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DRAMMA ITALIANO: GOLDONI PER IL SETTANTESIMO

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DRAMMA ITALIANO:

GOLDONI PER IL SETTANTESIMO

INTERVISTA

Il film «Sully», di Clint Eastwood,

ritratto di un eroe Il documentario italiano attraversa un periodo fortunato

CINEMA FENOMENI

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A colloquio con Gabi Novak, diva della scena musicale croata

La cantante, che grazie al figlio Matija ha riscoperto le sue origini jazz, ricorda con commozione suo marito Arsen Dedić

Un fatto vero, avvenuto nel 2009, ha ispirato il grande attore e regista a creare un film di successo e, forse, da Oscar

Negli ultimi anni, in Italia si sono affermate importanti coppie di autori interessati alla realtà che ci circonda

la Voce del popolo

spettacoli

www.edit.hr/lavoce

Anno 2 • n. 10

lunedì, 24 ottobre 2016

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lunedì, 24 ottobre 2016

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A COLLOQUIO CON GABI NOVAK, UNA VERA E PROPRIA DIVA DELLA SCENA MUSICALE CROATA, COMPAGNA DI VITA DEL COMPIANTO CANTAUTORE

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e si pensa a un grande amore, non si può non citare il loro. Uno di quelli che durano una vita intera.

Come si fa allora a metabolizzare la perdita dell’altro, la morte che arriva quasi improvvisa, a farsi forza per andare avanti? “Celebrando la sua opera, in modo che nessuno mai lo possa dimenticare”, ci risponde lei, la grande Gabi Novak, vedova dell’altrettanto grande Arsen Dedić, a poco più di un anno dalla scomparsa del marito.

45 anni di vita insieme

La sentiamo per telefono ed è come se ci stesse davanti. Non è difficile immaginare il suo sguardo, la sua tristezza, ma anche la risolutezza nel combatterla e nel vincerla, mentre parla di quest’uomo che per 45 anni è stato il suo compagno di vita e con il quale ha condiviso un matrimonio estremamente sereno.

“Non mi piace parlarne perché mi fa male, ma sono sicura che Arsen oggi sarebbe orgoglioso di me. È difficile vivere in una casa in cui per quasi mezzo secolo hai condiviso tutto e in cui ogni dettaglio mi ricorda lui e la nostra vita insieme. Devo dire, però, che dopo un’unione come la nostra, che è stata piena di tante cose, anche di tanti dolori, ma soprattutto di bei momenti, sto superando con maggiore facilità il fatto di averlo perso. Il nostro è stato un matrimonio molto felice, senza troppi alti e bassi, con pochissimi litigi e tantissima meravigliosa complicità, anche professionale”, ci racconta questa donna sulla soglia degli ottant’anni, ma che non sembra averli.

Il lungo e fortunato connubio

sentimentale-lavorativo di Gabi Novak e Arsen Dedić è noto a tutti e non ha certo bisogno di presentazioni. Hanno fatto di tutto insieme, soprattutto dal punto di vista artistico. Lui, più che un cantautore, un poeta della parola, lo chansonnier per eccellenza di queste terre, e lei primadonna dello schlager croato, con tendenze jazzistiche, oltre che grande musa di lui. Insieme hanno avuto un figlio, Matija Dedić, oggi rinomato pianista jazz. Figlio d’arte dal grandissimo talento, che con i genitori ha condiviso spesso il palco.

«Mio figlio è la mia forza»

“Mio figlio è la mia forza. È stato lui, assieme a mia nuora e alla mia meravigliosa nipote Lu, a darmi il coraggio per proseguire dopo la scomparsa di Arsen, a darmi la forza per non crollare. Da quel giorno non mi sono fermata un attimo e questo mi ha aiutato molto. Dopo un primo momento di stordimento, abbiamo iniziato con i preparativi per una serie di concerti in onore di mio marito e della sua opera, di cui l’ultimo tenuto lo scorso 7 ottobre nella sala ‘Vatroslav Lisinski’ di Zagabria”, dice Gabi, ancora visibilmente emozionata dall’evento.

“Matija è stato il motore di tutto, il carro trainante. Ha organizzato le cose nei minimi dettagli, non lasciando nulla al caso. Abbiamo iniziato nella sala Gorgona del Museo di Arte contemporanea di Zagabria lo scorso 3 febbraio, nell’ambito del Ciclo Jazz della Radiotelevisione croata, per finire appunto il 7 ottobre a Zagabria. Un grande successo. Otto date in tutto tra cui Lubiana, Belgrado, Podgorica e ovviamente la sua Sebenico il 28 luglio, giorno del compleanno di Arsen – racconta ancora –. In ogni posto in cui ci siamo esibiti abbiamo invitato, in qualità di ospiti, musicisti che nel loro percorso artistico hanno spesso eseguito canzoni di Arsen, come ad esempio Gibonni,

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Gabi Novak in concerto nella sala “Vatroslav Lisinski” dedicato ad Arsen (2016)

INTERVISTA di Ivana Precetti

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Tedi Spalato, Zoran Predin, Lea Dekleva, le klape, soltanto per citarne alcuni.

Essenziale è stato l’accompagnamento musicale dell’Orchestra filarmonica di Zagabria e di quella di Belgrado, dirette in entrambi i casi dal grande maestro Joža Cvitanović”.

Un matrimonio sereno

Nei suoi discorsi Gabi Novak nomina spesso suo marito. “È una cosa naturale per me – spiega –. Lo sento accanto anche ora che non c’è più. La nostra è stata una scelta seria, responsabile, matura, nel momento in cui abbiamo deciso di stare assieme. All’epoca uscivamo entrambi da due matrimoni finiti, lui pure con figli (lei è stata sposata con il compositore Stipica Kalogjera, nda), ma il nostro rapporto è sempre stato caratterizzato da un grande amore, un immenso rispetto e una meravigliosa collaborazione artistica.

Certo, nella vita non sono sempre rose e fiori. Ci sono anche momenti difficili, che vanno superati. Quando, però, la base è sufficientemente solida, e la nostra lo è stata, allora nulla è impossibile.

Quando qualcuno oggi mi chiede com’è vivere senza di lui, rispondo che è molto doloroso, ma comunque accettabile proprio grazie a questa ricchezza, e non penso a quella materiale, che abbiamo avuto. Arsen mi ha lasciato così tanto dentro che oggi riesco ad affrontare con maggiore facilità questa perdita”.

Gabi parla anche di amicizia. “Nella nostra vita siamo sempre stati circondati da tantissimi amici, ma arrivata a questo punto, da quando non c’è lui, io ce ne ho pochissimi, ma buoni. Non per nulla si dice che soltanto nei momenti di difficoltà capisci chi ti è veramente amico. Oggi ho accanto una ristretta cerchia di persone, a parte ovviamente i miei familiari, che mi

coccolano e si preoccupano per me, anche soltanto telefonandomi per chiedermi come sto”.

