elemento primordiale sadico e barbarico. Nel «Racconto su Pietro», poi ripubblicato come «Sua Maestà kneeb Piter Komondor» (Rasskaz o Pëtre, 1920; Ego veličestvo kneeb Piter Komondor, 1922) Pil’njak esprime per la prima volta un giudizio totalmente negativo sull’attività «civilizzatrice-occidentalista» di Pietro il Grande.

Ulteriore tappa di caratterizzazione del suo stile è «Rjazan’ la mela» (Rjazan’ — jabloko, 1922), che confluirà poi in «Le macchine e i lupi» (Mašiny i volki, 1924) accompagnata da una chiara dichiarazione d’intenti: Pil’njak vuol essere «bruciato» dalla rivoluzione e «crescere» in base ad essa, vuol sinceramente raffigurare i cambiamenti della contemporaneità.

3. Boris Pil’njak e Evgenij Zamjatin: identità parallele nella cultura sovietica degli anni Venti

La cultura sovietica dei primi anni Venti è un sistema caotico e policentrico, nel quale si distinguono due identità parallele fra loro ed entrambe isolate, restie alla partecipazione in movimenti collettivi, che si

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possono collocare alle origini della prosa sovietica stessa: Boris Pil’njak e Evgenij Zamjatin (1884 — 1937). Distanti tra loro dieci anni, si incontrano nel momento in cui il primo è uno scrittore precoce ed esordiente, mentre il secondo una figura emergente e già riconosciuta. Entrambi sono ritenuti i capostipiti della «prosa ornamentale», dandone, però, due ben diverse versioni. Per Zamjatin esistono una misurata serie di micro-soggetti che accelerano la trama dell’opera fino a condurla al climax finale; per Pil’njak, invece, si contendono la scena tutta una catena di semi-trame composte da elementi eterogenei, volti al contrasto tra loro e alla circolarità.

Negli anni Venti i due sono legati da una profonda amicizia ed entrambi provengono dalla scia lasciata dalla Pietroburgo di Andrej Belyj. Offrono, della nuova realtà nascente, due immagini opposte: Zamjatin un’anti-utopia ideocratica, Pil’njak una semi-utopia pagana. Entrambi fanno seguire al loro primo romanzo e ai primi racconti post-rivoluzionari un’ampia e variegata produzione.

Zamjatin viene immediatamente emarginato dal sistema, in quanto considerato «indubbio immigrato interno»; Pil’njak viene invece assunto come uno dei principali rappresentanti del movimento letterario dei

paputčiki, i «compagni di strada». Mentre l’anno 1921 rappresenta il canto

del cigno della cultura tradizionale, gli attivisti del partito si contendono l’egemonia culturale con le tante associazioni esistenti e stimolano la nascita dei «compagni di strada», sedi letterarie dove tentano di incanalare sotto l’ideale comunista quella fascia di scrittori né militanti, alla pari di Majakovskij o dei rappresentanti della RAPP, né outsider contro il sistema, come le figure di Marina Cvetaeva o Anna Achmatova. Boris Pil’njak ne diventa uno dei principali organizzatori. In parallelo si fa promotore del movimento degli Smena Vech («Il cambio delle pietre miliari»), corrente

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politica nata nel 1921-22 negli ambienti dell’emigrazione fra Berlino e Praga. I rappresentanti di questo movimento sostengono un cambio di atteggiamento nei confronti del bolscevismo, con il quale dover collaborare, poiché vincitore della guerra civile, ma allo scopo di esaltarne il carattere identitario-nazionalistico e, al tempo stesso, tentare di moderarne l’aspetto più utopistico di rivoluzione permanente. Il periodo sembra propizio, grazie all’avvento della nuova politica economica, ma il movimento si esaurisce in pochi anni. Tuttavia, riuscì nel suo intento di offrire un ponte di contatto con la patria per molti intellettuali emigrati e Pil’njak, in questo ambiente, assunse un ruolo di prim’ordine nel reclutare nuovi talenti.

La caratterizzazione contrapposta dei due personaggi si basa soprattutto sul loro approccio al sistema sovietico: Zamjatin pullula di «occidentalismo», del quale esalta la sua predilezione per l’individuo e i suoi diritti, al contrario Pil’njak è devoto a un tradizionalismo antimoderno e, per meglio dire, «asiatico». È nel 1929 che diventeranno il capro espiatorio della prima campagna denigratoria per la «normalizzazione» della letteratura eterodossa.

4. «L’Anno Nudo»: la prosa ornamentale di Pil’njak

Nonostante la produzione degli esordi sia caratterizzata da una serie di espedienti ricevuti in eredità dalle scuole degli anni Dieci, che scatenano una vera e propria «bufera verbale» nei testi, Pil’njak compirà una forte evoluzione dopo gli anni Venti, rendendo la sua opera decisamente più semplificata. Da quel momento comincerà anche ad

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ottenere la fama e un certo seguito tra giovani autori dell’epoca, Pavlenko primo fra tutti.

Seppur la produzione di quegli anni fosse variegata, Pil’njak riesce a sviluppare le sue abilità tecniche senza alterare quello che si può definire come il «tono» unico della sua arte: una sorta di «filosofia della contemporaneità», nella quale si mescolano curiosamente la dottrina nietzchana, rozanoviana e slavofila.

«L’Anno Nudo» (Golyj god, 1922) è il primo romanzo sovietico sulla Rivoluzione d’ottobre. Il suo stile avanguardista sovverte in maniera decisiva la forma di romanzo tradizionale, procedimento con il quale l’autore intende sottolineare come si sia spezzata la continuità storica: la Russia è in preda ad una tempesta di neve che confonde fra loro le epoche, i destini individuali e le ideologie, così il romanzo è costruito con un montaggio velocissimo, incoerente, scene frammentarie e numerose linee narrative sistematicamente mescolate tra loro in modo da esaltarne la diversità. Il principio costruttivo del romanzo è definito dall’assenza stessa di un principio costruttivo: tutto si sorregge sulla violenza, continua e brutale, resa tramite il metaforismo iperbolico, le raffiche di flusso di coscienza, le deformazioni lessicali e sintattiche.

Pil’njak raffigura la Rus’ dell’estrema provincia e campagna: nobili, aristocratici, tra i quali si distinguono sia ferventi comunisti che ostinati zaristi, e contadini, con la loro personale visione della storia. Tutto ciò descritto così minuziosamente da imprimere nella carta paesaggi tanto nitidi quanto corposi. I personaggi vivono in un mondo senza sfumature, né mezzi termini, non dominato da una concatenazione di causa-effetto, bensì da una serie di motivi simbolici-astrali: la tempesta, le stagioni mescolate fra loro, il sole torrido che brucia tutto ciò che esiste di

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convenzionale nella civiltà moderna. L’unica costante che dà struttura al testo è rappresentata da questi leitmotive, prevalentemente derivanti dal mondo naturale, sottolineati tramite l’accumulo di sinonimi e dettagli in serie. Spicca l’abbondanza di simboli atmosferici, specialmente l’afa, il crepuscolo rossastro e brumoso e la luna vitrea, sempre simbolo nefasto. È particolarmente ricco anche il campo zoomorfo, in particolare la presenza dei lupi, rappresentanti della regressione dell’uomo allo stato felino. Si giunge persino al campo fitomorfo e micomorfo.

