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Anno nuovo, briscola vecchia di Pasquale Tanzini

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Academic year: 2022

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Anno nuovo, briscola vecchia

di Pasquale Tanzini

Certo che questo venti-ventidue sarà un anno carico di aspettative. Quello appena passato ha raccontato delle verità più forti e più grandi delle bugie possibilmente immaginabili. Pensate se vi avessero raccontato, durante le feste natalizie di un anno fa, che una manica di facinorosi, una torma di scalmanati guidata da un cornuto avrebbe assalito il palazzo del Congresso, quello che Jefferson chiamò Campidoglio (Capitol Hill), anziché Camera del Congresso, prendendo il nome da uno dei sette colli di Roma, quello dove si trovava il tempio di Giove, il re degli Dei. Assalto che mirava all’impiccagione del vicepresidente ancora in carica. Ma chi ci avrebbe mai creduto? L’America non è lo stato libero di Bananas, eppure… Nel mentre che tutto il mondo intero, dopo che si è fermato, ora si barcamena nella lotta a questa maledetta epidemia, questo stesso mondo ha ripreso a girare più veloce della fantasia, in una realtà neppure troppo aumentata, semplicemente più reale delle logiche ed ordinarie aspettative sul nostro futuro. Chi potrebbe prendere

sul serio la storia di due o tre ultra-miliardari che

fanno a gara a chi ce l’ha più lungo (il razzo, naturalmente) per arrivare per primi sulla Luna, anzi no, ancora più lontano, su Marte. Neppure nei fumetti di Topolino, Paperon de’ Paperoni si osava ipotizzare una storia accussì. Pure con un’appendice un poco triste, se vogliamo mescolare la fiction alla realtà. Jeff Bezos, l’uomo più ricco del mondo, il signor Amazon, quello che ha finanziato il progetto Blue Origin, con il razzo New Shepard, quello a forma fallica, su cui molti hanno ironizzato, ha avuto un primo segno negativo. Il 13 ottobre scorso c’è stato il secondo decollo del Blue Origin, il volo NS-18.

Insieme all’astronauta Glen de Vries, a bordo della navicella s’era pure l’attore William Shatner (il volto del famoso capitano Kirk di Star Trek), che ha finalmente coronato un sogno collettivo, realizzando il suo viaggio nello spazio, anche se non era proprio sull’Entreprise. Ecco, l’astronauta Glen De Vries, un mese dopo, si è schiantato, nel New Jesey, in un incidente aereo, insieme al suo istruttore di volo, mentre erano a bordo di un Cessna 172. Il vero è più vero del falso, il falso non è mai troppo falso. Tanto per dire, in Usa quest’anno sono mancati i Babbi Natale, lo ha scritto il Washington Post, ne sono mancati mille (lavoro temporaneo), categoria a rischio complicazioni Covid, 100 kg. e sessant’anni, ne sono morti 300 ai corsi di formazione. Che dire poi della sceneggiata napoletana sorta intorno alla morte e alla successiva resurrezione del nuovo conte di Montecristo? Davide Pecorelli che incontra l’abate Faria. Morto da scappato in Albania, suicida a Medjugorje oppure no, moglie, due figli, una compagna con un altro figlio, tragedia per la scomparsa, oggi portatore di una raccolta di monete d’oro, indagato da polizie di diversi paesi. L’ex arbitro, mi sa che più si ingarbuglia una cosa, più la matassa si fa impossibile da districare, che diventa praticabile ogni percorso, peggio di Chi l’ha visto, di Quarto Grado o Blu notte, i misteri italiani. Alexandre Dumas oggi creperebbe d’invidia. Parafrasando, roba da filosofi antichi come Epimenide, da paradosso del mentitore: tutti i bugiardi sono sinceri,

GRILLO

ANNO 34 N° 1 GENNAIO – FEBBRAIO 2022 Aut. Trib. Firenze n° 3556 del 25.02.87 BIMESTRALE DEL DLF FIRENZE

Via Paisiello, 131 Firenze

SEGRETERIA E REDAZIONE Via G. Michelucci 1/d Firenze Direttore responsabile PASQUALE TANZINI

Direttore editoriale GIOVANNI RUSSO

Hanno collaborato: Stefano Boni, Lucia Bruni, Fabio Magini, Federico Napoli, Filippo Pranzini, Russo Giovanni, Pasquale Tanzini.

La foto di copertina è di Corina Mezei

La collaborazione a questo giornale è gratuita ed aperta a tutti. Il materiale, anche se non pubblicato non si restituisce. La direzione lascia agli autori degli articoli la massima libertà nell’esprimere le proprie opinioni e non si assume la responsabilità dei testi firmati.

FB:

HTTPS://facebook.com/DopolavoroFerroviarioFirenze Codice di appartenenza dlf Firenze U7GV3

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parola di bugiardo. A proposito di bugiardi, ecco i pacifici Gianni e Pinotto, Russia e Cina, paesi rivali che raccontano verità solo a loro care: nel 2014 la repubblica autonoma della Crimea fu annessa alla Russia, attraverso un referendum ritenuto illegittimo dalla comunità internazionale (e dall’Ucraina). Quella zona divenne l’epicentro dei disordini successivi. Il Donbass, la regione orientale dell’Ucraina in cui si sono costituite due repubbliche separatiste filorusse di Donetsk e Lugansk. Da sette anni continua una Guerra tra filorussi e Kiev che ha già superato i 13 mila morti (sembra un nuovo genocidio). Oggi è un territorio pressoché distrutto, ormai poverissimo, e l’Ucraina ha ben 42 milioni di abitanti. Nelle 250 miglia di “confine” Putin ha ammassato175mila soldati, posizionati in vista di una probabile offensiva militare, che gli osservatori della Cia prevedono per questo gennaio. Dall’altra parte, gli americani drizzano pure le orecchie verso Taiwan, dato che, in questo gioco a chi la fa più lontano, Xi Jinping sta facendo manovre militari, caricando il mar cinese meridionale di navi da guerra, tutte addosso all’isoletta, un poco come il lupo che cerca di papparsi i tre porcellini di Formosa.

Scusate, chi era che aveva detto che questo sarebbe stato un anno di pace? Sul panorama dell’anno nuovo c’è pure la super-multa che l’Antitrust ha stabilito per il signor Bezos, padrone di Amazon:

“solo” 1 miliardo e128 milioni di multa, per l’uso oppressivo di “Prime” nei propri sistemi di logistica, che ha creato l’abuso di una posizione dominante, sacrificando le logiche concorrenziali. Nulla però contro lo sfruttamento dei dipendenti, la cosa riguarda solo le logiche dei mercati. Bah. Ci sarebbero poi gas, luce, acqua, benzina, metano, più altri ammennicoli che aumenteranno certamente il nostro giramento di cabasisi in questo anno appena incignato. Crescono inflazione e debito pubblico, ma aumenteranno anche i costi per le nostre colazioni.

Nell’anno finito appena ieri la cosa che è aumentata più del prezzo del metano è stato il caffè. Prezzi dei futures dalle Borse: Robusta e Arabica costeranno il doppio, e già erano ai massimi prezzi da 10 anni. Per la strozzatura delle catene di approvvigionamento, per la stagione secca, per le gelate in Brasile, le piogge in Colombia e la variante Delta in Vietnam, oltre alla guerra in Etiopia. Caro caffè, What else?

Sino dall’ottobre scorso il Financial Times aveva elaborato degli indicatori della prima colazione:

latte, zucchero, grano, avena e succhi di arancia.