Ritorno alle origini: il jazz

Quando le chiediamo di Matija, Gabi lo definisce la sua roccia. “È una persona speciale, ma non lo dico perché è mio figlio. Un uomo di grandissimo talento che mi ha trasmesso molto e che ha saputo tirare fuori qualcosa dal mio animo artistico anche quando pensavo di aver detto tutto. Mi ha convinta a esibirmi in un’altra chiave, facendomi tornare alle mie origini, che è il jazz.

E Arsen, in tutto questo, mi ha sempre sostenuta appoggiandomi al mille per cento. Matija mi ha dato modo di reinventarmi e di rendermi ancora più forte e consapevole di me stessa. Nei nostri discorsi degli ultimi tempi, mio marito mi diceva spesso di potersene andare in tranquillità perché consapevole che nostro figlio avrà me. Parole che nell’ultimo anno mi hanno dato grande forza, oltre al pensiero che Arsen non vorrebbe vedermi triste”.

L’immensa eredità di Arsen

Oltre agli impegni lavorativi, Gabi oggi trascorre il suo tempo libero passeggiando, andando a teatro, leggendo, stando con i suoi cari. “Sono molto impegnata a fare ordine nel patrimonio artistico di mio marito – dice –. Per finire tutto mi servirà ancora almeno un anno. Sto selezionando le sue opere, e non è facile, perché la sua eredità è immensa. Non so se esista campo in cui non si sia espresso con la sua poesia. E allora devo stare attenta e fare le cose come si deve”.

Parlando di esibizioni, un accenno va fatto assolutamente al connubio artistico di Gabi Novak con Radojka Šverko e Tereza

Kesovija, che assieme hanno dato vita al progetto Dive. Canteranno ancora insieme, le chiediamo? “Un accordo esisteva, ma per il momento lo abbiamo accantonato per i rispettivi impegni. Anche qui bisogna preparare le cose con cura. Il nostro progetto è complesso, esige tanta energia e costa non poco, per cui non possiamo farlo alla leggera. Vi lavorano tantissime persone e non è adatto alle grandi sale o ai palazzetti. Faremo certamente qualcosa, ma non so dire quando”, promette.

Rétro festival di Abbazia: si torna a casa

A questo punto arriviamo al motivo per il quale l’abbiamo contattata, ovvero la sua prossima partecipazione al Rétro festival di Abbazia, in programma a inizio novembre. “Non vedo l’ora – esclama –.

Sarà come tornare a casa. Si tratta di uno dei Festival che in passato era considerato alla pari di quello di Sanremo. Parliamo degli anni Sessanta, Settanta, Ottanta del secolo scorso. Un evento imperdibile, che veniva trasmesso in diretta, seguito da tutti e al quale ho avuto l’onore e la fortuna di partecipare per almeno 25 volte. Era entusiasmo puro e metteva in risalto la grande qualità della canzone leggera dell’epoca”.

C’è un episodio di quei tempi che le è rimasto particolarmente impresso? “Ce ne sono tantissimi ma non dimenticherò mai la sera in cui Dragan Stojnić e io abbiamo vinto il Festival interpretando il brano Vino i gitare (Vino e chitarre), diventato poi un evergreen. Dopo aver festeggiato fino alle ore piccole, all’alba stavamo facendo ritorno in albergo.

Sulla splendida terrazza dell’albergo Kvarner incontrammo, però, una brillante violinista dell’Orchestra della Radiotelevisione, con indosso ancora l’abito di gala. Stojnić intonò, così

spontaneamente, delle canzoni e lei iniziò ad accompagnarlo al violino. Una cosa bellissima, che non dimenticherò mai. Sembrava quasi la scena di un film di Fellini, un tavolo con sopra soltanto un bicchiere di spumante e loro due che cantano e suonano. Come dicevo, era l’anno di Vino i gitare, che eseguirò anche in quest’edizione del Festival. Mi esibirò anche in duetto con Maja Vučić con la quale interpreterò Za mene je sreća (Per me è felicità), e con Marko Tolja in Sve što znaš o meni (Tutto quello che sai di me).

Canterò inoltre il brano Još uvijek (Ancor sempre). Non mancherà un Omaggio ad Arsen”.

«Ormai ho detto tutto»

La vedremo in qualche nuovo progetto?

“Difficilmente. Credo ormai di aver detto tutto. Non ha senso sfornare album soltanto per tenere accesa la fiammella.

Potrei farlo, ma non ne vedo il senso. Mi basta esibirmi ogni tanto in serate intime e scelte con cura, magari con Matija e i suoi splendidi musicisti. Spero soltanto di rimanere in salute quanto più a lungo e di poter trascorrere quanto più tempo con i miei cari. Saranno, poi, le stelle a decidere”, conclude serena.

«ARSEN OGGI SAREBBE ORGOGLIOSO DI ME»

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Un concerto di Arsen, Gabi e Matija a Sebenico nel 2014

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Gabi Novak con la nipote Lu e Matija Dedić (2016)

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ANNIVERSARI di Sandro Damiani

GOLDONI COME UN PUNTO DI RIFERIMENTO CULTURALE

IL DRAMMA ITALIANO CELEBRA I SETTANT’ANNI DI ATTIVITÀ CON UN TESTO DEL GRANDE DRAMMATURGO

VENEZIANO. UNA PRATICA DIVENTATA TRADIZIONE

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ome da tradizione, il Dramma Italiano festeggia il proprio anniversario, oggi il settantesimo, con un testo di Carlo Goldoni. E non a caso. “Goldoni è stato – scrisse in occasione del cinquantenario, Alessandro Damiani - un punto di riferimento culturale, un segno di riconoscimento, un attestato di legittimità, un fattore di coesione”. Lo è stato soprattutto nei difficili anni Cinquanta e primissimi Sessanta, quando era prioritario il compito di tenere vivi, oltre che la lingua, gli idiomi contigui al veneto/veneziano e la compagnia non poteva contare su una platea egemonizzata dal ceto medio – quasi in toto, sparito dalla circolazione:

abbandoni, fughe, opzioni – ossia, era costituita perloppiù da cantierini, pescatori, agricoltori, operai ai quali in altri tempi il teatro era precluso per ovvie ragioni.

Nel suddetto travagliatissimo periodo, insieme alle commedie del Goldoni venivano messi in scena testi di Gallina, Rocca, Selvatico, Boscolo, Giancapo, Bertolini, Palmieri: i cosiddetti “veneti minori”, nelle cui storie, dunque non solo per una questione dialettale, la nuova platea poteva riconoscersi.

«Il burbero benefico»

Il “primo passo” scenico del Dramma Italiano si chiama “Il burbero benefico”.

È il novembre del 1946. La regia è di Emilio Gatta, in scena un manipolo di filodrammatici oltremodo volenterosi.

Due di essi – Gianna Salvioli, poi Depoli, e Nereo Scaglia – sceglieranno il teatro e il Dramma Italiano come ragione di vita e ne saranno le colonne portanti, unitamente a quanti vi si aggregheranno, per restarci, sin dai successivi due anni:

Raniero Brumini da Pola, Ada Mascheroni da Milano e Angelo Benettelli da Venezia.

