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QUIS CUSTODIET CUSTODES? LA RESPONSABILITÀ NELL’ÉQUIPE Prof. Alessandro Chini

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QUIS CUSTODIET CUSTODES? LA RESPONSABILITÀ NELL’ÉQUIPE

Prof. Alessandro Chini* - Dr.ssa Roberta Corsi** - Dr. Claudio Cacaci*** - Dr. Vincenzo Rosini****

Se è vero che la legge prevede espressamente che il primario debba, oltre a prestare assistenza sanitaria di qualità, anche educare, incaricare e vigilare il collaboratore sottoposto, spesso quest’ultimo non sa discernere dove finisca la responsabilità del primario e dove inizi la propria.

Egli il più delle volte non sa se vigilare sul comportamento del primario (in tema di comportamento a finalità medico-chirurgiche ed economico-amministrative) sia compito richiestogli in termini di dovere etico-deontologico o di obbligo legale, se trattasi di mera opzione lasciata al libero apprezzamento del singolo o se, infine, non gli sia comunque mai richiesto. Egli non sa quando opporsi a condotte sanitarie inadeguate del primario o rifiutare di conformare il suo comportamento alle sue direttive.

I quesiti non sono di poco conto. Infatti, come sempre più spesso accade, il medico legale viene avvicinato da colleghi coinvolti in procedimenti a loro carico e a carico dei propri collaboratori o primari. L’analisi dei fatti, altrettanto di frequente, evidenzia episodi nei quali le responsabilità dei singoli sfumano l’una nell’altra embricandosi a tal punto da risultare assai difficile distinguere quale singolo comportamento sanitario sia - in termini di preponderanza - relazionabile causalmente o concausalmente con il danno subito dal malato (per ciò che concerne la responsabilità sanitaria a finalità medico-chirurgica) o con il “danno all'erario” (in riferimento alla responsabilità sanitaria a finalità economico-amministrativa).

Tale e tanta risulta comunque la difficoltà di discernere le singole responsabilità in ambito medico-chirurgico, che gli stessi Maestri della nostra materia hanno cercato di ridurre tutto a semplicistiche generalizzazioni: il Cattaneo è del parere che qualsiasi fatto antigiuridico accada nel lavoro in équipe, questo debba essere comunque attribuito al primario per una sorta di responsabilità oggettiva derivante dalla vastità delle prerogative assegnategli per legge e il Crespi è del parere che tutti gli intervenuti, a prestare opera o a negarla, debbano essere ritenuti responsabili, in contrasto però con il precetto penalistico in base al quale “societas delinquere non potest”. In effetti, neppure la più sofisticata teoria dell’affidamento risulta scevra di pecche, se si considera che il primario può per legge affidare un malato alle cure di uno o di altro suo collaboratore e dettare comunque i protocolli diagnostico-terapeutici ed assistenziali, pur non essendo fisicamente presente in reparto.

Analizzando la normativa si evince che, in forza del DPR 761/1979, le attività del primario

“sono soggette esclusivamente a controlli intesi ad accertare la rispondenza dei provvedimenti adottati alle leggi ed ai regolamenti” e che dell’operato dei collaboratori sottoposti egli è comunque responsabile in eligendo, in educando ed in vigilando; da ciò sembrerebbe evincersi che con un personaggio così ingombrante ben poca autonomia decisionale ed operativa medico- chirurgica ed economico-amministrativa possa essere riconosciuta ai collaboratori nel lavoro in équipe (di reparto, di sala operatoria e di progetto) e che altrettanto poca colpa potrebbe loro derivare da una condotta sanitaria inidonea e censurabile che abbia cagionato un danno.

Lo stesso DPR prevede però che il primario debba:

1) collaborare con il personale appartenente alle altre posizioni funzionali;

2) rispettare l’autonomia professionale del personale affidatogli;

* Specialista in Medicina Legale, Roma

** Specialista in Medicina Legale, Roma

*** Specialista in Medicina Legale, Ascoli Piceno

**** Specialista in Medicina Legale, Ascoli Piceno

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3) osservare i criteri di competenza, equa distribuzione e rotazione degli incarichi.

Degli obblighi del primario verso i collaboratori si legge anche nella Riforma Ter, ove viene laconicamente precisato che il dirigente sanitario con funzioni di direzione di struttura complessa debba rispettare la collaborazione multiprofessionale.

