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18 QUALE FUTURO PER IL LAVORO: ANALISI DELLA LETTERATURA SUGLI IMPATTI DELLA ROBOTICA

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(1)

QUALE FUTURO PER IL

LAVORO: ANALISI DELLA

LETTERATURA SUGLI

IMPATTI DELLA ROBOTICA

a cura di

Saverio Lovergine

(2)

L’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (INAPP) è un ente pubblico di ricerca che si occupa di analisi, monitoraggio e valutazione delle politiche del lavoro, delle politiche dell’istruzione e della formazione, delle politiche sociali e, in generale, di tutte le politiche economiche che hanno effetti sul mercato del lavoro.

Nato il 1° dicembre 2016 a seguito della trasformazione dell’Isfol e vigilato dal Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, l’Ente ha un ruolo strategico - stabilito dal Decreto Legislativo 14 settembre 2015, n. 150 - nel nuovo sistema di governance delle politiche sociali e del lavoro del Paese.

Inapp fa parte del Sistema statistico nazionale (SISTAN) e collabora con le istituzioni europee. Da gennaio 2018 è Organismo Intermedio del PON Sistemi di Politiche Attive per l’Occupazione (SPAO) per svolgere attività di assistenza metodologica e scientifica per le azioni di sistema del Fondo sociale europeo ed è Agenzia nazionale del programma comunitario Erasmus+ per l’ambito istruzione e formazione professionale. È l’ente nazionale all’interno del consorzio europeo ERIC-ESS che conduce l’indagine European Social Survey.

Presidente: Stefano Sacchi

Direttore generale: Paola Nicastro

Riferimenti Corso d’Italia, 33 00198 Roma Tel. +39.06.85447.1 web: www.inapp.org Contatti: editoria@inapp.org

La collana Inapp Paper è a cura di Claudio Bensi.

Il presente lavoro, attraverso l’analisi della letteratura, intende evidenziare gli effetti futuri che l’accelerazione del progresso delle nuove tecnologie digitali, dell’intelligenza artificiale e della robotica avranno sull’occupazione e sulle skill dei lavoratori.

Il presente contributo redatto da Inapp in qualità di Organismo intermedio del PON SPAO con il contributo del FSE 2014-2020 Azione 10.04.11/1. Questo testo è stato sottoposto con esito favorevole al processo di peer review interna

curato dal Comitato tecnico scientifico

dell’Istituto.

Autori

Lovergine Saverio, INAPP (s.lovergine@inapp.org)

Alberto Pellero, Strategy and Marketing Manager at KUKA Roboter Italia SpA

(Alberto.pellero@kuka.it)

Testo chiuso: febbraio 2019 Pubblicato: aprile 2019 Coordinamento editoriale

Costanza Romano

Editing grafico ed impaginazione

Daniela Verdino

Le opinioni espresse in questo lavoro impegnano

la responsabilità degli autori e non

necessariamente riflettono la posizione dell’ente. Alcuni diritti riservati [2019] [INAPP]

Quest’opera è rilasciata sotto i termini della licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 4.0. Italia License.

(http://creativecommons.org/licenses/by-nc-sa/4.0/)

(3)

ABSTRACT

QUALE FUTURO PER IL LAVORO:

ANALISI DELLA LETTERATURA SUGLI EFFETTI DELLE NUOVE TECNOLOGIE

Anche se non siamo ancora ad una svolta epocale di disruptive innovation, che alcuni autori definiscono quarta rivoluzione industriale, i progressi nei campi delle ICT, della robotica, dell’intelligenza artificiale e delle nuove tecnologie digitali stanno erodendo il dogma in economia che il progresso tecnologico aumenti la ricchezza di un Paese e il benessere dei suoi cittadini. Una recente letteratura sulle possibili conseguenze per l'occupazione dovuta all'uso diffuso di tali tecnologie, che alcuni autori definiscono di stampo neo-luddista, sostiene che, rispetto alle precedenti rivoluzioni industriali, questa volta potrebbe essere diverso (Ford, 2015). Il presente lavoro, attraverso l’analisi della letteratura, intende evidenziare gli effetti futuri che l’accelerazione del progresso delle nuove tecnologie digitali, dell’intelligenza artificiale e della robotica avranno sull’occupazione e sulle skills dei lavoratori.

PAROLE CHIAVE: Robotica, nuove tecnologie, lavori futuri

WHAT FUTURE FOR WORK:

LITERATURE ANALYSIS OF THE CONSEQUENCES OF ROBOTICS

There is a fourth Industrial Revolution happening, but it still does not represent a fundamental breakthrough (disruptive innovation) now. The acceleration of progress in the fields of ICT, robotics, artificial intelligence and new digital technologies are changing the economics dogma that technological development enhances wealth and life standard of a country. A recent literature on the possible consequences for employment deriving from the widespread use of such technologies, claims that compared to previous industrial revolutions, this time might be different (Ford, 2015). This paper shows the literature analysis on future impacts that the progress of new digital technologies, of artificial intelligence and of robotics in particular will have on the occupations and skills of workers.

KEYWORDS: Robotics, new technologies, new jobs

PER CITARE IL PAPER: Lovergine S., Pellero A. (2018), Quale futuro per il lavoro: analisi della letteratura

(4)

INDICE

INDICE ... 4

Introduzione ... 5

1 Le nuove tecnologie digitali e la robotica ... 6

1.1 Le nuove tecnologie digitali ... 6

1.2 La Robotica ... 8

1.3 I numeri della robotica ... 9

1.4 La robotica collaborativa e di servizio ... 13

2 Progresso tecnologico, livelli e composizione della forza lavoro e skill ... 15

2.1 L’importanza del capitale umano nell’attuale contesto tecnologico ... 20

2.2 Gli effetti delle tecnologie sull’occupazione ... 21

2.3 Gli effetti delle robotica e delle nuove tecnologie sull’occupazione in Italia ... 27

2.4 Professioni a rischio disoccupazione ... 30

2.5 La creazione di nuovi lavori e il reshoring ... 33

Conclusioni ... 35

Bibliografia ... 37

(5)

I

NTRODUZIONE

Il timore che l’innovazione e le nuove tecnologie possano distruggere il lavoro è vecchio quanto quello verso il capitalismo, ma come la storia economica ci insegna tale preoccupazione è stata sempre smentita dai fatti. Infatti, a fronte di posti di lavoro persi durante i passaggi dettati dalle rivoluzioni industriali, le nuove tecnologie ne hanno creati sempre di nuovi, spesso più dignitosi e con un salario migliore1.

Negli ultimi anni, numerosi studiosi – Frey e Osborne (2013), Brynjolfsson e McAfee (2013, 2015), Ford (2009, 2015), Acemoglu e Restrepo (2017) in particolare – si sono occupati delle conseguenze per l'occupazione, dovute alla sostituzione parziale o totale di alcuni lavori da parte delle macchine, nonché di task ad alto impiego di routine e di impegno cognitivo. Rispetto ai cambi di paradigma tecnologici del passato, questi studiosi affermano che questa volta potrebbe essere diverso (Ford 2015). I progressi nel campo della robotica, dell’intelligenza artificiale (IA) e delle nuove tecnologie digitali stanno spostando i termini del vantaggio comparativo tra uomo e macchina, guidandoci a grande velocità verso una nuova organizzazione dell’economia e della società, nella quale per vincere la competizione economica globale è importante che i lavoratori gareggino, non contro, ma con le macchine, affermando un nuovo paradigma nel quale uomini e macchine collaborano insieme per aumentare la produzione e catturare i mercati, battendo altri team di uomini e macchine.

Premesso ciò, il presente lavoro presenta un’analisi della recente letteratura che si sta affermando con pubblicazioni e report nazionali e internazionali sugli effetti che l’IA, le nuove tecnologie digitali e la robotica avranno sull’occupazione e sulle competenze dei lavoratori.

Dopo questa breve introduzione, utile a inquadrare il presente lavoro, nel capitolo 1 si evidenziano i progressi realizzati nell’ambito delle nuove tecnologie digitali, dell’IA, e della robotica; i dati riguardanti la domanda di robot industriali nel mondo; e lo sviluppo della robotica collaborativa e di servizio. Nel secondo capitolo, nell’ambito di recenti pubblicazioni e report, si riportano i dati riguardanti gli effetti del progresso tecnologico sui livelli occupazionali in alcuni Paesi e in Italia. Oltre ai dati sull’occupazione, sono analizzati altri temi quali: l’importanza del capitale umano nell’ambito del contesto tecnologico; gli effetti sulle skills dei lavoratori, sui tasks dei lavori, e sui lavori a rischio di disoccupazione; le professioni create dalle nuove tecnologie; e il fenomeno del reshoring, quale forma di ripristino dell’occupazione da parte di imprese dei Paesi occidentali. Il paper si chiude con delle sintetiche note finali, che lasciano il passo ad alcune riflessioni su possibili indicazioni di policy.