Con costoro, o immediatamente dopo, arrivano Olga Stancich (in seguito Damiani) Carlo Montini, Sandro Bianchi, Adelaide Gobbi, Flavio Della Noce, Alessandro Damiani, ma tutt’e sei lasceranno la compagnia verso la metà dei Cinquanta, venendo dapprima affiancati poi rimpiazzati da Bruno Petrali, Glauco e (all’epoca) Lucilla Verdirosi. Tra i pionieri, vanno ancora ricordati Rodolfo Permutti, Bruno Tardivelli (l’unico sopravissuto tra i sunnominati, oltre al novantaduenne Petrali), Vincenzo Dall’Olio, Nello Radaelli, Andreina Negretti e Gianluigi Colombo.

L’esito del debutto è buono. Il pubblico è scarso, sebbene la città non sia stata

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“Il Campiello” (1996/97): Elvia Nacinovich ed Ester Vrancich

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“Il burbero benefico” (1966/67): Raniero Brumini, Glauco Verdirosi e Angelo Benettelli

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“Le baruffe chiozzotte” (1946/47)

ancora abbandonata (quasi) del tutto dal ceto medio e da chi nell’anteguerra frequentava il Teatro comunale “Giuseppe Verdi”, ora ribattezzato Narodno Kazalište – Teatro del Popolo. La guerra è terminata da un anno, i cambiamenti sono repentini, le classifica delle priorità non vede il teatro e la cultura in generale, in cima alle classifiche familiari.

Esordio di Osvaldo Ramous

Ma già con il secondo Goldoni – che arriva nel giugno dell’anno appresso e dopo altri due spettacoli – le cose cambiano. È la volta de “Le baruffe chiozzotte”, che vede l’esordio in qualità di regista, il poeta e vicesovrintendente del Teatro, Osvaldo Ramous. Ai protagonisti del “Burbero” si affiancano, tra gli altri, Gianna Intravaia, Liliana e Umberto Salvioli, Aldo Grattoni, Vincenzo Dall’Olio, il romano Bianchi, Nino Bortolotti, Tullio Fonda. Questa volta, non due sono le recite, ma ben dodici, con circa diecimila spettatori, di cui (mi raccontava mia madre che allora fece il suo ingresso come suggeritrice) almeno un migliaio tornava a rivedere la commedia.

Nella stagione successiva, tra gli otto titoli in cartellone, ci sono “I rusteghi” (regista, il Ramous). Per Brumini è il primo incontro con Goldoni: Raniero in seguito ne perderà solo uno. Il critico de La Voce parla di “miglioramento”, di “crescita”

dell’ensamble e di una regia “fresca”, che “mai scende nella banalità”. Quasi ottomila gli spettatori, per addirittura ventidue recite e tutte all’ex Verdi (la pratica delle tourneés arriverà qualche anno più tardi: i mezzi sono pochi, e comunque in Istria ci sono complessi, specie quello capodistriano diretto da De Simone, con Anton Mari, Fulvio Tomizza, Aldo Bressan, Peter Kolosimo, che agiscono con continuità e profitto).

Nel 1948/49 niente Goldoni; si va sul difficile: si replica Ibsen e si allestiscono Pirandello, Moliere, Gogol’ ed Erenburg.

Lo scrittore russo proprio in quel periodo passa da Fiume e cita il Dramma Italiano in un libriccino sui suoi viaggi nell’”Europa socialista”.

Novembre, 1949. Ramous ripropone il Veneziano: “Il bugiardo”, avvalendosi

dello scenografo “principe” della casa madre, il pittore Antun Žunić. Tre sono i debuttanti alle prese con Goldoni: Maria Piro, attrice per la quale si diceva che non si capiva se fosse più bella o più brava;

dopo alcuni anni di militanza nel Dramma passerà alla compagnia croata e ne sposerà uno degli attori principali, Miodrag Lončar.

Quindi Angelo Benettelli e Alessandro Damiani.

Angelo Benettelli

Benettelli merita un minimo di discorso a parte. Anche perché, al di là delle sue capacità attorali equamente distribuite in tutti i cento e passa personaggi interpretati in carriera, a lui si deve l’approfondimento dell’approccio con Carlo Goldoni, la sua lingua, il suo linguaggio. Angelo (scusate il familismo... è stato il mio santolo, e sua moglie Ada Mascheroni, la santola) non solo è veneziano-veneziano, ma ha lavorato con alcuni dei maestri del teatro goldoniano:

Emilio Zago e Cesco Baseggio, facendo propria la loro lezione espurgandola tuttavia di buona parte delle leziosità dovute ad una tradizione che i... tradizionalisti ritenevano intoccabile. Benettelli – encomiabile l’attaccamento alla professione della compagnia, attenta ai suoi insegnamenti – terrà quel che oggi definiamo “laboratori”

sulle maschere veneziane e sul Teatro dell’Arte. Nella commedia in questione, egli sarà Arlecchino, il primo Arlecchino del Dramma Italiano, affascinando spettatori (cinquemila in undici recite) e critici.

Quando, nel 1950, il Dramma Italiano viene invitato per la prima volta a Zagabria, al Teatro Nazionale Croato, lo farà con “Il Bugiardo” e con “I Rusteghi” (e con “Piccole volpi” della Hellman, diretto da Piero Rismondo). Il successo sarà semplicemente enorme. Un critico scrisse trattarsi di “un evento teatrale e culturale importantissimo per la capitale croata”.

In platea un pubblico diverso

Nella stagione 1950/51 è la volta de

“Gli innamorati”. Ramous in cabina di regia e il russo Sergej Kučinski per le scene e i costumi. Sul palcoscenico tre

“neogoldonisti”: Francesco Vittori, Ermanno Svara e Vjeko Bonifačić. Sergio Turconi scrive di una straordinaria Gianna Salvioli-

Depoli. Solo due repliche, settecento spettatori: la componente italiana di Fiume va scemando, in platea si vede arrivare un pubblico diverso, potremmo dire “alle prime armi” in tema di teatro... E infatti, prima della commedia in parola, come scrivevo più su, il direttore Piero Rismondo mette in cartellone “Ostrega che sbrego” e la stagione successiva,”Nina no far la stupida”

di Giancapo e “La bozeta de l’ogio” di Selvatico.

Nella 1952/53 riecco Goldoni: “Sior Todaro brontolon”. Per le sole due serate si contano quasi millecinquecento spettatori. Ennesimo debuttante, il pittore e scenografo, ma nelle veci di attore, Ermanno Stell. La scena è monopolizzata da Angelo Benettelli.

Leggiamo: “La sua interpretazione è stata ottima, nei tre atti Benettelli ha cessato di essere sè stesso per dar posto esclusivamente al personaggio goldoniano”.

La stagione che segue è tra le più povere nella storia del Dramma. Nessuno degli otto titoli supererà le due serate.La diminuzione degli spettatori, ossia degli italiani di Fiume, comporta una iper produzione: non potendo contare su una platea agguerrita, almeno a chi c’è si dia di più, in modo da farli ulteriormente attaccare al complesso e dimostrar loro attenzione e rispetto... Il sipario del Dramma, che ha in cartellone otto titoli, si apre su “La finta ammalata”.