Aumento medio del 63%. Tanto per fare un paragone, un poco come nel film perennemente natalizio, “Una poltrona per due”, il prezzo della pancetta e del succo d’arancia a Wall Street. Con una cosa in più per gli americani soprattutto: lo sciroppo d’acero, che in Europa non va per la maggiore, ma in nord America è un altro must. Biden ha messo sul mercato una parte delle riserve di petrolio, nel Quebec l’associazione produttori di sciroppo hanno messo in vendita 22.000 delle 44.000 tonnellate di questa riserva mielosa, ed in Canada la stagione calda ne ha ridotto la produzione (da 80 a 60 mila tonnellate), dato che hanno quasi il 75% del mercato mondiale. Non dimentichiamo che un barile di sciroppo d’acero costa almeno 20 volte il prezzo di un barile di petrolio. Come la benzina per l’automobile, non avremo colazioni più amare, basterà solo il pagare di più. E poi, noi siamo

“solo”60 milioni, l’anno passato 400 mila i nuovi arrivi, un dato simile risale al 1861, alla vecchia unità d’Italia, mancano in 350 mila i nascituri, con le culle vuote, siamo al fallimento demografico, lo squilibrio è incredibile. Complice anche la storia della pandemia, i riferimenti sono al 1918, quando la prima guerra mondiale e la spagnola decimarono 650 mila persone. E non c’entra nulla la teoria delle

“sostituzioni etniche”, noi abbiamo 8,7 stranieri ogni 100 abitanti censiti, la nostra percezione della realtà è alterata, non siamo il punto di arrivo delle rotte in partenza dall’Africa, perché di questa percentuale, che si avvia al 10%, quasi la metà proviene dalla nostra vecchia Europa. Come accade in politica, ogni volta che c’è un vuoto, qualcuno lo riempie. Anno nuovo, sempre la stessa briscola sul piatto. Speriamo che non ci tocchi di incartarci con tre carichi in mano, e di restare con il compagno senza briscola. Buon anno, speriamo di potercelo permettere.

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a cura di Lucia Bruni

Laura Vignali, “Il supplente”, Effigi Edizioni, Acidosso, 2021, € 16,00

Un giallo? Beh, tutto sommato sì. Ma soprattutto è la penna estrosa e simpatica di Laura Vignali a “condurre le indagini”. Laura è narratrice eclettica e scrupolosa, affezionata alla storia, sia a quella lontana, ma più ancora a quella che possiamo raccontare noi o chi ci ha preceduto di poco. Al proposito si veda il romanzo

“Lucciole e grilli alla Caposampiero” (Effigi Edizioni, 2015) scritto a quattro mani con Pier Luigi Pardini, dove passato e presente si intrecciano nello snodarsi di storie interessanti fra realtà e fantasia.

Stavolta invece, si tratta di entrare nei meandri di una trama composta da una attualità di vita scolastica con professori e allievi, e taluni rapporti riesumati dagli anni Settanta, ovvero i trascorsi di un noto critico letterario attraverso la figura del suo giovanissimo assistente Marco Tullio. Questi, improvvisandosi detective e facendo tesoro degli inquieti prudori di tre adolescenti verso il giovane supplente, nonché delle affascinanti doti di una pittrice intraprendente, riuscirà a sciogliere i nodi della storia e a ridisegnare in modo più dinamico la propria esistenza.

L’ironia bonaria di Laura Vignali, caratteristica che traspare in tutti i suoi lavori, accompagna anche qui il lettore in modo garbato, stimolandone la curiosità e invitandolo a condividere le emozioni di tutta la storia.

Alfredo Del Basso, “Il colore della tundra”, NeP edizioni, Roma, 2020, € 18,00

Le pagine di questo libro invitano a una riflessione molto importante: cercare e trovare un equilibrio, o meglio un dialogo costruttivo fra uomo e uomo e fra uomo e natura. Ed è anche il messaggio dell’autore al lettore e che regge tutto l’impianto narrativo.

“Dietro una storia d’amore semplice e lineare e una vita incanalata nella quotidianità si cela un’avventura giovanile”, si legge nella quarta di coperta, ed ecco sorgere il desiderio di partire e scoprire il mondo che spinge il protagonista, Tonino, a lasciare la natia Napoli con il solo bagaglio di uno zaino, per giungere in un paese lontano e ricco di fascino, la Finlandia.

L’incontro con una ragazza, Maarit, e il mondo che lo accoglie, sarà foriero di un grande cambiamento del suo quotidiano, non solo rivolto all’ambiente, alle abitudini e ai costumi che lo avevano visto crescere, ma soprattutto al suo personale modo di porsi nella vita.

Questo paese ai confini del mondo, sarà capace di dimostrargli come si può coniugare il progresso con il rispetto per la terra, la natura, il raffrontarsi con il prossimo e la scommessa sarà quella di decidere se ritornare nella “culla materna”, accettando inevitabili ostacoli e compromessi dovuti a un diverso

modo di concepire i rapporti umani e quelli uomo-natura, oppure fare del nuovo luogo il futuro della propria esistenza.

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CIAO GIGI

ECCO UN LIBRO PER TE

di Lucia Bruni

“Nun me fido di chi non sa ride”, diceva Gigi Proietti.

“D’accordo, Gigi, hai proprio ragione”, diciamo noi. Bisogna saper apprezzare e gustare il bello della vita e affrontare con la migliore serenità il meno bello che inevitabilmente ci piomba addosso.

Ecco che ci troviamo a sfogliare un libro tutto dedicato a lui, ovvero: “Gigi Proietti. Archeologia della risata”, di recentissima uscita per i caratteri dell’editrice Sillabe di Livorno in collaborazione con Opera Laboratori di Firenze.

Curato da Paola Dei, scrittrice, pittrice, psicologa e Franco Mariotti, giornalista, regista, sceneggiatore, entrambi poliedrici operatori artistici in campo non solo cinematografico, il libro raccoglie una quarantina di testimonianze scritte, più una decina di disegni, a opera di pittori e pittrici, lo scultore Antonio Sodo, che lo hanno apprezzato nella sua veste di comico un po’

particolare, ma soprattutto come grande dispensatore di umana sensibilità.

Vi si trova un curioso saluto in romanesco dell’attore Piefrancesco Favino, un simpatico originale sonetto di Enrico Montesano, i ricordi di Alessandro Benvenuti ed Emiliano Mazzenga, una intervista di Gloria Satta ad Alessandro Gassman, il quale afferma: “Era il mio secondo papà”; e siamo solo all’inizio.

“Quando l’Italia intera ha appreso la notizia della morte di Gigi Proietti, qualcosa si è spento sui volti di ciascuno di noi.” Scrive Paola Dei nell’introduzione.

“Incredulità, sgomento e il vuoto dell’unica persona capace di farci ridere anche in tempo di Covid.” […]

“questo immenso attore romanista riusciva a cogliere

le piccole imperfezioni dell’essere umano e renderle arte pura: ironica elegante e divertente.” […]

Fra nomi più noti troviamo nel libro le testimonianze di Ugo Gregoretti, Matteo Garrone, Enrico Brignano, Carlo Verdone, Paola Cortellesi, Masolino D’Amico, per citarne alcuni.

C’è poi una attestazione del Rettore dell’Università di Tor Vergata, in quanto a Gigi Proietti è stato conferito il titolo di Professore Emerito Honoris causa per la sua alta qualità di attore di teatro e di cinema, regista teatrale, doppiatore e cantante. Questo lo colloca a pieno diritto fra gli artisti che esercitando con semplicità ma con rigore la propria professione, riescono a passare il testimone ai giovani e contribuiscono a stimolare la nascita di nuovi talenti. Del resto, come ha affermato il Rettore : “I giovani devono studiare il passato, disegnare il futuro e nutrirsi del presente.”

Una nota in calce: nel libro ci sono anch’io.