1

(6)

1 L

E NUOVE TECNOLOGIE DIGITALI E LA ROBOTICA

1.1 Le nuove tecnologie digitali

In questo paragrafo si riportano brevemente i progressi realizzati nell’ambito delle nuove tecnologie digitali, dell’IA e della robotica.

Molti studiosi sono convinti che siamo all'inizio di una trasformazione che modificherà radicalmente il modo in cui viviamo, comunichiamo e lavoriamo, definita quarta rivoluzione industriale, che aumenterà la competitività delle industrie del settore manifatturiero, attraverso la crescente integrazione di Sistemi Cyber-Fisici (Cyber-Physical Systems o CPS) nei processi industriali. I cambiamenti e le trasformazioni di questa nuova rivoluzione industriale produrranno grandi opportunità, ma anche enormi rischi, quali: l'incapacità di adattamento delle organizzazioni, le difficoltà da parte delle istituzioni di adottare e regolamentare le nuove tecnologie, le criticità in termini di sicurezza generate da nuovi poteri, l’aumento delle diseguaglianze, etc.

Secondo McKinsey (2017) le nuove tecnologie digitali avranno un impatto profondo nell’ambito di quattro direttrici di sviluppo:

a. La prima riguarda l’utilizzo dei dati, la potenza di calcolo e la connettività, e si declina in big data,

open data, Internet of Things, machine-to-machine e cloud computing per la centralizzazione delle informazioni e della loro conservazione.

b. La seconda è quella degli analytics: una volta raccolti i dati, bisogna ricavarne valore. Oggi solo l’1%

dei dati raccolti è utilizzato dalle imprese, che potrebbero invece ottenere vantaggi a partire dal

machine learning.

c. La terza direttrice di sviluppo è l’interazione tra uomo e macchina, che coinvolge le interfacce touch, sempre più diffuse, e la realtà aumentata.

d. Infine, c’è tutto il settore che si occupa del passaggio dal digitale al reale, che comprende la manifattura additiva, la stampa 3D, la robotica, le comunicazioni, le interazioni machine-to-machine e le nuove tecnologie per immagazzinare e utilizzare l’energia in modo mirato, razionalizzando i costi e ottimizzando le prestazioni.

(7)

Figura 1 - La filiera produttiva industria 4.0

Uno degli elementi fondamentali di Industry 4.0 è l’intelligenza artificiale, che può essere definita come la “scienza che si propone di sviluppare macchine intelligenti” (Russell e Norvig 2003). Tale definizione rischia di essere fuorviante, in quanto il computer AlphaGo di Google che ha battuto il campione Lee Sedol al gioco cinese Go, e Deep Blue di IBM che ha battuto il campione di scacchi Gary Kasparov, non avevano la benché minima idea di cosa stessero facendo. Attualmente si è molto distanti dalla creazione di una IA in grado di pensare, ragionare, comportarsi come un essere umano.

Per Signorelli (2017) si tratta ancora di “software che sono semplicemente capaci di processare una quantità tale di dati da riuscire a metterli in relazione tra loro, identificando eventuali collegamenti o calcolando statisticamente quale mossa di un determinato gioco abbia la maggior probabilità di avere successo” (p. 94).

Due sono stati gli approcci utilizzati per sviluppare questo modo di pensare dell’AI:

 il primo, parte dall’alto, cioè dalle regole, e funziona solo in domini in cui le regole e le definizioni sono molto chiare (matematica, scacchi, etc.);

 il secondo, parte dal basso, cioè dai dati, apprendendo dall’esperienza, attraverso tentativi ed errori

che rafforzano o indeboliscono le connessioni tra neuroni di una rete neurale.

Per ottenere tali risultati si fa principalmente riferimento a due metodi: il machine learning

(apprendimento automatico) e il deep learning (apprendimento approfondito).

Il machine learning utilizza algoritmi che analizzano un paniere di dati, imparano da esso e poi traggono o fanno delle previsioni su qualcosa che esiste nel mondo.

Il face recognition di Facebook, e gli altri strumenti simili, utilizzano il deep learning, che sfrutta

numerosi strati di network neurali per cercare dei pattern tra i dati. Quando uno strato riconosce uno

(8)

e così via. I vari livelli lavorano a cascata: le caratteristiche di livello più alto derivano da quelle di livello più basso allo scopo di creare una rappresentazione gerarchica che procede per crescenti livelli di astrazione, consentendo a questa tecnica di migliorare drasticamente il modo in cui i software processano i compiti più difficili che sono chiamati a svolgere.

Quindi, a differenza dei classici software che eseguono un codice che spiega loro cosa devono fare, i

programmi basati su machine learning e deeplearning imparano da soli e non c’è modo di sapere con

esattezza in che modo il software è arrivato alla soluzione corretta o come ha preso le sue decisioni2.

1.2 La Robotica

La presentazione dei progressi tecnologici, continua nei prossimi tre paragrafi con l’analisi del settore della robotica, svolta anche attraverso i dati riguardanti la domanda di robot industriali nel mondo e lo sviluppo della robotica collaborativa e di servizio.

La famosa domanda che Alan Turing si pose nel 1950: le macchine possono pensare? Anche oggi ottiene la stessa risposta: NO, non possono! Le si possono riempire di una quantità tale di dati da costringerle a metterli in relazione tra loro identificando eventuali collegamenti, ma non pensano. Nessun settore della scienza ha avuto un così ampio spettro di competenze e un approccio

multidisciplinare come la robotica3, tale da comprendere discipline quali: architetture informatiche, IA,

bioingegneria, neuroscienze, scienze cognitive, telecomunicazioni, elettronica e elettrotecnica, ottica, acustica, elaborazione delle immagini, meccanica, etc., senza esaurirne le esigenze scientifiche. Pertanto, è impossibile, coltivare allo stesso livello di profondità le competenze necessarie o anche utilizzare solo alcune di tutte quelle su elencate. Per questo la robotica potrebbe non essere una scienza a sé, ma l’unione di scienze, discipline e tecnologie diverse ancora in attesa di una comune teoria, di un linguaggio che unifichi meccanica e software, algoritmi e materiali. Nella sua evoluzione storica, l’autonomia è l’elemento differenziale tra i robot e le altre macchine. In termini di traiettoria tecnologica, i robot si stanno evolvendo dall'automazione programmata, da sistemi semi-autonomi a

sistemi complessi più autonomi. Nel riquadro 1 si riportano le quattro fasi delle rivoluzioni della

robotica, postulate da Kuka, secondo cui la robotica sta cambiando il mondo, e nei prossimi cinquanta anni avrà un'influenza dirompente simile a quella esercitata da internet e dalle tecnologie dell'informazione negli ultimi decenni (Keisner et al. 2015, p. 4).

2 Il lavoro di Jaakkola et al. (2016) punta a spiegare come gli algoritmi giungono a una determinata decisione. 3

Tra le numerose definizioni di robot si propongono:

“an automatically controlled, reprogrammable, multipurpose manipulator, programmable in three or more axes, which can be either fixed in place or mobile for use in industrial automation applications.” (International Federation of Robotics (IFR));

“any machine capable of sensing its environment and reaching to that environment based on an independent decision-making capability” (Springer 2013,1);

(9)

Riquadro 1 – Evoluzione della robotica4 Yesterday – The 1st robotic revolution

Robot-Based Automation Solution. L'era della robotica è iniziata negli anni '60 e ’70 del secolo scorso. I robot industriali hanno portato maggiore efficienza e

produttività a compiti manuali semplici come sollevamento, saldatura a punti e imballaggio. Hanno iniziato il loro trionfante ingresso nel settore automobilistico, diffondendosi successivamente in altri settori. In questo ambiente di produzione, il robot ha operato in sicurezza, in recinti o zone a cui l'uomo non aveva accesso. I suoi compiti erano chiaramente definiti: alleviare gli esseri umani dal lavoro monotono, e assemblare auto o altri beni in grande volumi nel modo più rapido e preciso possibile.

