CAPITOLO V
VERSO LA FINE DI UNA VITA
5.1 La buona morte: nascita dell’hospice e delle cure palliative
La legge n. 38/2010 (G.U.2010), definisce le cure palliative come:
“l’insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla
persona malata sia al nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei
pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un’irresistibile evoluzione e da una
prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici”.
Con questa legge lo stato italiano sancisce il diritto di accesso alle cure palliative e
alla terapia del dolore per i malati di tutte le età, compreso quella pediatrica.
Secondo la definizione del 2013 della WHO:
“le cure palliative sono un approccio atto a migliorare la qualità di vita dei pazienti e
dei loro familiari, confrontati con una malattia inguaribile ed evolutiva, attraverso la
prevenzione e il sollievo della sofferenza per mezzo di una precoce identificazione e
di un’accurata valutazione e al trattamento ottimale del dolore e delle altre
problematiche di natura fisica, psicosociale e spirituale”.
Le cure palliative si rivolgono a tutti i pazienti, compresi quelli in età pediatrica, con
malattia cronica ed evolutiva (oncologica, neurologica, respiratoria, cardiologica,
genetica, ecc) e hanno lo scopo di dare al malato la massima qualità di vita
possibile, nel rispetto della sua volontà, aiutandolo a vivere al meglio la propria
malattia e accompagnandolo nella fase terminale, verso una morte dignitosa.
Gli obiettivi delle cure palliative sono:
Alleviare il dolore e altri sintomi gravosi
Affermare il valore della vita e considerare la morte come evento naturale
Non accelerare né ritardare la morte
Integrare gli aspetti psicologici e spirituali nella cura del paziente
Offrire un sistema di supporto per aiutare i pazienti a vivere nel modo più
attivo possibile fino alla morte.
Offrire un sistema di supporto per aiutare la famiglia a far fronte alla
malattia e al lutto
Utilizzare un approccio interdisciplinare per rispondere ai bisogni dei
pazienti e delle loro famiglie, compreso il lutto e il counselling
Migliorare la Qualità di Vita e avere un’influenza positiva sul decorso della
malattia
Sono utilizzabili in associazione con altre terapie che si prefiggono di
prolungare la vita come la chemioterapia o la radioterapia
Le cure palliative hanno la loro redice etimologica nel latino ‘Pallium’, che era il
mantello offerto ai pellegrini per proteggersi dal freddo, durante le soste del loro
cammino. Ha in sé proprio il senso del coprire, avvolgere, proteggere, proprio come
un mantello. Nella metà del XIX secolo, vi era un’aspettativa di vita media di
quarant’anni, considerando che vi erano persone che morivano anche a ottanta
anni, vi era un elevato numero di morti in giovane età. La medicina di allora si
confrontava prevalentemente con cause di morte per malattie acute come
infezioni, ferite, guerra e fame. La malattia acuta produce sofferenza, interrompe la
vita, ma dura poco, la morte sopraggiunge rapidamente. L’evoluzione culturale,
sociale e scientifica, ha allungato notevolmente l’aspettativa di vita, richiamando
dalla metà del secolo scorso un’attenzione crescente sul morente. Oggi si muore
vecchi, e le patologie che colpiscono gli anziani sono soprattutto malattie croniche.
Nella regione europea dell’OMS le malattie croniche provocano almeno l’86% dei
morti (www.epicentro.iss.it). Allungando l’aspettativa di vita e quindi la
sopravvivenza, si allunga anche la durata di malattia, e drammaticamente si allunga
anche la fase terminale della malattia: nasce il malato terminale, socialmente e
clinicamente.
Secondo Toscani (1997), la terminalità è una condizione sia fisica sia psicologica, che
si realizza quando la malattia ‘induce nella mente del medico, della famiglia e del
paziente un’attesa di morte in breve tempo’ (Cortesi, 1995).
Nel 1842 M.me Jeanne Garnier fondò il primo Hospice a Lione (Saunders, 1998). A
quel tempo la cura dei morenti non era di competenza medica, quanto piuttosto un
atto di carità, un modo di testimoniare la fede cristiana e l’amore per il prossimo. In
passato nella storia, una struttura analoga aveva visto la luce, nel 380 d.C. per
volontà di una matrona romana, per ospitare poveri, vecchi, orfani e moribondi.