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Dallo stakanovismo al workaholismo

di Pasquale Tanzini Stachanov. Quello che per decenni fu il segno

distintivo della dedizione furiosa al lavoro, quello che fu chiamato stakanovismo, termine che deriva dal nome di un minatore russo nato agli inizi del ‘900 che, negli anni Trenta, divenne famoso (finendo persino sulla copertina di Time) come lavoratore- modello dell'URSS, in una miniera dell’Ucraina orientale (oggi Donbass), nel periodo che il regime stalinista puntava a trasformare

l’economia agricola in una potenza industriale, Stachanov fu un grande strumento di propaganda per il regime comunista. Ebbe una notevole notorietà, ma fino alla morte di Stalin. Nikita Chruščëv nel 1957 lo rimandò al suo paese d’origine, dove morì, vent’anni dopo, solitario ed alcolizzato, nonostante che nel 1970 avesse ricevuto la medaglia di Eroe Socialista del Lavoro, il più importante riconoscimento sovietico di quel tipo. Oggi questo significato è rimasto, spesso in

modo ironico, per riferirsi all’eccessivo zelo nello svolgimento particolarmente intenso e prolungato di un lavoro. In quei tempi erano ben presenti quelle ideologie che, assieme alla politica, sono andate progressivamente indebolendosi, fino ad arrivare alla completa esposizione ad ogni forma di deviazione sociale, poteri comunque forti in balia di spiriti sempre più fragili e soggetti ad ogni tipo di infezione collettiva. Cento anni dopo, un’altra malattia si aggira sulla testa delle gente che lavora, come uno spettro che fu caro a Karl Marx, ma non è il comunismo, non è il populismo, non è la pandemia (anche se per molti il Covid è stato un ottimo cavallo di Troia), è la sindrome di dipendenza dal lavoro, altrimenti detta workaholism, che poi è un disturbo ossessivo-compulsivo, un comportamento patologico di una persona troppo dedicata al lavoro

e che pone in secondo piano la sua vita sociale e familiare. Sino a causare danni a se stessa, al coniuge, ai figli. Letteralmente sarebbe l’ubriacatura da lavoro. Ma come, in una situazione generale così drastica, dove di lavoro ce n’è sempre meno, qualcuno ci si intossica? Con i redditi di cittadinanza a scialo, i part time a gogo, le risonanze delle casse integrazione? Ebbene, è proprio così. Non è difficile che, per chi ama il proprio lavoro non possa svilupparne, alla lunga, una dipendenza. A chi ancora un lavoro ce l’ha, anche durante la pandemia, chi ha una scrivania o un posto dove stare, lo sfrutta fino in fondo. Quindi non pare astruso il fatto che un’attività che ti dà da mangiare tu non la possa svolgere anche laddove tu mangi. Se uno si impegnava al massimo quando andava in ufficio, con il lavoro a domicilio oggi si perdono ancora più remore, diventa ancora più facile farlo in modo totalizzante, a scapito di tutti gli altri rapporti che la famiglia convive. Complice, naturalmente, l’accesso ad internet e all’informatica. La chiave, in questi due anni, è stata la parola magica del lavoro in casa, dello smart working, che letteralmente sarebbe lavoro intelligente. Adesso provo a smontare questa definizione, anche se da molte parti tutti stanno a pontificare che questo sarà il lavoro del futuro, che saremo tutti obbligati al lavoro dal domicilio. Bah.

Premesso che non c’è alcuna definizione di categoria per questo tipo di attività, poiché nella relazione tra vita e lavoro sono stati versati fiumi di parole, di lacrime e di sangue per garantire, nel secolo passato ed in tutta la società occidentale, condizioni di lavoro che migliorassero le condizioni stesse, prima mitizzando il lavoro e poi smitizzandolo, ma regolandolo comunque dentro comportamenti sociali stabiliti, garantito da leggi lavorative, sia che riguardassero il direttore della banca o il più umile fattorino, essendo entrambi lavoratori, pari a quelli che vanno in fabbrica. Anche con questa situazione di impasse il lavoro torna ad essere lavoro, nonostante che una parte della società prema per dei redditi minimi che affrancherebbero la gente dal lavorare, in nome una società che socialmente dà poco, ma che poco pretende dai cittadini, magari in questo modo maggiormente disposti a diventare

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sudditi e succubi, una specie di elemosina sociale in cambio della libertà e della dignità. Quello che inizialmente pareva essere una necessità primaria, questo concetto e questo agire progressivamente è stato elaborato(dopo quasi un anno e mezzo di lockdown, oggi più del 50% dei dipendenti delle grandi imprese lavora in remoto, si tratta di più di 5 milioni di persone, con punte di 6.5 milioni) diventando, lo smart working, un modello di cambiamento, a spingere verso un modello di impiego “ibrido”, superando il concetto di “lavoro in presenza” (le relazioni interpersonali, il senso di appartenenza, il potenziale del lavoro di gruppo) collocando il lavoro “in remoto” (più efficienza, risparmio di tempo per gli spostamenti, maggior gestione degli impegni lavorativi). Ma. A tutto questo c’è anche un ma. Anche se sta sottilmente transitando nell’opinione corrente che tutto ciò possa essere una percorso praticabile, magari cavalcando ragioni contingenti e maggiormente ragionevoli, come quella sanitaria, o come per esempio quello è accaduto con la scuola, dove la Dad, la didattica a distanza, ha preso (giustamente) sempre più piede, non perché sia migliore, ma perché aumenta la necessità di proteggersi, cosa che vale per tutti, La scuola che fa lezione in remoto è iniziata per necessità, ma determina anche la progressione, vedasi fenomeni comparati come l’università telematica. Adesso sviscerare questo concetto però porterebbe lontano, restiamo sul lato opposto, quello dell’eccesso. Sicuramente a Stachanov non sarà mai capitato il fenomeno del burnout, così come viene definita questa sindrome, che deriva il proprio nome dall'espressione inglese

«to burn out», ovvero «bruciarsi, esaurirsi». Il burnout è uno stato di esaurimento sul piano emotivo, fisico e mentale, in genere prodotto dal superlavoro, dal “non staccare mai”. E questo tende a succedere ancor più adesso, quando il lavoro a casa è sempre presente, richiede attenzione continua, in nome di una libertà da schemi e regole lavorative ma che produce invece prigionia mentale, portando

all’esaurimento. Chi è intossicato dal lavoro, o dalla continua concentrazione, dimostrando impegno a livello professionale, si carica invece di stress, spesso a causa di una logica perdita di equilibrio tra vita lavorativa e vita privata. Una specie di sbronza da lavoro, un primo segno di degenerazione dovuto all’impegno continuativo e costante, che tiene di poco conto i bioritmi, le pause, gli intervalli necessari a non esplodere, o implodere, che è lo stesso, come avviene per il burnout. Sembra banale, ma è pericoloso, occorre una modifica della forma mentale, riuscire a staccarsi dalla prigionia della continuità sfibrante. Non quella dettata dall’urgenza e dalla necessità (l’esempio è stato, nei due ultimi anni, il personale sanitario e ospedaliero, sottoposto a strettissimi turni nel luogo di lavoro, una presenza in trincea), mentre se tutto questo accade quando crediamo di aver raggiunto una migliore condizione di lavoro, più libera perché sganciata dalla routine, accade che questa ci avvolga completamente, finendo per creare un danno maggiore della stanchezza, del troppo impegno, dell’applicazione senza sosta. Tutto questo, restando dentro alla

propria abitazione, a detrimento degli spazi da dedicare alla famiglia, ai figli, al vivere ordinario, alle necessità quotidiane. Sembra un aspetto minoritario, ma pervade sempre più coloro che si sentono in dovere di dare sempre il massimo, per ambizione, per carriera, per dimostrare bravura e capacità operativa.

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INGLESI A FIRENZE 2° parte

di Federico Napoli

Signor padrone - dice un inserviente al direttore dell’albergo - sono arrivati degli inglesi, ma non ho capito se son russi o tedeschi.

Così scrive Carlo Collodi ne Gli ultimi fiorentini e poi specifica: Qui a Firenze di lingue se ne senton tante, così il popolo cerca di farla semplice chiamando inglese qualunque forestiero. Del resto, gli stranieri di oltre Manica sono sempre stati i più e illustri per giunta.

Questo breve passo dice molte cose sulla presenza degli inglesi a Firenze. Qualche numero fa è già comparso un articolo su questa comunità presente a Firenze, vista attraverso le tante tracce architettoniche che ha lasciate in città; oggi concludiamo l’argomento (almeno parzialmente) ricordando alcuni tra i personaggi inglesi giunti a soggiornare a Firenze.