Today – The 2nd robotic revolution

Sensitive and Safe Robot-Based Automation Solution. Ciò che era fantascientifico solo pochi anni fa, ora è realtà: robot e umani lavorano insieme. I robot

collaborativi (ad es. il LBR iiwa, sviluppato da KUKA) consentono una relazione completamente nuova tra uomo e robot: collaborazione diretta e sicura, senza alcun recinto di sicurezza. Laddove non esiste una barriera che limiti la libertà, è aperta la strada a nuove applicazioni altamente efficienti e molto più flessibili. Il robot è ora una macchina che può essere toccata e con cui è possibile l'interazione. In futuro impatterà la vita quotidiana in vari modi, che si tratti di un assistente di lavoro nell'industria, un robot di servizio nella sfera pubblica, un robot infermieristico in ambito clinico, un aiutante in casa o in molte altre aree che oggi sembrano ancora futuristiche.

On the starting grid – The 3rd robotic revolution

Mobile, Sensitive and Safe Robot-Based Automation Solution. Come unità mobili autonome, i robot collaborativi sono in grado non solo di reagire in

modo intelligente all'ambiente circostante, ma anche di cambiare il loro luogo di utilizzo. La possibilità di interagire con persone, o apparecchiature in luoghi diversi conferisce virtualmente ai robot mobili un potenziale illimitato di applicazioni. I robot mobili possono già eseguire attività logistiche in modo indipendente, collaborare direttamente con gli esseri umani o svolgere rapidamente nuove attività su diverse workstation. Essenzialmente, ci sono tante potenziali applicazioni quante sono le idee per tali applicazioni.

In the future – The 4th robotic revolution

Cognitive, Sensitive and Safe Robot-Based Automation Solution. Se i robot del futuro sono caratterizzati dall'IA, rifletteranno e comprenderanno

cognitivamente ciò che fanno. Avranno la capacità di interpretare il linguaggio e i gesti umani. A questo livello, i robot diventeranno finalmente compagni attivi per gli umani. La cameriera pensante, Rosie, del cartone animato di fantascienza The Jetsons, o il tenente comandante Data di Star Trek rimarrà per davvero una finzione, ma in termini di capacità i robot arriveranno sempre più vicini a questi personaggi immaginari.

Fonte: Kuka Hello Industrie 4.0_Glossary (p. 26)

Anche nel settore della robotica esiste la problematica del digital divide, e le motivazioni seguono quelle che valgono per le ICT, aggravate dalle competenze di nicchia dell’industria della robotica. I vantaggi e gli svantaggi dell’automazione robotizzata sono riportati nella tabella 1.

Tabella 1 - Vantaggi e svantaggi dell’automazione robotizzata

Vantaggi Svantaggi

Riduzione del tempo di ciclo Riduzione degli sprechi

Diminuzione dei costi di produzione

Riduzione dei costi e dei tempi di consegna (attrazione di maggiore

clientela)

L’automazione aiuta a offrire il massimo rendimento a costi minori Maggiore sicurezza sul posto di lavoro

Migliore qualità e affidabilità (le applicazioni sono eseguite con

precisione e alta ripetibilità)

Sfruttamento ottimale degli spazi di lavoro (realizzato attraverso

l’ottimizzazione dello spazio di lavoro, con il conseguente utilizzo di ulteriori spazi per altre operazioni).

Costo iniziale dell’investimento Costi di manutenzione

Identificazione precisa dei propri bisogni e necessità

(l’incorporazione dei robot industriali garantisce risultati certi solo se esiste un piano di produzione specifico, ben studiato e strutturato)

Costi della formazione (in termini di tempo e investimento

finanziario).

1.3 I numeri della robotica

I dati sulle vendite ci aiutano a comprendere quanto la robotica industriale rappresenta uno dei settori con un alto tasso di crescita. I dati del World Robotics 2017 evidenziano che dal 2010 la domanda di robot industriali ha subito un'accelerazione. Tra il 2011 e il 2016 l'aumento medio delle vendite di robot è stato del 12% all'anno (CAGR: Compound Annual Growth Rate). Nel 2016 tali vendite sono

aumentate del 16% (+294.312 unità) per il quarto anno consecutivo(figura 2). A trainare tale crescita

è stata l'industria elettrica/elettronica (+41%). L’industria automobilistica resta il principale utilizzatore dei robot industriali (+6% nel 2016), con un nuovo picco di 103.300 unità (35% della fornitura totale).

Le vendite dell'industria dei metalli e dei macchinari nel 2016 sono leggermente diminuite del 3%

(28.700 unità). L'industria della gomma e della plastica ha aumentato il numero di installazioni di robot

(10)

fino a raggiungere nel 2016 circa 16.000 unità. L'industria alimentare e delle bevande, invece, ha aumentato gli ordini di robot nel 2016 del 20% a quasi 8.200 unità (3% della fornitura totale).

Figura 2 – Numero di robot presenti nei settori industriali

Nel periodo tra il 2011 e il 2016 il numero medio annuo di robot venduti è stato di circa 212.000 unità (figura 3), con un aumento di circa l’84% rispetto al periodo tra il 2005 e il 2008 (115.000 unità).

(11)

Nel 2016 l’Asia (comprensiva di Australia e Nuova Zelanda) è stato il mercato con il più alto tasso di crescita al mondo con 190.492 unità (pari al 19%), registrando il più alto livello di vendite per il quarto anno consecutivo. Segue l’Europa con 56.000 unità (pari al 12%). Al terzo posto ci sono le Americhe con 41.300 unità (+8% rispetto al 2015, nuovo picco per il quinto anno consecutivo).

Nel 2016, come si può notare nella figura 4, cinque mercati hanno ricoperto il 74% del volume totale delle vendite: Cina, Repubblica di Corea, Giappone, Stati Uniti e Germania.

Figura 4 – Stima della fornitura mondiale annuale di robot industriali – i 15 mercati più grandi (2016)

Dal 2013 la Cina è il più grande mercato di robot del mondo. Nel 2016 ha raggiunto circa le 87.000 unità (pari al 30% del mercato mondiale). Nella Repubblica di Corea, secondo mercato mondiale, sono state vedute circa 41.400 unità (+8% rispetto al 2015). In Giappone le vendite di robot sono aumentate di circa 38.600 unità (+10%); mentre negli Stati Uniti le vendite hanno raggiunto circa le 31.400 unità (pari al 14%). La Germania è il quinto mercato mondiale con vendite per 20.039 unità. In Asia, Taiwan è dal 2013 al sesto posto nel mondo; le vendite di robot nel 2016 sono aumentate del 5% (circa 7.600 unità). La Thailandia è un mercato in crescita, tuttavia le vendite sono diminuite dal 2014, raggiungendo 2.646 unità nel 2016. Le vendite di robot in India sono aumentate del 27% con un nuovo picco di 2.627 unità. Le forniture di robot ad altri paesi del Sud-Est asiatico come Vietnam, Singapore e Malesia sono aumentate in modo sostanziale nel 2016.

(12)

Nel mercato Americano il Messico è diventato un importante mercato emergente raggiungendo il picco delle 5.900 unità nel 2016, mentre in Canada le vendite di robot sono diminuite dal picco di circa 3.500 unità nel 2015 alle 2.300 unità nel 2016. Le vendite in Brasile nel 2016, invece, sono diminuite. IFR stima che dal 2018 al 2020 (figure 5 e 6) le installazioni di robot globali aumenteranno almeno del 15% in media all'anno (CAGR), raggiungendo nel 2020 circa le 520.900 unità. Tra il 2017 e il 2020 si stima che saranno installati oltre 1,7 milioni di nuovi robot industriali nelle fabbriche in tutto il mondo.

(13)

Figura 6 – Fornitura annuale mondiale stimata di robot industriali

1.4 La robotica collaborativa e di servizio

Accanto alla robotica industriale si stanno affermando anche la robotica collaborativa e la robotica di servizio. Alla base della Fabbrica Intelligente ci sono i principi della collaborazione sicura (uomo/uomo, uomo/robot e robot/robot) e di interconnettività, favorendo l’ingresso sempre maggiore di robot

collaborativi (collaborative robot o cobot)5 che grazie a tecnologie di apprendimento mediante l’accesso

ai big data, disponibili in cloud, riescono a memorizzare dati e replicare manovre di lavoratori umani con cui sono messi a stretto contatto, e a riconfigurarsi in automatico, per una migliore definizione dei processi. Il cobot, infatti, è un robot destinato a interagire fisicamente con gli esseri umani in uno spazio di lavoro condiviso, in sicurezza, senza barriere o gabbie protettive, in quanto sono dotati di sofisticati meccanismi basati sul controllo della forza e sul costante monitoraggio di quanto avviene intorno a loro, grazie a telecamere e speciali sistemi di anticollisione6.