Per la prima volta, manca Gianna Depoli. In compenso c’è Nidia Sfiligoi; è l’ottobre del 1953.

«La locandiera»

Siamo al 1954/55. I primi due spettacoli...

come sopra: due recite per uno. Col successivo, l’impennata: Ramous propone

“La locandiera”: ventinquattro repliche e oltre tremila spettatori. Benettelli, Montini e Scaglia danno vita ai tre pretendenti con maestria e Gianna Depoli è al tempo stesso la torta e la ciliegina.

1955/56, niente Goldoni, né “veneti minori”. Il direttore Ramous, d’accordo con la compagnia, sonda il terreno, si vuole capire se c’è e quanto “appetito” per il teatro in lingua, classico e contemporaneo, tra la

“nostra gente”. Oltre tutto, tra il pubblico da qualche tempo si va registrando la presenza di habitueès teatrali del Dramma Croato (“Il defunto” di Branislav Nušić,

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GOLDONI COME UN PUNTO DI RIFERIMENTO CULTURALE

l’anno prima aveva fatto registrare oltre duemila spettatori in sei recite): è dunque importante proporre cose diverse. Il clou della stagione saranno, a sorpresa, le due apparizioni di una delle Signore della scena italiana, Diana Torrieri, la quale in un libro autobiografico premiato negli anni Novanta al “Viareggio” rammenterà i giorni passati a Fiume “con Osvaldo, Olga, Raniero, Gianna...”.

Ritorno di fiamma

Il 1956/57 si caratterizza per un “ritorno di fiamma”. I fiumani – e non pochi “riječani”

- non hanno digerito l’ipotesi di chiusura del Dramma Italiano, con licenziamento in tronco della compagnia a seguito della decisione del sovrintendente Drago Gervais in ciò caldeggiato dai vertici del Circolo(?!).

Oseremmo dire che ci troviamo di fronte a un ritorno in massa. E poi, il complesso (e il Teatro, che ora si chiama “Ivan de Zajc”) festeggia il decimo anniversario, con un opuscolo in bianco e nero, con i ritratti di tutti i membri della compagnia e foto di scene di alcuni spettacoli. Non c’è spettacolo, ad esclusione di uno dei sei proposti, che conti meno di dieci repliche;

tra questi la ripresa de “La locandiera”, mentre il nuovo Goldoni è “Il ventaglio”

(quattromila spettatori, 12 serate). Mi si conceda di aprire una parentesi personale:

è il primo Goldoni visto a teatro di cui ho memoria. Ero, come quasi sempre agli spettacoli del Dramma, con mia madre nella

“buca” del suggeritore e quando entra in scena Damiani mi scappa un urlatissimo

“papà!” (come se lo vedessi per la prima volta), che fa scoppiare dalle risate attori e pubblico. Probabilmente la mia reazione era dovuta al fatto che riuscìi a malapena a riconoscerlo, rivestendo egli il ruolo di un vecchio (lo speziale Timoteo). Per la cronaca, lo spettacolo segnò il debutto (goldoniano) del più bell’attore che il Dramma Italiano abbia mai avuto, il cantante – famosissimo allora – Bruno Petrali.

1957/58: molti atti unici, spesso accorpati, e “La famiglia dell’antiquario”.

Come dicevo innanzi, da questa stagione mancano all’appello Carlo Montini - che, Goldoni a parte, quasi sempre ha rivestito il ruolo del protagonista negli altri spettacoli

– e il Damiani. In compenso fanno la loro apparizione Lucilla e Glauco Verdirosi. Sulla scena avremo, dunque, il nucleo di quel Dramma Italiano che ci accompagnerà fino alla fine degli anni Settanta, primi Ottanta:

Depoli, Mascheroni, Scaglia, Brumini, Benettelli, Petrali, i Verdirosi appunto.

Prima regia goldoniana di Nereo Scaglia

Tornando alla “Famiglia”, è la prima regia goldoniana di Nereo Scaglia, che vi apporta pizzichi di novità nel linguaggio e nell’impostazione.

Goldoni minore, nella 1958/59: “Un curioso accidente”, regista il Ramous. Purtroppo, lo

“scatto di reni” dei fiumani delle due stagioni precedenti si affievolisce. Poche repliche, non molti spettatori. Ma la commedia piace. Scrive Lucifero Martini: “Il pubblico ha palesato semplicemente entusiasmo, sia per la piece in sé che per la bella interpretazione”.

L’anno dopo, Ramous e Scaglia, da registi e responsabili della compagnia, decidono di tenere Goldoni nel cassetto. E non sbagliano, perché quando il 7 giugno del 1961 si apre il sipario su “Le smanie della villeggiatura”, le chiusure dello stesso saranno ben dieci (alcune, in Istria), per oltre duemila spettatori (mentre la componente italiana in città toccherà i minimi storici – a quel momento, perché in futuro ci sarà anche di peggio). A fare la parte del leone, pardon, delle leonesse sono Depoli (Vittoria) e Verdirosi (Giacinta).

Altra pausa nella 1961/62 e grande ritorno con la “Bottega del caffé” la stagione seguente (ottobre, 1962: otto recite, duemila e passa spettatori). La regia è di Benettelli.

Due i debutti: il liceale Renzo Chiepolo, ma la sua è una apparizione estemporanea, e l’affascinante rovignese Femy Benussi, che pochi anni dopo troveremo accanto a Totò e Ninetto Davoli in “Uccellacci e uccellini” di Pier Paolo Pasolini).

Il liceale Giulio Marini

Niente Goldoni nella 1963/64 e nuova edizione delle “Baruffe chiozzotte” la stagione successiva (regia di Benettelli) che segna l’esordio del liceale, caro a Scaglia che lo dirige nella filodrammatica del Circolo, Giulio Marini. Ci metterà un bel po’ di anni, il “nostro Giulio”, prima di decidersi di

entrare definitivamente al Dramma. Con Marini ci sono altri due liceali provenienti dal gruppo del sodalizio fiumano: Ivana Latini ed Euro Paolettich. Nove le recite, poco più di duemila gli spettatori, tournée compresa.

La 1965/66 trascorre senza Goldoni (c’è pero Giacinto Gallina a tenere alta la bandiera della venezianità).

Rieccolo, l’Avvocato, per il Ventennale, con la seconda edizione de “Il burbero benefico”: ricordo la prima, per un particolare curiosissimo. Pur se navigato, il regista e protagonista, Angelo Benettelli si presenta in scena a tal punto emozionato, da avere lasciato in camerino la parrucca ed ha dimenticato di togliersi gli occhiali.

Lo Zajc è pieno come non mai da almeno dieci anni a questa parte. Un successo senza precedenti. Scrisse il Martini: “Due chiamate alla fine del primo atto, quattro dopo il secondo, otto alla fine del terzo e ultimo”. Le “chiamate” a fine atto sono prassi prettamente operistica. (Non mi si chieda il perché: non lo so).