L’anno 1919 è «nudo» non tanto perché «spogliato» e neppure perché «affamato», come suggerisce Solženicyn, ma è «nudo» in quanto «nudo e crudo», poiché mette «a nudo» la natura segreta della Russia e dei suoi abitanti. Il «427 dell’ottavo millennio», come lo chiama il calzolaio massone Semën Zilotov che non tiene conto del calendario di Pietro il Grande, è un insieme al tempo stesso primordiale ed eterno, selvaggio e autentico. La Russia vive in un millennio circolare, dove niente cambia mai. Denominatore comune, al di là dello spazio e del tempo, è il principio della ljubotà, l’impulso sessuale inteso come il fondamentale motore per il quale tutto accade. Quella «libidine», che per l’uomo civile è violenza e brutalità, nella cultura contadina è la forza vitale che muove ogni essere vivente: il brulicante erotismo pagano irrompe al di sotto della civilizzazione e la ljubotà diventa l’universale principio della fertilità.

La decadenza della vecchia struttura sociale, interpretata dalla famiglia della cittadina di Ordynin, la guerra civile sullo fondo e la regressione della società a un mondo contadino sovratemporale costituiscono i temi principali del romanzo, che si ispira all’eredità de «I Dodici» di Blok, di «Inonija» di Esenin e de «Il colombo d’argento» di Belyj.

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È pertanto chiara la visione della Rivoluzione che Pil’njak ci presenta: un mezzo tramite cui poter tornare all’arcaico, agli strati più profondi della civiltà russa e dell’animo del suo popolo. La Rivoluzione è così l’incontro/scontro fra i diversi modelli di sviluppo susseguitisi nella storia russa: l’impero europeo fondato da Pietro il Grande, la vecchia Moscovia pre-petrina, rappresentata dalla simbolica Kitaj-Gorod, il centro mercantile della Mosca medievale, e la Russia pagana, folcloristica, dello slavo-ecclesiastico e dei vecchi credenti.

La prospettiva nel romanzo è indefinita, data la mancanza di una vera e propria trama: esistono piuttosto micro-trame senza un chiaro incipit che si intersecano e sovrappongono fra loro in continuazione, con un effetto risultante di «frustrazione dell’attesa». Oltre ai piani temporali e al ritmo, scorre in direzione alternativa anche la lingua, talvolta pensata, estremamente ellittica e spezzata da frequenti inserti di documenti genealogici, cronache medievali, preghiere, avvisi commerciali e insegne, filastrocche o invocazioni neopagane. Spontaneamente si creano miti e leggende, come l’insegna «Commutatori, Accumulatori» (Kommutatory,

Akkumuljatory), che viene letta erroneamente dai contadini «A chi i Tatory

e a chi i Ljatory» (Komu Tatory a komu Ljatory). Allo stesso modo, questi elementi vicini alla sperimentazione della lingua zaum’ si contrappongono all’utilizzo preciso e concreto dei termini relativi al paesaggio naturale, agli inserimenti contadini e alle credenze popolari. Spesso Pil’njak si rivolge direttamente ai lettori tramite passaggi lirici-filosofici o inserti ironici all’interno della narrazione. Molti di questi stratagemmi erano tipici della prima prosa letteraria sovietica, ma in «L’Anno Nudo» la tradizionale correlazione fra persone e cose si va a spezzare bruscamente

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nell’improvviso alternarsi di statiche descrizioni, psicologia individuale e caricature, tutto in un continuo dinamismo.

La prosa di Pil’njak è «ornamentale», ritmica e musicale, costantemente marcata dall’uso di ripetizioni, domande retoriche, neologismi e allitterazioni. All’autore non interessa il marxismo o la morale, il suo romanzo è «selvaggiamente anti-intellettuale» , un sogno 3 stralunato e fantasmagorico fatto di continue esagerazioni.

Sintomatica del fervido periodo della guerra, della rivoluzione, della guerra civile e poi del Terrore è l’esagerata ampollosità negli scritti seguenti il periodo della NEP. I rappresentanti del partito e il pubblico cominciarono a preferire la semplicità della letteratura classica con l’avvento della graduale canonizzazione del realismo negli anni Venti. Procede così il triste declino della letteratura sperimentale, che portò alla morte della stessa scuola di scrittura ornamentale.

4.1 Il leitmotiv del viaggio-ricordo nel romanzo «L’Anno Nudo»

Il motivo della ricerca di radici storiche-nazionali, che hanno condotto, nel corso del processo storico, alla società moderna, coniuga il romanzo di Boris Pil’njak con gran parte della produzione a lui contemporanea.

Il tema del viaggio nella profonda provincia russa è stato reso centrale dall’autore. Prima di passare ad analizzare questo, inteso come uno dei leitmotiv principali della produzione pil’njakiana, si presentano due epigrafi che ben riescono a esemplificare la concezione stessa della sua

Cit. in: Dr. D. G. B. Piper, Introduction; Naked Year, Boris Pil’njak; Letture in Russian, The

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opera. Gli avvenimenti descritti nel corso delle pagine del romanzo sono per l’autore solo un insieme di immagini che fanno parte di un prologo che precede l’attimo prima della creazione di momenti basilari volti alla costruzione di un futuro predeterminato, dal quale è impossibile fuggire. Così, nella prima epigrafe tratta dal libro «La vita secondo ragione, ovvero la concezione morale del valore dell’esistenza» di E. Young si legge:

«Ogni minuto soggiace al destino nel mantenere un profondo silenzio sulla nostra sorte fintantoché esso si collega con il corso della nostra vita; e fintantoché il destino tace sulla nostra sorte, a ogni minuto che passa può cominciare l’eternità.»

Anche la seconda epigrafe si ritrova all’inizio del romanzo ed è tratta da un poema di Blok:

«Quelli che sono nati in anni sordi non rammentano il proprio cammino. Noi — figli dei terribili anni della Russia — non potremo scordarci nulla.»

Qui Pil’njak dà voce ai concetti basilari dell’orientamento generale del romanzo: il tema del viaggio e del ricordo del viaggio stesso. Intorno a questi prende forma il resto dei leitmotive.

Al centro della trama, come già precedentemente accennato, si colloca la vita nella città di Ordynin, nome che simbolicamente si rifà al termine «orda», definizione di tribù nomade composta prevalentemente da cacciatori di stirpe asiatica. Già nelle prime pagine si riscontra la sovrapposizione di due piani temporali: il tempo pre-rivoluzionario, del quale si fa una descrizione caricaturesca, e il tempo post-rivoluzionario, momento a partire dal quale l’ordine prestabilito della quotidianità si è

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ormai incrinato e quasi distrutto. La città stessa è condannata a perire, poiché è stato raggiunto l’annientamento dei più profondi valori culturali-esistenziali dell’uomo e la soppressione delle priorità quotidiane cittadine. La catena morale Uomo - Dio - Eternità è stata spezzata dalla rivoluzione e di conseguenza i valori Casa e Famiglia sono stati distrutti.

È necessario porre una particolare attenzione allo spazio che circonda la città e che costantemente è determinato dalla presenza del bosco. Per Pil’njak questo rappresenta una difesa naturale all’interno della quale è possibile ritrovare lo spirito di unione con la natura. Non per niente descrive gli abitanti che camminano per i sentieri del bosco come accompagnati da canti silenziosi: per alcuni quelle canzoni sono l’incarnazione di un sentimento nostalgico e quei sentieri conducono a radure misteriose e fiabesche. In ciò si sottolinea il fatto che la città prima della rivoluzione era parte di un ambiente secolare, antico e naturale. La rivoluzione si è poi diffusa portando con sé sentimenti di speranza ed eccitazione, non come avvenimento storico, quanto piuttosto come ideale di rinnovamento e, infine, si è rivelata uno stravolgimento di quella naturalità che caratterizzava il mondo fino a poco tempo prima. Allo stesso modo la riforma di Pietro il Grande, che aprì le porte dell’antica Rus’ all’Occidente, ha avuto la superbia e la sfrontatezza di trasformare in strade asfaltate quei sentieri in mezzo ai boschi.

