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Applicazione del rito lavoro nel d.lgs. n. 150 del 2011 - Judicium

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Mauro Bove

Applicazione del rito lavoro nel d.lgs. n. 150 del 2011

Sommario: 1. Premessa. – 2. Le norme generali del rito lavoro “corretto”. – 3. Procedimenti riportati al rito del lavoro. – 4. Opposizione ad ordinanza-ingiunzione. – 5. Opposizione al verbale di accertamento di violazione del codice della strada. – 6. Opposizione a sanzione amministrativa in materia di stupefacenti. – 7. Opposizione ai provvedimenti di recupero di aiuti di Stato. – 8.

Controversie concernenti l’applicazione delle disposizioni del codice in materia di protezione dei dati personali. – 9. Controversie agrarie. – 10. Impugnazione dei provvedimenti in materia di registro dei protesti. – 11. Opposizione ai provvedimenti in materia di riabilitazione del debitore protestato. – 12. Conclusioni.

1. La delega (art. 54 della l. 69/2009) imponeva di riportare al rito del lavoro quei procedimenti disciplinati dalla legislazione speciale (quindi regolati al di fuori dei codici) che avessero la caratteristica della concentrazione processuale o della officiosità dell’istruzione.

Insomma, la logica era la seguente: posto che i procedimenti che nella legislazione precedente presentavano le dette caratteristiche erano già per ciò “vicini” al rito del lavoro, essi dovevano essere riportati tutti ad un unico modello, quello appunto disciplinato dagli articoli 413 ss. c.p.c.

Nella legge delegata (d.lgs. n. 150 del 20111) il compito è stato assolto proprio riportando un gruppo di procedimenti al detto modello e non propriamente al rito lavoro. In altri termini la regolamentazione di ogni procedimento, che poi vedremo singolarmente, è stata approntata secondo un intreccio: quello tra la sua regolamentazione specifica con quella del rito lavoro, intendendosi per questo non propriamente tutto l’insieme delle norme del codice di rito che lo disciplinano, bensì l’insieme di un gruppo di norme risultante da un ulteriore intreccio, dato dalle norme del codice di procedura civile, escluse quelle che ora vedremo.

Insomma, l’articolato in commento non dimentica che qui non vengono in gioco cause di lavoro e per questo il modello del rito lavoro finisce per rimanere solo sullo sfondo. La disciplina concreta di ogni procedimento è tratta innanzitutto da disposizioni ad hoc e, poi, dalle disposizioni che creano quello che possiamo definire come un rito lavoro “corretto”.

2. La “correzione” del rito lavoro emerge da due disposizioni generali contenute nel Decreto.

Dall’art. 1, nel quale si chiarisce che per rito lavoro in questo ambito si intende il procedimento disciplinato dagli articoli 413-441 c.p.c. (libro II, titolo IV, capo I, sezione II), con esclusione, quindi, delle norme che disciplinano la conciliazione e l’arbitrato, così come peraltro di recente modificate dal c.d. collegato lavoro. Poi dal successivo art. 2, che esclude l’applicabilità di una serie di norme dettate per il processo del lavoro. Le disposizioni di quest’ultimo articolo esigono un’attenta analisi.

Innanzitutto, emerge l’esclusione dell’art. 413 c.p.c., che detta la disciplina della competenza in materia di controversie di lavoro. La cosa è ragionevole se sol si pensa che, per un verso, detto articolo si riferisce alle controversie di cui all’art. 409 c.p.c. e, per altro verso, la delega imponeva al delegato di non alterare i criteri previgenti di competenza, criteri che sono ripresi poi specificamente negli articoli 6-13 del Decreto. Tuttavia residua un dubbio. Essendo esclusa l’applicabilità di tutto l’art. 413 c.p.c., finisce per non essere riprodotto il principio, enunciato nel suo ultimo comma, per cui sono nulle le clausole derogative della competenza per territorio. Ora, posto che l’art. 28 c.p.c. prevede che in linea di principio i criteri di competenza per territorio sono derogabili, risultando essi inderogabili solo in virtù di esplicite disposizioni di legge, dobbiamo qui

1 Da ora denominato semplicemente Decreto.

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ritenere di essere di fronte a criteri di competenza per territorio derogabili? Sembra doversi rispondere affermativamente.

Dall’assunto dovrebbero ricavarsi una conseguenza certa ed una forse più dubbia. La prima:

finiscono per essere validi gli accordi di proroga della competenza ai sensi dell’art. 29 c.p.c., anche se nelle materie qui interessate appare improbabile che si possano stipulare in concreto accordi del genere. La seconda: potrebbero esservi conseguenze sul regime dell’eccezione di incompetenza. Se si ritiene che esso continui anche in questo ambito ad essere tratto dall’art. 428 c.p.c., la cui applicabilità non è esclusa dall’art. 2 del Decreto, si deve ricavare che l’incompetenza per territorio è rilevabile dal convenuto nella memoria di cui all’art. 416 c.p.c. e dal giudice nella prima udienza.

Ma, se si ritiene che quel regime sia inscindibilmente collegato ad un profilo di competenza inderogabile, qual è quella per territorio nelle cause di lavoro, allora emerge qui il principio dell’art.

38 c.p.c., per cui l’incompetenza per territorio nell’ambito di riferimento, pur applicandosi il rito lavoro, dovrebbe essere rilevata solo dal convenuto nella memoria difensiva, con esclusione di ogni potere del giudice. Mi sembra più ragionevole la seconda soluzione e, quindi, anche se il Decreto non esclude l’applicabilità dell’art. 428 c.p.c., vedrei il suo richiamo in termini “corretti”, giocando sul fatto che lo stesso art. 428 c.p.c. presuppone che sia in gioco una causa di cui all’art. 409 c.p.c., come dice testualmente nel suo incipit, per cui esso non può operare ove la causa, pur trattata col rito lavoro, non sia però di quelle che rientrano nell’ambito dell’art. 409 c.p.c.

Non si applicano, poi, disposizioni del codice di procedura civile che presuppongono che la causa sia di lavoro, ossia gli articoli:

- 415, 7° comma, c.p.c., che si riferisce a liti che coinvolgono un dipendente pubblico;

- 420-bis, che, prevedendo l’immediata decisione (ricorribile in cassazione) in ordine all’efficacia, validità o interpretazione di una clausola di contratto o accordo collettivo nazionale, non può che applicarsi a controversie propriamente lavoristiche;

- 421, 3° comma, che disciplina il possibile accesso ai luoghi di lavoro per l’accertamento dei fatti e l’eventuale escussione di testimoni sul luogo, norma anch’essa immaginata per un contenzioso lavoristico;

- 425, che disciplina la richiesta di informazioni e osservazioni alle associazioni sindacali, altra norma riferita ad un contenzioso squisitamente di lavoro;

- 429, 3° comma, che prevede una disposizione di favore per il lavoratore, consistente nel fatto che egli, se ottiene sentenza di condanna per suoi crediti, ottiene automaticamente la rivalutazione, a prescindere dalla prova del maggior danno, altra norma “pensata” solo quando la causa ha ad oggetto un rapporto di lavoro;

- 431 (ad esclusione del 5° comma, sul quale vedi infra), nella misura in cui prevede un regime speciale per l’efficacia esecutiva a favore del lavoratore e per la richiesta di sospensione dell’esecuzione intrapresa contro il datore di lavoro, perché ancora una volta è evidente come dette discipline si applichino solo ad un contenzioso di lavoro; alla disapplicazione dell’art. 431 c.p.c. è collegata anche la non applicazione dell’art. 438, 2°

comma, c.p.c. che richiama in appello l’applicabilità del secondo comma dell’art. 431 c.p.c. (che attribuisce al solo dispositivo l’efficacia di titolo esecutivo);

- 433, che non è applicabile né nel primo comma, che prevede quale sia il giudice competente per l’appello ove la lite rientri in uno dei casi di cui all’art. 409 c.p.c., né nel secondo

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comma, che disciplina il peculiare appello con riserva dei motivi, tipicamente collegato alla previsione di cui all’art. 431, 2° comma, per cui all’esecuzione per crediti di lavoro (a favore del lavoratore) si può procedere con il solo dispositivo, strumento, quindi, che serve ad ottenere la sospensiva in attesa di conoscere la motivazione della sentenza di primo grado: altre disposizioni, insomma, inscindibilmente legate ad un oggetto lavoristico del processo.

Inoltre, non trattandosi di liti di lavoro, anche se nulla dice il Decreto, ovviamente non si applicano l’art. 48-quater, 2° comma del r.d. n. 12 del 1941 (così come modificato dall’art. 15 del d.lgs. 51/1998), che vieta la trattazione delle cause di lavoro da parte della sede distaccata, né l’art.