E’ alla fine del XVI secolo in piena era di Elisabetta I che nasce proprio in Inghilterra l’idea del viaggio in Italia come mezzo di istruzione, ma è due secoli dopo che questo diventa di moda, vero “pellegrinaggio” culturale - ricordiamo di Goethe Viaggio in Italia -: mete preferite sono Roma, Venezia, Firenze, poi quest’ultima nel XIX secolo diventa il luogo del sogno neomedioevale - nel precedente articolo indicavo, ad esempio, i quartieri a cavallo fra Otto e Novecento costruiti secondo questa gusto -, così nasce il mito della città del giglio (Mattinate fiorentine di John Ruskin). In questa “città ideale” gli inglesi si attestano in particolare fra Porta Romana - via Maggio - Santa Trinita oltre che a Bellosguardo e intorno al viale dei Colli.

Su tutti, ricordiamo la coppia di poeti inglesi Elisabeth Barrett e Robert Browning, in fuga dalla madre patria per un matrimonio contrastato dalla famiglia di lei, che scelgono Firenze perché città dove (allora) è basso il costo della vita. Prendono residenza a Casa Guidi - all’inizio di via Maggio - e apertamente parteggiano per le idee risorgimentali. Elisabeth viene sepolta a Firenze al Cimitero detto degli inglesi. Non lontano in via Romana, quasi alla Porta, abita Jessie White Mario, figlia di armatori britannici, garibaldina e amica di Mazzini, nettamente contraria al trasferimento della capitale a Firenze. Stessa zona, ma in via dei Serragli dopo il 1908 vede operare nell’ambito dell’Arena Goldoni (oggi ex cinema) Edward Gordon Craig, figlio dell’attrice Ellen Terry, ideologo e riformatore del teatro, editore incisore attore scenografo regista. La sua presenza dura pochi anni, allontanandosi dalla città ancor prima che finisca la Prima guerra mondiale, ma la sua influenza sul teatro contemporaneo riformato è decisiva.

Dall’altra parte della città, intorno alle falde del gruppo montuoso di Morello, trova la sua ideale abitazione a

villa La Pietra Harold Acton, storico scrittore e critico d’arte, sepolto al Cimitero degli Allori; oppure Frederick Stibbert collezionista (il Museo omonimo) e sognatore di un nuovo medioevo, come il precedente di origine anglo- italiana.

Sulla falsariga di un passato che ritorna rinnovato, si collocano per brevi ma ripetute presenze in città anche artisti come Burne-Jones, preraffaellita, che è in Firenze con William Morris nel 1873; oppure l’economista William Spence che abita a Villa Medici (Fiesole); c’è chi preferisce stabilirsi sui colli come lo scrittore Nathaniel Hawthorne, di lingua anglofona ma statunitense (villa Montauto di Bellosguardo), chi nel centro città come il londinese William Holman Hunt pittore preraffaellita che ha studio in lungarno Acciaioli, chi infine predilige un albergo (in via Tornabuoni) come la scrittrice britannica George Eliot. E ancora: Walter Savage Landor ammiratore delle opere dell’Alfieri e sostenitore della spedizione dei Mille; Frances Trollope, scrittrice, convinta ammiratrice dei Lorena e dell’atmosfera democratica da loro introdotta in Toscana a somiglianza di quella della madre patria, sepolta al Cimitero detto degli inglesi; ultimo in questa breve panoramica fra la fine del Settecento e l’inizio del Novecento, il collezionista e storico dell’arte Herbert Percy Horne (a Firenze lascia la propria collezione facendo nascere il museo omonimo).

Dopo tanti personaggi provenienti d’oltre Manica e rimasti più o meno a lungo in città - dove dal 1917 ha sede il British Institute -, è naturale che nel film Un tè con Mussolini del regista fiorentino Franco Zeffirelli accanto a Luca, protagonista, si muova e agisca come co- protagonista proprio un gruppo di simpatiche e decise signore inglesi.

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Anche il Dopolavoro è solidale con le donne

di Giovanni Russo

Il 25 novembre scorso è stata la giornata per l’eliminazione dello stalking e della violenza contro le donne. Ancheil Dopolavoro Ferroviario di Firenze ha voluto significare la sua compartecipazione a una scelta di importanza specifica per esseri uguali, uomini e donne.

Alle ore 15.22 è stata collocata, in uno spazio all’interno della nostra sede, una panchina che ricorda l’impegno morale che ognuno dovrebbe assumere per abbattere questa pratica abnorme.

Un paio di scarpe rosse collocate sulla panchina ribadiscono ulteriormente l’indirizzo politico preciso, il colore rosso, originariamente simbolo dell’amore e della passione, oggi evidenziato come un segnale di allarme contro ogni forma di violenza sulla donna.

Le scarpe vuote sono un meme al femminicidio, raccontano un vuoto, una donna che è ne è rimasta vittima.

E’ ora operativo h24

il numero

telefonico di richiesta d’aiuto, il 1522, voluto dal Dipartimento per le Pari Opportunità del Governo, questo a conferma dell’impegno della presidenza del Consiglio. Abbiamo voluto significare, con un piccolo gesto nel nostro giardino, la nostra completa adesione a questa iniziativa, speriamo sia un augurio, il nostro, di trovare in giro per la

città sempre più panchine rosse, non solo nei parchi pubblici, ma anche negli animi comuni.

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Ma Gabriele D’Annunzio era il Superuomo di Nietzsche?

di Pasquale Tanzini La Conferenza di Pace di Parigi

Il rappresentante dell’Italia, (sulla carta vincitrice della Grande Guerra), Vittorio Emanuele Orlando, si sedette, assieme alle potenze dell’Intesa, al tavolo delle trattative di pace il 19 gennaio del 1919, assieme ai grandi della terra: David Lloyd George per l’Inghilterra, Georges Clemenceau per la Francia e Thomas Woodrow Wilson per gli Stati Uniti. L’America era uscita dal suo isolazionismo, decidendo di entrare in guerra, solo quando l’opinione pubblica chiese fortemente di riscattare le morti ingiuste dei numerosi connazionali affondati a bordo del transatlantico inglese Lusitania, abbattuto dai sommergibili tedeschi. Wilson, ventottesimo presidente Usa, prima di entrare nel conflitto, proclamò i suoi celebri 14 punti, ovvero quali erano gli obiettivi, oltre a ciò che si aspettava tutta l’America, una volta finita la guerra. Di tutti questi punti erano particolarmente importanti: il nono, riconosciuto come l’autodeterminazione dei popoli (che si rivelerà molto svantaggioso per l’Italia), ed il quattordicesimo, che sanciva, finito il conflitto, l’istituzione della Società delle Nazioni, organo col compito di

favorire il dialogo anziché il ricorso alle armi per le questioni internazionali.

Quando, nel Congresso, fu data la parola ad Orlando, il nostro presidente del Consiglio, che era accompagnato da Sidney Sonnino, il nostro Ministro degli Esteri, rivendicò nella ripartizione dei territori Trento, Trieste e la Dalmazia, territori che gli erano stati promessi, nel caso di vittoria, nel patto firmato segretamente il 26 aprile 1915 a Londra.