Il Dramma ha un proprio pubblico

Fino al marzo del 1970, Carlo Goldoni è un illustre assente. Forse anche giustamente. Il Dramma ha stabilito un buon rapporto con il proprio pubblico, anzi, “ha” un proprio pubblico, che sa fare a meno del teatro dialettale, alto o basso che sia. Esso, pubblico, è ora composto anche da giovani intellettuali, universitari e non; la televisione, specie la RAI di quel decennio, ha molto contribuito a far conoscere e amare la scena drammatica. Gli attori del Dramma, che da qualche anno ha istituito la pratica dei matinèe per le scuole ed è, dopo anni di incomprensioni reciproche, a stretto contatto con i Circoli in Istria, a Cherso e nei Lussini, ha il polso della situazione;

avverte che gli appetiti sono cambiati.

Gli stessi spettatori “naif” del decennio precedente non disdegnano il teatro dei grandi nomi della classicità e della contemporaneità. Inoltre – picchia e mena – la triestina Università Popolare è riuscita a fare breccia sul governo italiano affinché contribuisca a tenere in piedi oltre che la Compagnia, la CNI e le sue istituzioni, che vivono, come vivono – ma vivono –

del solo sostegno delle istanze comunali, repubblicane e federali jugoslave. I primi segnali concreti in tal senso per il Dramma sono la possibilità di ingaggiare, a progetti, attori, scenotecnici e registi dall’Italia. La novità comporta anche novità nel repertorio. Dunque, spazio ad una visione più ampia. Non per questo il Grande Veneziano se ne resterà per sempre nei cassetti. E infatti, nel marzo del 1970 – lo Zajc intanto è chiuso per restauro, si recita al Neboder – il Dramma debutta al Circolo di Pola con una nuova edizione de “La vedova scaltra”, per la regia del triestino Spiro Dalla Porta Xidias.

L’approccio registico piace, sebbene lasci interdetti una lettura che Ezio Mestrovich su Panorama reputa “scolastica”. Due sono i “nuovi” nello spettacolo, Ezio Biondi, con un funambolico Arlecchino, e Bruno Pischiutta, oggi cineasta con passaporto canadese, patron di un festival cinematografico internazionale in Romania.

Nel totale, sei repliche e poco meno di duemila spettatori.

Spiro Dalla Porta Xidias

Ma con lo Xidias, bisogna ricordarlo (tra l’altro, quest’anno il mio ex professore compie un secolo!), si aprono anche altre forme di impegno. Egli è il direttore artistico e insegnante di recitazione ed elementi di regia, dell’IDAD - Istituto D’Arte Drammatica, di Trieste, dove non solo si formerà l’attrice che da trent’anni è l’”anima” del Dramma (Elvia Nacinovich), ma anche interpreti e registi che in seguito vi collaboreranno: Franco Però, Luisa Crismani, il compianto Mauro Likar, Ugo Vicic, Alessandra Scaramuzza, una collega docente dello Xidias, l’attrice Omera Lazzeri.

Dal 1973 al 1982, il Dramma allestisce solo tre testi del Goldoni: “Il feudatario”, la terza edizione de “La Locandiera” e la seconda de “I Rusteghi”. Ne è regista l’autore e attore padovano Giuseppe Maffioli.

“Il Feudatario” va in scena in prima a Buie nel gennaio del 1974. Il Dramma è al completo; ci sono pure Olga Novak, Maria Braico-Štifanić e Giulio Bontempo, che di tanto in tanto presta la propria verve, inoltre, è amatissimo dai fiumani:

i suoi sketch, le sue commediole musicali al Circolo sono un grande spasso. C’è il menzionato, Mauro Likar. Lo spettacolo piace o quantomeno attira: undici repliche, più di duemila spettatori.

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“La finta ammalata” (1988/89): Ester Vrancich, Rossana Grdadolnik e Maria Braico

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“Le baruffe chiozzotte” (1946/47)

(Segue a pagina 8)

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CINEMA a cura di Fabio Sfiligoi

CLINT+TOM = OSCAR

«SULLY», COME «AMERICAN SNIPER», È IL RITRATTO DI UN EROE I CUI PROBLEMI A CONTI FATTI NASCONO PROPRIO DAL RAPPORTO INTERNO CON LA SUA NAZIONE

Q

uando un produttore decide di mettere insieme un binomio di mostri sacri del cinema ha tre obiettivi principali: fare cassetta, cioè guadagnare, soddisfare magari la critica e vincere l’Oscar possibilmente. Con Clint Eastwood alla regia e Tom Hanks nel ruolo di attore principale, “Sully”

ha tutte le preogative per raggiungerli e gli indizi di un successo stratosferico ci sono:”Sully” viene già acclamato come film meraviglioso. Capace, in un’epoca che tutto ha visto e tutto ha sentito, di portare all’attenzione dello spettatore una storia di eroismo e altruismo. In America, dove è già nelle sale, domina il box office da svariate settimane, infischiandosene di

“Bridget Jones e compagni”. Il movie racconta, infatti, la storia di Chesley Sullenberger, pilota salito agli onori della cronaca per aver salvato 150 persone con un atterraggio di emergenza. Era il 2009 quando, appena decollato dall’aeroporto La Guardia di New York, il volo US Airways 1549 sparì dai radar.

Un impatto con uno stormo di uccelli danneggiò entrambi i motori dell’Airbus, costringendo Sully(soprannome del primo pilota, Hanks nel film) a prendere una decisione repentina. Il pilota scelse la via dell’ammaraggio, facendo planare il velivolo sul fiume Hudson, non tanto lontano da terra in modo da velocizzare i soccorsi vista la temperatura gelida

dell’Hudson. Passeggeri e personale di bordo uscirono illesi dall’atterraggio di fortuna che, finito sui giornali di tutto il mondo, già allora stuzzicò l’estro di Clint Eastwood.

Il regista, ben lungi dal voler replicare i meccanismi di “Flight”, ha deciso di raccontare il fatto per quel che è. Facendo leva sulla bravura di Tom Hanks e la potenza di una storia che, a fronte di un costo di 60 milioni di dollari, ne ha raccolti nel mondo quasi 94. Per ora.

Ancora una questione americana per Clint Eastwood dopo il discusso “American Sniper”. Il regista, 87 anni il prossimo 31 maggio, racconta l’eroe dietro al

“miracolo dell’Hudson”; firma con “Sully”

uno dei suoi film più concisi. E forse anche il suo risultato più “popolare” per il pubblico americano.

Una questione tipicamente yankee, un po’

come quella del “cecchino”.

L’uomo, prima di tutto, dietro l’eroe, l’uomo dietro la notizia, l’uomo dietro l’inchiesta.

Ma, come quella di Chris Kyle (American Sniper), quella del capitano Sullenberger è una faccenda che riguarda innanzitutto un Paese.