Cruciale nella lettura dell’intero romanzo è il tema del treno. Procedendo in un’analisi che porta in superficie il disordine della vita russa al tempo della rivoluzione, il tema del treno esploderà in un climax crescente alla fine del romanzo, nella terza parte, considerata dalla critica la più cupa, ma viene anticipato già nelle pagine iniziali:

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«Nel millenovecentosedici installarono una linea ferroviaria che […] lasciava in disparte la città; e i mercanti, i «padri della città», fecero i furbi per l’ultima volta. Gli ingegneri […] avevano invitato la città a dare una bustarella per avere la linea ferroviaria e i padri della città si dissero perfettamente d’accordo, ma stanziarono una cifra così ridicolmente esigua che gli ingegneri ritennero proprio dover piazzare la stazione a dieci verste di distanza […]. I treni correvano come indemoniati, lasciando in disparte la città […]. E il primo treno che si fermò proprio vicino a Ordynin [al posto di scambio «Mar»] fu un treno rivoluzionario.»4

Il «treno rivoluzionario» è l’elemento che domina l’anno nudo di Pil’njak e per tale motivo deve essere correttamente interpretato. Nell’immaginario collettivo i treni rivoluzionari sono sostanzialmente di due tipi: il treno di propaganda o agitpoezd e il treno blindato o bronepoezd. Nell’agosto del 1918, sulla linea ferroviaria Mosca-Kazan’ fece il suo ingresso per la prima volta il voenno-podvižnyj frontovoj literaturnyj poezd

im. Lenina, ossia il treno culturale militar-rotabile da fronte «Lenin», che

interpretava l’aspetto creativo, fantasioso, quasi ludico della Rivoluzione d’ottobre. Una sorta di opera d’arte militante e di sinistra, tappezzata da parole d’ordine e motti rivoluzionari. Nato come elemento avanguardista, che aveva saputo coniugare la rivoluzione sociale con quella artistica, nel 1922 arriva ad incarnare l’aspetto militare dell’ideale comunista e lo strumento della rivolta del quarto stato. Il bronepoezd diventa così la falange da puntare contro la borghesia internazionale.

Ma nell’anno nudo di Pil’njak non incontriamo né l’uno e né l’altro. È lo smešannyj poezd, il treno misto di carrozze passeggeri e vagoni-merci con

Cit. in Boris Pil’njak, L’Anno Nudo, Letterature UTET 2008.

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il numero 57 ad attraversare la città di Ordynin, tagliandola a metà. Questo incarna la concreta manifestazione di un incubo urbano e il luogo dei punti d’incontro di tutte le linee narrative-compositive frammentarie del romanzo. Il treno n. 57 è il mezzo dei disperati, del borsari neri, delle belle donne da usare come merce di scambio:

«Il treno striscia lentamente; i bruni vagoni sono zeppi di uomini, come quegli uomini lo sono di pidocchi. Il treno tace. Uomini appesi ai tetti, ai predellini, ai respingenti. E alla stazioncina di scambio «Mar», dove i treni non si fermano mai e nemmeno rallentano, il treno ulula, con un ululato umano […].

Ma la stazioncina di scambio «Mar», dove prima i treni neppure rallentavano, fa una carriera fantastica: i sogni del giovane capostazione si avverano. Alla stazioncina di scambio «Mar» è stato installato un posto di blocco, un dazio interno […].

Per un momento il capostazione […] parla come un condottiero. Silenzio. Mormorio. E i capi dei vagoni corrono in fretta lungo il treno. Nel vagone c’è buio. Il capo chiude la porta alle proprie spalle. Nel vagone c’è silenzio. «Che c’è?» domanda qualcuno sordamente. Il capo ha il respiro affannoso e, sembra, allegro. «Donne, ragazze, dico a voi», dice il capo in un bisbiglio frettoloso. «C’è l’ordine di mandare le migliori da loro, dai militari; non ci posso far niente», dice.»5

Il treno rivoluzionario n. 57 è la macchina tramite la quale i bolscevichi hanno condotto la rivoluzione, l’oggetto della modernità che ha sradicato la natura intorno Ordynin e ha sotterrato quel bosco fino ad allora dimora di primitivi valori umani e della più antica essenza della civiltà russa barbarica.

Cit. in Boris Pil’njak, L’Anno Nudo, Letterature UTET 2008.

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5. La censura, la diffamazione, l’arresto

L’azione deformante e sperimentale di Pil’njak alla lunga si va a standardizzare in un cliché. I cicli successivi a «L’Anno Nudo», «La terza capitale» (Tret’ja stolica, 1923) e «Le macchine e i lupi» (Mašiny i volki, 1924), appaiono eccessivamente ripetitivi e con una progressiva tendenza alla generalizzazione ideologica nella contrapposizione Asia-Europa.

Più definiti sono invece i racconti di quel periodo, che rimangono stilisticamente più orientati sulla scia de «L’Anno Nudo». Due esempi peculiari ne sono «Vento Umano» (Čelovečeskij veter, 1925) o «Madre umida terra» (Mat’ syra zemlja, 1924), cronaca delle terre dell’Oltrevolga, selvagge e ferine. La misteriosa e cupa Russia delle campagne si lega alle tradizioni popolari più orientali nella storia del comunista Nekul’ev. In questa

povest’, tuttavia, Pil’njak non presenta ancora con chiarezza la sua

posizione nei confronti della dottrina politica: da una parte si riconcilia con il comunismo e lo incarica della missione di illuminare l’intelletto delle oscure masse contadine; dall’altra, ripetutamente, accusa e colpevolizza i comunisti della meccanizzazione, razionalità e negligenza dell’animo popolare.

Questa posizione conduce l’autore alla pubblicazione della raccolta di racconti «Rasplesnutoe vremja» (1927), dove non si presenta minimamente il tema della rivoluzione. Tutta l’attenzione tende, invece, a concentrarsi sui conflitti e i tormenti dell’animo umano: la nascita, la crescita, la maggiore età, l’attrazione fisica e l’amore profondo, fino alla morte, conducono la riflessione dell’autore ancora una volta sulla riconciliazione con la natura e gli elementi di vita quotidiana.

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Fu con l’inizio della politicizzazione della critica letteraria e l’intensificarsi dell’intransigenza di questa dalla metà degli anni Venti, che cominciarono a sorgere i primi dissapori con la sfera politica del paese, dopo la pubblicazione di «La luna non si spense» (Povest’ o nepogašennoj

luny, 1926), in cui l’eroe rivoluzionario Gavrilov viene costretto dal partito

a operarsi d’ulcera per il bene della rivoluzione e muore in sala operatoria. Non che il racconto si distingua in maniera particolare da altri, anzi la narrazione appare piuttosto statica, tradizionale, con la luna nuovamente assunta a simbolo di morte. Eppure le autorità vi notarono un’allusione alle circostanze che avevano condotto alla morte di Michail Frunze, leader bolscevico deceduto per avvelenamento durante un’operazione chirurgica, nonché un’implicita accusa che tale morte fosse stata voluta da Stalin. Pil’njak fu così censurato pesantemente. Di risposta, tentò di riconquistare la ribalta con opere ortodosse, quali reportage dall’estremo Oriente confluiti in «Le radici del sole giapponese» (Korni japonskogo solnca, 1927) e «Grande cuore» (Bol’šoe serdce, 1927).