Successivamente sorsero numerosi hospices ma ben distinti dagli ospedali. Mentre
il malato guaribile era di competenza del medico, quello ritenuto inguaribile era di
competenza di un buon cristiano: non occuparsi del malato inguaribile era accettare
una realtà ineluttabile. Anche il medico positivista e naturalista non si occupa del
morente, se non per bontà, la medicina aveva aderito all’utopia tecnica
dell’illimitatezza del potere umano (Toscani, 2009).
La rottura culturale si verifica alla fine degli anni’60, quando Cicely Saunders fonda
la medicina palliativa in associazione al St. Christopher’s Hospice a Londra nel 1967.
Con la Saunders nasce anche il concetto di ‘total pain’, un insieme di sofferenze
fisiche, psicologiche, sociali, spirituali. Sicuramente le idee della Saunders sono state
associate a trasformazioni culturali che hanno portato ad una nuova visione del
malato come individuo, superando il modello paternalistico allora imperante in
medicina (Toscani, 1997).
“Tu sei importante perché sei tu,
e sei importante fino all’ultimo momento della tua vita.
Faremo ogni cosa possibile non solo per permetterti di morire in pace,
ma anche per farti vivere fino al momento della tua morte.”
Cicely Saunders (1918-2005)
La Saunders ha insegnato a non fuggire di fronte alla sofferenza di una persona
malata, ma a prenderci cura di lei con competenza e affetto. L’unione tra la
medicina e il fine vita si realizza nella Qualità di Vita, nella centralità del malato che
diviene soggetto. L’obiettivo degli interventi palliativi è quindi finalizzato alla miglior
Qualità di Vita di ogni paziente, costrutto che contiene dimensioni private e scelte
individuali. È in atto comunque una contraddizione interna alla medicina palliativa
tra il conservare una sacralità della vita e l’adesione a un’etica di Qualità di vita.
Il progresso della medicina pone l’uomo e la famiglia di fronte a decisioni sulla
qualità e quantità della vita, sull’utilizzo o meno di supporti artificiali, sollevando
riflessioni di natura etica e su cosa significa oggi una morte naturale. Le stesse
famiglie stanno cominciando a chiedere un processo del morire che riduca le
sofferenze, migliori la dignità e la qualità di vita del morente, e che sia regolato da
una pianificazione mediante direttive preventive relative al testamento biologico e
ai rituali commemorativi. Il tema del suicidio assistito rimarrà quello più
controverso per i prossimi anni a causa delle implicazioni etiche e per l’angoscioso
dilemma che pone (Toscani, 2009).
Uno studio biennale su un campione rappresentativo della popolazione italiana, di
1897 soggetti, di età compresa fra i 18 e i 74 anni, condotto dalla Fondazione
Maruzza Lefebvre D’Ovidio Onlus in associazione all’Istituto di Ricerca GPF (2010),
sul livello di conoscenza delle cure palliative fra la popolazione italiana adulta e la
percezione che gli italiani ne hanno, ha evidenziato che le cure palliative sono
ancora poco conosciute in Italia.
Le percentuali sono così suddivise:
30.1% non ne ha mai sentito parlare
41.0% ne conosce solo in nome o ne ha una vaga conoscenza
3.3% non sa
25.6% conoscenza molto o abbastanza precisa
La maggioranza degli intervistati non sa definire cosa sono le cure palliative, prevale
un’identificazione con la terapia del dolore e con trattamenti che migliorano la
Qualità di Vita del paziente. Frequente, la corretta identificazione con cure per
malati inguaribili, e non è assente anche un’ interpretazione delle cure come
“aleatorie” della funzione psicologica, quasi un placebo. La conoscenza delle cure
palliative è più diffusa tra le persone con istruzione più elevata, fra coloro con
maggiore disponibità economica e residenti nel Centro-Nord Italia. Per la grande
maggioranza degli intervistati l’ideale per il malato è essere curato a casa, accudito
dai famigliari o in subordine da personale esterno. Una minoranza non marginale
preferisce essere curato in una struttura sanitaria (25-30%). L’assistenza in strutture
è indicata con più frequenza dagli intervistati con maggiori disponibilità economiche
e residenti nel Nord-Ovest. Sembra ci sia una contrapposizione tra un’Italia del
benessere in cui il malato inguaribile o in fase terminale si attende un’assistenza
tecnica all’avanguardia, ma fredda e isolata, lontana dagli affetti, e un’Italia meno
avanzata in cui vige un dovere familiare e sociale di assistenza verso i propri malati,
senza sradicarli dalle proprie case (Atto Parlamentare, 2010; Fondazione Maruzza,
2010).