In accordo con lo standard internazionale EN ISO 10218 parte 1 e parte 27, sono definite quattro classi

di requisiti di sicurezza che un robot collaborativo deve avere: arresto di sicurezza controllato, guida manuale, controllo di velocità e limitazione di forza e potenza.

Le differenze tra robot industriali e collaborativi sono evidenziate nella tabella 2 (Gasparetto 2017, p. 17).

5 Una domanda di brevetto statunitense del 1997 descrive i cobots come "un apparato e un metodo per l'interazione fisica diretta tra

una persona e un manipolatore di uso generale controllato da un computer" (Cobots US Patent 5.952.796).

6 I cobot per assicurare tale sicurezza sono predisposti con: sensori di forza e di coppia, limitazioni di forza, sensori specifici, sistemi di

visione, sistemi laser, sistemi di riconoscimento di comandi vocali.

7 EN ISO 10218 Robots and robotic devices — Safety requirements for industrial robots is an international standard for robot safety,

(14)

Tabella 2 – Differenze tra Robot Industriali e Robot Collaborativi

Robot industriali Robot collaborativi

Ciechi e non consapevoli dell’ambiente circostante

Pericolosi

Competenti in precisione e ripetibilità

Programmati per un compito specifico

Richiedono componenti e integrazione

Richiedono esperti programmatori

Costosi.

Vedono, percepiscono l’ambiente e le persone

Sicuri

Focalizzati sulla flessibilità e sulla facilità di utilizzo

Compiti eseguiti proprio come un operatore umano

Perfettamente integrati

Possono essere addestrati da qualsiasi operatore

Incredibilmente a basso costo.

Nell’articolo A Robot in Every Home pubblicato su Scientific American nel 2007, Bill Gates immaginava

un mondo in cui entro il 2035 macchine intelligenti si sarebbero occupate della vita domestica al fianco dell’uomo. La Robotica di servizio è attualmente in una fase importante di espansione e rappresenta

uno dei più promettenti trend tecnologici emergenti. Secondo IFR, un robot di servizio è “un robot che

opera in maniera autonoma o semi-autonoma per compiere servizi utili al benessere degli esseri umani, escludendo l’ambito manifatturiero”.

IFR prevede che la robotica di servizio professionale continuerà a crescere a ritmi sostenuti, e le maggiori applicazioni civili saranno in agricoltura, logistica e medicina. I dati dell’IFR indicano che le vendite di robot di servizio professionali sono aumentate del 24% nel 2016, con un ulteriore incremento del 17% nel 2017, e un incremento previsto del 20-25% nel 2018. Entro la fine del decennio nelle abitazioni entreranno oltre 42 milioni di robot con compiti di intrattenimento e lavori domestici.

La robotica di servizio nel settore della logistica rappresenta un mercato in ascesa per effetto di un

importante aumento dell’e-commerce, e delle complessità sempre crescenti del proprio supply chain

management8. Investimenti nella ricerca9, alimentati da start-up specializzate, sono sostenuti da colossi

come Google o Amazon10. Nel nuovo magazzino di Amazon c’è Robo-Stow, uno dei bracci robot più

grandi al mondo che permette di dimezzare i tempi per lo scarico delle merci da un rimorchio.

La robotica di servizio è oggi un settore emergente. I progressi sono stati possibili grazie agli sviluppi di

nuove tecnologie abilitanti come i sistemi embedded (computer miniaturizzati integrati in un dispositivo

fisico in modo da controllarne le funzioni tramite un apposito programma software), e agli sviluppi della parte sensoristica, che contribuiscono a realizzare una nuova generazione di robot intelligenti capaci di sostenere gli esseri umani nelle attività lavorative e nella vita quotidiana. Alcuni esperti di mercato sostengono che, dopo la telefonia mobile, la robotica di servizio sarà the next big thing, in quanto destinata a rivoluzionare le nostre vite.

8 Nella supply chain, i cobot sono utilizzati nel: carico e scarico di veicoli e container, prelevamento di singoli oggetti, portare nel punto

giusto tutti i pacchi che compongono una spedizione, co-packing e personalizzazione dell’attività. Per esempio Baxter di Rethink Robotics, un automa collaborativo che apprende un’attività semplicemente se il suo braccio è guidato a farla. Amazon ha calcolato che per ogni spedizione un addetto percorre da 7 a 15 miglia, e per questo ha acquisito Kiva Systems, robot semoventi usati nei magazzini capace di spostare scaffali di circa 1,80 per 1,20 metri.

9 A livello di ricerca si rammenta il progetto Refills dell’UE, un robot magazziniere sviluppato sotto il coordinamento del Consorzio di

Ricerca per l’Energia e l’Automazione e le Tecnologie per l’Automatismo (CREATE) capace di gestire gli ordini e aiutare i commessi dei negozi. Il progetto ha l’obiettivo di trovare soluzioni innovative di robotica modulare, utilizzabile per un’ampia gamma di processi di logistica grazie a sistemi robotici mobili in stretta e intelligente collaborazione con gli esseri umani.

10 Amazon già dal 2015 ha organizzato la prima edizione dell’Amazon Picking Challenge, una competizione su scala mondiale indetta per

(15)

I progressi tecnici realizzati nei campi delle nuove tecnologie e della robotica riportati in questo capitolo rappresentano la premessa all’introduzione del prossimo, che affronta il tema principale del presente lavoro.

2 P

ROGRESSO TECNOLOGICO

,

LIVELLI E COMPOSIZIONE DELLA FORZA LAVORO E SKILL

In questo capitolo si riportano i dati di pubblicazioni e report che evidenziano gli effetti del progresso tecnologico sui livelli occupazionali, sulle skills dei lavoratori e sui tasks dei lavori, sull’esposizione all’automazione delle professioni, e sui lavori a rischio di disoccupazione in alcuni Paesi e in Italia. Tale esposizione è preceduta da un contributo utile a delineare un quadro complessivo dell’attività di ricerca in ambito economico sull’argomento.

L’impatto potenzialmente negativo del progresso tecnico sui livelli occupazionali non è estraneo al pensiero economico moderno. La letteratura si è orientata storicamente su due posizioni:

 la tecnologia è in grado di portare a una riduzione strutturale dell'occupazione attraverso una

prevalenza dell'effetto di sostituzione (substitution theory)11

 i meccanismi di mercato riescono a compensare l'effetto sostituzione neutralizzando l'impatto

negativo della tecnologia sui livelli occupazionali (compensation theory)12.

Anche sulle dinamiche allocative riconducibili alla diffusione delle nuove tecnologie, vi è un ampio consenso tra gli economisti dovuto alla convergenza osservatasi, tra gli Stati Uniti e alcuni Paesi europei, nel pattern seguito dalla variazione della composizione dell'occupazione (Intraligi e Naticchioni 2015, pp. 10-17). Tale filone di ricerca trae origine da quello sui differenziali salariali e sulle disuguaglianze retributive, che accordano maggior forza esplicativa al ruolo delle innovazioni tecnologiche rispetto ad altre spiegazioni alternative, quali l'espansione del commercio internazionale, il funzionamento delle istituzioni del mercato del lavoro, etc.

Su tali evidenze è stato formulato il concetto di skill-biased technical change (SBTC), per cui gli investimenti in innovazione tecnologica aumentano la produttività del lavoro qualificato, normalmente identificato attraverso un alto livello di istruzione, rispetto al lavoro non qualificato, incrementandone il salario relativo e provocando un aumento della disuguaglianza nella distribuzione salariale.

Autor et al. (2003) hanno aggiornato tale ipotesi, individuando la relazione esistente tra l'introduzione di nuove tecnologie e il tipo di mansioni svolte dai lavoratori, invece del grado di istruzione.