3 della l. 742/1969, che esclude la sospensione feriale dei termini processuali da 1° agosto al 15 settembre in materia di cause di lavoro. Insomma, le liti che abbiamo di fronte, non essendo “di lavoro”, sono sì soggette al rito lavoro, ma possono essere trattate dalla sezione distaccata e per esse vale la regola della sospensione feriale dei termini, stabilita in via generale in materia civile dall’art.

1 della citata l. 742/1969.

E’ poi esclusa, a prescindere da particolari ragioni, l’applicabilità dell’art. 417 c.p.c. sulla possibile costituzione personale delle parti e dell’art. 417-bis c.p.c. sulla difesa in giudizio delle pubbliche amministrazioni.

Per altre disposizioni ancora, sempre del codice di procedura civile, la tecnica è un po’ più complessa: esse vengono ritenute applicabili, ma allo stesso tempo, in qualche misura, si

“aggiustano” dovendo esse operare al di fuori dell’ambiente lavoristico. Da questo punto di vista:

- Si prevede che l’ordinanza di cui all’art. 423, 2° comma, c.p.c. possa essere concessa su istanza di ciascuna delle parti, disposizione direi ovvia, perché se per le liti di lavoro si voleva prevedere un regime di favore per il lavoratore, considerato parte debole, la stessa cosa non può valere per liti che non sono di lavoro;

- Si prevede che l’art. 431, 5° comma, c.p.c. operi per la sentenza di condanna tout court, ossia per tutte le parti del processo; anche qui il correttivo è ovvio, allontanandosi dal contenzioso di lavoro; quindi, riassumendo, per i procedimenti che nel Decreto sono riportati al rito lavoro il regime di esecutività della pronuncia che contiene una condanna a pagare una somma di denaro sta tutta e solo nel 5° comma dell’art. 431 c.p.c. (gli altri commi non si applicano), che poi richiama gli articoli 282 e 283 c.p.c.; il che significa che:

1) la sentenza è immediatamente esecutiva, quale che sia la parte che ottiene la condanna, 2) il titolo esecutivo sta nella sentenza completa, non bastando il dispositivo (e quindi è esclusa anche l’operatività dell’appello con riserva dei motivi), 3) la sospensione in appello dell’esecutività della sentenza si ottiene quando vi siano “gravi e fondati motivi, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti” con o senza cauzione (art. 283 c.p.c.) e non quando dall’esecuzione della sentenza possa derivare all’altra parte

“un gravissimo danno”, come dispone nel processo del lavoro il terzo comma dell’art. 431, essendo il gravissimo danno qualcosa di piu (insomma il regime è uguale per entrambe le parti e non è riprodotto il regime di favore per il lavoratore, che ottiene un titolo esecutivo già col dispositivo e poi corre un rischio minore di subire la sospensione dell’esecutività della sentenza);

- Si prevede che, salvo che non sia diversamente disposto, i poteri istruttori d’ufficio, previsti dall’art. 421, 2° comma, c.p.c., non vengano esercitati al di fuori dei limiti previsti dal

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codice civile; questa previsione potrebbe suscitare dubbi, perché, in fondo, era ed è ovvio che i limiti superabili fossero e siano solo quelli processuali fondati su massime di esperienza (id quod plerumque accidit), restando al giudice inibita la possibilità di superare limiti sostanziali (così, ad esempio, non è immaginabile che si provi per testimoni la conclusione di un contratto che esige la forma scritta ad substantiam); a mio parere questa limitazione si giustifica solo se si ritiene che quei poteri sono legati alle cause di lavoro, avendo come scopo quello di innalzare il lavoratore al livello del suo avversario, come se il giudice dovesse intervenire in una sorta di supplenza della parte debole; ma, non credo che una simile visione delle cose sia ragionevole ed anzi, se questa fosse la logica del legislatore, potrebbe anche emergere qualche dubbio di costituzionalità, posto che l’effettività del principio di uguaglianza nel processo è garantita dalla necessità della difesa tecnica, senza che possa immaginarsi una sperequazione sulla base dell’idea che la parte meno abbiente possa pagarsi un avvocato meno bravo; se, invece, come credo più corretto, i poteri officiosi del giudice, anche al di là dei limiti processuali della legge, si giustificano per una maggiore esigenza di verità, allora non credo che sia opportuna quella esclusione; ed, anzi, qui potrebbe ravvisarsi anche un contrasto con la delega, che in fondo aveva visto nei poteri officiosi nella fase istruttoria una caratteristica del rito lavoro e dei processi a questo riportabili, per cui appare irragionevole riconoscere quei poteri e poi diminuirli.

Infine, non trovano applicazione gli articoli 426, 427 e 439 c.p.c. sul mutamento di rito, perché il Decreto contiene all’art. 4 una “sua” norma generale sul mutamento di rito, da applicare nel suo perimetro di operatività. Quindi, se si tratta del rapporto tra una causa di lavoro ed una causa

“ordinaria”, si applicano gli articoli 426/427 c.p.c. Se, invece, si tratta di un errore nella scelta del rito nell’ambito dei procedimenti disciplinati dal Decreto, allora la norma sul mutamento del rito è quella di cui all’art. 4 del medesimo Decreto.

Le disposizioni sul mutamento del rito riguardano in generale tutti i procedimenti disciplinati dal Decreto, non solo quelli erroneamente avviati col rito lavoro o che, al contrario, si sarebbero dovuti avviare col rito lavoro. Ma, poiché esse riguardano evidentemente anche il campo della presente indagine, è bene farvi un cenno.

Anche qui vale il principio, che la giurisprudenza applica nell’interpretazione degli articoli 426/427 c.p.c., per cui il rito si determina dalla domanda. Se in base alla domanda si deve usare un certo rito, si usa appunto quello. Se, poi, dall’istruttoria emerge che il diritto così come qualificato dall’attore non sussiste, si avrà un rigetto in merito della domanda e non una pronuncia di rito, salvo il rilievo per cui il giudicato di rigetto riguarderà solo la domanda così come era stata qualificata dall’attore. Questi potrà poi riproporre, col rito giusto, la diversa (diversamente qualificata) domanda.

A differenza, poi, degli articoli 426/427 c.p.c., l’art. 4 del Decreto prevede un limite temporale: la questione del mutamento di rito va sollevata, anche d’ufficio, entro la prima udienza di comparizione. La norma, per la verità, è equivoca perché sembra che la decadenza sia riferita alla pronuncia dell’ordinanza. Non vi è dubbio che, se si leggesse in questi termini la disposizione, si eviterebbero dubbi sul valore degli atti compiuti secondo un rito scorretto, perché è evidente che, se il mutamente del rito è possibile solo subito, non si può porre un problema in ordine al regime degli atti processuali compiuti prima che esso sia disposto.

Ma in realtà io credo che si debba distinguere tra rilievo dell’eccezione e decisione della questione e che la norma si riferisca a quello e non a questa: se l’eccezione è stata rilevata tempestivamente, magari dal convenuto, poi il giudice dovrà rispondere, anche dopo la prima

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udienza. E così anche se la questione è rilevata dal giudice, caso in cui lo schema potrebbe essere il seguente: il giudice rileva la questione alla prima udienza, poi stimola il contraddittorio con e fra le parti e successivamente, dopo la prima udienza, pronuncia l’ordinanza.

Inoltre, dovrà sempre essere lasciato a chi non concorda con la decisione la possibilità di contestare. Insomma, se è vero che la questione del rito va sdrammatizzata, non si può però arrivare a dire che essa va decisa senza previa instaurazione del contraddittorio o che la decisione presa non sia rivedibile. Se il mutamento è stato disposto, potrà sempre l’attore riproporre la questione in fase di decisione e poi magari anche in appello. Se il mutamento di rito è stato negato, potrà sempre il convenuto contestare negli stessi modi. Con la conseguenza che il rito può essere mutato anche in fase avanzata del processo. Oppure, disposto subito il mutamento, è possibile che poi si ritorni al rito originariamente scelto dall’attore.

All’errore nella scelta del rito può accompagnarsi un errore nella scelta del giudice, ossia un profilo di incompetenza. Ovviamente in questo caso, a seguito dell’ordinanza, è possibile che semplicemente si abbia la riassunzione della causa di fronte al giudice indicato come competente o che una parte, non concordando, impugni la detta ordinanza con regolamento di competenza. Nei rapporti tra i diversi giudici si deve tenere distinta la questione di incompetenza dalla questione del rito. In riferimento a quella varrà l’art. 45 c.p.c., per cui il giudice potrà sollevare conflitto nei limiti di questa norma. Sulla questione di rito il giudice ad quem non sarà vincolato all’indicazione del giudice originariamente adito, ma, in ipotesi, si limiterà a modificare il rito, sempre sollevando la questione alla prima udienza.