Il processo di diffamazione da parte della stampa sovietica raggiunse il suo apice con la brutale campagna diffamatoria cominciata nel 1929 e portata avanti da diverse riviste letterarie. Queste gli rimproverarono, tra l’altro, la mancanza di uno schieramento politico chiaro.

Con la pubblicazione del romanzo «Mogano» (Krasnoe derevo, 1929) a Berlino, Pil’njak incrementa ancora di più la tensione con la stampa sovietica. L’opera, dal punto di vista stilistico e tematico, rappresenta un indubbio ritorno ai moduli de «L’Anno Nudo». Si riconosce nuovamente l’immagine della Russia come ciclico rinnovo della vita naturale, come pluralità di spazi e tempi, tenuta insieme dal girovagare di uomini in comunità. Si ripresenta così il tema del cammino di «confraternite» e di

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«oranti per il mondo» che tengono in piedi la nazione durante il «millennio di vita russa» e in cui la devozione popolare è resa tramite un’accentuata fisicità: feticismo e adorazione estrema. Allo stesso modo ritorna la Kitaj-Gorod di Mosca, prototipo di ogni forma di società possibile, Babele di linguaggi, vaso contenitore di canti, lodi al Signore, bestemmie e alcolismo, alla ricerca di estasi mistica. Queste comunità itineranti di «folli di Dio» sono messe a confronto con quelle degli antichi maestri artigiani del mogano, ex servi della gleba, ascetici e devoti alla propria arte. Coloro che, dopo la guerra, confluirono in confraternite di maestri restauratori, viandanti, eterni pellegrini attraverso la Russia, gli stili e le epoche dell’Impero. L’incipit descrittore trasporta il lettore fino alla celebre cittadina di Uglič, dove fu assassinato lo zarevič Dmitrij. Qui le chiese e le campane, «Brugge russa, Kamakura», fanno riferimento alle città d’arte belga e giapponese, alludendo così al legame fra Oriente e Occidente e al ruolo cruciale della Russia, ormai reciso dalla rivoluzione e dalla modernizzazione tecnologica. È in questa Brugge e Kamakura russa che nel 1928 vengono abbattute le campane per ricavarne metalli.

Non fu tanto il tema a destare scandalo, quanto il fatto che Pil’njak avesse scelto di pubblicare la povest’ presso una casa editrice d’emigrazione, pratica piuttosto comune negli anni Venti. Tra l’altro, l’autore era da poco entrato nel comitato di redazione della rivista parigina Bifur (1929-1931) come ultimo tentativo di fornire una spiaggia comune alle avanguardie europee, Russia compresa. Qui, al fianco di Gottfried Benn e James Joyce, collaborò con Babel’, Šklovskij, Erenburg e molti altri capi saldi della cultura sovietica «di tendenza».

Il fatto di ritenere il regime comunista un semplice anello nella storia russa, una fase di transizione, di non avere fede nella Rivoluzione e la

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convinzione di credere solo nella Russia e non nel comunismo, condussero Pil’njak alla terribile accusa di trockismo, anche per aver stretto legami di amicizia con alcuni sostenitori di Lev Trockij (tra cui Karl Radek). Amareggiato dalle critiche sempre più insistenti ed espulso dall’Associazione panrussa degli scrittori (di cui era presidente), Pil’njak fa atto di costrizione e viene parzialmente reintegrato nel sistema, pubblicando solo opere attinenti al partito dal punto di vista ideologico, come «Il Volga sfocia nel Mar Caspio» (Volga padaet v Kaspijskoe more, 1929).

In questi ultimi anni l’autore compì altri viaggi all’estero: Parigi, New York, Tokyo, di cui sono rimaste opere come «O’kej: un romanzo americano» (O’kej: amerikanskij roman, 1933). Gor’kij ritenne queste ultime un solenne atto di lealtà, sufficiente per riscattare gli errori del passato, e acconsentì a farlo partecipare nel 1933 alla spedizione collettiva al canale di Belmor.

Il 28 ottobre del 1937 Boris Pil’njak fu arrestato con l’accusa di spionaggio, anche a causa della sua permanenza in Giappone e della previa stesura del romanzo «Le radici del sole giapponese» (Korni

japonskogo solnca, 1927) e fu condannato a morte. Secondo alcune fonti la

fucilazione avvenne quello stesso giorno a Mosca. Secondo altre testimonianze sarebbe stato arrestato nel 1937, nel pieno del Grande Terrore, e come Babel’ deportato in Siberia a causa delle sue origini ebraiche, per essere poi fucilato l’anno successivo in un gulag.

Dal 1938, le sue opere smisero di essere pubblicate in URSS, e il suo nome fu riabilitato solo nel 1956. Nel 1964 la rivista Moskva pubblicò alcuni capitoli del suo ultimo romanzo, un’ampia opera autobiografica, «Il fondaco del sale» (Soljanoj ambar, 1937). 


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Capitolo II

«Povest’ Peterburgskaja, ili Svjatoj kamen’ gorod»

FIGURA 1. COPERTINA ORIGINALE REALIZZATA DA V. MASJUTIN DELLA RACCOLTA «POVEST’ PETERBURGSKAJA ILI SVJATOJ KAMEN’ GOROD», 1922.

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1. La storia editoriale

Nel giugno 1922 viene stampata presso la tipografia Sinaburg&Co, per la casa editrice Gelikon (Mosca-Berlino), «Povest’ peterburgskaja, ili

Svjatoj kamen’ gorod», piccola raccolta di Boris Pil’njak, contenente i

racconti «Ego veličestvo kneeb Piter Komondor» e «Sankt Piter Burch» con illustrazioni di V. Masjutin.

Il primo racconto appare già nella raccolta «Byl’ë» nel 1920 con il nome «Rasskaz o Pëtre», ma è nel 1922 che acquista la fama come «Ego

veličestvo kneeb Piter Komondor». Nel 1924 entra a far parte della raccolta di

tre volumi «Nikola-na Posad’jach» e poi nell’ottavo volume di «Sobranija

cočinenij», uscita come opera completa delle produzioni di Pil’njak tra il

1929 e il 1930. Appare anche nelle raccolte «Rasskazy» (1932) e «Izbrannye

rasskazy» (1935). Il racconto ha attirato su di sé molte attenzioni da parte

della critica del tempo e viene considerato forse come una delle miglior produzioni narrative di Pil’njak del periodo. Lo stile ricorda le lettere degli artisti della scuola olandese, ma non si avvicina alla prosa anemica della narrativa contemporanea. Nelle sue pagine, «Rasskaz o Pëtre» trasporta il lettore dentro un’epoca passata, dentro un personaggio cruciale nella storia russa e apre i cancelli a una rivoluzione culturale che ha lasciato tracce indelebili in quella incantata San Pietroburgo, divenuta moderna e cosmopolita.

Il secondo racconto, «Sankt Piter Burch», fu scritto tra il 6 e il 20 settembre 1921 e apparve per la prima volta insieme al racconto «Ego

veličestvo kneeb Piter Komondor» in «Povest’ Peterburgskaja, ili Svjatoj kamen’ gorod» nel 1922. Anche questo si aggiunge nella raccolta «Nikola-na Posad’jach» nel 1923, così come in «Sobranija sočinenij».

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In «Nikola-na Posad’jach — Počinki pod Bogorodskom» Pil’njak inserisce entrambi i racconti come produzioni indipendenti e nell’ordine contrario a quello presentato in «Povest’ Peterburgskaja».