11 Tale ipotesi si fonda sull’idea che la diffusa innovazione dei processi produttivi dovuta agli investimenti in ICT aumenti la produttività

del lavoro, riducendo la domanda di lavoro rispetto a quella di capitale, generando una diminuzione dei livelli occupazionali. Quest'ipotesi è divenuta piuttosto popolare a metà degli anni novanta grazie al contributo di Rifkin (1995), ripreso più tardi da Levy e Murnane (2004), che hanno evidenziato sia quanto le macchine siano in grado di svolgere, con relativa facilità, mansioni espletabili in base a regole fisse (automazione in senso stretto), sia quanto esse non siano idonee ad assolvere funzioni che richiedano interazioni o processi cognitivi di tipo complesso (un dato oggettivo che rende poco plausibile l'ipotesi di prevalenza di lungo periodo dell'effetto sostituzione). Brinjolfsson e McAfee (2013, 2015) hanno evidenziato come le macchine stanno sviluppando capacità che esulano dalla mera automazione, rendendo il suddetto punto di vista in parte meno attendibile.

12 La seconda impostazione teorica affonda le radici in quei meccanismi di mercato in grado di neutralizzare o rovesciare l'effetto

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La tecnologia non è neutrale alle skills ma tende a favorire alcune abilità particolari, mentre ne svaluta altre e le rende ridondanti: aspetto etichettato in letteratura come un cambiamento tecnologico orientato all'abilità (Card e DiNardo 2002; Haskel e Slaughter 2002; Acemoglu e Autor 2011).

I livelli di abilità, tuttavia, sono ancora una categoria troppo ampia per cogliere gli attuali sviluppi nei mercati del lavoro degli Stati Uniti e dell'UE. Autor et al. (2013) suggeriscono di guardare ai compiti individuali piuttosto che alle skills. Le attività, unità di processo lavorativo che produce output, possono essere eseguite per lavoro (persone) o per capitale (macchine o, in altre parole, automazione). La divisione dei compiti tra persone e macchine è fluida. Autor (2013, p. 186) evidenzia che i nuovi compiti – quelli richiesti da nuovi prodotti, tecniche o servizi – sono spesso assegnati prima ai lavoratori, in quanto flessibili e adattabili. Questi compiti sono routinizzati e codificati. Le nuove tecnologie di processo possono rendere ridondanti alcune attività fornite dai lavoratori, mentre aumentano il valore e l'utilità di altre per aumentarne la produttività. Questi compiti includono tutto ciò che riguarda le capacità di risoluzione dei problemi, l'intuizione, la creatività, la persuasione, l'adattabilità situazionale, il riconoscimento visivo e linguistico, e le interazioni persona-a-persona. Quindi, le nuove tecnologie possono sostituire o integrare compiti svolti dai lavoratori (Brynjolfsson e McAfee 2015; Autor 2015). Acemoglu e Autor (2011) suggeriscono che una distinzione tra lavori manuali e processi cognitivi e di routine, rispetto a quelli non di routine, può essere più adatta rispetto a quella qualificata e non qualificata. Pertanto, si distinguono quattro tipi di compiti:

 Analytical and interactive non-routine tasks

 Analytical and interactive routine tasks

 Manual routine tasks

 Manual non-routine tasks.

Tale ipotesi si fonda sull’idea che mentre le nuove tecnologie possono sostituire con relativa facilità i lavoratori impegnati in mansioni di tipo routinario (manuali e cognitivi), esse non sono in grado di sostituire il lavoro ad alta intensità di mansioni non routinarie (problem-solving, interazioni complesse, etc.), ove il ruolo della tecnologia è prevalentemente di tipo complementare.

La domanda di lavori e di compiti di routine è diminuita considerevolmente, indipendentemente dal motivo che questi lavori o mansioni avessero un carattere cognitivo o manuale. Di conseguenza, la domanda di persone con competenze medie è diminuita, mentre è aumentata la domanda di occupazioni altamente qualificate e poco qualificate.

L'ipotesi che il progresso tecnologico provochi uno spostamento della domanda di lavoro in favore del

lavoro non routinario è indicata come Routine-biased technical change (RBTC). Tale cambiamento ben

(17)

In sintesi:

in una prima fase, il cambiamento delle tecniche di produzione hanno richiesto il contributo di lavoratori qualificati e hanno rimpiazzato quelli meno qualificati (skill-biased technical change). Questa divaricazione si associa, come osservano Katz e Autor a una più elevata dispersione dei salari. Ma gli sviluppi tecnologici più recenti, connessi con la crescente automazione della produzione e lo spacchettamento delle fasi produttive hanno superato la semplice distinzione tra lavoratori qualificati e non qualificati: lo spiazzamento dei lavoratori non avviene lungo la dimensione delle loro capacità e competenze (skills), bensì rispetto al grado di ripetitività delle mansioni (tasks) che si associano a una posizione lavorativa (task-biased technical change). Seguendo regole esplicite, le operazioni di routine – si pensi a quelle di un impiegato del back office di una banca o i compiti svolti da un operario alla catena di montaggio – possono essere svolte dalle macchine, mentre quelle non di routine sono state troppo complesse, finora, per essere codificate. In linea con queste tendenze, è stata evidenziata negli Stati Uniti e in alcuni paesi europei una polarizzazione della struttura occupazionale, classificando le attività in base al livello retributivo o alle caratteristiche intrinseche (Visco 2015,4).

Pertanto, la polarizzazione dei lavoratori verso gli estremi della distribuzione delle qualifiche va a discapito dei lavoratori intermedi, più codificati e quindi maggiormente interessati dai processi di automazione in corso. Il risultato è una curva a U, ben definita nella distribuzione delle skills, coerente con la teoria della polarizzazione del lavoro, riproposta all’attenzione internazionale da Frey e Osborne (2013), che identificano le occupazioni con il più alto contenuto di compiti di routine, e stimano che nei prossimi 20 anni circa il 47% dell'occupazione totale negli USA è a rischio di sostituzione (figura 7). Figura 7 - Distribuzione dell’occupazione negli Stati Uniti e probabilità di informatizzazione

(18)

Peters (2016) a sua volta descrive i cambiamenti nelle quote di otto diversi gruppi di professioni sull'occupazione totale per i periodi 1995-2001, 2001-2008 e 2008-2015 (Ue-15), ripartiti in classi di popolazione ad alta, media e bassa retribuzione, in base al salario medio a livello europeo (figura 8). I risultati di tale lavoro si basano sulle previsioni occupazionali del Cedefop, e indicano che questa tendenza continuerà probabilmente in futuro. Naturalmente, l’analisi della polarizzazione e di altri effetti sul mercato del lavoro dipende dalla corretta identificazione delle attività di routine e non di routine. Figura 8 - Changes in employment shares of different occupation groups, 1995-2015, EU-15 (% points)

Fonte: EUROSTAT, Labour Force Survey

(19)

Figura 9 - Employment by skill and routine intensity (2011-2012)

Fonte: Marcolin et al. (2016, 23)

Il suddetto lavoro fornisce anche dati sulla quota di diversa intensità di routine a livello nazionale, fornendo una prospettiva interessante sulle divergenze nell'Ue (figura 10). Paesi dell'Europa meridionale come l'Italia e la Spagna evidenziano una percentuale maggiore di occupati con un’alta intensità di routine; mentre Danimarca, Germania e Austria hanno le percentuali più basse. Se si accorpano le quote occupazionali di intensità media e alta di routine, il Regno Unito ha il più alto grado di intensità di routine nell’Ue, seguita da Slovacchia, Irlanda e Polonia.

Figura 10 - Employment by routine intensity in various OECD countries (2011-2012)

(20)

Brunetti, Cirillo e Ricci (2018), partendo dall’assunto di Autor e Dorn (2009), secondo cui nelle aree con una specializzazione a monte in qualifiche di tipo routinario vi è una maggiore propensione all’adozione

di tecnologie labour-saving, analizzano in che modo la specializzazione routinaria di un mercato

provinciale del lavoro influisce sulla variazione dell’occupazione della stessa provincia. I principali risultati di tale analisi mostrano che i mercati provinciali del lavoro con una maggiore specializzazione in

mansioni routinarie presentano una variazione negativa dell’occupazione totale13.

Considerando infatti l’interazione fra la routinizzazione delle province e la quota di addetti all’interno della manifattura emerge che la contrazione dell’occupazione riguarda soprattutto le province in cui vi è una maggiore quota di occupati nel settore dei servizi. Il settore dei servizi, rispetto a quello della manifattura, è infatti caratterizzato da una quota comparativamente più bassa sia di lavoratori a tempo indeterminato che del livello di sindacalizzazione. A livello generale, in linea con la letteratura, questo lavoro mostra una correlazione negativa fra routinizzazione di un mercato provinciale del lavoro e variazione dell’occupazione nella stessa area. La riduzione dell’occupazione in relazione alla routinizzazione di un’area è registrata sia nelle fasi di crisi che in quelle di ripresa dell’economia. Tuttavia, la perdita di occupati dei mercati provinciali del lavoro è significativa nella fase di crisi del 2007-2010 a prescindere dalla routinarietà del mercato stesso (ibidem, 16).