Se, poi, il mutamento del rito è disposto in ritardo, si pone il problema della salvezza degli atti compiuti.

L’art. 4 del Decreto dice che si salvano gli effetti sostanziali e processuali della domanda prodotti con l’avvio del processo col rito errato. Se si doveva notificare un atto di citazione ed invece è stato depositato un ricorso, e magari la legge prevedeva la necessità di proporre la domanda in un termine di decadenza, la decadenza è comunque evitata se nel termine è stato depositato il ricorso (forma sbagliata), anche se poi si passa al rito che invece prevedeva la notifica di una citazione.

Ma se, ad esempio, sono stati compiuti atti istruttori? Questi non possono rimanere in piedi se nel rito giusto non potevano compiersi. Se il giudice del lavoro, nell’ambito delle controversie di cui all’art. 409 c.p.c., assume d’ufficio mezzi di prova al di là dei limiti del codice civile e poi si passa al rito ordinario, quel mezzo di prova non è utilizzabile. Ma qui, nel rapporto tra rito lavoro ed altri riti, è stato escluso che il giudice possa disporre l’assunzione di mezzi di prova al di là dei limiti del codice civile, per cui è difficile che si ponga una qualche questione concreta.

Infine, aggiunge l’art. 4, 5° comma, ul. inciso del Decreto che restano ferme le decadenze e le preclusioni maturate secondo le norme del rito seguito prima del mutamento. Quindi, nonostante che il processo sia stato avviato col rito sbagliato, le parti subiranno, tuttavia, le preclusioni di quel rito che non doveva essere utilizzato. Il che significa che è più probabile che si subiscano “danni”

nel passaggio dal rito lavoro a quello ordinario, perché il rito lavoro prevede preclusioni più strette rispetto al rito ordinario.

Ma a mio avviso anche da questo punto di vista non è tutto chiaro, nel momento in cui il 3°

comma dell’art. 4 del Decreto dice che, nel passaggio al rito lavoro, il giudice deve fissare l’udienza dell’art. 420 c.p.c. e il termine perentorio entro il quale le parti devono provvedere all’eventuale integrazione degli atti introduttivi. Questa disposizione potrebbe apparire in contrasto con l’ultimo inciso del 5° comma del medesimo articolo. Se nel passaggio al rito “giusto” restano ferme le preclusioni maturate nel rito “sbagliato”, il 3° comma va letto restrittivamente. Insomma, fissare l’udienza ex art. 420 c.p.c. e dare termine per integrazione degli atti introduttivi non significa necessariamente rimettere in corsa il convenuto per compiere le attività previste nell’art. 416 c.p.c.

né le parti per compiere le attività di allegazione e prova là previste, se tutte queste attività erano

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ormai precluse nel rito “sbagliato”. La situazione può verificarsi se il mutamento del rito è disposto in fase avanzata. Ecco allora che, nell’interpretazione dell’art. 4 del Decreto il 3° comma va letto con la correzione del 5° comma.

Infine, si rileva come, non avendosi nel Decreto alcuna norma generale per la connessione tra cause soggette singolarmente a riti diversi, per il caso deve trovare applicazione l’art. 40 c.p.c.

Questa norma va quindi applicata anche in riferimento alle cause che dovrebbero essere trattate col rito lavoro secondo il Decreto, pur non essendo esse cause di lavoro. Ciò significa che il rito lavoro applicabile a queste cause non di lavoro non prevale sul rito ordinario, perché qui non può trovare applicazione l’ultimo inciso dell’art. 40, 3° comma, c.p.c. Insomma, il processo cumulato con cause che singolarmente dovrebbero essere trattare col rito ordinario e col rito lavoro ai sensi del Decreto va trattato col rito ordinario.

Se, poi, siamo di fronte a due cause soggette singolarmente una al rito lavoro e l’altra al rito sommario, sempre ai sensi del medesimo Decreto, allora trova applicazione l’art. 40, 4° comma, c.p.c.: si seguirà il rito della causa in virtù della quale è determinata la competenza o, in subordine, il rito della causa di maggior valore.

3. Il Decreto riporta al rito lavoro i procedimenti relativi a: 1) opposizione ad ordinanza- ingiunzione (art. 6), 2) opposizione al verbale di accertamento di violazione del codice della strada (art. 7), 3) opposizione a sanzione amministrativa in materia di stupefacenti (art. 8), 4) opposizione ai provvedimenti di recupero di aiuti di Stato (art. 9), 5) controversie in materia di applicazione delle disposizioni del codice in materia di protezione dei dati personali (art. 10), 6) controversie agrarie (art. 11), 7) impugnazione dei provvedimenti in materia di registro dei protesti (art. 12), 8) opposizione ai provvedimenti in materia di riabilitazione del debitore protestato (art. 13).

Ogni procedimento con funzione dichiarativa, che porta, quindi, ad un accertamento con forza di giudicato, ha bisogno di procedere per momenti logicamente necessitati. Poi questi momenti possono essere procedimentalizzati in forme diverse. Si tratterà di disciplinare: a) l’introduzione del processo (domanda e risposta del convenuto), b) la trattazione e l’istruzione, c) la decisione, d) i possibili rimedi avverso la decisione.

Analizzeremo singolarmente ogni procedimento così come disciplinato dalla legge, perché solo da un’analisi specifica può poi emergere quanto essi siano veramente uniformi, ossia quanto le dette fasi, logicamente necessarie per giungere ad un accertamento sull’oggetto della controversia giuridica, sono state disciplinate in modo uniforme.

In fondo la logica della delega era questa: individuare i procedimenti caratterizzati dalla concentrazione e/o dall’officiosità dei poteri del giudice nell’istruzione e riportarli tutti ad un vero e proprio unico rito, più che ad un modello di fondo. Quello del lavoro appunto!

Ma quanto nel Decreto si è affermata una vera opera di uniformazione e quanto invece ha prevalso quell’ambigua direttiva contenuta nella delega, per cui il delegato, oltre a dover salvare le norme che già attribuivano al giudice poteri officiosi, doveva anche salvare le norme «finalizzate a produrre effetti che non possono conseguirsi con le norme contenute nel codice di procedura civile»?

Insomma, quanto, a causa di questo inciso contenuto nel 4° comma let. c) dell’art. 54 della legge 69/2009, i riti da uniformare secondo il modello dettato dagli articoli 414 ss. c.p.c. sono in realtà rimasti diversificati nella disciplina dell’introduzione della causa, della trattazione-istruzione, della decisione e dei rimedi?

4. L’opposizione ad ordinanza-ingiunzione era disciplinata dagli articoli 22, 22-bis e 23 della l.

689/1981. Oggi l’art. 34 del Decreto abroga tutto questo impianto, mantenendo in vita, ma in modo del tutto modificato, solo un primo comma dell’art. 22, nel quale si legge che il detto procedimento è disciplinato dall’art. 6 del Decreto, salvo quanto prevede l’art. 133 del nuovo codice del processo amministrativo.

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L’art. 6 del Decreto prevede che il detto procedimento è regolato secondo le disposizioni del rito lavoro, ma aggiunge anche che sono fatte salve le disposizioni dettate nello stesso art. 6, nel quale è descritta un’articolata disciplina del procedimento in parola, disciplina che sembra ripercorrere in buona sostanza quella precedentemente contenuta nei citati articoli 22, 22-bis e 23 della l. 689/1981, con alcune precisazioni, dovute essenzialmente ad interventi della Corte costituzionale.

Insomma, questo procedimento è innanzitutto disciplinato dalle norme specifiche contenute nell’art. 6 del Decreto. Quindi, se in queste c’è qualche lacuna, si applicano le norme del rito lavoro

“corretto”, che risulta dalle esclusioni e dagli aggiustamenti che rispetto a questo rito, così come dettato nel codice di procedura civile, abbiano visto essere previsti nel Decreto2.

Nella disciplina dei presupposti processuali vi sono delle peculiarità in riferimento alla competenza, alla difesa tecnica ed alla ammissibilità della domanda.

Per quanto riguarda la competenza sono dettate norme specifiche, sia in senso verticale sia in senso orizzontale. Tenendo presente che la delega imponeva al delegato di rispettare i precedenti criteri di competenza, è stato in pratica riprodotto il regime precedente.