Chiese anche Fiume, territorio sulle coste dell’odierna Croazia, che aveva

espresso già la volontà, nell’ottobre del 1918, d’essere annessa al Regno d’Italia. Fiume era contesa anche dalla Jugoslavia. Wilson riteneva, in base al principio di

nazionalità, che prevedeva la ripartizione dei territori sul

criterio del possesso della stessa cultura, delle tradizioni, della lingua, della storia e della religione, ritenendo che non spettassero alla nostra nazione né la Dalmazia né Fiume, (nella foto Gabriele D’Annunzio e i suoi volontari a Fiume) che non considerava di cultura italiane ma slave, ma solo Trento e Trieste. Dopo diverse proteste, nulla ottenendo, in segno di malcontento sia Vittorio Emanuele Orlando che Sidney Sonnino abbandonarono la conferenza di pace. Era il 24 aprile 1919. I nostri rappresentanti, una volta rimpatriati, trovarono una folla acclamante, con scritte che inneggiavano al loro gesto. In realtà quella era stata una mossa avventata, poiché causò l’esclusione dell’Italia da tutte le successive operazioni di spartizione dei territori. Fu così che il Vate, Gabriele D’Annunzio, divenuto il poeta soldato, coniò l’immagine della “Vittoria mutilata” per l’Italia, orfana delle terre promesse, ed incitò i giovani a creare un corpo di volontari al grido di: “O Fiume, o morte”. Gli risposero in 9 mila, per lo più ex Arditi della Grande Guerra, ragazzi distintisi per il coraggio e l’amore per il rischio e per il pericolo. A questi erano state affidate le missioni più pericolose, come tagliare di notte il filo spinato nelle trincee nemiche per facilitare l’avanzata del proprio esercito il giorno successivo. Altri erano ex ufficiali della classe

media. Questi giovani accolsero con entusiasmo la chiamata, perché il poeta, a guerra finita, offriva loro un’avventura

supplementare. Così, alla testa dei suoi uomini,

D’Annunzio occupò

militarmente Fiume, nel settembre del 1919, dove si distinse per il suo carisma. Vi rimase circa un anno,

applicando la Carta del Carnaro e, giornalmente, si 10

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affacciava al balcone per leggere un bollettino e incitare i suoi uomini a perseverare. La Carta del Carnaro, promulgata il 30 agosto 1920, rappresenta

il culmine dello slancio rivoluzionario fiumano. Era la costituzione di uno Stato libero che identificava nella libertà e nell'arte i valori fondamentali della vita di ogni individuo. D’Annunzio coniò anche dei motti celebri. Agli acculturati in latino gridava: “Memento audere semper”, Ricordati di osare sempre. I figli del popolo li fomentava rispondendo a chi gli presentava le lamentele internazionali:

“Me ne frego”. E a conclusione di ogni incontro, tutti insieme gridavano lo slogan:

Eia Eia alalà” che in apparenza non voleva dir nulla, ma aveva la funzione di unirli, psicologicamente, in una sorta di tribù

combattiva. La questione di Fiume si risolse nel novembre 1920 con il Trattato di Rapallo, stipulato tra l’Italia, rappresentata da Giovanni Giolitti, al suo quarto mandato, e il governo jugoslavo. All’Italia andava l’Istria e Fiume fu dichiarata città libera. D’Annunzio disapprovò l’azione giolittiana e a dicembre ancora non sgombrava il territorio dai suoi soldati. Fu così che Giolitti mandò contro i volontari di Fiume l’esercito italiano, creando sdegno tra gli ex combattenti e i nazionalisti. D’Annunzio su questo atto avviò una feroce polemica con Giovanni Giolitti. Furono in molti, tra gli studiosi, a vedere in lui l’incarnazione del Superuomo di Nietzsche. Tra gli interventisti italiani della Grande

guerra c’era anche un gruppo di intellettuali che si identificavano, pur se in una forma semplificata e banalizzata, nella filosofia di Nietzsche del Superuomo. Ai loro occhi la società moderna non lasciava più spazio agli individui forti e geniali, schiacciati dalla mediocrità delle masse che imponeva loro un’esistenza piatta e meschina,

più simile a quella degli animali che a quella di esseri umani degni. A capeggiare questo gruppo c’era Gabriele D’Annunzio, il Vate, che già nella sua opera Il piacere criticava il suo tempo, quello che non lasciava più spazio agli eroi. Gabriele D’Annunzio tentò di trasformare la sua vita in una ricerca continua di esperienze forti e di nuove emozioni, in antitesi con la morale corrente. Si era distinto, durante la Grande Guerra. compiendo imprese spettacolari, come il siluramento delle navi austriache nel porto di Buccari e il volo su Vienna. Fu inventore di quella liturgia di massa che tanto faceva amare le sue iniziative. Mussolini lo guardava con palese diffidenza, non permettendogli l’accostamento al partito Fascista, potendo essere, il Vate, un suo valido antagonista come leader totalitario.

Anche i protagonisti dei romanzi di D’Annunzio

rispecchiavano le sue idee, di esseri che emergevano sugli altri, uomini capaci di trasgredire, di vivere una vita intensa, piena di emozioni e sensazioni. Lui stesso, abile amatore, si barcamenava tra mille donne, nella costruzione del suo Vittoriale fece dell’Estetismo un’icona di stile.

Dunque era: abile poeta, romanziere, casanova, militare, uomo dalla personalità poliedrica, che in gioventù era stato anche violinista, davvero poteva essere la concretizzazione del tanto idealizzato Superuomo della filosofia di Nietzsche? Nel pensiero del filosofo tedesco il Superuomo ha delle caratteristiche precise. E ’l’uomo che è abbastanza forte per sopravvivere alla notizia della morte di Dio. E’ colui che sceglie sempre lo spirito dionisiaco, ovvero che dice sempre di sì alle sfide della vita, non perde tempo a riflettere, agisce, senza temere le contraddizioni. E’

l’essere che riesce a vincere il ribrezzo per l’eterno ritorno dell’uguale. Che riesce a resistere al caos, alla mancanza d’ordine, di leggi e di punti di riferimento, cioè i frutti tipici del nichilismo. Ha un animo da fanciullo che non teme di affrontare la vita come un gioco. E’ l’uomo che alla morale del “Tu devi” sostituisce quella dell’“Io voglio”. Il Superuomo è colui che insegna la volontà di potenza non con le parole ma con l’esempio. E’ così che riesce a far nascere una stella danzante dal caos. Se in alcuni aspetti la figura di D’Annunzio potrebbe essere rapportabile a quella del Superuomo, manca l’aspetto più peculiare, quello che si desume dall’aforisma del paesaggio lunare illustrato dal filosofo nella sua opera Così parlò Zarathustra. Il dettaglio che fa comprendere l’essenza del Superuomo è che il pastore, protagonista di questa metafora, scampato a morte certa dopo che un serpente, mentre dormiva, gli era entrato in bocca, e che si era salvato da solo staccando al rettile la testa con un morso, reagendo al suo nefasto destino, sorride come non aveva mai fatto nessun uomo al mondo. E’ in quel sorriso che si evince che in realtà il Superuomo di Nietzsche non c’è mai stato.

Anche chi sopravvive alla selezione naturale darwiniana, diventando l’esponente più elevato del genere umano, il frutto più alto dell’evoluzione, non sarà mai un Superuomo. Quindi, la risposta è “No”, D’Annunzio non era il Superuomo di Nietzsche. Era un uomo

“Superlativo”, cioè uno dei migliori uomini di quel tempo. Ma un uomo Superlativo resta un uomo, non è il Superuomo.

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Il treno speciale "Connecting Europe Express"

per il futuro del nostro pianeta

di Stefano Boni

Dipartimento Trasporti e Infrastrutture Cisl Toscana

Sempre di più il dibattito politico e civile si proietta verso lo sviluppo sostenibile, ma soprattutto su come salvaguardare l’ambiente per i prossimi anni, senza fermare l’industrializzazione e la modernizzazione del Mondo, senza mettere a repentaglio il futuro delle nuove generazioni. Nel 2021 si è parlato molto della sostenibilità ambientale in vari convegni nazionali, ma soprattutto in Europa e nel Mondo e anche in questi giorni, i primi di novembre 2021, nella Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici svoltasi a Glasgow (Cop26), dove, nonostante si sia raggiunto un accordo, lo stesso non è come si era ipotizzato con l’eliminazione dell'energia derivante dallo sfruttamento del carbone, ma semplicemente con la dizione

"ridurre gradualmente” il che dimostra come sia difficile conciliare tutte le posizioni. Per quanto riguarda l’Italia vi sono ancora sette centrali a carbone per la produzione di energia elettrica, poco più del 6% del fabbisogno nazionale, molto inquinanti, con emissioni di anidride carbonica (CO2), sostanze nocive per la salute che, secondo i piani del Governo dovrebbero essere tutte dismesse, o nell’eventualità, alcune riconvertite in centrali a gas entro il 2025. Non bisogna scoraggiarsi ma insistere e convincersi che il bene del pianeta, l’ambiente a misura di persona, lo sviluppo eco-sostenibile sono più importanti dello sfruttamento infinito delle risorse naturali e della consunzione del nostro eco-sistema che abbiamo ereditato dai nostri nonni.