2.1 L’importanza del capitale umano nell’attuale contesto tecnologico

Il capitale umano è il fattore che consente alle imprese l’utilizzo più efficiente del progresso tecnologico,

elemento disruptive nella società attuale e nella nuova organizzazione del lavoro, tramutandolo in

produttività, e a livello macro-economico in elevati tassi di crescita in grado di autosostenersi nel tempo. In un contesto in cui appare cruciale per l’Italia l’investimento nel capitale umano d’eccellenza, preoccupa il forte disinvestimento sull’università degli ultimi 10 anni e il primo calo degli immatricolati universitari dall’Unità d’Italia (Viesti 2018).

Un rilevante problema per il nostro Paese deriva dall'utilizzo, spesso inefficiente, del capitale umano

disponibile (Trapasso e Scicchitano 2017). Si riscontra, infatti, un mismatch tra domanda e offerta di

lavoro, e nel sistema produttivo che non riesce a trasformare le skill dei lavoratori in livelli sostenuti di

produttività, con rendimenti del capitale umano ancora insoddisfacenti, specie nel confronto europeo. Lo skill mismatch nel nostro Paese è evidente: sulla base dei dati OCSE-PIAAC, il 12% della forza lavoro

possiede delle competenze superiori alle mansioni svolte, e l’8% è under-skilled. Tali valori superano la

media dei Paesi OCSE che è pari, rispettivamente, al 10% e al 4%: 1 lavoratore su 5 non può utilizzare appieno le proprie potenzialità (OCSE 2017).

Un altro sintomo di inefficiente allocazione delle competenze dei lavoratori dal lato della domanda è riscontrato dall’abbinamento dei laureati alle mansioni da svolgere (Marcolin et al. 2016): l’Italia è l’unico paese del G7 in cui la maggior parte dei laureati è occupata in mansioni di routine.

13 Tale effetto riguarda maggiormente quei mercati del lavoro in cui la presenza di occupati nei servizi è maggiore rispetto a quella nella

(21)

Il sistema italiano ha bisogno di ulteriori miglioramenti per essere in grado di rispondere alle sfide proposte dai cambiamenti demografici e tecnologici in corso (Sacchi 2018). In questo scenario è essenziale migliorare le capacità dei lavoratori e adattarle alle nuove tecnologie in atto. La partecipazione al life-long learning (LLL) di tutti i lavoratori, indipendentemente dalla qualifica, è importante: l'evidenza empirica suggerisce che in Italia, e nella maggior parte dei paesi avanzati, i lavoratori impegnati in occupazioni altamente qualificate hanno maggiori probabilità di intraprendere attività formali di LLL rispetto al gruppo base di lavoratori occupati in lavori scarsamente qualificati (Biagetti e Scicchitano 2013). I lavoratori meno qualificati ricevono meno formazione e l'Italia è ancora in ritardo rispetto agli altri paesi (figura 11).

Figura 11 - Workers receiving firm-based training, by skill level, 2012 or 2015 (% of total employed)

Source: Elaboration from OECD data

Il nostro Paese appare intrappolato in una low-skills, low-quality trap (Scicchitano 2010), dalla quale è

difficile uscire se non con interventi ben coordinati e capaci di incidere su domanda e offerta di capitale umano. Per invertire il senso di marcia e creare un processo virtuoso di sviluppo endogeno e duraturo nel tempo è necessario che si adotti un approccio sistemico, che da un lato, con adeguate politiche per l’istruzione scolastica e universitaria, agisca sulla quantità e sulla qualità del capitale umano esistente, e dall’altro, operi sul sistema produttivo e ne eviti la sottoutilizzazione.

2.2 Gli effetti delle tecnologie sull’occupazione

Dopo questi brevi contributi utili a delineare un quadro dell’attività di ricerca in ambito economico sull’argomento, il presente paragrafo riporta schematicamente le pubblicazioni e i report nazionali e internazionali che contengono i dati sugli effetti del progresso tecnologico sui livelli occupazionali. La letteratura ha sempre considerato nel lungo periodo l'innovazione e la tecnologia come i principali

(22)

settori, ma al tempo stesso può creare occupazione, imprese e settori completamente nuovi e inimmaginabili. Il rischio, in questo frangente, è che la distruzione colpirà settori ad alta intensità di lavoro, e la creazione riguarderà aziende e/o settori che non assumono molte persone. Da ciò il timore che “l’economia stia percorrendo una strada che la porterà a un punto di svolta, a parte del quale la creazione di posti di lavoro comincerà regolarmente a restare inferiore a quanto richiesto per la raggiungere la piena occupazione” (Ford 2015, p. 186).

In passato alcuni economisti e studiosi di management avevano manifestato posizioni quasi neo-luddiste, evocando addirittura la disoccupazione tecnologica o la fine della manodopera (Ricardo, Keynes, il teorico del management Druker, il premio Nobel Leontief, etc.).

In epoca recente, il dibattito su tecnologia e occupazione si è arricchito di nuove prospettive. Rifkin (1995) ha evidenziato l’importanza e le conseguenze della massiccia introduzione dei robot nel mondo lavoro, che hanno permesso al sistema economico di aumentare la produttività senza però aumentare proporzionalmente l’occupazione (p. 49). La logica secondo la quale le acquisizioni e i conseguenti vantaggi della tecnologia fanno scomparire vecchie occupazioni ma ne creano a loro volta di nuove, potrebbe non reggere con l’avvento della rivoluzione digitale.

Brynjolfsson e McAfee (2015) hanno sottolineato che la manodopera come la conosciamo è destinata a scomparire nei prossimi anni (pp. 113-152).

Il punto di vista su proposto suggerisce di guardare all'evoluzione delle ICT in una prospettiva storica,

approfondendo il loro contributo di lungo periodo alla produttività e ad altre variabili economiche14.

Ford (2009) afferma che a un certo punto del futuro, tra molti anni o decenni, le macchine riusciranno a svolgere le mansioni di buona parte della popolazione media e, di conseguenza, per queste persone non esisteranno più nuovi posti di lavoro. Nel libro successivo, l’autore (2015), rafforzando tale concetto, evidenzia che l’accelerazione del progresso tecnico sta provocando un cambiamento molto più veloce rispetto ad altri periodi della storia. In passato sono stati sempre i lavoratori che svolgevano lavori di routine e/o lavoratori con basso livello di educazione e formazione ad essere colpiti, oggi lo sono anche coloro che svolgono lavori di tipo cognitivo, come i professionisti con competenze ben definite, i cui lavori potrebbero avere delle mansioni che potranno essere assorbite da processi di automazione e dalla maggiore potenza degli algoritmi (p. 176). Infatti, continua Ford, se un lavoro – o parte di esso – ha delle mansioni routinarie o possiede il carattere della predizione, ciò vuol dire che una persona o un algoritmo potrebbe essere in grado di svolgere tale mansione semplicemente studiando un report dettagliato dell’attività svolta in passato, o ripetendo compiti già eseguiti. Il lavoro si sposta oramai sul digitale, comprensibile e misurabile per le macchine, che possono impararlo, e addirittura eseguirlo. Il rischio è enorme, in quanto tantissime persone potrebbero iniziare un percorso di studi, che una volta concluso, potrebbe sfociare in occupazioni estinte o con compiti in parte eseguibili dalle macchine, aumentando le proprie probabilità di disoccupazione. Tale ipotesi è avvalorata anche dallo studio del World Economic Forum (2016) che evidenzia come il 65% dei bambini

14 È noto che durante la prima diffusione delle ICT negli anni ottanta, come constatò Robert Solow (1987), l'era dei computer si poteva

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che frequentano la scuola elementare oggi, probabilmente da grandi faranno un lavoro che ancora non esiste.