Dal punto di vista della competenza per territorio è rimasto il principio per cui giudice competente è quello del luogo in cui è stata commessa la violazione, riprendendo il 2° comma dell’art. 6 del Decreto quanto prima era contenuto nell’art. 22, 1° comma, della l. 689/19813.

In senso verticale sembra che sia cambiato qualcosa, ma ciò è vero solo in apparenza. E’

rimasto il principio per cui, se nulla di specifico è previsto, è competente il giudice di pace. Poi, nella delineazione della competenza del tribunale, vi sono dei piccoli cambiamenti. Non è più prevista la competenza del tribunale: 1) in materia di urbanistica ed edilizia, 2) in materia di società e di intermediari finanziari, 3) in materia tributaria. Ma detta esclusione, come si legge anche nella Relazione, è giustificata dal fatto che questi richiami erano in pratica già divenuti inefficaci, per abrogazione implicita, alla luce di successive (al 1981) modifiche sull’ambito della giurisdizione tributaria e della giurisdizione amministrativa. Insomma, se la delega imponeva di non toccare i criteri di giurisdizione e competenza, sembra che il delegato si sia adeguato, limitandosi solo ad esplicitare ciò che era già nell’ordinamento.

Anche per quanto riguarda la rappresentanza tecnica è riprodotta la disciplina speciale (rispetto al codice di rito) previgente, in quanto sia l’opponente che l’autorità possono stare in giudizio personalmente, ma solo nel primo grado, e questa può anche avvalersi di funzionari appositamente delegati. Il che significa che la rappresentanza tecnica non assurge a presupposto processuale, ma con ciò non è certo esclusa la possibilità che la parte si avvalga di un avvocato.

Insomma, la rappresentanza tecnica, se non è un obbligo, resta però un diritto. Poi nei gradi successivi al primo torna applicabile la disciplina dettata dal codice di rito e così la rappresentanza tecnica riemerge come presupposto processuale, quindi come obbligo. Ma anche in questo nulla è cambiato rispetto alla disciplina precedente.

Infine, ancora riprendendo la disciplina previgente, emerge qui un peculiare, ed ulteriore, presupposto processuale: l’opposizione va proposta, a pena di inammissibilità, entro 30 giorni dalla notificazione del provvedimento ovvero 60 giorni se il ricorrente risiede all’estero4. E, sempre come in precedenza, bisogna tenere presente il principio per cui non si ha alcuna inammissibilità se nell’ordinanza-ingiunzione non erano indicati il termine entro il quale fare opposizione e l’autorità competente a decidere su di essa. Quale unica novità formale, l’art. 6 del Decreto, recependo quanto aveva stabilito Corte cost. 18 marzo 2004 n. 98, ha previsto che il ricorso possa essere depositato

2 Vedi supra il secondo paragrafo.

3 E, allora, possiamo anche ritenere mantenuto il principio, enucleato in giurisprudenza, per cui il detto criterio prevale sul c.d. foro erariale quando parte in causa sia un’amministrazione statale.

4 I termini indicati sono identici a quelli precedentemente previsti nell’art. 22 della l. 689/1981.

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anche a mezzo di servizio postale, ipotesi nella quale, ai fini della tempestività del ricorso, conta la data di spedizione del plico e non quella di arrivo in cancelleria.

La domanda introduttiva, richiamando il rito lavoro, si propone depositando (entro il suddetto termine) un ricorso che deve avere il contenuto di cui all’art. 414 c.p.c. Quindi l’attività che va svolta nel termine, per evitare l’inammissibilità, è quella del deposito del ricorso, unitamente al deposito del provvedimento che si impugna, dal quale risulti la data della notificazione, affinché il ricorrente possa provare la tempestività dell’opposizione, decorrendo il termine appunto da detta notificazione.

Prima di vedere gli ulteriori sviluppi del processo, è necessario, però, soffermarsi su un possibile incidente che in esso può verificarsi: quello attinente alla sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato.

Nella prima bozza del Decreto era prevista una disposizione ad hoc sulla sospensione in questo ambito, che riprendeva l’ultimo comma dell’art. 22 della l. 689/1981. Poi nel testo finale è stata inserita, all’art. 5, una norma generale sulla sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato, ove uno dei procedimenti disciplinati nel Decreto abbia appunto un simile oggetto. Così ora l’art. 6, 7° comma, del Decreto si limita a rinviare all’art. 5, nel quale si rinvengono alcune specificazioni procedurali, che in precedenza non erano previste nell’art. 22, ul.

comma, della l. 689/1981. In particolare, si specifica la possibilità di ottenere una sospensiva con decreto fuori udienza, decreto che deve essere confermato con ordinanza alla prima udienza, altrimenti diventa inefficace. Anche se non è esplicitato, si deve ritenere che, dovendosi applicare in caso di lacuna le norme del codice di rito, il decreto sia concesso inaudita altera parte.

Per il resto, siamo in presenza di un provvedimento cautelare, per concedere il quale il giudice valuta le classiche condizioni del fumus boni iuris e del periculum in mora. Sul periculum che sorregge la pronuncia dell’ordinanza sembra che vi sia un aggravamento rispetto a prima, perché, se l’ultimo comma dell’art. 22 della l. 689/1981 prevedeva la necessità che ricorressero gravi motivi, oggi l’art. 5 del Decreto parla di «gravi e circostanziate ragioni». Insomma, i giudici oggi dovrebbero essere più cauti nel concedere la sospensiva ed anche più accorti nel motivarla, visto che le gravi e circostanziate ragioni devono essere esplicitamente indicate nella motivazione, non potendo il giudice cavarsela con formule di stile e comunque generiche.

Ma questi “aggravamenti” potrebbero anche rimanere puramente sulla carta, posto che l’ordinanza cautelare è esplicitamente qualificata come “non impugnabile”. Trattandosi di un tipico provvedimento cautelare, non si comprende perché esso debba essere irreclamabile. E, ancora, non si comprende perché dalla lettura della norma sembrerebbe che esso non sia richiedibile ante causam. Tuttavia, se la non impugnabilità del provvedimento cautelare è esplicitamente prevista, non si può dire che sia esplicitamente imposta l’istanza solo col ricorso introduttivo. Ciò sarà la norma nella prassi. Ma non sembra che si possa escludere un’istanza anche ante causam, se, come io credo, qui devono applicarsi le norme sul procedimento cautelare uniforme là dove possibile, perché non escluso esplicitamente.

Comunque, in sintesi, la disciplina dovrebbe essere la seguente: il ricorrente fa istanza, nel ricorso, di sospensiva (ma in teoria l’istanza potrebbe anche essere presentata in corso di causa); il giudice (del merito: quindi anche il giudice di pace, se è questi ad essere competente per il merito, cosa distonica rispetto alla regola che vige per il procedimento cautelare uniforme) può provvedere immediatamente con decreto (che a mio parere deve essere motivato alla luce dell’art. 669-sexies c.p.c., che dovrà intervenire a colmare la lacuna), perché ritiene che vi sia un pericolo imminente di un danno grave ed irreparabile, salvo poi confermare alla prima udienza (che sarà quella fissata per il merito) il provvedimento, oppure egli fissa un’udienza per attivare il contraddittorio e poi pronunciarsi con ordinanza. Questa udienza può essere una udienza fissata appositamente per il cautelare oppure la stessa prima udienza per il merito. Se per il merito l’udienza è fissata a breve, la coincidenza è ragionevole, altrimenti il giudice dovrà fissare un’udienza ad hoc per il cautelare.

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Poiché è difficile che l’udienza per il merito sia fissata a breve, è ragionevole che il più delle volte via sia un’udienza cautelare prima dell’udienza per il merito.

Residua, infine, un dubbio. Se l’ordinanza con la quale il giudice decide sulla domanda cautelare non è impugnabile per esplicita previsione di legge, si può da ciò ricavare che essa non sia modificabile e revocabile ai sensi dell’art. 177 c.p.c.? Oppure si deve piuttosto ritenere che detta ordinanza sia modificabile e revocabile in base alle norme del procedimento cautelare uniforme?

A mio parere, trattandosi qui di tutela cautelare, si devono applicare le norme del codice di rito sul procedimento cautelare, nella misura in cui esse non siano esplicitamente escluse. Ed, allora, se non si può applicare la disciplina del reclamo, si possono però applicare le disposizioni contenute nell’art. 669-decies c.p.c. Ma direi anche quelle di cui all’art. 669-septies, nel caso che ci si trovi di fronte ad un provvedimento di rigetto della domanda cautelare. Con la conseguenza che la stabilità del provvedimento di rigetto è inferiore (limitata al “dedotto”) alla stabilità del provvedimento di accoglimento (allargata al “deducibile”), discrasia che, se è venuta meno nell’art. 58 del nuovo codice del processo amministrativo, resta nel codice di procedura civile, alla luce dei diversi contenuti degli articoli 669-septies e 669-decies.

