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12 Osservazione relazionale Sandra Maestro

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Academic year: 2021

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12 Osservazione relazionale

Sandra Maestro

È noto come la nascita traumatica, accompagnata da quel corteo di eventi legati alle pri- me cure intensive date al neonato, è destinata ad incidere e modificare profondamente il sistema relazionale che si viene strutturando attorno a lui. Le angosce legate al trau- ma, le ansie relative alle incertezze sullo sviluppo futuro del bambino vengono a im- piantarsi nell’universo rappresentazionale genitoriale, sostituendosi alla plasticità “fan- tasmantica” che accompagna le prime fasi di vita di ogni essere umano. L’evento trau- matico si costituisce come un oggetto estraneo, una sorta di “intruso” nel sistema di re- lazione genitori-bambino; successivamente, con la crescita del bambino ed il progredi- re dei processi di elaborazione e adattativi, questo “terzo estraneo” viene gradualmen- te sostituito da quello che potremmo definire il terzo polo del sistema, ovvero l’équipe curante. La costituzione di questo sistema crea tra i suoi componenti una complessa re- te di relazioni reciprocamente interdipendenti. L’osservazione relazionale implica per- tanto la creazione da parte dell’osservatore di un assetto mentale peculiare, mirato a co- gliere questa interdipendenza, selezionando all’interno degli eventi che si verificano in un determinato contesto, per esempio una seduta di riabilitazione o una visita di con- trollo, quegli aspetti del comportamento dei diversi protagonisti dell’incontro, bambi- no, genitori, terapista, medico, che costituiscono un segnale della relazione che si va co- struendo. Questo approccio alla realtà clinica implica un assetto mentale di tipo psico- dinamico, secondo cui la relazione, ovvero quell’insieme complesso e articolato di atti, emozioni e fantasie che sostengono i legami tra gli esseri umani, rappresenta il punto di vista più idoneo ad accogliere e comprendere l’altro nella sua interezza e complessità.

Ma di quali strumenti dobbiamo attrezzarci per integrare questo vertice osservativo nelle nostre valutazioni? Quali sono, da questo punto di vista, i rischi, ma anche i fatto- ri protettivi, per lo sviluppo psicologico ed emotivo del piccolo neuroleso?

Cercheremo adesso di esaminare il problema dal punto di vista del bambino, della famiglia e dell’équipe curante.

Il bambino

La motricità rappresenta nelle prime fasi dell’esistenza una funzione essenziale nell’or- ganizzazione dell’esperienza soggettiva e nella costruzione dei diversi sensi del Sé. At- traverso l’atto motorio il bambino sperimenta la propria capacità di incidere sulla real- tà esterna, di provocare cambiamenti, di cimentarsi nelle prime esplorazioni autonome dell’oggetto. Il Sé nucleare, base esistenziale fondante per tutto lo sviluppo successivo della personalità, si organizza e costruisce anche grazie alla conquista da parte del bam- bino della piena padronanza del corpo, della gestualità, delle proprie azioni (Sé agente, Stern, 1989).

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La stessa immagine del Sé, ovvero la rappresentazione mentale degli aspetti più si- gnificativi della propria identità, si costruisce attraverso l’elaborazione e la successiva integrazione di vissuti e fantasie legate al corpo. Ed è attraverso la motricità, infine, che il bambino sperimenta le prime forme di separazione, rappresentando la conquista del- la distanza fisica dall’altro, e in particolare modo dalla madre, uno dei pre-requisiti es- senziali all’avvio dei processi di separazione-individuazione.

Il bambino con patologia neuromotoria precoce spesso deve invece rinunciare a questo patrimonio di esperienza; talvolta fin dalla nascita le conseguenze fisiche della sofferenza perinatale, l’alterazione del tono, la compromissione della motricità oculare così penalizzante per tutte le vicende relazionali veicolate dalla funzione dello sguardo (vedi cap. 9), le perturbazioni della vigilanza, gli stati di torpore o di ipereccitabilità (ve- di cap. 10) lo rendono un partner poco attivo e attivante nell’interazione.