“Sully” si inserisce nel filone del cinema di Eastwood in cui l’autore di “Invictus” e

“J. Edgar” guarda alla storia passata o più o meno recente per raccontare la morale di una Nazione. Patriottico, a modo suo, Eastwood lo è sempre stato.

Figlio dell’America in guerra con “Salvate il soldato Ryan”, di quella alla ricerca di sé stessa di “Forrest Gump” e di un Paese che esplora sempre nuove frontiere con “Apollo 13”, qualche decennio dopo, a 60 anni appena compiuti, Tom Hanks diventa il papà d’America con “Sully”, già campione d’incassi negli Usa. L’attore due volte premio Oscar vive una stagione intensissima di lavoro con vari film in uscita. Per i ruoli che ha interpretato può essere considerato il volto cinematografico dell’americano medio.

Quella scatola di cioccolatini

Prima, l’intenso e sofferto Andrew Beckett di “Philadelphia”; poi, il saggio e naïf Forrest Gump. Non è da tutti riuscire a interpretare personaggi capaci di uscire dallo schermo cinematografico ed entrare prepotentemente nell’immaginario collettivo. Tom Hanks l’ha fatto. E anche se sembra ormai il racconto di un mondo forse tramontato, quello dell’avvocato malato di Aids in quegli Anni Novanta, quando l’essere omosessuale dichiarato era una condizione inaccettabile, il Beckett di Hanks è considerato ormai un classico del cinema.

Grazie a quel ruolo, Hanks mise le mani sul suo primo Oscar. Successo poi bissato l’anno seguente con “Forrest Gump”: altra

statuetta e una frase celebre consegnata alla storia:”Mamma diceva sempre: la vita è uguale a una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita”. Lo stesso Hanks nel 1980 forse non l’avrebbe immaginato tutto questo successo, quando debuttava in tv nella sitcom “Henry e Kip”.

Solitudine

Nato a Concord, in California, il 9 luglio 1956, Tom Hanks è discendente collaterale del 16esimo presidente degli Stati Uniti da parte del padre, Amos Mefford Hanks (la madre di Lincoln si chiamava Nancy Hanks. Da una sorella di quest’ultima discende invece George Clooney). L’attore ha invece sangue portoghese da parte di madre. Non ha avuto un’infanzia facile e agiata in quanto figlio di genitori separati:

una volta affidato al padre dovette seguirlo insieme ai suoi fratelli maggiori nelle sue peregrinazioni in giro per il mondo (di professione faceva il cuoco), conducendo così un’esistenza priva di radici salde e di amicizie durature. L’inevitabile conclusione è un gran senso di solitudine che Tom si è portato dietro per lungo tempo e che a ben osservare si può notare in alcune sue interpretazioni. Fortunatamente questo genere di cose cambia quando si trova

Tom Hanks: dal soldato Ryan a Sully

Figlio e papà degli Usa

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Tom Hanks con l’Oscar per Philadelphia

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Un’immagine del film di Clint Eastwood

Finale: troppa retorica

E anche se le sue posizioni politiche sono chiare, Eastwood spesso le ha quasi del tutto sovvertite e anche rese commoventi sul grande schermo (in questo il suo film, uno dei più belli e incisivi, “Gran Torino”

è un manifesto e un punto di non ritorno).

“Sully”, come American Sniper, è il ritratto di un eroe i cui problemi a conti fatti nascono proprio dal rapporto interno con la sua Nazione. Al contrario del cecchino, quella di Sully è una vicenda che sin da subito fa evitare Eastwood di bruciarsi col fuoco o esporsi troppo. Peccato per il finale che gronda di retorica, recitano i critici d’oltreoceano, con i dialoghi tra Sully e la moglie (Laura Linney, perennemente

al telefono) che sanno di deja vu. Però appunto il problema sta nel manico, ovvero nell’ennesimo ritratto d’eroe a rischio patriottismo.

Fattore umano

“Sully” rischia davvero di essere il film più crowd-pleasing per il pubblico americano della sua carriera: i risultati al box office alimentano questa “scontata” previsione. Gli ingredienti stanno tutti lì, dalla decisione di casting del sempreverde Tom Hanks (ottimo, senza dubbio), fino ai titoli di coda che sono fatti con lo stesso stampo di quelli del film precedente. Quello che convince di più in “Sully” è il modo in cui alla fine Eastwood trova davvero il “fattore umano”

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la Voce

del popolo

a frequentare l’Università, dove ha modo non solo di stringere numerose amicizie ma anche di dar vita a quella che era una sua passione per troppo tempo sopita: il teatro. Passione non solo praticata ma anche approfondita con lo studio, tant’è vero che riesce a laurearsi in drammaturgia alla California State University di Sacramento. Riesce ad approdare nel cast della sitcom “Henry e Kip”, è nel 1982 che l’attore fa un incontro interessante, quando conosce sul set della serie “Happy Days”, dove recita per un solo episodio, l’attore Ron Howard, ovvero il rosso Ricky Cunningham. Due anni dopo, Howard – nei panni di regista – chiama Hanks per farlo debuttare al cinema. La pellicola è leggera quanto divertente, e diventa un cult degli anni Ottanta: “Splash – Una sirena a Manhattan” è il trampolino di lancio verso la celebrità non solo per Tom Hanks, ma anche per Daryl Hannah e il compianto John Candy.

Gli Anni Novanta iniziano male: “Il falò delle vanità”, di Brian De Palma, che lo vede protagonista insieme a Bruce Willis e Melanie Griffith, è un flop sia a livello commerciale che di critica. Ma già nel 1993 Tom si rialza: arriva la doppietta di Oscar, prima con “Philadelphia” e poi con “Forrest Gump”, eguagliando il record di Spencer Tracy. A questo punto Tom è pronto per il grande passo e debutta dietro la macchina da presa con la commedia musicale “Music Graffiti”.

Successo moderato e l’attore decide di prendersi una pausa. Sarà Steven Spielberg nel 1998 a convincerlo a

tornare a recitare in “Salvate il soldato Ryan”. La pellicola, incentrata sullo sbarco in Normandia del 6 giugno 1944, ottiene buoni consensi di critica e ottimi incassi.

Hanks ha la nomination all’Oscar ma viene battuto da Roberto Benigni per “La vita è bella”.

Preparazione leggendaria

Un altro il momento di recitazione impegnata è ne “Il miglio verde”, tratto dal romanzo di Stephen King e candidato a cinque premi Oscar, tra cui quello di miglior film. Il seguito della carriera di Hanks è un susseguirsi di pellicole importanti e di successo, tutti copioni scelti con oculatezza e senza cadere nel banale o nel cattivo gusto. D’altronde, anche la sua preparazione è diventata leggendaria, al pari di quella di altri mostri sacri come Robert De Niro. Per girare la storia del naufrago Chuck Noland, ad esempio, ha dovuto perdere ben 22 chili in 16 mesi, in modo da rendere più veritiera la condizione di disagio vissuta dal personaggio. Il film è “Cast Away”, e gli è valsa l’ennesima candidatura agli Oscar 2001 come miglior attore protagonista (la statuetta gli venne soffiata per poco da Russell Crowe con “Il gladiatore”).