Su questo tema e nel nostro piccolo, vogliamo portare la vostra attenzione sul sistema dei trasporti delle merci e delle persone, che rappresenta una delle vere sfide per i prossimi anni, tant’è vero che su questo tema si è posta particolare attenzione anche nella Commissione Europea che ha proposto il 2021 l’anno speciale dedicato alle ferrovie. Tale proposta è stata accolta dal Parlamento europeo nell’ambito della sostenibilità ambientale; promozione di mezzi di trasporto ecologici con l’obiettivo di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 secondo il Green deal europeo.

Il trasporto ferroviario ha senza dubbio dei vantaggi, non solo per chi deve andare in vacanza ma anche per gli “affari”, per i pendolari, per gli studenti, insomma per molteplici tipologie di servizi. La ferrovia ha in gran parte linee elettrificate ed emette molta meno CO2 carbonio, rispetto ad un viaggio equivalente su automobile, camion o aereo; infatti rappresenta solo lo 0,4%

delle emissioni di gas ad effetto serra dei trasporti dell’UE. Inoltre, è l’unico mezzo di trasporto che tra il 1990 e il 2017 ha ridotto costantemente le proprie emissioni e il consumo di energia, utilizzando sempre più fonti di energia rinnovabile e mantenendo nel complesso tariffe competitive sia per i viaggiatori che sul trasporto merci in Europa.

Un banco di prova per il trasporto ferroviario che deve assolutamente ricomprendere non solo quello delle persone ma concentrarsi e svilupparsi soprattutto su quello delle merci. Su questo tema purtroppo non ci sono dati confortanti.

Nonostante che la ferrovia colleghi zone molto distanti dalle principali città commerciali, garantisca un collegamento sicuro e costante fra i vari paesi Europei, solo il 7% dei passeggeri e l’11%

delle merci viaggiano su rotaia. Infrastrutture da ammodernare, scartamenti (distanza del binario) diversi, modelli di sviluppo non sempre all’altezza 12

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delle sfide e costi della manutenzione molto elevati, sono solo

alcuni degli ostacoli da rimuovere per poter costruire uno spazio ferroviario europeo unico.

Oggi il trasporto su strada rappresenta l’80% del totale delle merci trasportate; una parte significativa di questa percentuale

dovrebbe essere spostata sul vettore ferroviario o di navigazione.

Questo è possibile solo se vi sarà una politica ambientale dove gli indirizzi dell’Europa di concerto con quella dei singoli stati metteranno in campo politiche che facilitino, anche con incentivi, il trasporto ferroviario.

Quindi una sfida a tutto campo dove le ferrovie possono diventare un vettore strategico per ammodernare, anche in tema ambientale il nostro Paese. Favorire

le aree più svantaggiate partendo con investimenti infrastrutturali dove si progettino e si realizzano nei tempi previsti (vedi nuovo ponte dell’autostrada San Giorgio a Genova) le opere previste, partendo dal nostro mezzogiorno attraverso i finanziamenti derivanti dal PNR, mettendo al centro il digitale e l’economia ecosostenibile. Progetti del resto anche previsti in sede Europea come “Sustaibable and Smart Mobility Strategy”, economia sostenibile, intelligente e resiliente attraverso il raddoppio del trasporto merci per ferrovia oltre a triplicare quello passeggeri AV.

Ecco allora l’iniziativa Europea con il treno speciale "Connecting Europe Express", in concomitanza delle norme contenute nel quarto pacchetto ferroviario (‘Fourth Railway Package’), con l’obiettivo di realizzare una rete unica attraverso la rimozione di vari ostacoli, sia dal punto di vista tecnico che legale, per una crescita e sviluppo nel solco della sostenibilità ambientale.

Il treno è partito dalla stazione di Lisbona il 2 settembre 2021 per toccare 26 Paesi e con 100 fermate e l’ultima è stata il 7 ottobre a Parigi.

Anche l’Italia è stata interessata dal Treno Europeo con fermata il 5 settembre a Torino Porta Nuova poi Milano, Genova e capolinea Roma. Il treno è poi ripartito l’8 settembre vero il nord toccando Nogara, Verona Porta Nuova e Bolzano

e via verso il Brennero. Durante il percorso e nelle varie fermate tante iniziative aperte al pubblico con dibattiti, conferenze e quant’altro. Il tutto ha

rappresentato un punto di osservazione di tanti operatori dell’industria, del trasporto delle merci e anche dei semplici cittadini.

Per essere precisi, il Treno “Connecting Europe Express”, a causa appunto delle differenze di scartamento esistenti in Europa, in realtà era composto da tre treni – iberico, standard e baltico – che si sono succeduti durante il percorso. Il tutto a dimostrazione del fatto che, quando le cose si vogliono fare, si riesce a superare tutti gli ostacoli mettendo a disposizione la piena collaborazione di tutti i paesi europei per un bene superiore. Il treno era formato da diverse carrozze e da varie compagnie ferroviarie europee, anche l’Italia ha partecipato alla formazione del treno con una carrozza ristorante.

Il futuro tracciato è il treno. Il trasporto ferroviario è lanciato verso il futuro e la crescita sostenibile, nonché verso quello sviluppo che metta al centro il bene dell’ambiente e la salvaguardia del nostro pianeta, che deve essere tramandato alle nuove generazioni nel miglior modo possibile.

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Saint Tropez, adieu.

Le elezioni 2022 cambieranno la Francia

di Pasquale Tanzini

Conosco abbastanza bene la realtà della Costa Azzurra, per via della casa delle vacanze estive, dove per quasi trent’anni ci ho fatto il villeggiante.

L’autostrada da Ventimiglia, un sacco di pedaggi- elemosina, prendevo l’uscita 36, quella che porta a St. Tropez, fermandomi dopo qualche chilometro.

Quando poi, oltre a giocare al villeggiante, facevo pure il turista, primo obbligo era St. Maxime, (c’è sempre, solo 20 euro, un restò-moules&frites a volontè). Poi, la voglia di tornare là, dall’altra parte del golfo, oltre Port Grimaud, come per un tributo a Brigitte Bardot. Per uguagliare lo snobismo francese mi adatto, solo per poter dire a tutti che arrivo a St.

Tropez via mare, ci vado in barca. Prendo il traghetto da St. Maxime, mi porta alla modica cifra di soli dieci euro, mi scarica proprio davanti alla passeggiata sul porto, nessun problema di parcheggio. Quando i miei ragazzi guardavano i film di Louis de Funes, ogni anno ci facevamo pure la foto davanti alla vecchia Gendarmerie Nationale, anche questa era tappa obbligatoria. Ma oggi questa Francia non c’è più, i posti come questi sono ormai delle enclaves, luoghi santificati al turistificio (avete presente la strada per arrivare a Portofino?), la finestra che tutti vorrebbero guardare e dalle quale tutti vorrebbero affacciarsi, anche se l’arrivarci ti spezza le gambe. Nel panorama della Provenza, oggi queste realtà oggi sono mosche bianche, eccezioni ormai, rispetto alla realtà corrente dei paesi subito all’interno della costa (e più si risale, peggio mi sento). Eppure i segni c’erano, eccome se c’erano, di questa fine annunciata, delle ipotesi che si sarebbero poi realizzate. Ricordo ancora benissimo una scritta, la prima che mi colpì, venticinque e passa anni fa.