Credo che sia realmente difficile riuscire a immaginare l’esperienza soggettiva di un bambino piccolo che non può disporre liberamente del tono e della posturalità come veicolo naturale di scarico delle tensioni emotive, ma che, al contrario, si trova ad esse- re da essi dominato. Ma è proprio questa impossibilità a fruire pienamente della fisici- tà, questa discordanza iniziale tra stati mentali e stati corporei, che spinge il bambino alla ricerca di strategie alternative per l’espressione della sua relazionalità e mette noi nelle condizioni di costruire nuovi paradigmi per la decodifica delle sue intenzionalità interattive. Credo che per troppo tempo siamo rimasti legati a dei pregiudizi, a dei mo- delli di sviluppo poco adattabili dal punto di vista emotivo e sociale alla realtà del bam- bino neuroleso e soprattutto poco fruttuosi per lo studio delle sue strategie, dei suoi punti di forza, delle sue risorse. C’è da chiedersi, ad esempio, come può progredire il bambino neuroleso nello sviluppo delle sue competenze sociali o intersoggettive. La pa- resi di un arto superiore, ad esempio, in che misura blocca l’emergenza dei gesti deitti- ci come il pointing richiestivo e dichiarativo, o come possono le difficoltà di coordina- zione della motricità oculare interferire nella comparsa del pointing passivo, precurso- re dell’attenzione condivisa (Stern, 1997). Ma soprattutto, attraverso quali strategie compensatorie il bambino si riorganizzerà, quali pattern comportamentali sono più indicativi di questa riorganizzazione e quanto questa è più o meno funzionale allo svi- luppo del contatto sociale con l’ambiente (De Gangi, 2000; Gordon Williamson e Anza- lone, 2000). Lo studio di questi precursori dello sviluppo sociale mi sembra essenziale e preliminare allo studio dello sviluppo affettivo ed emotivo. Infatti l’emergenza del pen- siero simbolico, quello che ci consente di fare delle ipotesi sull’organizzazione delle re- lazioni oggettuali interne, è sicuramente successiva ed è quindi per il bambino più gran- dicello che possiamo avanzare delle suggestioni sulla sua vita fantasmatica, sul suo si- stema di difese, in ultima istanza sulla struttura della sua personalità.

Aguillar (1983) descrive in modo molto suggestivo come la parte somatica danneg- giata si converte in una specie di falso contenitore dei cattivi oggetti interni del bambi- no: “Le gambe che non funzionano, il braccio distonico o la mano emiplegica rappre- sentano l’oggetto cattivo che bisogna aggiustare in modo esclusivo. Questo fatto rende difficile l’elaborazione mentale di determinati sentimenti sperimentati come cattivi e da rifiutare”.

Questa funzione catalizzatrice e contenitrice di vissuti persecutori del corpo dan- neggiato scaturisce, nell’elaborazione del lutto, da un difetto da parte del bambino di una immagine del Sé integra e sana (Corominas, 1983 a, b).

In effetti quello che spesso riscontriamo nei bambini seguiti in trattamento per lun- ghi periodi è che l’apparato difensivo messo in atto contro la condizione di malattia in-

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terferisce profondamente in tutta l’organizzazione della personalità; e pur non essendo possibile descrivere un profilo analitico strutturale per la pur sempre estrema variabi- lità tra bambino e bambino, è però possibile individuare alcune caratteristiche ricor- renti del funzionamento psichico legate proprio all’interferenza della patologia.

Si tratta di bambini che nella relazione con l’altro possono alternare il registro della seduttività a quello della provocatorietà, impegnati massicciamente nel diniego della dipendenza emotiva e fisica dell’adulto, ad esempio raramente chiedono aiuto quando si trovano in difficoltà.

Il linguaggio espressivo è spesso investito in modo ipertrofico, senza che si possa os- servare tuttavia la funzione ordinatrice del pensiero e autoregolatrice delle azioni. Il corso associativo può risultare accelerato e caotico, quasi a compensare i limiti motori.

Il contatto con la realtà è generalmente conservato, anche se permane una superfi- cialità e un’approssimazione nel rapporto con l’oggetto, tipiche di chi non può permet- tersi di entrare in contatto con i propri limiti strumentali.

Tra le difese dominano la regressione e la maniacalità. Tale profilo non è tuttavia da considerarsi generalizzabile. In un nostro contributo (Maestro e Bertuccelli, 1996) sul- le caratteristiche emotive e psicologiche dei bambini discinetici, ad esempio, osserva- vamo delle caratteristiche diverse con maggiore accentuazione della componente de- pressiva. Malgrado ciò, credo che indirizzare le nostre osservazioni verso la conoscen- za anche della dimensione affettiva ed emotiva del bambino con danno cerebrale, sia oggi, alla luce delle nuove acquisizioni date dallo sviluppo delle neuroscienze, ancora più imprescindibile.