Chiusa la parentesi sull’incidente cautelare, riprendiamo l’analisi dello svolgimento del processo di merito.

Depositato il ricorso la palla passa al giudice, il quale fissa, con decreto, l’udienza e ordina all’autorità che ha emesso il provvedimento impugnato di depositare in cancelleria, 10 giorni prima dell’udienza fissata, copia del rapporto con gli atti relativi all’accertamento, nonché alla contestazione o notificazione della violazione. Quindi, ricorso e decreto di fissazione dell’udienza sono notificati, a cura della cancelleria5 ad entrambe le parti. In ciò la disciplina contenuta nell’art.

6 del Decreto ripercorre quanto era scritto nell’art. 23, 2° comma, della l. 689/1981. L’unica differenza sta nel fatto che l’attuale disciplina, in ossequio al rito lavoro che deve stare sullo sfondo, aggiunge che qui trattasi del decreto di cui al 2° comma dell’art. 415 c.p.c. Se questo richiamo ha un senso, evidentemente devono valere le due disposizioni contenute in detta norma: a) il giudice deve pronunciare il decreto entro cinque giorni, b) le parti sono tenute a comparire personalmente alla prima udienza, evidentemente per poter essere interrogate liberamente ai sensi del dell’art. 420, 1° comma, c.p.c. (altro è capire se sia possibile una conciliazione: invero l’oggetto del processo potrebbe anche essere disponibile, pur venendo in gioco norme inderogabili!6).

Inoltre, non sono fissati esplicitamente i termini a difesa. Prima l’art. 23, 3° comma, della l.

689/1981 prevedeva che i termini a difesa fossero quelli di cui all’art. 163-bis c.p.c. Oggi nulla è previsto di esplicito, per cui, dovendosi applicare le norme del rito lavoro, soccorrerà l’art. 415, 5°

comma, c.p.c., ai sensi del quale tra la notificazione del decreto e l’udienza vi deve essere un termine non minore di trenta giorni. Quindi i termini a difesa minimi, se prima erano di 90 giorni, ora sono di 30 giorni.

L’autorità convenuta, non essendo previsto nulla di specifico, deve costituirsi ai sensi dell’art.

416 c.p.c., ossia 10 giorni prima dell’udienza. Così al minimo i termini a difesa del convenuto si riducono a 20 giorni. Nella memoria difensiva devono essere fatte attività a pena di decadenza, come emerge dall’art. 416 c.p.c., in termini di questioni e prove. Inoltre, come elemento peculiare a questo processo, deve l’autorità nello stesso termine depositare la documentazione che il giudice gli ordina di depositare ai sensi dell’art. 6, 8° comma, del Decreto. Se non si costituisce 10 giorni prima dell’udienza, l’autorità può costituirsi anche all’udienza, ma restano precluse le attività che essa avrebbe dovuto fare prima ai sensi dell’art. 416 c.p.c. Dubbio è se essa possa ancora utilmente recuperare l’omesso deposito di cui al citato comma 8. Sembra oggi preferibile la risposta negativa.

Prima si poteva porre il dubbio perché la normativa non prevedeva che i 10 giorni fossero a pena di

5 Ciò era già previsto prima ed è previsto specificamente oggi, a differenza di quanto avviene nel rito lavoro, in cui il decreto di fissazione dell’udienza, visto l’art. 415, 4° comma, c.p.c., è notificato a cura dell’attore.

6 Quindi l’esclusione del criterio equitativo per la decisione della causa è un indizio importante, ma non decisivo.

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decadenza. Ma oggi, dovendosi richiamare l’art. 416 c.p.c., quel termine deve essere considerato come previsto a pena di decadenza. Insomma, qui, a mio parere, oggi c’è un chiaro cambiamento, non potendosi più sostenere che la legge nulla dica. O meglio: è vero che la legge nulla dice di esplicito, ma è anche vero che, richiamandosi qui il rito lavoro, oggi devono valere le preclusioni di cui all’art. 416 c.p.c. per quanto riguarda l’attività del convenuto.

Giunti all’udienza, innanzitutto può succedere che il giudice chiuda il processo per questioni di rito peculiari a questo giudizio.

Così il giudice rigetterà con sentenza la domanda perché inammissibile, se presentata fuori termine. Il previgente art. 23, 1° comma, della l. 689/1981 prevedeva che detta declaratoria avvenisse con ordinanza impugnabile con ricorso per cassazione. Oggi, invece, l’art. 6, 10 comma, let. a) del Decreto dice che la declaratoria avviene con sentenza, senza nulla aggiungere; per cui si tratterà di una sentenza appellabile secondo le regole del rito lavoro.

Ove, poi, non compaia l’opponente, personalmente o a mezzo del suo difensore, senza addurre alcun legittimo impedimento, sembrerebbe emergere una sorta di perdita di efficacia dell’opposizione, prevedendo la legge che il giudice convalidi con ordinanza appellabile il provvedimento impugnato. Però si potrebbe dubitare del fatto che si abbia, così, propriamente una pronuncia di rito, potendosi, piuttosto, ravvisare nel caso in questione una pronuncia di vero e proprio rigetto in merito della domanda, ancorché scaturente da una sorta di sanzione per l’inattività dell’attore. E il dubbio che non si tratti propriamente di una pronuncia in rito è rafforzato dal fatto che essa può avere un diverso contenuto se emerge ex actis che la domanda è comunque fondata (l’illegittimità del provvedimento impugnato risulta dalla documentazione allegata dall’opponente) o emerge una carenza di attività della controparte (l’autorità che ha emesso l’ordinanza impugnata non ha depositato ciò che il giudice gli aveva ordinato di depositare al momento della fissazione dell’udienza: art. 6, 8° comma), ipotesi queste che la legge ha contemplato perché in riferimento al previgente art. 23, 5° comma, della l. 689/1981 erano intervenute sentenze della Corte costituzionale. Ecco perché l’ipotesi in parola ha solo una sorta di assonanza, ma niente di più, rispetto ad esempio all’ipotesi della dichiarazione di esecutorietà del decreto ingiuntivo per mancata costituzione dell’opponente di cui all’art. 647 c.p.c. o all’ipotesi di cessazione degli effetti dell’intimazione per mancata comparizione del locatore all’udienza fissata nell’atto di citazione, di cui all’art. 662 c.p.c.

A tal proposito riemerge, peraltro, un dubbio già prima avanzato. Vale a dire: se l’autorità deposita ciò che deve ai sensi dell’art. 6, 8° comma, del Decreto oltre il termine di 10 giorni prima dell’udienza (magari alla stessa udienza alla quale si costituisce), quali sono le conseguenze? il giudice, può accogliere la domanda dell’attore, che non sia comparso? Riprendendo quanto già prima accennato, se si deve ritenere che nella documentazione richiesta vi siano le ragioni che fondano la contestazione della violazione e se, quindi, è ragionevole ritenere che essa debba essere depositata entro i 10 giorni prima dell’udienza a pena di decadenza, evidentemente, se ciò non accade, l’autorità perde la causa.

Se è “sanzionata” la mancata comparizione dell’opponente, nulla è detto per l’autorità, emergendo l’applicabilità delle regole del codice di rito. Se essa non si è costituita, sarà dichiarata contumace. Se essa si è costituita, ma non si presenta, la cosa è tendenzialmente irrilevante, ma, applicandosi l’art. 420, 1° comma, c.p.c., una simile assenza dovrebbe essere valutata come argomento di prova.

Passando alla trattazione-istruzione della causa, il giudice, per arrivare a decidere sull’oggetto del processo (la pretesa creditoria dell’autorità), conosce delle questioni che attengono alla legittimità dell’atto impugnato che le parti gli sottopongono. L’autorità adduce le sue ragioni nell’atto di accertamento e di contestazione, documentazione che deve depositare 10 giorni prima dell’udienza. L’attore spende quello che deve dire, in termini di questioni e prove, nel ricorso depositato. Poi non si possono più cambiare le cose. Ma, applicandosi il rito lavoro, si potrebbe dire

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che vale anche qui l’ultimo inciso del 1° comma dell’art. 420 c.p.c., per cui sono ammesse modifiche ove il giudice le autorizzi.