Nel 2006 Tom Hanks viene diretto ancora una volta da Ron Howard: interpreta Robert Langdon, popolare protagonista de

“Il Codice da Vinci” di Dan Brown; il film, attesissimo, è uscito in contemporanea mondiale. Per molti, meglio il libro del film, ma in questo caso Hanks è esente da colpe...

CLINT+TOM = OSCAR

Un solo grido: «Birds!»

Il fatto vero

“Birds!”. Sono le 15,27 del 15 gennaio 2009. Un secondo dopo, una serie di colpi e tonfi e vibrazioni viene registrata dal CVR (cockpit voice recorder) dell’A 320 della US Airways, volo 1549. La voce è quella del comandante Chesley Sullenberger.

L’Airbus è decollato due minuti prima dall’aeroporto La Guardia di New York. Ha per destino Charlotte, North Carolina, e trasporta 150 passeggeri e cinque membri d’equipaggio. Si trova ad appena 2.818 piedi di altezza (circa 850 metri) e sta sorvolando il Bronx quando si scontra con un denso stormo di uccelli. La velocità è di soli 214 nodi (400 km/h), bassa perché l’aereo è ancora in salita e appena partito.

Il sibilo di entrambi i motori decresce immediatamente, fino a quasi spegnersi.

Entrambi sono danneggiati. Ed entrambi cessano di produrre la spinta necessaria al volo.

Dodici secondi dopo l’impatto, Sullenberger, che al decollo agiva come secondo ufficiale, riprende i comandi: “My aircraft”. Ordina al suo copilota di consultare il QRH (quick reference handbook) per la procedura da seguire in caso di perdita di spinta in entrambi i motori. Poi lancia il suo mayday: “mayday mayday mayday…

this is…Cactus fifteen thirty nine hit birds, we’ve lost thrust in both engines, we’re turning back towards LaGuardia”. Il CTA ordina una virata a sinistra e una prua di 220° per il ritorno verso l’aeroporto. Sullenberger accende l’APU, il sistema ausiliario di generazione di energia elettrica di bordo. Una scelta fondamentale, potrà disporre dell’energia che muove le superfici di comando dell’aereo. Mentre iniziano la virata, il copilota incomincia a leggere la procedura prevista per quest’emergenza: ““if fuel remaining, engine mode selector, ignition,” Sullenberger ordina: “ignition”. Non accade nulla. Il copilota: “Idle (inattivo)”. Sullenberger conferma: “Idle”. Il copilota:

“velocità ottima per riaccensione, trecento nodi. Non li abbiamo”. Risposta: “No”.

La procedura prevede 30 secondi d’attesa prima di un nuovo tentativo. Ma i motori non ripartono. L’Airbus è nelle peggiori condizioni immaginabili: lento, basso, con i motori praticamente spenti.Teoricamente può planare per una quindicina di chilometri. Ma è su un’area densamente popolata, e tutta costruita, con edifici molto alti. In più, ha a bordo ancora tutto il combustibile imbarcato per il volo.

Poi è lo scontro tra il guizzo di genio professionale e la burocrazia, tra la scelta individuale di un uomo e la macchina – un tema ricorrente della filmografia eastwoodiana, fitta com’è di indocili, schivi e solitari. Se, tra di loro, Sully è sicuramente uno dei meno fiammeggianti, e dei più amabili, l’eccezione racchiusa nella sua normalità è la chiave del film – magnificamente ancorata all’interpretazione di Hanks, in un’ennesima variante del suo americano tranquillo.

“Siamo seri”, dice Sully al grigio panel di esperti di aviazione dopo che due diverse simulazioni al computer provano che ce l’avrebbe fatta a rientrare incolume in entrambi gli aeroporti. “Non avete nemmeno preso in considerazione il fattore umano. La sorpresa, il fatto che non ci eravamo mai trovati di fronte a una cosa del genere”. È un’obiezione che gli giova soltanto 38 secondi. In cui stanno, però, le vite di 155 persone. Sono persone “normali” che quasi non conosce, appena tratteggiate, ammassate nell’aereo, e poi in bilico sulle sue ali, galleggianti sull’acqua grigiastra.

Nella brutta luce di un inverno freddo. Mentre, dalla riva e dall’aria arrivano i soccorsi – newyorkesi che non si scompongono di fronte a nulla, gente che sta facendo il suo lavoro. Come Sully. “Il merito di quello che è successo è di tutti, non solo mio”, dirà il vero Sully nei titoli di coda.

(come il titolo di lavorazione di “Invictus”, tra l’altro, in cui raccontò la storia di Mandela, tramite la nazionale di rugby degli Springboks). Con una costruzione per niente classica, ma fatta di giochi cronologici, ripetizioni, salti temporali e costruzione dell’attesa, il regista regala l’ennesima lezione di cinema della sua carriera. Perché anche se gioca con l’ordine degli eventi e con il tempo, Eastwood non forza mai il suo stile e, anzi, lo sfrutta per raccontare il capitano coraggioso “Sully” e il “miracolo dell’Hudson”: un incidente (e salvataggio) durato solo tra i 3 e 4 minuti.

Sullenberger, agendo d’istinto salvò tutti i 155 passeggeri che il suo aereo stava trasportando, rappresenta l’uomo retto,

giusto, che anche facendo leva sull’istinto sa che la manovra assurda che sta per fare è quella che va fatta. E nonostante questo la National Transportation Safety Board lo mette a dura prova e vuole fare chiarezza sul caso: perché non è tornato a La Guardia anche se avrebbe potuto? Qui entra in gioco, appunto, il fattore umano...

In poco più di 90 minuti, Eastwood firma il suo film più secco, addirittura il più nitido nelle intenzioni. Forse questa mancanza di sfumature non lo eleva a livelli di “Million Dollar Baby” o “Mystic River”. Ma resta una solida lezione di cinema, ferma e sicura:

e tutte le scene che descrivono l’incidente da diversi punti di vista valgono da sole il prezzo del biglietto.

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spettacoli

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lunedì, 24 ottobre 2016

la Voce

del popolo

secolo di vita, il Dramma chiama Francesco Macedonio e gli affida

“Il Campiello”. Scriverà Damiani:

“Macedonio si è attenuto a un affettuoso ricalco della scrittura goldoniana... con una recitazione graduata nei toni”. Il complesso, ridotto a sei elementi, conta sull’apporto di Elke Burul, Paolo De Paolis, Christian Carlo.

Una visione diversa della compagnia

Passeranno ben sette anni – mai pausa fu così lunga – prima di vedere un ulteriore testo di Carlo Goldoni. (De) merito mio: sono gli anni in cui dirigo il Dramma, ed ho una visione diversa sia del ruolo della compagnia che di cosa e quando e perché un autore o un titolo vadano messi in scena. Soprattutto non mi accontento (e lo reputo immeritato e fuori luogo per il complesso e per l’istituzione) di produrre spettacoli col solo intento di accarezzare il pubblico per il verso giusto. Cerco, e spesso trovo, il “valore aggiunto”, specie se mi devo rifare ai classici: Goldoni (e Pirandello e Fo, per restare alla drammaturgia italiana del Novecento) in primo luogo.