2. La dialettica Oriente-Occidente in Pil’njak: il senso profondo

della Rivoluzione del 1917 come ritorno ai valori dell’antica Rus’ slavo-ortodossa

Per Pil’njak la rivoluzione costituisce l’anello temporale perfetto per un concreto ritorno alla Russia del XVII secolo. Pietro il Grande con la sua occidentalizzazione forzata della Russia slavo-ortodossa diede impulso ad un terribile periodo, sia politico che artistico, simbolo di una modernizzazione letale, che condusse alla distruzione dei più puri valori slavo-orientali.

La Rivoluzione del 1917, invece, consentirà la resurrezione della Grande Russia dell’epoca pre-petrina, con la sua Mosca delle isbe contadine, contrapposta alla paludosa e tedesca Sankt Piter Burch. Quella bestialità culturale in cui era immersa la vita appena prima dello scoppio della rivoluzione è simbolo di un’identità infranta e corrotta dalla volontà dello zar Pietro il Grande, ma è finalmente arrivato il momento di un ritorno a principi morali antichi ed eterni.

La fame e la devastazione lasciate dalla rivoluzione aiuteranno la stessa nazione a riacquistare la propria identità e a far riemergere quella primordiale Russia, in cui l’uomo e il bestiame convivevano sotto lo stesso tetto, riscaldati dal fuoco e illuminati da lampade a olio, quella Russia dei briganti e delle rivolte contadine, di Pugačëv e Sten’ka Razin. Pil’njak

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percepisce la fame primordiale dell’uomo russo, contrapposta al deperimento culturale dell’Europa moderna.

La sostanziale anarchia dello scrittore si ripresenta in modo continuo nella sua opera, tanto a livello stilistico quanto tematico. L’esaltazione degli aspetti «romantici», emozionali, della realtà, riportati nei suoi racconti, corre in parallelo con quel positivo «primitivismo» che contraddistingue la sua intera produzione. Il vero carattere del popolo russo si esprime pienamente nella sua storia pagana, asiatica, orientale. È in questa prospettiva che «tutto il male della Russia proviene dalla riforma di Pietro il Grande» il cui tentativo di «europeizzare la Russia è per Pil’njak un inutile travisamento dell’indole di questo Paese, un’erronea pretesa di raziocinio» . Allo stesso modo, il tentativo dei bolscevichi di 6 trasformare la genuinità della realtà antropica russa non può che dimostrarsi un’utopia. È così che si rivela l’estremismo ideale dell’autore: i veri rivoluzionari non sono i bolscevichi, ritratti in «Mogano» come traditori, ma quei folli che cercano di tener fede alla purezza di un’idea.

L’ideale stesso si rivela al di là di ogni utopia storica e non coincide con un’ideologia in particolare, ma si lega intrinsecamente all’animo russo, al suo essere primitivo e istintivo, per natura folle. Essendo la «rivoluzione» dei bolscevichi un’utopia, si colloca in un punto intermedio tra la verità e la follia, che spesso collidono tra loro e talvolta addirittura coincidono.

Negli ideali rivoluzionari importati dall’Europa occidentale c’è una falsa presunzione d’ordine che si dimostra inadeguata alla realtà russa. Pil’njak si definisce pertanto uno «slavofilo», ma con «un’idea non

Cit. in: A. M. Ripellino, I lupi di Pil’njak, in Letteratura come itinerario nel meraviglioso,

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ortodossa (dal punto di vista slavofilo) della natura fisica pagana del popolo russo» . Né l’autorità religiosa, né quella politica sono in grado di 7 esprimere l’autenticità della natura russa, poiché rappresentano delle parodie del vivere civile acquistate dall’Occidente. Sono, invece, gli

jurodivye, i folli in Cristo, ad essere i veri «credenti», personalità che

tradizionalmente interpretano la vita della Russia delle origini, dei tempi dei primi zar. Tali personaggi non vengono descritti da Pil’njak nel loro spiritualismo, quanto piuttosto in una dimensione naturale di esseri vivi e consistenti, ancorati tramite un rapporto ancestrale alla realtà primitiva, statica e immutabile, nella quale il tempo sembra essersi fermato. I personaggi di Pil’njak non sono personalità attive, ma identità prive di moti interiori, esseri passivi, attratti dalla natura stessa che li circonda e con la quale talvolta finiscono per confondersi. Nel corso del loro destino si assiste al compimento di una tragedia iniziata con il consumarsi della letteratura russa a partire dal secolo precedente. Per questo Pil’njak lo si può considerare come uno di quegli autori che mantennero uno stretto legame con gli scrittori che lo avevano preceduto.

È necessario evidenziare l’importante debito che lo stile di Pil’njak deve all’opera di Belyj «Il colombo d’argento». Si possono rintracciare numerosi parallelismi tra quest’ultimo e la prima produzione pil’njakiana, soprattutto per quanto riguarda la problematica Oriente-Occidente, sfondo continuamente presente in «Povest’ Peterburgskaja». Laddove Belyj proponeva il motivo dell’andata verso il popolo da parte del suo eroe, in Pil’njak si trovano gli eventi e le idee della rivoluzione, di chiara matrice occidentale, che penetrano in profondità nella vita dei «sempliciotti» delle

Cit. in: A. M. Ripellino, I lupi di Pil’njak, in Letteratura come itinerario nel meraviglioso,

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steppe e delle campagne russe, rappresentanti diretti di quell’elemento orientale intrinseco al popolo russo. In Pil’njak non esiste l’eroe, la realtà si frammenta, così come l’io drammaticamente interpretato dai suoi personaggi. La crisi esistenziale che già in Belyj conduceva alla distruzione e alla morte del personaggio, in Pil’njak raggiunge l’autodistruzione e il suicidio. È una crisi storico-cosmica, pertanto la realtà descritta nei racconti rappresenta il compimento di quelle attese sul futuro già presenti in Belyj, ma che ora assumono un senso di disillusione e amarezza.

Le forze irrazionali e trascendenti che muovono i fili della storia e i destini degli uomini hanno anche determinato l’avvento del potere comunista in Russia. Quando questo motore irrazionale, che condiziona e talvolta determina il futuro delle nazioni, entra in gioco nella storia, ne deriva una realtà assurda, tragica e al contempo con aspetti comici. In Russia è come se fosse in atto una fiaba: l’uomo crea la rivoluzione, iniziata proprio come una fiaba. La realtà diviene per Pil’njak simbolica e negli angoli più paradossali e irrazionali di quest’ultima si incontra la verità.

La cultura ascetica e mistica dei popoli è per Pil’njak la cultura orientale, non inferiore a quella occidentale, che è invece materiale e incapace di un rinnovamento e un progresso spirituale. Le leggi che regolano la vita e la storia della Russia sono leggi naturali: non è possibile cogliere le coordinate più pure della cultura russa solo considerando un momento o una fase storica in particolare senza far riferimento anche alle radici, alle origini di quella cultura stessa. Da questa concezione non può che nascere una duplice visione nei confronti della rivoluzione: positiva quando intesa come nuova era, ma critica in quanto altra fase di trasformazione della storia russa.