Se sta all’opponente contestare la legittimità dell’atto, è poi l’autorità ad essere onerata della prova della sua pretesa. Ed, infatti, l’art. 6 del Decreto dice che il giudice accoglie l’opposizione quando non vi sono prove sufficienti della responsabilità dell’opponente. Ma anche in ciò si riprende quanto era previsto nell’ultimo comma dell’art. 23 della l. 689/1981.

Ovviamente, come è già stato rilevato, le attività di allegazione e prova seguono le preclusioni dettate dal rito lavoro. Inoltre, qui soccorrono i poteri istruttori del giudice di cui all’art. 421, 2°

comma, c.p.c., richiamato dall’art. 4, 4° comma, del Decreto, con la precisazione che essi non possono andare al di là dei limiti del codice civile.

Rispetto alla decisione, è riprodotta l’esclusione, già prima prevista, del criterio equitativo.

Qualcosa è cambiato rispetto a prima nella pronuncia della sentenza, per la quale, non essendo più previsto nulla di specifico, devono applicarsi i primi due commi dell’art. 429 c.p.c. Il giudice, all’udienza, esaurita la discussione orale e udite le conclusioni delle parti, pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo e della esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. In caso di particolare complessità dà solo lettura del dispositivo e fissa un termine non superiore a 60 giorni per il deposito della sentenza.

Prima, invece, l’art. 23 della l. 689/1981 prevedeva la sola lettura del dispositivo in udienza, con al più la sola possibilità per il giudice di redigere e leggere la motivazione sempre in udienza.

Insomma, oggi una sia pur succinta motivazione ci deve sempre essere.

Resta la disposizione per cui il giudice può concedere alle parti 10 giorni per note difensive con fissazione di udienza successiva per discussione e pronuncia della sentenza. Ciò ora vale perché previsto dal secondo comma dell’art. 429 c.p.c., mentre prima valeva perché era previsto dal settimo comma dell’art. 23 della l. 689/1981. Ma, salvo i diversi riferimenti normativi, la disciplina è identica a quella previgente.

Infine, una modifica, o meglio una precisazione, emerge riguardo al contenuto della decisione là dove l’art. 6, 12° comma, del Decreto, riprendendo quanto già era contenuto nell’art. 23, 11°

comma, della l. 689/1981, continuando a prevedere che il giudice, nell’accogliere il ricorso, può annullare o modificare anche limitatamente all’entità della sanzione, l’ordinanza-ingiunzione, specifica che l’entità della sanzione «è determinata in misura in ogni caso non inferiore al minimo edittale». Questa precisazione esplicita l’opinione già prima emersa nell’applicazione del previgente art. 23 della l. 689/1981, secondo la quale il potere di modificazione dell’ordinanza-ingiunzione impugnata poteva essere esercitato comunque nell’ambito delle previsioni edittali, sulla base dei criteri di cui all’art. 11 della l. 689/1981.

Per quanto riguarda le impugnazioni, emerge il normale regime d’impugnabilità: appello e poi ricorso per cassazione, ovviamente secondo il rito lavoro. Rispetto a prima dovrebbe aversi una limitazione dell’appellabilità della sentenza, posto l’applicabilità dell’art. 440 c.p.c.: se l’importo dell’ordinanza-ingiunzione non è superiore a 25,82 euro non è possibile appello. Ipotesi, forse, più teorica che reale!

Sulla forma dell’atto di appello è ormai superato il dubbio, se trattasi di citazione o di ricorso.

Dovendosi applicare il rito lavoro, evidentemente si dovrà usare la forma del ricorso. Se anche l’art.

2 del Decreto esclude l’applicabilità dell’art. 433 c.p.c., che prevede, fra l’altro, che l’appello nel rito lavoro va proposto con ricorso, è evidente che altre sono le disposizioni essenziali del detto art.

433, che qui si vogliono escludere. Inoltre, restano sempre applicabili gli articoli 434 ss. c.p.c., da cui emerge con evidenza la forma del ricorso per l’atto di appello.

Nulla è poi cambiato rispetto alla disciplina previgente in merito alle spese, ribadendo l’ultimo comma dell’art. 6 del Decreto che gli atti sono esenti da ogni tassa e imposta e che sono fatte salve le spese di giustizia, ossia si paga il contributo unificato.

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5. In riferimento all’opposizione al verbale di accertamento di violazione del codice della strada, l’art. 34 del Decreto sostituisce l’art. 204-bis del codice della strada, dicendo che in alternativa al ricorso ai sensi dell’art. 203, il trasgressore può fare ricorso ai sensi dell’art. 7 del Decreto. Poi, in questo articolo si adotta la stessa tecnica già vista nell’art. 6: si riporta in linea di principio il procedimento al rito lavoro, ma poi in pratica si scrive gran parte della disciplina del procedimento nella stessa norma, riprendendo quelle che erano le precedenti disposizioni procedurali già contenute nell’art. 204-bis del codice della strada.

Il sistema in materia di illeciti stradali è rimasto quello di prima. Ossia, a fronte della contestazione l’interessato ha due vie: può fare ricorso al prefetto ai sensi dell’art. 203 del codice della strada oppure può fare immediatamente ricorso al giudice di pace ai sensi dell’attuale art. 7 del Decreto (prima art. 204-bis codice della strada). Se egli sceglie la prima via, allora sarà il prefetto a pronunciare entro 120 giorni l’ordinanza-ingiunzione, avverso la quale eventualmente l’interessato potrà fare l’opposizione ai sensi dell’art. 6 del Decreto. Se, invece, egli non fa ricorso al prefetto, ma direttamente si rivolge al giudice di pace, allora si applica l’art. 7 del Decreto. Ovviamente, se l’interessato non fa né ricorso al prefetto né ricorso al giudice di pace, la contestazione diventa definitiva.

Analizziamo l’art. 7 del Decreto in raffronto alla disciplina previgente.

Sulla competenza nulla è cambiato, restando competente il giudice di pace del luogo in cui è stata commessa la violazione. Del resto, si ripete, la delega non permetteva modifiche in tema di competenza.

Riguardo alla domanda introduttiva, la forma ed il contenuto sono quelle già viste nell’art. 6 del Decreto. Il deposito del ricorso deve avvenire entro un certo termine a pena di inammissibilità.

Questo termine è stato ridotto a 30 giorni (prima era 60 giorni) con la previsione dei 60 giorni se il ricorrente risiede all’estero. Resta, come prima, la previsione dell’inammissibilità ove sia già stato presentato ricorso al prefetto ai sensi dell’art. 203 del d.lgs. 285/1992.

Nulla è cambiato sull’estensione del ricorso anche alle sanzioni accessorie (oggi art. 7, 4°

comma, del Decreto).

Né è cambiato qualcosa sulla legittimazione passiva, riprendendo il 5° comma dell’art. 7 del Decreto la disciplina previgente, nè sulla legittimazione attiva, posto che l’art. 34 del Decreto, nel sostituire il previgente art. 204-bis codice della strada, ripete il primo comma di quella disposizione, in cui era previsto, e continua ad essere previsto, che possono agire il trasgressore e gli altri soggetti indicati nell’art. 196 del codice della strada, ossia i soggetti solidalmente responsabili.

Sull’incidente cautelare vale la norma generale di cui all’art. 5 del Decreto. Ma, in questo ambito, a differenza di quanto prevedeva l’art. 22 della l. 689/1981 in materia di opposizione ad ordinanza-ingiunzione, era prevista la fissazione di una udienza entro 20 giorni e la pronuncia di un’ordinanza, dopo aver sentito le parti, che era impugnabile al tribunale. Quindi, se oggi l’art. 5 del Decreto esclude un rimedio, la perdita è qui maggiore rispetto al procedimento per opposizione ad ordinanza-ingiunzione. A tal proposito si potrebbe anche dubitare della legittimità della previsione da due punti di vista. Il primo: che la delega riguardava la disciplina dei procedimenti dichiarativi e non anche di quelli cautelari. La seconda: che il criterio di cui al 4° comma let. c) dell’art. 54 legge 69/2009, nel prevedere che dovessero salvarsi le norme finalizzate a produrre effetti che non possono conseguirsi con le norme contenute nel codice di procedura civile, forse impediva di sottrarre il rimedio avverso il provvedimento cautelare là dove prima quel rimedio era previsto.

Riguardo alle attività preliminari del giudice e del convenuto vale tutto quello che abbiamo detto nel commento all’art. 6 del Decreto. Del resto prima l’art. 204-bis del codice della strada rinviava alla disciplina procedurale dell’opposizione a ordinanza-ingiunzione.