Pertanto, si intravedono segnali di un disallineamento tra aumento della produttività e aumento dei posti di lavoro. La produttività cresce grazie alle nuove tecnologie, ma non è seguita dall’aumento dei posti di lavoro, in quanto è sostenuta da macchine e strumenti tecnologici sempre più pervasivi. La valutazione della remunerazione per dipendente potrebbe essere un indicatore del suddetto disallineamento dovuto alle nuove tecnologie. Alcuni esempi sono (Ford 2005, p. 185):

 YouTube quando fu acquistata da Google per 1,65 miliardi di dollari aveva 65 dipendenti, per la maggior parte ingegneri altamente qualificati, quindi con una valutazione di oltre 25 milioni di dollari per dipendente;

 Instagram quando fu acquistata da Facebook per circa un miliardo di dollari aveva solo 13

dipendenti, con una valutazione per dipendente di circa 77 milioni di dollari;

 WhatsApp quando fu acquistata da Facebook per 19 miliardi di dollari aveva 55 persone, con una valutazione sbalorditiva di 345 milioni di dollari per dipendente.

(24)

Studi empirici a livello di impresa e di settore15

Tabella 3 - Studi empirici a livello aziendale e settoriale sull’impatto delle ICT sull’occupazione

Fonte geografica e Dimensione

periodo Risultati

Bogliacino e Pianta 2010

Otto paesi UE, 1994-2004

Potenziale effetto positivo sull'occupazione quando l'innovazione è orientata allo sviluppo di nuovi prodotti (e quindi di nuovi mercati), mentre si rileva un effetto negativo nel caso di innovazione dei processi produttivi, a prescindere dal tipo di settore.

Coad e Rao-Nicholson 2011 USA, settore hi-tech,

1963-2002 L'analisi mostra un impatto positivo della tecnologia sui livelli futuri di occupazione. Harrison et al. 2014 Francia, Germania, Spagna e Gran Bretagna, 1998-2000

L'innovazione dei processi produttivi non riduce il livello di occupazione: nel periodo osservato, la crescita della domanda ha decisamente compensato l'impatto negativo sui livelli occupazionali. L'innovazione del prodotto risulta invece aumentare i livelli occupazionali: la creazione di posti di lavoro risulta più accentuata nel settore manifatturiero, e la riduzione di lavoro è associata alla perdita di quote di mercato nelle imprese che non innovano il prodotto.

Pantea et al. 2014

7 Paesi europei, 2007-2010

Il lavoro non ha riscontrato alcuna prova di una relazione negativa tra l'intensità dell'uso delle ICT e la crescita dell'occupazione. Michaels e Graetz, 2015 17 Paesi 1993-2007

Esiste un effetto positivo di un maggiore uso di robot nell'industria sulla produttività, sui salari e successivamente sulla crescita del PIL; mentre non c’è evidenza di un effetto negativo sull’uso dei robot sull'occupazione aggregata, ma solo un effetto negativo sui lavoratori poco qualificati e un effetto più debole per l'occupazione con una qualifica di livello medio.

Jäger et

al. 2015 Germania, 2012

Non si evidenzia un effetto diretto o positivo sull'occupazione. Un risultato interessante è che le aziende che usano i robot hanno una probabilità molto minore di produzione offshore verso le località all'estero

(25)

Studi empirici a livello di economia e Paese

Tabella 4 - Studi empirici a livello di economia e Paese

Fonte geografica e Dimensione

periodo Risultati

Frey e Osborn,

2013 USA, tutti i settori 10-20anni

Nel presente lavoro, circa il 47% dell'occupazione totale negli Stati Uniti è a rischio di sostituzione dalle ICT nei prossimi 20 anni.

Bruegel blog & Bowles, 2014

UE-28, 10-20 anni

Questo studio replica per i Paesi UE quello di Frey e Osborne, concludendo che nei prossimi decenni si perderanno a causa delle ICT tra il 47% (Svezia) e oltre il 60% (Romania) della forza lavoro.

Bonin et al.

2015 Germania, tutti i settori Lo studio prevede una riduzione del 12% di posti di lavoro per la Germania; inoltre evidenzia l’improbabilità che le ICT rendano obsolete un’intera occupazione. BCG, 2015 Germania, tutti i settori,

fino al 2025

Lo studio analizza l'impatto di Industrie 4.0 su produttività, reddito, occupazione e investimenti nel settore manifatturiero tedesco, che risulta positivo nell’ordine del 6%, per un totale di 390.000 posti di lavoro, fino al 2025.

Wolter et al.

2015 Germania Produzione, fino al 2030

La riduzione di posti di lavoro fino al 2030 è nell’ordine di circa -60.000 lavoratori, frutto della differenza nel settore manifatturiero tra coloro che perderanno il lavoro (420.000 unità) e coloro che lo acquisiranno (360.000 unità).

OECD (Arntz et al.

2016) 21 Paesi OECD

In media, il 9% dei lavori nei 21 Paesi OECD analizzati sono automatizzabili. La quota di lavoratori che ha la più alta probabilità di essere rimpiazzata dall'automazione è maggiore in Germania e Austria (12%) e più bassa in Estonia, Finlandia, Belgio e Corea (6-7%).

Citibank (Frey, Osborne e Holmes 2016) Oltre 50 Paesi e

Regioni Nei Paesi OECD la media dei posti suscettibile di automazione sale al 57%, con punte del 69% in India e del 77% in Cina.

World Economic Forum 2016 15 fra le maggiori ed emergenti economie

Lo studio evidenzia un saldo netto negativo dell’occupazione nell’ordine di 5 milioni. Il saldo per l’Italia è in pari (200.000 posti creati e altrettanti persi), comunque migliore di Francia e Germania. Le perdite a livello professionale si concentreranno nelle aree amministrative (-4,8 milioni) e nella produzione (-1,6 milioni); compensate parzialmente dai lavori creati nell’area finanziaria, nel management, nell’informatica e nell’ingegneria.

ILO (Chang & Huynh 2016)

ASEAN-5,

20 anni Nel presente lavoro, il 56% dei lavoratori è ad alto rischio di automazione (il 32% è a medio rischio e il 12% a basso rischio). World Bank 2016 Paesi in via di sviluppo, nei prossimi decenni

2/3 di tutti i posti di lavoro potrebbero essere suscettibili di automazione nei paesi sviluppati.

PWC, 2017

Maggiori economie sviluppate, 2030

Lo studio stima che UK (30%) ha la percentuale inferiore di posti di lavoro esistenti a rischio potenziale di automazione rispetto alla Germania (35%) e agli USA (38%), ma più del Giappone (21%). McKinsey Global Institute, 2017 46 Paesi, rappresentanti di circa l’80% della forza lavoro globale

Meno del 5% delle occupazioni può essere automatizzato interamente; circa il 60% di esse possono avere il 30% delle attività automatizzate. Tali percentuali toccano circa 1.2 miliardi di lavoratori e $ 14,6 trilioni di salari. Cina, India, Giappone, e Stati Uniti costituiscono più della metà dei lavoratori e dei salari suddetti. La spinta dell'automazione della produttività globale potrebbe interessare 0.8-1,4% ogni anno nei prossimi decenni.

(26)

Da un’analisi specifica degli studi empirici della tabella 4, si riscontra che lo studio di McKinsey Global Institute (2017) evidenzia che in 46 Paesi (rappresentanti circa l'80% della forza lavoro globale) meno del 5% delle occupazioni potranno essere completamente automatizzate, e circa il 60% di esse potranno avere il 30% delle attività automatizzate. Per quanto riguarda i paesi sviluppati, in media il 9% del lavoro nei 21 paesi OCSE analizzati sono automatizzabili. La quota di lavoratori con la più elevata probabilità di essere sostituita dall'automazione è più alta in Germania e Austria (12% della forza lavoro) e più bassa (6-7%) in Estonia, Finlandia, Belgio e Corea (Arntz et al. 2016). Negli Stati Uniti circa il 47% del totale l'impiego di tutti i settori è a rischio di sostituzione (Frey & Osborn 2013); per PWC (2017) tale rischio scende al 38%. Per Bowles (2014) i paesi dell'UE perderanno tra il 47% (Svezia) e oltre il 60% (Romania) della forza lavoro a causa dei progressi tecnologici; mentre PWC (2017) stima che il Regno Unito abbia il 30% dei posti di lavoro esistenti a potenziale alto rischio di automazione. In Asia, lo stesso studio di PWC (2017) stima che il 21% dei posti di lavoro esistenti in Giappone è potenzialmente a rischio di automazione. Per Citibank (2016) tale rischio è al 69% in India e al 77% in Cina. Come evidenziato nella figura 12, nei Paesi in via di sviluppo, i due terzi di tutti i posti di lavoro nel mondo potrebbero essere suscettibili di automazione nei prossimi decenni, anche se ciò non dovrebbe preoccupare tali Paesi nel breve periodo a causa degli ostacoli all'adozione della tecnologia, dei salari più bassi e di una maggiore prevalenza di posti di lavoro basati sulla destrezza manuale (World Bank, 2016).