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La realtà storica degli anni rivoluzionari descritta da Pil’njak è come un sogno passato, che è possibile analizzare con distacco: si riesce a cogliere la disumanità, l’artificiosità e la meccanicità dell’incedere travolgente, letale e cieco, simile a una bufera, della rivoluzione. Questa, dunque, «non è più il conflitto fra proletariato e borghesia, ma fra l’Oriente, rappresentato dalla Russia campestre, e l’Occidente, rappresentato dalla Russia cittadina» , diventa un tentativo di 8 conciliazione dell’elemento orientale con quello occidentale. In questa fusione e compenetrazione è possibile intravedere il presagio di una compromissione della Chiesa ortodossa russa con lo Stato, portatore di un’ideologia occidentalistica. Così Pil’njak individua segni di una chiara corruzione che è dilagata inesorabilmente sia all’interno della Chiesa russa, che dello Stato, fino alle campagne. È come se nell’opera fosse presente una forte esigenza di indagine della realtà e di profondo realismo, volto alla testimonianza e alla denuncia delle vicende contemporanee all’autore.

Dal punto di vista storico, la rivoluzione ha accentuato il contrasto Oriente-Occidente nella vita russa: da un lato evidenzia l’elemento asiatico, contraddistinto da miseria e cannibalismo, dall’altro accentua l’elemento occidentale, caratterizzato dalla meccanizzazione, industrializzazione e urbanizzazione. Ha lasciato aperta e ha acuito, nella storia e nella cultura russa, la tensione tra i due poli opposti, così come avvenne già all’epoca di Pietro il Grande. La necessità di una risoluzione a tale problematica era certamente stata avvertita da Pil’njak, nel quale, però, ritroviamo solamente l’analisi di una realtà volta al passato, che

Cit. in: A. M. Ripellino, I lupi di Pil’njak, in Letteratura come itinerario nel meraviglioso,

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sembra ripercorrere continuamente alcune fasi del cammino storico. Una conciliazione armonica e definitiva tra quelle due polarità in contrasto tra loro non si è mai verificata, ma è necessario un superamento di quei confini storico-culturali che possa portare alla rinascita dell’identità del popolo russo. Avviarsi per questo cammino significa prima di tutto allargare i propri orizzonti attraverso numerosi viaggi in America, Asia ed Europa stessa. È il Giappone, in particolare, a richiamare l’attenzione dello scrittore sul dibattito Oriente-Occidente, in quanto, nonostante rappresenti uno degli estremi confini del continente asiatico, devoto ad antiche tradizioni spirituali, aveva saputo elaborare un’elevata cultura tecnologica senza dover rinunciare a quella stessa spiritualità. Se il Giappone, paese orientale, era riuscito a conciliare i due poli, il dramma della Russia consiste nell’essere un paese che per la sua storia non è né Europa né Asia, e che, pur avendo in sé la cultura europea e quella asiatica, non ha trovato un giusto equilibrio tra le due.

L’unico possibile superamento della dialettica Oriente-Occidente sembra allora risiedere nell’affermazione di alcuni valori universali, quali la solidarietà e la fratellanza fra gli uomini, ma soprattutto l’arte, che racchiude in sé la possibilità di riavvicinare gli uomini tra loro. La missione di Pil’njak, in quanto scrittore, diventa quella di riuscire a superare le barriere nazionali e culturali tramite la propria arte, con l’obiettivo di conciliare quei valori che apparentemente sembrano inconciliabili fra loro.

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3. La San Pietroburgo di Pietro il Grande nelle povesti di Pil’njak

Il 7 agosto 1921 muore Aleksandr Blok. Due settimane più tardi Pil’njak scrisse all’amico Evgenij Zamjatin: «È già autunno. Piove. E ho bisogno di scrivere. Adesso scriverò su Pietroburgo. «Sankt Piter Burch», e questo sarà in memoria a Blok. Scrivetemi il titolo di libri in cui è possibile leggere di Pietroburgo.» A Marija Michajlovna Škapskaja domandò: «Mi 9 scriva come morì, come lo avete sepolto, e tutto ciò che riguarda Blok.

«Sankt Piter Burch» la dedico a lui, alla sua memoria, perché nessuno si è

accorto di quanto abbia studiato Blok» . 10

La nascita della nuova capitale nel racconto «Ego veličestvo kneeb Piter

Komondor» è indissolubilmente legata alla figura di Pietro, folle,

alcolizzato, sifilitico, nevrastenico. È un «uomo fino alla fine dei suoi giorni rimasto bambino, più di tutto amante del gioco, e che tutta la vita giocò: alla guerra, alle navi, alle sfilate, alle assemblee, alle luminarie, all’Europa» . È un «uomo assolutamente privo del senso di responsabilità, 11 colmo di dispregio per tutto, che fino alla fine dei suoi giorni non comprese né la logica della storia, né la fisiologia della vita nazionale.» 12

Così G. Gorbačev caratterizza il personaggio di Pietro il Grande in Pil’njak:

Cit in: A. Blok, Novye materialy i issledovanija, Mosca 1982 in: Boris Pil’njak, Opyt

9

segodnjašego pročtenja, Mosca 1995.

Cit in: A. Blok, Novye materialy i issledovanija, Mosca 1982 in: Boris Pil’njak, Opyt

10

segodnjašego pročtenja, Mosca 1995.

Cit in: B. Pil’njak, Povest’ Peterburgskaja, Ego veličestvo kneeb Piter Komondor, 1922.

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Cit in: B. Pilnjak, Povest’ Peterburgskaja, Ego veličestvo kneeb Piter Komondor, 1922.

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«Сам Пётр, это - насильник, безумец, делающий все случайно и ненужно. Окружающие его или шуты, или изверги, или жулики. Петербург, это - безумная фантазия больного ума, пародия на Европу и кощунство над русской святыней... Настоящая Россия не признает ни Пётра - антихриста , ни его выдуманного города.»13

«Lo stesso Pietro è uno stupratore, pazzo, che fa tutto a caso e inutilmente. Lo circondano o giullari, o mostri, o farabutti. Pietroburgo è la folle fantasia di una mente malata, parodia dell’Europa e bestemmia contro la sacralità russa… La vera Russia non riconosce né Pietro-l’anticristo, né la sua irreale città.» 


Pil’njak espone un evidente tributo al culto storico della personalità: così com’è terribile la figura dell’imperatore, lo è anche la costruzione di Pietroburgo, che emerge dal racconto «selvaggia, impetuosa e violenta». La città è un cumulo di macerie fatte da ossa umane, scheletri animali e boschi sradicati.

L’autore descrive la marina militare dell’impero russo, l’organizzazione della cancelleria, la camera di tortura nella quale venivano condotti gli interrogatori, così come l’ufficio nel Palazzo Italiano, il Giardino d’Estate durante le feste, la Cattedrale della Trinità nel giorno della funzione pasquale. Tutto ciò con un unico obiettivo: mostrare che nella nuova capitale prosperano l’inganno, l’ubriachezza, la baldoria e la nuova burocrazia, nata dall’incrocio di quella russa e quella tedesca, volta a schiacciare qualsiasi tipo di dissidente.

Il protagonista del racconto, l’oberoffiziere Zotov, a Pietroburgo si 14 sente tagliato fuori dalla nazione Russia, che ama come la madre persa

Cit in: Očerki sovremennoj literatury, L. Gosizdat, 1925 in: B. Pil’njak Sobranie sočinenij tom

13

pervji, Mosca, Terra-knižnyj klub, 2003.

Dal tedesco: «ufficiale superiore della guardia», nome che indica la categoria

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durante l’infanzia. Sul diario, il suo jurnal, scrive la propria biografia ed esprime il suo odio nei confronti di Pietro il Grande: ogni qual volta si trova a riflettere sul sovrano, tutto il suo essere emana angoscia e dolore.