Si può concludere che l’approccio relazionale consiste allora, prima di tutto, nell’at- trezzarci con delle griglie osservative, adeguate ai suoi tempi maturativi, “sensibili” al- la sua difettualità, ma anche alle sue risorse alternative, idonee a evidenziare nei suoi comportamenti l’intenzionalità comunicativa. Per il bambino più grande però significa anche garantirgli la possibilità di entrare in relazione col proprio mondo interno, e quindi anche con la sofferenza e i vissuti depressivi legati alla condizione di malattia.

Infatti, liberare le parti malate dalla funzione di equivalente simbolico di oggetti dan- neggiati, può restituire dinamicità ai processi mentali e consentire l’accesso a livelli di simbolizzazione sempre più evoluti.

La famiglia

Gli studi in letteratura e l’esperienza clinica indicano che i rischi evolutivi di un bambi- no con patologia perinatale dipendono, oltreché da fattori biologici e costituzionali, an- che dalle caratteristiche del suo ambiente familiare. È stata infatti dimostrata l’inciden- za sull’evoluzione di un bambino che ha presentato problemi alla nascita di numerosi fattori, quali il livello socio-economico della famiglia, l’età dei genitori e la loro struttu- ra di personalità, l’ordine di genitura del figlio, l’isolamento sociale del nucleo familia- re, ecc. La nostra esperienza clinica conferma che il lavoro con la famiglia è essenziale e deve rappresentare uno dei poli dell’intervento riabilitativo. L’obiettivo centrale del- l’alleanza terapeutica è quello di spostare la polarizzazione dei genitori dall’esclusivo recupero della funzione motoria e riconquistarli alla globalità dei bisogni del bambino.

Molto, infatti, è già stato scritto sulla difficoltà che sin dalla nascita i genitori si tro- vano a dover affrontare, dalle separazioni iniziali, alla gestione dell’accudimento resa più complessa dalle condizioni cliniche del bambino, fino alle incertezze e alle angosce

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che gravano sul suo futuro. Inoltre, lo sviluppo del bambino spiato in cerca dei segni della patologia, l’ansia che accompagna le visite di controllo, la delega ai medici del compito di giudicare dello stato di benessere o malessere del bambino e la parallela dif- ficoltà a sviluppare quell’insieme di attitudini che fanno della madre la persona natu- ralmente più esperta a riguardo del figlio, rappresentano degli importanti fattori di ri- schio nella relazione col piccolo neuroleso. Soulé (Kreisler e Soulé, 1990) ha parlato del- la “sindrome del bambino fragile” per descrivere l’immagine del Sé che certi bambini strutturano in conseguenza dei sentimenti di precarietà e vulnerabilità su di essi mas- sicciamente proiettati. Stern ipotizza invece una sorta di “vuoto rappresentazionale”

che i genitori sperimentano di fronte alla presenza di un handicap, o di un rischio evo- lutivo nel proprio bambino. Il bambino verrebbe cioè privato di tutta la funzione nu- tritiva per lo sviluppo della sua organizzazione psichica costituita dalle proiezioni pa- rentali. Come accennavamo nella premessa, l’evento traumatico diventa il terzo intru- so nella relazione genitori-bambino e per un lungo periodo il vertice organizzatore nel- la costruzione dei legami. Si potrebbe quindi ipotizzare che il vuoto di rappresentazio- ni si saturi di vissuti emotivi angosciosi che in qualche modo precludono il formarsi nei genitori di rappresentazioni, intese proprio come immagini mentali, sogni, fantasie re- lative allo sviluppo del bambino. Questo primo livello della relazione genitori-bambino, che potremmo definire come livello più inconscio o fantasmatico, deve però integrarsi nelle nostre valutazioni con un livello più concreto, legato all’interazione reale quale os- servabile nell’hic et nunc dell’incontro. Questo secondo livello è altrettanto importante rispetto al primo, in quanto rappresenta il ponte, il tramite attraverso cui le fantasie, le rappresentazioni, ma anche le angosce del vissuto genitoriale si concretizzano nel rap- porto con il bambino. Ovviamente i parametri osservativi cambiano, nel primo caso si esplorano la storia dei genitori, i modelli operativi interni, le identificazioni ecc., nel se- condo si osservano le modalità concrete di presa in carico del bambino, la sintonia po- sturale, gli scambi vis a vis, ecc. Nelle prime fasi di vita del neonato l’impegno nella ge- stione materiale, l’adattamento ai suoi ritmi, la decodifica dei suoi processi di autore- golazione occupa interamente il caregiving e nelle osservazione di queste situazioni è importante annotare, attraverso l’uso di strumenti opportuni, le modalità attraverso cui i genitori svolgono questo tipo di compiti. I canali utilizzati nella comunicazione inten- zionale reciproca, le azioni facilitanti l’attività esplorativa nel bambino, la sensibilità e recettività ai suoi segnali emotivi, il potenziamento delle sue capacità di elaborazione affettiva rappresentano parametri essenziali nella valutazione dell’interazione.