5.2 Qualità di Vita nel morire
Un progetto a livello Europeo Senti-MELC (Van Der Block, Casteren, Deschepper,
2007) è stato avviato a seguito di uno studio belga, per monitorare le condizioni dei
morenti in maniera continuativa.
L’Italia si è affiancata a questo monitoraggio nel 2009 in collaborazione con
differenti soggetti fra cui il Ministero della Salute, l’Istituto per lo Studio e la
Prevenzione Oncologica, la Società Italiana di Medicina Generale, e il MELC gruppo
di ricerca belga. Lo studio prevedeva di affidare alla rete locale di medici sentinella,
della Medicina Generale, in tutto il territorio nazionale, il compito di raccogliere
osservazioni continue, sulle condizioni dei morenti, mediante un questionario
standardizzato (Bertolissi, Miccinesi, Giusti, 2012). Nonostante l’analisi,
l’elaborazione e il confronto tra i dati raccolti in ciascun paese europeo aderente al
progetto Senti-MELC (Belgio, Olanda, Italia, Spagna, Svizzera, Francia, Regno Unito,
Portogallo), siano ancora in corso, (in Italia la conclusione dello studio era prevista
per giugno 2014) sono possibili alcune prime considerazioni relative al territorio
italiano, che evidenziano differenze significative e carenze.
Il numero dei pazienti che accede all’ospedale cresce esponenzialmente
nell’avvicinarsi alla morte, come tentativo di prolungare la sopravvivenza, mentre lo
stesso accesso avviene in Olanda e in Belgio, ma con lo scopo prevalente di fornire
una migliore palliazione al tempo di vita residuo.
Si evidenzia anche una difficoltà dei medici, prevalentemente improntati
all’organicismo, nella comunicazione con il paziente riguardo alla possibilità delle
cure palliative e aspetti relativi alla qualità di vita (affetti, relazioni, storia personale,
il rapporto con il corpo, la moralità delle scelte, aspettativa di vita).
È in aumento la tendenza dei medici, appartenenti a varie discipline, a una
considerazione maggiore dell’autodeterminazione del morente, nella
comunicazione della diagnosi (60%), dell’inguaribilità (35%) e della prognosi (32%).
La riluttanza del medico a esprimere un parere prognostico sul tempo di vita
rimanente sembra essere correlata con molteplici fattori culturali, dall’angoscia di
morte molto presente in tutte le società occidentali, a un radicamento
nell’orientamento paternalistico e ad abitudini nel microcosmo locale e familiare.
Queste difficoltà sono condivise con paesi, in primis dall’Olanda, che sono
generalmente considerate all’avanguardia in questa materia (Cartwright,
Onuwuteaka-Philipsen, 2007).
È forse sovrastimata l’attenzione alla sedazione del dolore, perché è ancora basso
l’utilizzo dei farmaci per il controllo del dolore in Italia.
Lo studio evidenza anche che la proporzione di pazienti che esprimono una reale
preferenza o disposizione sul fine vita (il luogo della morte, i trattamenti medici e il
fiduciario delegato), è molto limitata.
In Italia fino all’ultima settimana di vita è presente uno scarto tra la lotta per
sopravvivere e la ricerca di guarigione, a differenza di quanto succede in Olanda e
Belgio, paesi in cui la considerazione della qualità della vita è comprovata essere
maggiore. Questa tendenza italiana potrebbe essere dovuta alla scarsa valutazione
del rapporto tra adeguatezza dell’intervento, e il raggiungimento di un obiettivo di
salute o di sostegno vitale del paziente. Questo è un importante rischio di
inappropriatezza di un intervento.