La Pietroburgo di Pil’njak è una città spaventosa, dalla fitta nebbia e dalle putride paludi, lo stesso sole all’imbrunire sprofonda nelle fangose acque dei canali, dalle quali risorge il mattino dopo ancora più torbido. La nebbia è fitta come fango, così marzo sembra ottobre e il giorno di Pasqua è grigio, umido e paludoso. Il lugubre paesaggio si presta a caratteristici bozzetti: la Neva si gonfia e si scurisce al passaggio della fregata , che 15 ricorda lo scheletro di un gigantesco mammut diretto verso la

Kunstkamera. La città, sviluppatasi in terra straniera e su terre paludose,

viene ogni volta esaltata nella sua mostruosità e contrapposta allo splendore dell’antica Rus’. Rendendo omaggio allo slavofilismo, Pil’njak segue la tradizione di Innokentij Annenskij, secondo cui Pietroburgo è il frutto di un errore maledetto, e Dmitrij Merežkovskij, che la considera la città della fallita sintesi tra Oriente e Occidente. Per Pil’njak il paradiso di Pietro è un ridicolo incidente, un atto di sopruso nei confronti della storia del popolo russo.

Nel racconto «Sankt Piter Burch» si narra di come sia possibile rimediare a questo fatale errore, che ha reso l’antica capitale una realtà mediocre, la cui anima e il cui corpo sono ormai morti.

Così come Pil’njak, anche molti suoi contemporanei hanno attinto all’immaginario della «città morente». Tale sensazione angosciante pervade la poesia di Nikolaj Gumilëv, «Zabludivšijsja tramvaj» (1921), così come Evgenij Zamjatin riporta in «La caverna»: «Un mammut dalla proboscide grigia vagava di notte tra le rocce, là dove secoli prima si

Nave da guerra destinata a proteggere altre navi da guerra o navi mercantili.

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trovava Pietroburgo. E gli uomini delle caverne, avvolti in pelli, cappotti, coperte, stracci, battevano in ritirata da una caverna all’altra.»16

Pil’njak visitò per la prima volta Pietroburgo nel 1921. Un anno dopo scrive: «Andai a Pietroburgo per la prima volta in primavera, vivevo da Gor’kij. L’amicizia con gli scrittori pietroburghesi è diventata molto più forte rispetto a quella con i moscoviti.» I suoi racconti si basano 17 unicamente su quella visita, ma la riflessione tagliente sulla città non cambierà nel corso degli anni. Il simbolo di Pietroburgo per Pil’njak non è il Cavaliere di bronzo, quanto piuttosto la casa in pietra nel deserto centro della città. L’autore mette in piedi un parallelo tra il destino della metropoli e quello dei suoi abitanti, che conduce all’autoannullamento di entrambi.

Boris Andreevič scrive di Pietroburgo sotto l’innegabile influenza del romanzo cardine di Andrej Belyj. L’idea di quest’ultimo presenta l’intera città, dagli infiniti prospetti, che si erige al di sopra di una voragine aperta, inghiottendo inesorabilmente i suoi palazzi e i suoi abitanti. Piter è la pietra, e la mediocre grad Sankt Piter Burch, composta da tre parole, è la

Santa-Pietra-Città. Nella morente Pietroburgo c’è solo un luogo in cui la

speranza di sopravvivenza persiste: è lì che la vita continua, il cinese sradica i magri pioppi, raccoglie tutte le pietre e i sassi, concima la terra, pianta il granturco, il miglio e le patate.

Il tema della città del Santo Pietro emerge spiccatamente nei racconti pietroburghesi, ma non si ripresenterà in maniera tanto approfondita nelle opere successive di Pil’njak. Lo stesso autore si rivolgerà in maniera critica

Cit in: E. Zamjatin, La caverna, 1920.

16

Cit in: B. Pil’njak, Pisateli o sebe, Novaja russkaja kniga, Berlino, 1922 in: Boris Pil’njak,

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ai racconti e li inserirà senza dar loro troppa visibilità o importanza nell’ultimo tomo della raccolta della sua produzione.

4. La questione della lingua in Pil’njak: l’impiego dell’ortografia russa settecentesca in Povest’ Peterburgskaja

4.1 Le origini della lingua russa

La lingua russa moderna è il prodotto di tutte le trasformazioni che a partire dai secoli X-XI subisce la lingua degli Slavi orientali nelle varie fasi della sua evoluzione. Gli Slavi orientali, intorno ai secoli VII-VIII, cominciarono a insediarsi sui territori che si estendevano dal Mar Baltico ai laghi Ladoga e Onega, fino al Mar Nero, alla Dvina e al Dnepr, raggiungendo poi i corsi superiori del Don e del Volga. Nel IX secolo, nella parte centrale del bacino del Dnepr si costituì il primo Stato russo, chiamato Rus’, la cui capitale fu fissata a Kiev. Assieme a questa nacquero e si svilupparono altre città, tra cui Novgorod-Velikij e Smolensk. Nella Rus’ di Kiev convivevano tribù che parlavano la lingua slava orientale, detta anche lingua russa.

La tradizione scritta ebbe inizio nel secolo XI con la diffusione del cristianesimo presso gli Slavi orientali e con l’introduzione nella Rus’ kieviana dei testi liturgici portati dai missionari della Chiesa bizantina. La comparsa della scrittura nella Slavia orientale è dovuta in buona parte alla missione compiuta circa un secolo prima in Moravia da Costantino (Cirillo) e Metodio, i missionari che su invito del principe moravo Rostislav furono inviati da Bisanzio nell’863 a evangelizzare la

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popolazione slava di quelle terre. Per svolgere la missione, crearono un alfabeto adatto alla lingua di quei popoli e tradussero alcuni testi sacri secondo la politica della Chiesa di Bisanzio, che ammetteva la predicazione del cristianesimo nella lingua degli slavi presso cui si stava compiendo la missione evangelizzatrice, a differenza della Chiesa di Roma che imponeva il latino come unica lingua liturgica. La lingua usata da Cirillo e Metodio per tradurre in slavo le prime opere prende il nome di slavo-antico o paleoslavo (staroslavjanskij jazyk).

Tuttavia, la tradizione letteraria fondata da Cirillo e Metodio in Moravia fu presto interrotta dai feudatari locali e dal clero germanico: il paese fu invaso dai Magiari e gli allievi dei monaci greci furono costretti a fuggire, prima in Serbia, poi in Bulgaria, portando con sé i testi liturgici tradotti nella lingua slava e lì continuarono la loro missione evangelizzatrice. I monaci bizantini, in seguito, riuscirono anche a diffondere il loro cristianesimo nella Slavia orientale pagana, costituendo così la primogenita Slavia ortodossa e consolidando la frattura fra la Chiesa d’Oriente e la Chiesa d’Occidente. Il fatto che gli stessi testi circolassero fra gli Slavi della Moravia, della Serbia, della Bulgaria e della Rus’ di Kiev è fondamentale in quanto testimonia che nei secoli IX-X l’area linguistica slava meridionale era ancora piuttosto vicina a quella orientale.

Nel 988 il principe Vladimir di Kiev si convertì al cristianesimo di confessione greco-ortodossa, divenendo questa la religione ufficiale degli Slavi orientali. Con tale cristianizzazione si introdusse la scrittura e si diffusero i testi della tradizione cirillo-metodiana.

Con il regno di Jaroslav il Saggio (1019-1054) nella stessa lingua in cui erano stati scritti i testi liturgici, detta anche slavo-ecclesiastico

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Jaroslav venne composta la Russkaja Pravda (Legge russa), il più antico corpus di leggi russe che rispecchiano l’antico diritto degli Slavi orientali e affondano le proprie radici nella tradizione che precede la cristianizzazione e la comparsa della scrittura.