Lo stesso deve ripetersi per la disciplina dell’udienza, della trattazione-istruzione, della decisione e delle impugnazioni.

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Infine l’art. 7, 11° comma, del Decreto riprende quanto era prima previsto nell’art. 204-bis del codice della strada, per il caso del rigetto dell’opposizione, riguardo alla determinazione dell’importo della sanzione ed al suo pagamento.

6. L’art. 8 del Decreto disciplina l’opposizione a sanzione amministrativa in materia di stupefacenti, riprendendo in buona sostanza le previsioni prima contenute nei commi 9 e 12 dell’art.

75 del d.p.r. n. 309 del 1990 (T.U. in materia di disciplina degli stupefacenti).

Sulla competenza nulla è cambiato: resta la competenza del giudice di pace e, nel caso che il trasgressore sia un minorenne, del tribunale per i minorenni. E così in senso orizzontale resta competente il giudice del luogo in cui ha sede il prefetto che ha pronunciato il provvedimento.

Né è cambiato il modello di riferimento di questo procedimento, che resta regolato dalle norme dettate per l’opposizione alla ordinanza-ingiunzione. Se prima venivano in gioco gli articoli 22 ss. della l. 689/1981, oggi viene in gioco l’art. 6 del Decreto. Quindi, il procedimento è disciplinato dalle norme speciali dettate nel citato art. 6 e, per quanto lì non disciplinato, dalle norme del rito lavoro.

Una sola precisazione sul termine: la precedente disciplina prevedeva che l’opposizione dovesse essere fatta entro 10 giorni dalla notifica del provvedimento del prefetto, in ciò distinguendosi dalla previsione del modello di riferimento, perché il previgente art. 22 della l.

689/1981 prevedeva termini di 30 o 60 giorni (a seconda della residenza dell’interessato, in Italia o all’estero). Oggi quella previsione speciale è stata eliminata, per cui anche per l’opposizione a sanzione amministrativa in materia di stupefacenti vale il termine previsto dall’art. 6 del Decreto.

7. L’art. 9 del Decreto disciplina l’opposizione ai provvedimenti di recupero di aiuti di Stato, a monte del quale vi è un illecito che in fondo è compiuto in primo luogo dallo stesso Stato, che poi viene chiamato ad intervenire in via riparatoria. Accade che un aiuto erogato dallo Stato sia accertato come illegittimo dalla Commissione UE, perché potenzialmente idoneo ad alterare la concorrenza. Ecco che quello stesso Stato che ha concesso l’aiuto, poi rivelatosi illegittimo, deve operare per attuare la decisione della Commissione UE e, quindi, recuperare l’aiuto erogato.

A fronte di questa azione di recupero l’impresa può opporsi seguendo le norme che ora diremo.

Il procedimento era prima disciplinato dall’art. 1 del d.l. 59/2008, convertito in l. 101/2008, che, a parte alcune previsioni speciali, rinviava alla disciplina dell’opposizione ad ordinanza- ingiunzione di cui agli articoli 22 ss. della l. 689/1981.

Anche oggi resta il principio di fondo per cui il procedimento in parola è disciplinato dalle norme che disciplinano l’opposizione ad ordinanza-ingiunzione, dettate ora nell’art. 6 del Decreto.

Tuttavia, per un verso, quel rischiamo era già prima parziale e, per altro verso, oggi qualcosa è cambiato.

Per la competenza in senso verticale non sembra che emergano modifiche rispetto al sistema previgente, perché anche prima il richiamo alla l. 689/1981 non comprendeva l’art. 22-bis, in cui erano dettate le norme sul riparto di competenza tra giudice di pace e tribunale. Così oggi dal richiamo all’art. 6 del Decreto sono esclusi i commi 3, 4 e 5. Quindi il tipo di giudice va individuato, oggi come ieri, secondo le ordinarie regole di competenza del codice di procedura civile.

In senso orizzontale, prima il richiamo all’intero art. 22 della l. 689/1981 comprendeva anche il riferimento al luogo in cui è stata commessa la violazione. Oggi, invece, è esplicitamente escluso il richiamo al comma 2 del’art. 6 del Decreto, quindi, non valendo l’ancoraggio al luogo in cui è stata commessa la violazione, devono applicarsi le regole generali che il codice di procedura civile detta sulla competenza per territorio. A tal proposito potrebbe sorgere un dubbio di legittimità, derivante dal fatto che la delega escludeva ogni modifica in materia di competenza.

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Guardando, poi, ad altri richiami all’art. 6 del Decreto, sono ribadite alcune esclusioni che prima il d.l. 59/2008 effettuava rispetto al previgente art. 23 della l. 689/1981. Così, è esclusa la possibilità che autorità e opponente stiano in giudizio personalmente in primo grado, nonché è esclusa l’applicabilità della norma sulle esenzioni fiscali (art. 6, commi 9° e 13°, del Decreto).

Viene chiarito il regime dei termini a difesa. Se il precedente art. 1, 4° comma, del d.l.

59/2008 escludeva il richiamo dell’art. 23, 3° comma, della l. 689/1981 (il quale a sua volta richiamava l’art. 163-bis c.p.c.), oggi sui termini a difesa vale quanto vale per l’opposizione ad ordinanza-ingiunzione. Non prevedendosi nulla di esplicito nell’art. 6 del Decreto, si applica l’art.

415, 5° comma, c.p.c.

Una disciplina particolare, in deroga all’art. 5 del Decreto, vale per la possibile sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo giudiziale o amministrativo di pagamento. Ma in ciò l’art. 9 del Decreto si limita a riprodurre la disciplina speciale che già prima vigeva.

Questa normativa peculiare disciplina in modo esplicito il fumus (“gravi motivi di illegittimità della decisione di recupero, ovvero evidente errore nell’individuazione del soggetto tenuto alla restituzione dell’aiuto di Stato o evidente errore nel calcolo della somma da recuperare e nei limiti di tale errore”) ed il periculum (“pericolo di un pregiudizio imminenti ed irreparabile”) ed, inoltre, disciplina il rapporto tra l’accoglimento dell’istanza di sospensione e l’immediato rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia per l’illegittimità del provvedimento di recupero. Infine, in essa si dispone che, se l’istanza è accolta, ma non è disposto il rinvio alla Corte di giustizia, il giudice fissa l’udienza per il merito a 30 giorni e decide nei successivi 60 giorni.

Tutte queste peculiari previsioni riproducono esattamente quanto già era previsto nella previgente disciplina (del resto, mi pare che qui emergeva la direttiva della delega, contenuta nell’ultimo inciso della let. c) del 3° comma dell’art. 54 della legge 69 del 2009, per cui il delegato non poteva abrogare le disposizioni che erano finalizzate a produrre effetti che non possono conseguirsi con le norme del codice di procedura civile).

Ma, è pure vero che, per quanto non esplicitamente previsto nell’art. 9 del Decreto, io direi che anche qui oggi vale la previsione generale contenuta nell’art. 5 del Decreto. Quindi vale la possibilità di concedere la sospensione inaudita altera parte con decreto, salvo successiva conferma in udienza con ordinanza. E vale anche il principio per cui l’ordinanza che accoglie o rigetta l’istanza cautelare non è soggetta ad alcun rimedio.

Per il resto, si ripete, è da richiamare la disciplina di cui all’art. 6 del Decreto. Di conseguenza, ciò che è cambiato per l’opposizione ad ordinanza-ingiunzione, tra normativa speciale e rito lavoro, è cambiato anche per l’opposizione ai provvedimenti di recupero degli aiuti di Stato.

8. L’art. 10 del Decreto si occupa delle controversie in materia di applicazione delle disposizioni del codice in materia di protezione dei dati personali, disciplina dal cui ambito di applicazione resta fuori Il ricorso alternativo al garante per la privacy, che è rimasto invariato.

La disciplina previgente era contenuta nell’art. 152 del d.lgs. 196/2003, che dettava un procedimento speciale compiuto.

Oggi il procedimento è ricondotto al rito lavoro, salvo quanto esplicitamente previsto dal citato art. 10.

Rispetto alla disciplina previgente è rimasto invariato il regime della competenza: è competente il tribunale del luogo in cui ha residenza il titolare del trattamento. Non è, invece, riprodotta la precedente disposizione per cui il tribunale giudica in composizione monocratica, ma l’assunto è ricavabile dagli articoli 50-bis e ter. c.p.c. Del resto nella delega era esplicitato che non dovessero essere toccati i criteri di composizione dell’organo giudicante.

Come era in precedenza previsto, la domanda si propone con ricorso. E sempre come prima il ricorso va depositato entro un termine a pena di inammissibilità.