Figura 12 - Stima della quota di lavoro suscettibile all'automazione nei Paesi in via di sviluppo

Fonte: World Bank (2016, 23)

(27)

l'effetto positivo delle innovazioni di prodotto sui livelli occupazionali, mentre per quanto riguarda l'innovazione dei processi produttivi emergono evidenze ambigue e contraddittorie: a seconda dei casi, quando le stime sono significative, esse spaziano dal positivo al negativo. Pertanto, la letteratura non sembra supportare in maniera robusta la tesi in favore dell'ipotesi di prevalenza dell'effetto sostituzione.

2.3 Gli effetti delle robotica e delle nuove tecnologie sull’occupazione in Italia

Per quanto riguarda gli effetti del progresso tecnologico sull’occupazione in Italia, le stime elaborate da The European House – Ambrosetti (2017) evidenziano che il 14,9% del totale degli occupati, pari a 3,2

milioni, potrebbe perdere il posto di lavoro su un orizzonte temporale di 15 anni (figura 13)16.

Figura 13 - Lavoratori a rischio di automazione e occupati suddivisi per settore

Fonte: The European House-Ambrosetti (2017, 36)

Le differenze tra settori riguardano la diversa composizione della forza lavoro: gli occupati del settore istruzione e salute (medici, infermieri, etc.) svolgono mansioni complesse, poco sostituibili e con un’elevata componente di interazione personale rispetto agli occupati dell’industria manifatturiera (operai, tecnici, etc.). Il titolo di studio è un’altra variabile determinante per la riduzione del rischio di automazione. I lavoratori che posseggono un diploma in belle arti o un diploma di conservatorio (circa 242.600 unità, pari al 5%) presentano il rischio più basso di sostituzione. Ciò indica la rilevanza assunta dalle capacità creative nel determinare una minore sostituibilità rispetto a soggetti senza titolo di studio (circa 106.900, pari al 21%) esposti ad un rischio maggiore di sostituibilità. Percentuali di rischio elevate sono registrate tra i soggetti con licenza media (8,5 milioni, pari al 18%) e con diploma di

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maturità (6 milioni, pari al 16%). Analizzando la correlazione lineare tra titolo di studio e rischio di automazione si ottiene un valore negativo (pari a ρ=-0,88); pertanto le due variabili si muovono in senso inverso: al crescere dell’una si riduce l’altra (figura 14).

Figura 14 - Lavoratori a rischio di automazione e occupati suddivisi per titolo di studio

Fonte: The European House-Ambrosetti (2017, 37)

L’approfondimento sugli occupati con formazione post-universitaria conferma il trend della figura 14: i lavoratori con diploma di specializzazione universitaria presentano il rischio di automazione più basso (1%); all’estremo opposto ci sono invece i lavoratori meno qualificati e non laureati (17 milioni, con un rischio pari al 17%)17.

In conclusione, le variabili delle proxy che consentono di tracciare un profilo abbastanza preciso delle

caratteristiche che determinano un rischio di sostituzione più basso per un’occupazione sono:

 non ripetitività del lavoro svolto,

 capacità creative e innovative richieste per lo svolgimento delle mansioni,

 complessità intellettuale e operativa delle attività svolte,

 capacità relazionali e sociali quali empatia, persuasione e abilità negoziali.

Partendo da tali stime sono stati calcolati il numero di posti di lavoro che potrebbero essere persi annualmente per ciascun settore. I settori sono associati a percentuali di rischio diverse per la diversa tipologia di mansioni predominanti in un settore rispetto ad un altro (figura 15).

17 Per tale studio, le variabili non significative per la determinazione del livello di rischio di automazione sono: il sesso, l’area geografica

(29)

Figura 15 - Posti di lavoro a rischio di sostituzione per settore nello scenario Base

Fonte: The European House – Ambrosetti (2017, 44)

Anche se i posti di lavoro sono calcolati nell’arco di 15 anni, l’impatto dell’automazione non sarà uniforme per tale periodo, ma ci sarà una progressiva accelerazione nel dispiegarsi degli effetti: nei primi 5 anni si perderà circa il 20%, nei secondi 5 il 35%, negli ultimi 5 il restante 45% (figura 16).

Figura 16 - Numero di posti di lavoro a rischio nei tre scenari ipotizzati in 15 anni (2018-2033)

Scenario

Conservativo

Scenario

Base

Scenario

Accelerato

Totale posti a

rischio su 15 anni

1.599.589

3.212.270 4.338.161

Rischio

sostituzione

7,4%

14,9%

20,1%

Fonte: The European House – Ambrosetti (2017, 45)

In virtù di uno scenario in rapida evoluzione, è necessario attrezzarsi per cogliere i benefici dello smart

(30)

Alessandro Perego18 afferma che nel breve termine si possono prevedere saldi occupazionali negativi,

nel medio-lungo termine non è assolutamente certa una contrazione degli occupati in numero assoluto19, considerato anche l’impatto nell’indotto, in particolar modo nel terziario avanzato. L’Italia

deve però cogliere appieno i benefici della quarta rivoluzione industriale, attuando iniziative sistemiche per lo sviluppo dello smart manufacturing e fornendo ai lavoratori le competenze digitali per le mansioni del futuro.

2.4 Professioni a rischio disoccupazione

Come già riportato nell’introduzione, oltre all’occupazione, è stata svolta anche una valutazione sull’esposizione all’automazione delle professioni.

La velocità con la quale i posti di lavoro saranno persi dipenderà dalla velocità dell’innovazione, e quindi dallo sviluppo dell’intelligenza computazionale. Le previsioni di Frey e Osborne sulle occupazioni più e meno suscettibili alla computerizzazione sono riportate nella figura 17.

Figura 17 - Occupazioni più e meno suscettibili alla computerizzazione

Fonte: The European House - Ambrosetti (2017, 61)

18 Direttore Scientifico degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano.

19 Inoltre, la storia economica evidenzia che in altri momenti simili di cambiamento del paradigma tecnologico si tende a stimare

(31)

Anche in questo caso i dati evidenziano che l’automazione non è più un fenomeno che riguarda esclusivamente la classe operaia e artigiana, ma coinvolge anche le occupazioni a più alta specializzazione che possono richiedere un livello di istruzione elevato. Come già riportato nel presente lavoro, le stime di Frey e Osborne sono state la base di partenza per la ricerca OCSE (2016), nella quale è stata elaborata una stima dei posti di lavoro a rischio negli Stati Uniti pari al 9% (vs. il 47% stimato da Frey e Osborne). In Italia invece, gli occupati ad alto rischio di automazione sarebbero pari al 10%,

diversamente dal 14,9% della ricerca The European House – Ambrosetti (figura 18).

Figura 18 - Quota di lavoratori ad alto rischio di automazione sul totale degli occupati (2016)

(32)

Le differenze fra tali valori sono dovute ai seguenti elementi che influenzano il rischio di automazione:

 le mansioni non sostituibili dall’automazione forniscono un certo grado di protezione al lavoratore nei

confronti della sostituzione;

 la perdita del posto di lavoro non può essere considerata inevitabile poiché dipende dalle scelte delle

imprese e dei lavoratori;

 gli individui hanno la capacità di riqualificarsi e di imparare a interfacciarsi con le nuove tecnologie.

Lo studio OCSE (2016) ha cercato di capire anche se il livello di istruzione potesse essere considerato una forma di protezione per i lavoratori. I dati dimostrano che all’aumentare del livello di istruzione raggiunto da un individuo si verifica una riduzione del rischio di sostituzione.

La figura 19 evidenzia che il rischio di automazione è più alto per i primi due livelli di istruzione

ISCED20. Già dal terzo livello gli occupati a rischio si riducono in maniera sostanziale (rischio massimo

pari al 19%, e rischio minimo pari al 7%), sino ad azzerarsi una volta raggiunto il livello di educazione massimo (fatta eccezione per Polonia e Regno Unito).

Figura 19 - Rischio di automazione degli occupati per livello di istruzione conseguito (2016)

Fonte: The European House – Ambrosetti su dati OCSE 2016 (2017, 63)

20 ISCED 1: scuola elementare; ISCED 2: scuola media; ISCED 3: scuola superiore; ISCED 4: formazione post-secondaria non terziaria;

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