Lo slavo-ecclesiastico è la lingua liturgica slava meridionale che si ritrova attestata in Bulgaria dal secolo IX, dopo che si erano insediati come profughi dalla Moravia i discepoli di Cirillo e Metodio. Quando tale lingua riuscì a penetrare nella Rus’, dove già esisteva una tradizione poetica particolarmente viva, subì l’influenza del patrimonio culturale pagano, folcloristico e della poesia orale, assimilando forme tipiche della lingua parlata. Conseguentemente, questo slavo-ecclesiastico di redazione russa (cerkovno-slavjanskij jazyk russkogo izvoda) diviene la lingua letteraria scritta dell’antica Rus’.

Tale peculiare situazione, che vedeva convivere la lingua locale della Rus’ di Kiev con lo slavo-ecclesiastico, lingua liturgica adottata dalla Chiesa slavo-ortodossa, rappresenta un tema centrale negli studi sulla storia della lingua letteraria russa. Le ipotesi avanzate in merito alla formazione di tale antica lingua sono di due tipi: secondo la prima, lo slavo-ecclesiastico e il russo erano lingue differenti, perciò nell’antica Rus’ si era creata una situazione di bilinguismo, secondo l’altra, nel periodo più antico della storia della lingua russa vi era un’unica lingua letteraria, impiegata per diverse funzioni.

Accanto agli innumerevoli interventi e studi sulla questione linguistica, affrontati nel corso dei secoli, facciamo qui riferimento alle teoria di B. A. Uspenskij, presentata per la prima volta al IX Congresso internazionale degli Slavisti nel 1983. Secondo lo studioso, la lingua letteraria russa dall’XI secolo fino alla fine del XVII secolo è lo

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slavo-ecclesiastico, che i russi presero in prestito dagli Slavi meridionali e considerarono ben presto come la forma codificata della propria lingua parlata. Pertanto, in Russia sono convissute per molto tempo entrambe le lingue, legate tra loro da un rapporto di diglossia. Svolgevano funzioni complementari, ma gli abitanti dell’antica Rus’ le percepivano come una sola lingua comprendente quella libresca, codificata, normativa, modello per la lingua letteraria e perciò legata alla tradizione scritta, e quella non libresca, lingua viva legata alla vita quotidiana. Uspenskij specifica tre fenomeni che contraddistinguono la diglossia slavo-ecclesiastico/russo: a) l’impossibilità di utilizzare la lingua dotta, cioè lo slavo-ecclesiastico, come lingua parlata; b) la mancanza di una codificazione della lingua parlata; c) l’impossibilità di compiere traduzioni dall’una all’altra. Dunque, la storia della lingua letteraria russa risulterebbe come la storia del passaggio dalla diglossia slavo-ecclesiastico/russo nei secoli XI-XVII prima al bilinguismo slavo-ecclesiastico/russo nei secoli XVII - inizio XIX, poi al costituirsi di una nuova lingua letteraria e al suo definitivo consolidamento dal XIX secolo fino ai giorni nostri.

4.2 L’alfabeto russo: le trasformazioni dalla tradizione cirillo-metodiana alla grande riforma di Pietro il Grande e alla definitiva riforma novecentesca

Gli antichi testi slavi sono scritti con l’alfabeto glagolitico, creato da Costantino (Cirillo), e quello cirillico, prodotto del tentativo dei discepoli cirillo-metodiani di adattare la scrittura onciale greca alle peculiarità fonetiche della lingua slava. Nel corso dei secoli questo alfabeto subisce delle trasformazioni sia a livello ortografico, che delle lettere di cui si era

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perso il valore fonico originario. All’epoca della seconda influenza slava-meridionale (fine del XIV secolo - inizio del XV secolo) il sistema ortografico risente della riforma linguistica di tipo puristico, arcaicizzante, scaturita dal rinnovamento della letteratura slavo-ecclesiastica e si ritorna all’impiego di quelle lettere, come lo jus malyj e lo jus bol’šoj, che ormai non si utilizzavano più nei manoscritti.

La frattura avvenuta all’interno della Chiesa ortodossa con lo Scisma segna il fallimento del tentativo del patriarca Nikon di restaurare la supremazia ecclesiastica e accelera il processo di decadimento della tradizione slavo-ecclesiastica. Accanto a questa e accanto al russo parlato prende forma un nuovo tipo di lingua scritta, la cosiddetta «lingua semplice», il prostoj jazyk o prostorečie. Si tratta di una lingua artificiale, caratterizzata da dinamicità ed estrema comprensibilità, che gradualmente riuscirà ad avvicinarsi alla lingua parlata, con la quale finirà per identificarsi nella coscienza linguistica. È strettamente collegato alla prosta

mova (lingua semplice) della Rus’ sudoccidentale. Il modo in cui questo prostoj jazyk prende forma dimostra che il russo parlato e lo

slavo-ecclesiastico non sono più considerati come due sistemi complementari, bensì con funzioni distinte.

All’inizio del Settecento la volontà di far ricorso a questa lingua «semplice», comprensibile a tutti, si fa sempre più insistente e diventa una questione cruciale. Ha così luogo la prima vera riforma dell’alfabeto, realizzata da Pietro il Grande (1708-1710), che comporta di fatto una semplificazione dell’ortografia e la riduzione del numero delle lettere. Nasce un nuovo sistema di scrittura laica, il cosiddetto graždanskij šrift, che favorisce in maniera determinante la secolarizzazione della cultura russa in un’epoca in cui la tradizione letteraria religiosa stava perdendo la

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supremazia culturale di un tempo e stava cedendo il passo a una cultura più laica, caratterizzata da un sistema grafico diverso, più semplice. L’introduzione del graždanskij šrift contribuisce alla definitiva separazione tra il russo e lo slavo-ecclesiastico: il russo si identifica sempre di più con il

prostoj jazyk ed è oggetto dei primi rudimentali tentativi di codificazione,

mentre lo slavo-ecclesiastico viene relegato al campo religioso e finisce per essere impiegato solo come lingua del culto. Parallelamente al graždanskij

šrift, c’è la graždanskaja azbuka, ossia l’alfabeto laico, costituito da un

numero inferiore di lettere rispetto a quello dell’antico alfabeto cirillico: sono stati eliminati lo jus malyj (ѧ), lo jus bol’šoj (ѩ), lo ksi (ѯ), lo zelo (ѕ) e l’omega (ѡ). Inoltre, per volere di Pietro il Grande, vengono introdotti in Russia i numeri arabi e quelle lettere dell’alfabeto che avevano una funzione numerica si vanno a perdere.

All’ordine del giorno cominciano a porsi tutta una serie di nuove problematiche, quali la questione della lingua russa, in quanto espressione di una nuova realtà politica, e della sua dignità pari a quella delle altre lingue europee, il problema della codificazione e quello del rapporto fra lingua orale e scritta. Fondamentali in questo senso saranno i contributi delle teorie linguistiche di V. K. Trediakovskij, V. E. Adodurov e M. V. Lomonosov, fino a quella di N. M. Karamzin.

Il Settecento si distingue anche per un grande fermento sul campo lessicale, grazie agli stimoli provenienti dall’Europa occidentale. Si registra una forte presenza di calchi e prestiti dal francese, tedesco, italiano e inglese. A partire da questa evoluzione, la lingua russa comincia ad affinare i propri tratti interni sia grammaticali che stilistici.

La seconda grande riforma alfabetica fu iniziata nei primi anni del Novecento e fu portata a termine nel 1918. Dall’alfabeto vennero eliminati

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