Nella pratica corrente, il medico legale è chiamato a verificare l’operato di ciascun componente l'équipe nelle particolari condizioni di tempo, di luogo e d’azione in cui i fatti ebbero luogo; ciò perché per ogni medico coinvolto si richiede sempre la precisa individuazione delle singole responsabilità. A questo proposito si dovrebbe tenere conto delle seguenti regole del lavoro in équipe:

- ogni componente deve prestare la più idonea delle prestazioni medico-chirurgiche possibile, facendo in modo da porre il collaboratore nella condizione di poter prestare a sua volta la più idonea delle prestazioni medico-chirurgiche possibile (trattasi di un principio di reciprocità nel quale deve valere la massima, all’uopo modificata, di non mettere il collega in situazioni nelle quali non vorresti trovarti). È il caso, ad esempio, dell'ostetrico che non consiglia la gestante con gravidanza a rischio di parto prematuro di recarsi presso un centro ospedaliero dotato di terapia intensiva neonatologica e che comunque non dispone il trasferimento e che così facendo pone il pediatra del suo ospedale in condizioni di dover prestare la propria opera ad un neonato gravemente pretermine in una struttura non specializzata, ma di esempi ve ne sarebbero infiniti;

- tutti gli atti medico-chirurgici mandati ad effetto devono essere tesi ad ottenere la guarigione del malato o, se ciò non è materialmente possibile (per la gravità intrinseca della malattia o per le scadute condizioni del malato), per lo meno tesi a ridurre al massimo il rischio sfavorevole evoluzione di disturbo/malattia/complicanza, che è insita con diversa vis in ogni peggioramento subiettivo od obiettivo dello stato di salute anteriore della persona umana in questione;

- ogni componente deve vigilare al fine di verificare quanto meno la rispondenza degli atti a finalità sanitaria propri ed altrui ai precetti preventivistici operanti in ambito medico-chirurgico.

A quest'ultimo proposito si deve premettere che vi sono tre livelli di preventivismo o prevenzionismo in ambito sanitario medico-chirurgico su cui vigilare; se poi, e in quale misura, l'aumento del rischio per il bene tutelato, derivante da inosservanza di questi precetti, connoti un nesso d'imputazione oggettiva dell'evento, deve rimanere materia estranea alla medicina legale e di sola competenza della classe forense.

Va da sé che al malato vanno prestati tutt’e tre i livelli preventivistici al fine di garantirgli il minore rischio di evoluzione sfavorevole di malattia. I livelli individuabili sono i seguenti:

- quello etico-deontologico rappresentato dal consenso informato, libero, esplicito, reversibile. Il medico che vi si adegua pone il malato nella condizione di poter motivatamente concorrere con autonomo atto di volontà a ridurre il rischio di sfavorevole evoluzione della sua malattia (vedremo successivamente come);

- poi quello legale che prevede specifiche norme giuridiche alle quali ogni medico è obbligato a conformare il suo comportamento. Si fa l’esempio di quelle sull’impiego di materiale monouso, quelle sulla sterilizzazione delle sale operatorie e dello strumentario chirurgico, quelle sulla sperimentazione, quelle sui trapianti ed espianti d’organo, quelle sui trasferimenti dei neonati pretermine presso strutture ospedaliere dotate di rianimazione neonatologica, etc. Neppure il primario o il capo équipe può derogare a queste norme e tutti i componenti sono tenuti a vigilare sul loro rispetto;

- infine quello scientifico che è dettato dai protocolli e dai piani assistenziali previsti dalla rilevante comunità scientifica medico-chirurgica internazionale. Il medico che vi si conforma pone il suo operato più lontano dalle critiche; chi non lo fa, e cagiona un danno al malato, deve

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giustificare il mancato rispetto della “leges artis” che, pur non avendo forza di legge, dovrebbe caratterizzare ogni comportamento sanitario a finalità medico-chirurgica. In quest'ambito il primario o il capo équipe possono derogare ai precetti della “miglior scienza” (che trova caposaldo nella così detta evidence based medicine) obbligando il collaboratore sottoposto ad aderirvi anche se di altro parere.