Tuttavia nella nostra esperienza aiutare i genitori nella difficile elaborazione del trauma iniziale è fondamentale, proprio perché questo tipo di vissuti crea attorno al bambino una rete di identificazione protettive difficile da “sbrogliare”. È difficile ad esempio trattare un bambino piccolo che piange in continuazione nell’ora di tratta- mento, senza prima aver affrontato con la madre le angosce legate alle prime manovre intrusive operate sul corpo del figlio, riattivate dalle manipolazioni del terapista.

Il bambino con PCI ha sicuramente uno strumento in meno, rispetto ai suoi coeta- nei, per riequilibrare l’universo proiettivo materno: non dispone cioè della motricità.

E nella nostra esperienza la fusionalità e la simbiosi dominano a lungo le relazioni madre-bambino e i processi di attaccamento.

Si può ipotizzare a questo proposito che i sentimenti di colpa da una parte e la non tollerabilità dei sentimenti aggressivi, avvertiti troppo pericolosi nei confronti di un bambino che ha massicciamente frustrato le aspettative narcisistiche, privino la rela- zione del ruolo strutturante della conflittualità. La madre subisce passivamente gli at-

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teggiamenti tirannici del bambino, che mantiene tuttavia tenacemente in una condi- zione regressiva e di dipendenza. Aiutare i genitori a pensare su questi aspetti della re- lazione col figlio, lavoro da noi svolto attraverso vari tipi di setting, può diminuire il ri- schio di distorsioni nella relazione come, ad esempio, sono da considerarsi certe forme di “riparazione maniacale” associate a iper-stimolazione, oppure l’identificazione e la competizione del genitore con determinate figure professionali e in particolare con quella del terapista.

L’obiettivo finale è quello aiutare i genitori nel complesso compito dell’elaborazione del lutto, ovvero nella separazione definitiva dal bambino ideale, fantasticato in gravi- danza, e consentire loro l’attivazione di una funzione più parentale e meno assistenzia- le. Il figlio può allora essere reinvestito di contenuti fantasmatici nuovi; queste situa- zioni talvolta vengono inviate alla consultazione terapeutica perché il bambino ha svi- luppato un sintomo comportamentale o più francamente nevrotico, e sono per noi di estremo interesse perché indicano la ripresa nella relazione del gioco delle identifica- zioni reciproche e di una nuova dinamicità negli scambi emotivi.

In sintesi la prospettiva relazionale implica assumere le relazioni del bambino con i suoi familiari nel progetto di intervento.

L’équipe curante

Il dibattito di questi ultimi anni ha portato a definire la riabilitazione come un inter- vento multi-direzionale che tiene di conto dei diversi aspetti della vita del soggetto e considera centrale il recupero di funzioni adattive. Questa concezione dell’intervento prevede il coinvolgimento di più figure professionali e il conseguente costituirsi di un’é- quipe terapeutica. Tuttavia, trasformare la formula organizzativa in una unità operati- va realmente funzionante non è un compito né facile né scontato.

Il bambino e la complessità dei suoi bisogni possono infatti diventare terreno di scontro tra i diversi operatori che condividono il progetto riabilitativo. Ad esempio, le esigenze e le regole dell’ambiente scolastico possono differire molto rispetto a quelle della stanza di terapia e implicare la mobilitazione di strategie da parte del bambino, di- verse o addirittura antitetiche rispetto a quelle apprese in terapia. La multi direzionali- tà dell’intervento implica cioè la capacità per ciascun operatore di rivedere con spirito critico ed elasticità il proprio progetto e la possibilità di ricalibrarlo sulle esigenze del singolo bambino, in un confronto costante con gli altri componenti dell’équipe. Ma questa attitudine al confronto, questa capacità di negoziare con i propri modelli cultu- rali, questa possibilità di lasciarsi permeare dalla relazione con l’altro non è innata né acquisibile con la sola formazione curriculare. Si tratta piuttosto di una funzione che si può sviluppare se attorno agli operatori vengono create le condizioni per riflettere e ri- pensare sulla esperienza clinica. D’altro canto il rapporto diretto con l’utenza, col bam- bino e con la sua famiglia, cimenta costantemente l’operatore con queste problemati- che.