Appena usciti dall’autostrada, si passa al di sotto con una curva a U, per andare verso il mare. Il viadotto recava una scritta a caratteri cubitali, fatta con catrame o vernice: “Le Pen ou l’islam”. In quegli anni Le Pen era poco più che un personaggio folcloristico (benda all’occhio, retorica esasperata), ma l’ignoto graffitaro ebbe una preveggenza micidiale. Non ricordo più se il tempo l’abbia cancellata, questa scritta, ma la ricordo benissimo che mi colpì, anche perché sotto al quel viadotto risiedeva stabilmente, in un camper sempre parcheggiato in quell’ombra confortevole, una

“Mademoiselle”, c’è rimasta per molti anni, credo fosse una Boccadirosa che lavorava in proprio, ed ogni volta che passavo da lì, sorridevo all’idea che

“ricevesse” sul posto. Ma, come dicono proprio i nostri cugini d’oltralpe, tout passe, tout lasse, tout casse. Con lo scorrere dei lustri, però, tutti i luoghi lì intorno si sono prima svuotati e poi riempiti, sono spariti i francesi del tipo stanziale e tutti, dico tutti, quei paesi della Provenza si sono riempiti di altri francesi, neppure più pied noir, ma di un altro tipo, di quelli che girano con le mogli col capo coperto.

Nel village di Le Muy (10.000 abitanti) tutti i supermercati hanno cambiato insegne, il mercato domenicale risuona di voci e lingue sconosciute, lungo la strada c’è una macelleria halal. I tutti questi piccoli paesi, un tempo tipici, i negozi hanno abdicato ai nuovi padroni di quei luoghi: Les Arc, la Motte, Trans in Provence, Puget, Roquebrune, Draguignan, tutti quei villages che si trovano un poco all’interno rispetto al mare, hanno perso tutte

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le loro caratteristiche precedenti. L’ho verificato personalmente, girando all’interno della regione, di originaria è rimasta solo la lavanda. Sulla litoranea ancora resta una dominante autoctona, che vive prevalentemente di villeggiature, ma all’interno, è una palingenesi totale. Anche la denominazione è variata, adesso si parla di Region PACA (acronimo di Provence- Alpes Maritimes- Cote d’Azur), un assembramento di realtà un tempo differenti, oggi accomunate da esigenze simili. Questo anche per stigmatizzare cosa avviene nel tessuto connettivo

delle comunità locali del sud della Francia, mentre in altre realtà, anche molto più grandi, la discrasia è ancora più drammatica e drastica. Le cartoline che ricordiamo, Nizza italiana, Garibaldi, la Belle Epoque, i principi russi in esilio, il mito della Costa Azzurra. Solo letteratura, tutto spento, tutto finito.

Oggi, nell’immaginario collettivo generale, tutte le

città sembrano un’appendice di Marsiglia. Dietro la facciata mitica della Costa Azzurra, ci sono i ghetti di Nizza, di Cannes, di Marsiglia stessa, dove le contraddizioni sono esasperate, dove è saltato ogni rapporto di proporzione tra gli abitanti e ogni regola di civiltà reciproca. La tragedia della strage sulla

“Promenade des Anglais” nel 2016 non fu altro che una tragedia annunciata, il brodo di coltura del terrorismo e della Jihad da anni stava ribollendo lungo questa nuova regione, laddove l’Isis, o ciò che altro sia, aveva già affondato i suoi tentacoli avvelenati. Tanto da far apparire i terroristi islamici un frutto coltivato nell’orto della multiculturalità locale e non dei mostri mitologici arrivati da altrove, ma allosauri che devastano l’orto stesso dove vivono. L’opinione pubblica tende a classificare in uno stereotipo l’alieno che arriva e distrugge, ma pare solo un modo per deviare l’attenzione al pesante fenomeno del fondamentalismo religioso. E l’immagine che la politica dà per la mediazione, per il superamento di queste situazioni è sempre più ridicola, oltre che drammatica. Ogni competizione politica si è radicalizzata, al pari delle problematiche sociali cui deve assolvere. La sinistra ed il centro nel sud della Francia sono praticamente scomparsi, la scena locale è praticamente occupata dalla destra dell’Ump (Union pour un Mouvement Populaire) e dall’ultradestra del Front National, forze politiche che da anni si contendono il potere locale con parole e slogan simili e sempre più drastici, al confronto dei quali il nostro Salvini pare una suorina novizia. E questo scenario sembra che si espanda, risale verso il nord, oltre il Massiccio Centrale, verso la bonifica completa del territorio. Ho anche visto le periferie di Parigi, les banlieues, una realtà tremenda. In tempi brevi avremo, in Francia, paese della libertà, uguaglianza e fratellanza eccetera, un movimento xenofobo che approderà al governo. Il Font National oggi è il primo partito, ad aprile ci saranno le lezioni presidenziali, la leader nipote di Le Pen, Marine le Pen, sta aguzzando il palo, assieme a Eric Zemmour (pericolosissimo), l’uno contro l’altra, entrambi contro Macron. Questo

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potrebbe significare la fine di settant’anni di pace, lo sgretolamento di un’Europa pacifica e tollerante. Non abbiamo, in Italia, una realtà simile, avremo già un nuovo presidente quando i francesi si scanneranno. Noi giochiamo con le banali contraddizioni dei migranti, acqua da occhi rispetto a chi vive in una realtà esplosiva. Pur se anche noi abbiamo contribuito, negli anni, con grillismi e leghe, a tenere accesa la fiamma dell’antagonismo, mentre in Francia les gilet jaunes sono partiti

con una fiammata improvvisa e recente, alimentata da anche altre tensioni sociali. Mentre da noi non ci sono realtà meteche condizionanti, per la ora Francia sarebbe, di fatto, con un’elezione antagonista, a far risultare vincente l’islamismo, condizionando, in un modo o nell’altro, la politica di Parigi, la politica del vivere comune, imponendo progressivi cambiamenti di regime, evento impensabile in tempi ordinari, con circostanze che non vengono dominate dalla tragica realtà nella quale i francesi sono immersi. Per adesso (aggiungerei: per fortuna nostra), solo Inghilterra e Francia hanno condizionamenti sociali così drastici, noi abbiamo realtà che non vivono ancora le preoccupazioni che hanno oltralpe, e risulta difficile comprendere che in altri paesi a noi vicini c’è ancora una fazione di novelli imbecilli nazistoidi e pazzi che ha preso in ostaggio una religione normalmente indirizzata all’intima preghiera, quella che un miliardo e mezzo di islamici nel mondo, persone che vivono normalmente, che amano la pace, che rigettano ogni tipo di violenza, che vogliono solo pregare. Non è la stessa religione che predica la sottomissione, l’intolleranza, la brutalità, occorre distinguere tra chi prega e chi spara, ed agire di conseguenza. Alla faccia di tutti i buonisti, di quelle anime belle da salotto che criticano il nostro essere, poiché, bene o male, ci riteniamo ancora una civile democrazia, compresi quelli che dopo l’11 settembre sentenziavano che non dovevamo imporre i nostri valori credendoli universali. Ma la Francia (assieme ad altri Paesi) non può continuare all’infinito a deporre fiori sulle macchie nell’asfalto, attaccare biglietti alle piante lì accanto, a lasciare orsetti di peluche e candele accese sullepanchina macchiate di sangue. I fatti, nudi e crudi, vanno affrontati, anche se ci sentiamo tutti (troppo)