Vi è un problema di accesso ai servizi specialistici di assistenza di fine vita: tra i
deceduti, il 63% non ne ha avuto accesso. In Italia è più diffuso il servizio
specialistico domiciliare, anche se con disomogeneità sul territorio nazionale. Al sud
non solo 3 pazienti su 4 muoiono in casa, ma meno del 15% usufruisce
dell’assistenza professionale dedicata.
Il 70% delle persone muore in ospedale. Il paziente compare nelle statistiche
quando è vivo, quando si ammala, e quando è morto, ma si sa pochissimo su come
muore. Un importante progetto osservazionale, EoLO (End of life in Ospedale,
2002), ha avuto come obiettivo il riconoscere i modi e le circostanze nelle quali i
malati terminali muoiono in ospedale per valutare il tipo di assistenza e i problemi
che tali malati incontrano. Da tale studio è emerso che nonostante la morte fosse
un evento atteso, più del 50% dei pazienti ha subito prelievi ematici ed esami
invasivi, che potrebbero essere considerati trattamenti di accanimento terapeutico.
La scarsa qualità di vita è documentata in molti studi effettuati in numerosi paesi,
(Beccaro, Caraceni, Costantini, 2010; Toscani, Di Giulio, Brunelli, 2005; Middlewood,
Gardner, Gardner, 2001) vi è un problema d’inappropriatezza delle cure di fine vita
che risulta in frequenti pratiche mediche invasive e trattamenti che riducono
sensibilmente la qualità di vita del paziente in ospedale (Lynn, Teno, Phillips, 1997)
rispetto all’Hospice.
Dalla seconda metà degli anni’90 negli Stati Uniti e nel Regno Unito, i ricercatori
sulle cure palliative, hanno sviluppato, implementato e iniziato a valutare, gli effetti
dell’introduzione di specifici modelli di cura per pazienti morenti in ospedale, nel
tentativo di trasferire il modello di eccellente cura dell’hospice ad altre strutture di
cura, per aumentare la qualità della QdV del paziente e della sua famiglia. A
vent’anni di distanza l’utilizzo dei modelli di cura di fine vita risulta ancora scarsa.
Se uno degli scopi della medicina palliativa è la qualità della vita del malato
terminale, allora è necessario un ripensamento sul ‘diritto morale a morire’: esiste
un problema etico centrale riguardante la legittimità a compiere azioni dirette o
indirette che comportino o agevolino la morte (Lescaldano, 1999).
C’è un confine molto labile tra l’opporsi all’accanimento terapeutico e l’eutanasia,
se accanirsi significa prolungare una vita di sofferenza, allora costringere a vivere chi
prova una sofferenza invincibile negando i mezzi per morire è, di fatto, un
accanimento terapeutico.
Secondo Toscani (1997), se le cure palliative hanno successo, il malato non si
sognerà nemmeno di chiedere l’eutanasia, ma se per qualunque motivo la sua vita
fosse per lui inaccettabile allora l’opzione eutanasica non dovrebbe essergli negata.
Eutanasia a una condizione, che sia offerta a tutti la possibilità di accedere alle cure
palliative, all’hospice; ciò significa che le cure palliative divengano nella realtà, una
forma di assistenza di base garantita a tutti. Un paese non può dirsi civile se non è
determinato ad attivare questo sistema di cure.
Una riflessione deve essere fatta anche sulla formazione degli operatori, spesso
impreparati a rispondere all’altro e a se stessi rispetto a tutto ciò che avvolge la
morte e il morire, soprattutto nell’ambito ospedaliero ma non solo, e all’educazione
alla morte e al morire.
5.3 Accompagnare il morente ed educare alla morte
L’organizzazione Mondiale della Sanità (WHO, 1990) ha sottolineato l’importanza
della dimensione spirituale della morte. Puchalski et al. (2009) riportano che nella
Consensus Conference del 2009 a Pasadena, in California, è stata sostenuta
l’importanza della dimensione spirituale come aspetto fondamentale nella qualità
delle cure palliative. Il termine spirituale indica la riflessione sul senso della vita, sul
significato del nascere, soffrire e morire, è la ricerca di risorse interiori che aiutino le
persone a reggere situazioni difficili, trovando vie di adattamento e di crescita;
indica il desiderio di raggiungere la libertà interiore. Alla luce della composizione
multietnica della società, quindi anche multireligiosa, è necessario un nuovo
linguaggio, laico e universale che sappia attingere al mondo dei simboli e sia privo di
dogmatismi, il patrimonio dei miti e dei simboli è in grado di parlare alla parte più
profonda dell’essere umano e può modificarne lo sguardo sulla vita e sul suo
termine (Bormolini, 2014) . Lo stesso Jung (1978) affermava:
“Che sarebbe più corrispondente all’anima collettiva dell’umanità considerare la
morte come un compimento del significato della vita e come scopo specifico di essa,
e non come mera cessazione di ogni significato.”