In un nostro precedente contributo a proposito della relazione tra bambino e terapi- sta (Maestro et al., 1988) osservavamo come con l’avvio di un trattamento nella mente del terapista si costruiva l’immagine di un bambino “ideale”, ovvero un bambino futu- rizzato nelle sue potenzialità di recupero, la cui collaborazione e adattabilità alla pro- posta terapeutica venivano date più o meno per scontate. L’impatto con la realtà del piccolo paziente può invece molto spesso rivelarsi una fonte di stress per il conflitto ri-

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corrente tra la soggettività, l’emotività, le motivazioni del bambino e gli obiettivi del- l’intervento. Di fronte alla cronicità della patologia e all’irreversibilità dei suoi esiti, il terapista può trovarsi disarmato e in difficoltà a mantenere quella posizione di attesa e sospensione di giudizio necessaria alla piena comprensione del bambino. Il rifugio nel- la tecnica, il privilegio in seduta dell’universo dell’agire rispetto a quello del pensare, la scomposizione del piccolo paziente in un insieme di segmenti da trattare possono rap- presentare delle difese nei confronti degli aspetti più frustranti della patologia come la passività, l’inerzia, l’inibizione e il negativismo.

Altri problemi riguardano le pesanti interferenze della famiglia nel trattamento: dal- l’investimento idealizzato del terapista dei primi momenti, alla competizione per il suo padroneggiamento della tecnica riabilitativa, al carico di angosce rispetto al futuro evo- lutivo del bambino. Talvolta il terapista si trova a dover “custodire il segreto”, seppure momentaneo, delle reali possibilità di recupero del bambino e a funzionare da filtro nella comunicazione col genitore per non alimentare aspettative inutili ma neanche provocare perdita di fiducia e investimento affettivo nel bambino.

Riuscire a cogliere questi livelli nel rapporto con l’utenza (bambino e famiglia) im- plica un notevole dispendio di energie emotive che all’operatore può essere richiesto solo se adeguatamente contenuto e condiviso nella responsabilità emotiva del bambino.

Il nostro lavoro di supervisione è finalizzato a questo e nel corso di questi anni ci siamo cimentati nell’elaborazione di un linguaggio e di un livello di lettura della relazione che sapesse integrare al suo interno la complessità di queste dinamiche.

Conclusioni

Nella premessa iniziale presentavo l’approccio relazionale come quello più idoneo a comprendere l’individuo nella sua globalità. Ripensando all’insieme dei problemi sol- levati (e non risolti) da questo intervento, verrebbe piuttosto da concludere che l’ap- proccio relazionale rappresenta un fattore di complicazione di una realtà clinica già di per se stessa così complessa, per la natura cronica della patologia, per la sofferenza fisi- ca e mentale ad essa connessa. Ma, nella nostra esperienza, assumere questa “comples- sità”, attrezzandosi, ovviamente, di strumenti adeguati, è essenziale, se non diretta- mente per la prognosi riabilitativa del bambino, certamente per la buona conduzione del trattamento.

In un nostro contributo sul fenomeno del burn-out nei terapisti (Maestro et al., 1993) notavamo con quanta facilità la relazione col bambino può trasformarsi in una esperienza altamente frustrante e alienante (per entrambi i partner) al di fuori di un’at- tività in grado di comprendere le dinamiche soggiacenti. Non solo, ma è solo attraver- so il lavoro di supervisione e ripensamento sull’esperienza clinica che si possono co- gliere nelle scelte terapeutiche certi agiti e collusioni con le parti più patologiche dei pa- zienti. La possibilità, allora, di ricomporre attraverso la discussione di équipe l’imma- gine del bambino per come si viene organizzando nella mente di chi lavora con lui rap- presenta uno degli strumenti essenziali per restituire ai genitori un’immagine integra- ta del figlio. In ultimo credo che “abbracciare la complessità” consenta di accogliere la sfida insita nell’approccio alla patologia cronica, ovvero quella di restituire unicità, ori- ginalità e imprevedibilità a percorsi evolutivi segnati dall’evento morboso.

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Parte III

Classificazione delle sindromi spastiche e forme cliniche

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