buonisti e tolleranti. Mentre Londra nicchia (dal 1982 ha un’inquietante realtà parallela, in Gran Bretagna ci sono dozzine di tribunali islamici che legiferano e emettono verdetti sulla base della sharia, la legge islamica), Parigi e la Francia tutta si è irrigidita al proprio interno, soffia un vento populista e xenofobo che alza folate di intolleranza, lasciando ampi spazi a quella che un tempo era semplicemente la destra. In Italia abbiamo un grosso vantaggio, non ci sono terze generazioni di islamici radicati nel tessuto sociale, come è oltralpe, la nostra realtà non soffre quel malessere sociale che altrove è diffuso, gli islamici che stanno qui da noi in genere non vedono il faro della rivoluzione e delle logiche fondamentalistiche, forse qui pesa ancora abbastanza il significato della nazione che illumina il mondo, esportatrice di valori come la libertà, anche attraverso la tolleranza e la perdita dell’obbligo religioso, la difesa i diritti comuni, la progressiva perdita di frontiere. Forse i nostri residui di colonialismo sono lievi, un impero non ce l’abbiamo mai avuto, anche se abbiamo le nostre colpe storiche non abbiamo distrutto civiltà come fecero Belgio, Inghilterra e Francia (e Spagna e Portogallo, ma più lontano). Invece, per quelli che oggi hanno pretese universalistiche tramite la religione, non possono che vedere nella Francia un rivale, un antagonista da abbattere. Noi, anche se più contorti, avevamo fatto più strada, eravamo partiti da molto più lontano, la Chiesa di Roma è stata un faro per molti uomini, in tutto il mondo. La Francia oggi è di gran lunga il paese più politicamente corretto d’Europa, quindi il più debole e il più facile da colpire, come è stato dimostrato. Ha la più grande comunità musulmana d’Europa, permette la doppia nazionalità, è il paese più sottomesso all’Islam, che assiste ad una guerra culturale portata da fondamentalisti (e genti in cerca di una causa identitaria). Occorre incrociare le dita, non solo per la Francia, ma per il futuro che sarà, anche quello nostro.

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TASK PROBLEMISTICI

di Fabio Magini

Il vocabolo inglese task, traducibile in italiano con “compito” o “sforzo”, indica in problemistica quei lavori in cui l’idea tematica, qualunque essa sia, viene presentata nel massimo delle sue possibilità di realizzazione. Tale “massimo” può riguardare il numero delle varianti, il numero delle mosse bianche, il numero dei matti dati da un singolo pezzo, e così via. Si tratta di autentici tours de force, come appunto i francesi chiamano questo tipo di problemi, che richiedono una non comune abilità costruttiva. L’aiutomatto del diagramma 1, opera del compositore svedese Henry Forsberg è uno dei plurigemelli per sostituzione di un pezzo nella stessa casa più famosi di ogni epoca.

1. H. Forsberg 1 pr., Revista Romana de Sah, 1934 Hm 2 A) diagramma; B) Ta6; C) Aa6; D) Ca6; E) Pa6

Soluzione: A) 1. Df6 Cc5 2. Db2 Ta4 ≠ ; B) 1. Tb6 Tb1 2. Tb3 Ta1 ≠; C) 1. Ac4 Ce1 2. Aa2 Cc2 ≠; D) 1. Cc5 Cc1 2. Ca4 Tb3 ≠;

E) 1. a5 Tb3+ 2. Ra4 Cc5≠.

2. M. Myllyniemi 1 pr., O. Kaila 50th Jubilee Tourney, 1966 A) Matto in 2; B) Sm 2; C) Hm2; D) Hp 2

Nel secondo task (diagramma 2), il noto problemista finlandese Matti Myllyniemi riuscì a fondere in un unico lavoro un problema diretto, un automatto, un aiutomatto e un aiutostallo, utilizzando nelle diverse soluzioni quattro differenti promozioni del Pedone e7. Un tour de force incredibile, classificabile con un solo aggettivo: stupefacente!

Ecco le soluzioni: A) 1. e8=C! e5 2. C:c7≠; B) 1. e8=A e5 2. Ac2 e4≠; C) 1. e5 e8=D 2. e4+ D:e4≠; D) 1. e5 e8=T 2. e4+ T:e4 stallo.

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3. N. Sardotsch Nuova Rivista, 1883 Matto in due mosse

Il task di Nicolò Sardotsch (1837-1898), pur avendo più di un secolo di vita, è ancora oggi insuperato: sette diversi matti in seguito ad altrettante catture di Donna nella stessa casa!

Soluzione: 1. De5!! (minaccia 2. De8 ≠). Se 1. … D:e5 (Cd:e5, Td:e5, d:e5, Tf:e5, Cg:e5, A:e5) 2. a8=D (Cb4, T:d6, e:d5, Ad7, Ce7, Tc7) ≠.

4. A. Chicco Dagens Noch., 1932 Matto in due mosse

Chiudiamo questa rassegna di problemi col lavoro di Adriano Chicco (1907-1990), compositore genovese di fama mondiale, che presenta il task di cinque interferenze nere sulla stessa casa, realizzato con appena 15 pezzi in una posizione ammirevole: un’impresa mai più riuscita a nessuno. Soluzione: 1. Ag1! (minaccia 2. Tc5 ≠). Le difese nere provocano le cinque interferenze nella casa e3: 1. … e3 (Ae3, Te3, Cfe3, Cge3) 2. Dd3 (D:a2, Dh5, D:d2, Cf4) ≠.

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Flixbus, l’Unicorno europeo

di Pasquale Tanzini Nel mercato del Venture Capital viene

definita “Unicorno” quella startup che, secondo la Borsa, in termini finanziari, raggiunge la valutazione di un miliardo di dollari. Animale mitologico e impresa finanziaria di pari difficoltà di reperimento.

Ma gli investimenti spesso non sono tutti rose e fiori. Così come è accaduto qui, nelle italiche terre, nel salto della quaglia tra l’Alitalia che, come un’araba fenice, è risorta dalle proprie ceneri come Ita Airways, mentre tutti sanno che le arabe fenici sono letteratura e non realtà. La realtà ha altre frecce ne proprio arco. Ci sono delle realtà che si insediano nel mercato, diventano aggressive anche senza esserlo, che creano mercato, offrendo competitività e prodotti concorrenziali.

L’esempio lampante, studiato oggi nelle discipline universitarie economiche e di mercato, è quello della Ryanair (prima del Covid, naturalmente). Ma non si va solo in aereo, si continua a camminare tenendo i piedi per terra, pur se esempi come quelli di Italo, che pare sia e sia stato solo un tentativo, per la verità abbastanza misero, di libero mercato concorrenziale. Il deficit di questo progetto ferroviario è su tutti i report finanziari. L’esempio da prendere in considerazione è invece un altro.

Dieci anni fa nasceva in Germania una compagnia low cost di trasporto su gomma, la Flixbus, diventata un esempio di New Economy, capace di

nascere su piattaforma digitale, in franchising tra le varie compagnie europee, dando potente segno di globalizzazione. Il mercato? Semplice.

Ragazzi e viaggiatori europei, tutti coloro che non possono permettersi l’aero o il treno ad alta velocità, hanno rivolto le loro attenzioni ai pullman verde-arancione che oggi attraversano frontiere intra ed extra Europa, con la continua individuazione di nuovi corridoi (mentre qualcuno, al contempo, costruisce muri). Questa società ha da subito puntato ad un target sui generis, ma pure all’internazionalizzazione delle connessioni, oltre alla creazione di collegamenti interni finora trascurati. Con una semplice app ora si prenota tutto, coincidenze comprese, in Italia da Trieste a Pachino, in tutta Europa, da Gibilterra a Bucarest. Forse risuona l’eco del potere napoleonico citato dal Manzoni, dall’Alpi alle piramidi/dal Manzanarre al Reno. Ma Flixbus ha dimostrato di non avere limiti di orizzonte, da tempo stava già collimando bersagli più grossi, il suo obbiettivo era il paese al mondo dove si viaggia di più, gli Stati Uniti. Mentre la pandemia metteva in ginocchio le società di trasporti in tutto il mondo, Flixbus discuteva un aumento di capitale da 630 milioni di dollari a 3 miliardi. Il simbolo della New Economy il colpo gobbo l’ha fatto comprandosi (per 172 milioni di dollari) il simbolo della Old Economy, quella dei trasporti a buon mercato, la storica e iconica azienda americana di autobus, la Greyhound. Azienda nata nel 1914 nel Minnesota, stabilitasi poi negli anni ’20 a Dallas, Texas, divenuta la sede storica, rimasta tuttora laggiù, anche se già dal 2007 la Greyhound era passata alla britannica

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