Il morire in passato era un’arte da coltivare con cura, una sorta di allenamento per
non farsi cogliere impreparati. Già nelle civiltà arcaiche avvenivano iniziazioni come
educazione alla morte, nello sciamanesimo, nelle meditazioni buddiste e tantriche
sono presenti allenamenti alla morte. Nella filosofia greca molte scuole si
caratterizzavano per la preparazione alla morte, la filosofia parla di un “esercizio alla
morte” come descritto nei testi di Platone, di Plotino, e di Seneca (Hadot, 1988). E
così via, attraverso i misteri eleusini, le iniziazioni egizie, sino al cristianesimo. Le
antiche pratiche greche della meleti thanatos, dell’Ars Moriendi (Romeo, 1949;
Vovelle, 1986), attualizzate con le tecniche della meditazione profonda, potrebbero
arricchire la moderna disciplina della Death Education, che si sta diffondendo in
molti paesi, soddisfacendo le esigenze di molti. Gli effetti della meditazione sono
conosciuti e comprovati da numerose ricerche scientifiche, che evidenziano
significativi effetti nell’ansia, nella depressione, nell’insonnia (Larzelere, Wiseman,
2002; nella percezione del dolore, e nel disturbo da attacchi di panico (Miller,
Fletcher, Kabbat-Zinn, 1995). Le tecniche di meditazione si sono rivelate anche in
grado di migliorare la Qualità della Vita nei malati terminali (Williams et al. 2005).
In latino la parola ‘defunto’ non ha una connotazione negativa, significa che ‘ha
compiuto la missione’. Il momento della morte è quindi il coronamento della
propria esistenza, e un dono che si fa, a chi resta, per aiutarlo a comprendere il
valore della vita e della morte, l’ultimo gesto d’amore dell’individuo nella sua
esistenza terrena è quello di regalare la propria morte, dandole un senso che gli altri
possano accogliere. Non a caso le ultime parole del morente sono sempre state
accolte come un tesoro prezioso, e conservate come tali.
Quando giunge il tempo per salutarsi, è necessario imparare a dirsi addio. Il
sopravvivere alla morte prevede l’attraversamento dell’accettazione, racchiusa nel
permettere all’altro di andare, di dirgli addio. Lasciarlo andare significa concedergli
la libertà di andare per il suo cammino e concedere a noi stessi di ritornare alla
nostra vita, che pur uguale è ora diversa.
Questo è anche il tempo di sanare vecchi rancori e appianare divergenze, i terapeuti
dovrebbero sostenere la famiglia in questo processo importante sia per chi sta
morendo sia per chi sopravviverà e si troverà a fare i conti con le parole ‘non dette’,
Walsh (1999b), infatti, enfatizza come le lacrime più amare siano quelle versate
sulle tombe per i non detti.
CONCLUSIONI
Non è facile trarre conclusioni su di un argomento che rappresenta in sé la
conclusione della vita, a meno che la morte sia colta anche come estrema, intensa
e dolorosa possibilità di abbracciare la vita.
Abbiamo visto come il dilemma della morte, abbia accompagnato costantemente
l’uomo dagli albori della civiltà ad oggi, e costantemente sia stato oggetto di inutili
tentativi di esorcismo, fino ad approdare online sui social newtwork, dove la morte,
condivisa anche da perfetti sconosciuti, viene collocata in un permanente presente.
La lotta dell’uomo per controllare la morte e le sue conseguenze è sempre attuale;
cambiano gli attori e le scenografie, ma il tema, la paura della morte, questa
sconosciuta, è rimasto costante da sempre. Se l’uomo assiste e vive gli effetti della
morte, non conosce il suo volto, viviamo con questa presenza ma ci è estranea.