Se per quanto concerne il livello preventivistico legale il collaboratore sottoposto non può conformare il suo operato ad indicazioni o disposizioni del capo équipe o primario che contravvengano a leggi o regolamenti codificati in norme giuridiche tese a ridurre nel malato il rischio di sfavorevole evoluzione della sua malattia e che invece per quello scientifico deve piena obbedienza al primario, riguardo al livello preventivistico etico-deontologico il problema è assai più complesso.

Ci si potrebbe infatti chiedere se il medico collaboratore debba poter attivamente vigilare sulla correttezza formale e sostanziale dell'atto di consenso o se, non essendo il consenso una norma legale codificata, egli non abbia titolo per eccepire sull'eventuale inadeguatezza dell'atto di consenso redatto dal primario o del modulo imposto per la sua raccolta.

Per risolvere il problema bisogna rifarsi all’art. 32 della Costituzione che così recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo ed interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può, in nessun caso, violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

Da questa norma si evince che:

- il cittadino ha diritto alla salute;

- la salute è un interesse sia individuale che della collettività;

- l’atto medico a finalità sanitaria non può in alcun modo violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana poiché ancor sopra la norma legale trova la sua suprema collocazione la norma etica;

Il rispetto della persona umana da parte del medico si persegue innanzitutto con il consenso; non prevaricandolo con scelte a finalità sanitaria di cui il malato è inconsapevole e che non sono frutto della sua volontà.

Pertanto neppure il primario può dunque derogare o costringere il sottoposto collaboratore a derogare all'escussione di un corretto consenso informato, in quanto diritto del malato derivante da precetti etico-deontologici e costituzionali, tra tutti i più impegnativi.

Il medico che considera l'escussione del consenso una perdita di tempo, posto nell'obbligo di dover informare il malato e di raccoglierne la volontà per iscritto, è portato a credere che in fin dei conti esso può trasformarsi in una pratica a suo totale beneficio, in quanto avvertendo il malato di ogni possibile effetto collaterale e complicanza insiti nell'atto medico-chirurgico egli possa vantare una esimente per accadimenti sfavorevoli non voluti ma possibili in una attività lavorativa tanto complessa e rischiosa come quella medica. Se così fosse, il consenso non sarebbe certamente un atto di rispetto della persona umana.

Avendo invece il consenso quale fine imprescindibile quello di porre il malato nella possibilità di agire con lo scopo di concorrere a ridurre quel rischio di sfavorevole evoluzione che è insito nella sua malattia (magari rivolgendosi a medici più competenti, a strutture più specializzate o d'eccellenza, a luoghi di cura ove il rapporto costi/benefici sia maggiormente a suo favore) il medico che non lo raccoglie correttamente è soggetto a rispondere di un danno al malato in riferimento alla migliore prestazione praticabile.

Ecco dunque descritte le due facce d’un unica medaglia: il consenso come atto di rispetto del medico per la persona umana malata e il consenso come atto di appalesamento al malato dei propri limiti preventivi, diagnostici, terapeutici e riabilitativi. La prima faccia consente al malato di

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cercare, anche soltanto in termini teorici, soluzioni diverse e più idonee ai suoi problemi, l'altra permette al medico di limitare la propria responsabilità alla sola prestazione effettivamente esigibile nel caso di specie.

Un cenno finale è d'uopo per quanto attiene alla responsabilità nell'équipe di progetto a finalità sanitaria economico-amministrativa, introdotta nell'ambito dell'attività sanitaria con il decreto legislativo 29/93 e portata alle estreme conseguenze con la Riforma Ter. È parere di chi scrive che sussista l'obbligo di vigilanza dei collaboratori sulla compilazione da parte del primario delle SDO e dei DRG (ex DPR 128/69 e D. M. 14.12.’94), essendo questi ultimi tenuti ad eccepire sulla legalità di una condotta antigiuridica eventualmente mirata a modificare la durata delle degenze e le diagnosi, pur di favorire le esigenze di budget; ciò sempre in forza del DPR 761/1979 che prevede la liceità dei “controlli intesi ad accertare la rispondenza dei provvedimenti adottati alle leggi ed ai regolamenti"; pur non condividendo perniciose generalizzazioni del tipo “non potevano non sapere”, è assai probabile che tutti i collaboratori del reparto verrebbero coinvolti in un simile procedimento giudiziario.

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