Ma su questo profilo bisogna soffermarsi.

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Innanzitutto, se prima era previsto un termine di 30 giorni dalla data di comunicazione del provvedimento del Garante o dalla data di rigetto tacito, oggi quel termine è rimasto invariato solo se il ricorrente risiede in Italia, prevedendosi, invece, un termine di 60 giorni se il ricorrente risiede all’estero.

Inoltre, prima era previsto che il giudice dovesse dichiarare l’inammissibilità con ordinanza ricorribile per cassazione. Oggi nulla è previsto, per cui una simile definizione in rito dovrà seguire le forme della sentenza, che, però, ai sensi dell’art. 10, 6° comma, del Decreto non è appellabile, ma solo ricorribile per cassazione.

Depositato il ricorso, sta al giudice fissare con decreto la data dell’udienza ai sensi dell’art.

415 c.p.c., decreto che dovrà essere notificato al convenuto a cura dell’attore. Anche prima era previsto questo meccanismo, ma oggi non è più riprodotta la disposizione per cui il giudice assegna al ricorrente un termine perentorio per la notifica del decreto alle altre parti. Oggi vale solo l’art.

415 c.p.c., che comunque prevede un termine a difesa per il convenuto di 30 giorni (tra la notifica e l’udienza), esattamente come prima era previsto dall’art. 152 del d.lgs. 196/2003.

Per la costituzione del convenuto vale l’art. 416 c.p.c., con le preclusioni ivi previste, mentre prima nulla era previsto di specifico.

All’udienza deve comparire il ricorrente, altrimenti il giudice, se non vi è un legittimo impedimento, dispone la cancellazione della causa dal ruolo e dichiara l’estinzione del processo, ponendo a carico del ricorrente le spese del giudizio: in ciò nulla è cambiato rispetto a prima.

Dovendosi applicare il rito lavoro, sovviene l’art. 420 c.p.c., là dove prevede la necessità che le parti compaiano personalmente per l’interrogatorio libero e, sempre che non vengano in gioco diritti indisponibili, per il tentativo di conciliazione, con la possibilità che il giudice tragga argomenti di prova dalla mancata comparizione personale delle parti. Previsioni queste che prima non erano qui applicabili.

Valgono le regole di preclusione per le allegazioni e le istanze istruttorie che valgono per il rito lavoro, che prima non era applicabile.

Per quanto riguarda i poteri istruttori del giudice non c’è più la regola che il giudice possa disporre la prova testimoniale senza formulazione dei capitoli. Ma in generale direi che i limiti di questi poteri istruttori non sono cambiati. Già prima essi erano dati al giudice, ma nei limiti del codice civile, perché non era prevista l’esclusione prevista dall’art. 421 , 2° comma, c.p.c. Poiché oggi, pur essendo qui richiamato il rito lavoro, tuttavia i poteri istruttori sono dati al giudice nei limiti del codice civile (quindi è ridotta in questo ambito la potenzialità dell’art. 421 c.p.c.), in pratica non è cambiato nulla.

Riguardo alla misura cautelare della sospensione del provvedimento impugnato, posto che, se in precedenza era prevista una disciplina ad hoc, oggi, invece, l’art. 10 del Decreto rinvia alla norma generale dell’art. 5, sorge sempre la stessa domanda: la nuova normativa ha portato un cambiato?

Oggi, come ieri, è prevista un’alternativa: il giudice può concedere la sospensiva con ordinanza, dopo aver attivato il contraddittorio, o con decreto inaudita altera parte, salvo in questo caso la necessità che il decreto sia poi confermato con ordinanza. Ma vi sono delle differenze.

Innanzitutto sui presupposti dell’ordinanza: ieri il giudice concedeva la sospensiva per “gravi motivi”, mentre oggi egli la concede per “gravi e circostanziate ragioni esplicitamente indicate nella motivazione”, con ciò sembrando doversi avere una maggior cautela nell’accogliere le istanze di sospensione.

In secondo luogo, ieri, se la cautela era concessa con decreto (alle stesse condizioni di oggi, ossia nel caso di “pericolo imminente di un danno grave e irreparabile”), si doveva avere l’udienza per confermarlo entro 15 giorni, mentre oggi non è previsto alcun termine per questa udienza.

Inoltre, ieri il provvedimento che accoglieva l’istanza di sospensione era impugnabile unitamente all’impugnazione della decisione di merito. Oggi l’ordinanza con cui si decide

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sull’istanza, sia essa accolta o respinta, non è impugnabile in alcun modo. Essa evidentemente sarà superata dalla decisione sulla controversia.

Passando alla decisione della controversia, se prima era disciplinata esplicitamente la fase di passaggio dalla trattazione-istruzione alla decisione, oggi, invece, non essendovi alcuna disciplina specifica, deve applicarsi l’art. 429 c.p.c. Ma cambia qualcosa rispetto alla disciplina previgente?

Nulla cambia rispetto al possibile rinvio ad altra udienza, con concessione alle parti di 10 giorni per il deposito di note difensive: questo era previsto nella normativa speciale e questo è dettato dall’art. 429, 2° comma, c.p.c.

Salva questa eventualità, la normativa precedente prevedeva nella stessa udienza: precisazione delle conclusioni, discussione orale e pronuncia della sentenza con lettura del dispositivo in udienza, con deposito della motivazione nei successivi 30 giorni. A questa procedura il giudice poteva derogare scegliendo di redigere e leggere la motivazione in udienza insieme al dispositivo.

Oggi questa normativa speciale non vale più e vale l’art. 429 c.p.c., che dispone la pronuncia della sentenza mediante lettura del dispositivo in udienza dopo la discussione delle parti e prevede sempre l’alternativa tra la lettura immediata della motivazione o la sua stesura e deposito in un momento successivo. Ma questa alternativa è diversamente disciplinata. Oggi il giudice deve, normalmente, sempre pronunciare tutta la sentenza in udienza: lettura del dispositivo e della motivazione che lo sorregge. Solo se la controversia è particolarmente complessa egli si limita all’udienza alla lettura del dispositivo e fissa un termine non superiore a 60 giorni per il deposito della sentenza completa.

Infine, nulla cambia in materia di impugnazione: la sentenza non è appellabile, quindi è solo ricorribile per cassazione.

9. Ben poco è cambiato per le controversie agrarie, che l’art. 11 del Decreto, oggi come ieri, riporta al rito del lavoro, salve alcune norme speciali.

Non è cambiata la peculiare disciplina del tentativo obbligatario di conciliazione da esperirsi di fronte al’ispettorato provinciale dell’agricoltura competente per territorio, oggi dettata nell’art. 11 de Decreto, che riprende quanto prima era previsto nell’art. 46 della l. 203/19827.

Né è cambiata la disciplina del termine di grazia concesso all’affittuario moroso convenuto in giudizio (art. 11, 8° comma, del Decreto e ieri art. 46 della l. 203/1982).

Né è cambiata la tipizzazione del presupposto per concedere la sospensione dell’esecuzione della sentenza ai sensi dell’art. 373 c.p.c. per l’eventualità che essa privi il concessionario di un fondo rustico del principale mezzo di sostentamento suo e della sua famiglia (art. 11, 10° comma, del Decreto e prima art. 46 della l. 203/1982).

Né, ancora, è cambiato il principio per cui il rilascio del fondo può avvenire solo al termine dell’annata agraria (art. 11, 11° comma, del Decreto e ieri art. 47 della l. 203/1982).

Oggi la procedura risulta modificata solo nella misura in cui il richiamo attuale al rito lavoro è diverso rispetto al richiamo precedente sempre al rito lavoro. Così sui poteri istruttori del giudice: se prima il richiamo al rito lavoro implicava l’applicazione del secondo comma dell’art. 421 c.p.c., oggi bisogna tenere presente il limite di cui all’art. 2, 4° comma, del Decreto. Per cui le sezioni agrarie hanno poteri istruttori senza che essi possano travalicare i limiti del codice civile.

Nulla è cambiato, invece, rispetto all’applicabilità del terzo comma dell’art. 429 c.p.c. quando la sentenza contiene condanna al pagamento di somme di denaro in favore dell’affittuario. Sarebbe cambiata la disciplina se qui fosse risultata applicabile l’esclusione di cui all’art. 2, 1° comma, del Decreto, che in generale esclude l’applicabilità del terzo comma dell’art. 429 c.p.c. ai procedimenti

7 Quindi siamo di fronte ad un tentativo obbligatorio di conciliazione la cui disciplina resta fuori dal campo di applicazione del d.lgs. n. 28 del 2010.

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