Alla luce di questa compresenza, che più che una presenza è una parte integrante e
inasportabile del nostro corpo, è necessario sollecitare un ripensamento, che tenti
di svelarne il volto e che ci insegni a vivere, imparando a morire.
Se nel difficile processo di accettazione della perdita uno dei ruoli centrali è
attribuito al dare un significato e un senso alla perdita, sia come individui sia come
sistema familiare, e nel possedere abilità che si possono educare, come indicano
numerose ricerche, allora la morte diviene un argomento multipisciplinare, che
richiama, nella sua complessità, figure sociali e professionali diverse.
La psicologia può fare molto: può aiutare a co-costruire nuovi ponti tra l’individuo e
se stesso e tra l’individuo e gli altri, perché quando la morte attraversa la vita, i
ponti spesso si sgretolano, isolando l’individuo e la famiglia, nella solitudine del suo
dolore. Se la morte non deve essere anestetizzata né medicalizzata, è anche vero
che fronteggiare la morte non sempre porta ad un’ altra riva, perché il rischio è
quello di scivolare piano piano nella patologia.
È importante anche non liquidare velocemente la sofferenza da cordoglio,
attraverso un’etichetta di omologazione, che identifichi come patologico un dolore
che può divenire funzionale alla vita, perchè se da una parte i sintomi possono
essere gli stessi, dall’altra la storia e la sofferenza dell’individuo sono assolutamente
diversi, e ogni uomo può essere compreso solo all’interno della sua cornice
socioculturale. Inoltre, la deriva può anche verificarsi al confine tra normalità e
patologia e sfociare in difficoltà apparentemente “normali” ma che per
quell’individuo, quella famiglia, normali non sono. Al clinico è pertanto richiesto
un’ascolto attento, un’apertura al dolore dell’altro che inevitabilmente risuona con
il suo dolore, un’esserci che presuppone la volontà e la consapevolezza di mettersi
in gioco e di vedersi nella propria nudità della sua esistenza.
Come indicano numerose ricerche, ancora molto è necessario per migliorare la
Qualità di Vita dei pazienti terminali in ospedale e tra gli operatori sanitari che vi
operano, difatti, in ospedale la terminalità coglie loro impreparati a rispondere ai
bisogni del malato e della famiglia.
Se da un lato è necessario ancora indagare in maniera approfondita le varie variabili
implicate nel processo di adattamento alla perdita, e la loro relazione, ancora molto
vi è da fare in pratica, sul piano degli interventi, perché il morente e chi sopravviva
non venga lasciato in solitudine.
Vorrei concludere con alcune parole tratte dal libro La Morte e Il Morire (1979) di
Kübler Ross, che hanno costituito in parte la trama di questa mia tesi:
“Mai forse il rapporto con la morte è stato povero come in questi tempi di aridità
spirituale in cui gli uomini, nella fretta di esistere, sembrano eludere il mistero, ignari
di prosciugare così una fonte essenziale del gusto di vivere. So che un giorno morirò,
anche se non so come, né quando. C’è un punto nel profondo del mio essere, dove è
custodita questa certezza, dovrò lasciare i miei cari, a meno che non siano loro a
lasciarmi per primi. Paradossalmente è proprio questa consapevolezza così
profonda, così intima, che ci accomuna a tutti gli altri esseri umani. Noi tutti
cerchiamo di capire se c’è qualcosa oltre la morte. Esiste un aldilà? Dove vanno
quelli che ci lasciano? Una domanda dolorosa per molti, piantata come una spina
nel cuore della nostra umanità. Senza questo interrogativo avremmo sviluppato
tutte le nostre teorie filosofiche, risposte metafisiche, miti? La psicanalisi, dal canto
suo, ha decretato che la morte non è rappresentabile. Ha accantonato il problema,
lasciandolo ai filosofi, interessandosi sola alla morte nella vita, cioè al lutto. Se la
morte provoca tanta angoscia, non è forse perché ci riporta alle domande vere,
quelle che abbiamo spesso soffocato con l’idea di riproporcele dopo, quando saremo
più vecchi, più saggi, quando avremo il tempo di portare a noi stessi le domande
essenziali?”
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