Devo essere sincero: le pressioni, amichevoli beninteso, non mancarono.

Fino a che non trovai la porta giusta a cui bussare. La porta si chiama(va) Walter Mramor e la sua compagnia Attori Associati di Gorizia e il regista, il chioggiotto Pier Luca Donin. Insieme, poi si trovarono altre... porte, a Verona e a Treviso. Nacquero così le ennesime

“Baruffe”, una coproduzione che per due stagioni (ma non sarebbe mancato un altro anno se... lasciamo perdere) ha tenuto banco. Qualcosa come oltre 160 repliche in giro per l’Italia, Roma compresa, e soprattutto una settimana al Teatro Goldoni di Venezia, altrettanto a Verona e la presenza a Mittelfest. Un successo strepitoso. Tutto, e non lo dico

con falsa modestia, da attribuire, prima che all’intelligente regia del Donin, ai quattordici attori, sette “nostri” e sette veneto-friulani, con uno straordinario Bruno Nacinovich (a destra nella foto di copertina, ndr): nella ventina di recite viste, in una sola occasione Bruno, negli stracci marinareschi del

“farfuglioso” Sior Fortunato, ha ricevuto meno di otto, dico otto, applausi a scena aperta. (Ed Elvia – Madonna Libera - ha ottenuto la “nomination” come migliore attrice non protagonista dell’anno dall’associazione di categoria degli artisti teatrali della Croazia).

«La locandiera» di Paolo Magelli

Settant’anni e venticinque allestimenti, tra debutti e “remake”. Ed ora arriva

“La locandiera” di Paolo Magelli. Il regista pratese al suo attivo ha già

“qualche” Goldoni. Anzi, il primo che fece – prima metà dei Settanta a Belgrado: “Le Baruffe chiozzotte”, pensa te... – unitamente a “La Mandragola”, gli spalancarono le porte della scena belgradese ed (ex)jugoslava, quindi di quella europea. Non ho motivo di dubitare che si tratterà di un vero e proprio evento. Merda!

P.S. Per chi non lo sapesse, è l’augurio nel mondo treatrale italiano e spagnolo.

Risale ai tempi di quando i signori si recavano a teatro in carrozza. Se la cacca di cavallo era tanta davanti al teatro in cui nobili e borghesi si erano recati, voleva dire che lo spettacolo piaceva. Se ce n’era poca allora significava che se n’erano andati prima della fine...

Anno 2 / n. 10 / lunedì, 24 ottobre 2016

Caporedattore responsabile f.f.

Roberto Palisca Redattore esecutivo Helena Labus Bačić Impaginazione Denis Host-Silvani la Vocedel popolo IN PIÙ Supplementi è a cura di Errol Superina

Edizione SPETTACOLI

Collaboratori

Sandro Damiani, Ivana Precetti, Dragan Rubeša, Fabio Sfiligoi FotoPixsell e Creative Commons

[email protected]

FENOMENI di Dragan Rubeša

IL DOCUMENTARIO ITALIANO STA ATTRAVERSANDO UN PERIODO DI GRANDE FORTUNA

“L

a realtà diventa finzione”, dice uno dei non-attori nell’eccellente docu- drama Communion diretto dalla regista polacca Anna Zamecka, proiettato nel programma “Semaine de la Critique” nell’am- bito dell’ultima edizione del Locarno Film Festival, il quale tratta la follia e i pericoli del fondamentalismo cattolico polacco attraverso i preparativi per la prima comunione di un ragazzino autistico. Vale lo stesso anche per le scene introduttive del film Bangkok Nights, di Katsuya Tomita, che rievocano il segmento thailandese del trittico Whore’s Glory, di Michael Glawogger. Tomita non ha soltanto usato i medesimi volti delle prostitute thailan- desi nella vetrina di Thaniya Road, ma ha pure decostruito la scena nella quale esse visitano il tempio rionale al ritorno dal turno notturno.

Perché, come disse Godard, “ogni grande fin- zione fa affidamento al documentarismo, allo stesso modo in cui ogni grande documentario si basa sulla finzione, e colui che sceglie una di queste due opzioni si imbatterà prima o poi in quell’altra alla fine del suo viaggio”.

«Mister Universo»

Il nuovo docu-drama della coppia artistica Tizza Covi & Rainer Fimmel, Mister Universo, sta in bilico sulla linea che divide un film do- cumentario (non-attori, località reali) e le costruzioni narrative, ma non cerca di tro- vare un equilibrio effettivo e ideale. Com’è il caso con i due film precedenti, Babooshka e La pivellina, le cui storie sono ambientate in un piccolo circo nella periferia di Roma, così anche la storia di Mister Universo si svolge nel medesimo ambiente, con gli stessi personaggi, quasi fosse un sequel. Tomita (Bangkok Nights) riprende la stessa località di Glawogger come idea iniziale per la storia in cui delle prosti- tute autentiche incontrano la non-attrice thailandese Subenja Pongkorn, mentre Covi &

Fimmel usano l’ambiente reale di un circo in declino, ma con elementi che richiamano la finzione, il che non vuol dire che ogni film sul circo debba automaticamente essere un film

“felliniano”. Inoltre, il nostro amato protagoni- sta incontra lo scimpanzé morente apparso nel film di Fellini e partner di Adriano Celentano nella commedia Bingo Bongo, nonché ingag- giato da Dario Argento in Suspiria.

«La pivellina»

Il protagonista si chiama Tairo e i suoi capelli sono intrisi di quantità massicce di brillantina.

Ne La pivellina era pressapoco un adolescente.

Ora lo rivediamo, sette anni dopo, mentre pro- segue sulle orme del padre, un domatore di leoni. Ma i leoni di Tairo sono vecchi e si rifiu- tano di mangiare. Ne La pivellina aveva fatto amicizia con una coppia di artisti del circo, Patti dai capelli rossi e suo marito Walter, che avevano trovato una bambina abbandonata in un campo giochi e l’avevano chiamata Asia (è questa “la pivellina” del titolo). Nella tasca di Asia c’era un biglietto sul quale sua madre aveva scritto che tornerà presto. Ma non è mai più tornata. Ora Tairo parte alla ricerca dell’ar- tista del circo Arthur Robin, più noto come Mister Universo, l’uomo più forte del mondo, che durante la sua performance aveva piegato un pezzo di metallo nella forma di ferro di cavallo, diventato poi l’amuleto di Tairo. Ma quando il ferro di cavallo gli viene rubato, egli parte per un lungo viaggio verso Milano per trovare Mister Universo e pregarlo a piegare un nuovo ferro di cavallo che dovrebbe portare nuovamente l’equilibrio nella sua vita. Com’è il caso con La pivellina, il cui ritmo è lento e riflessivo, con dialoghi improvvisati e lunghi silenzi nello stile del film diretto, ma senza elementi manieristici, così è pure l’odissea di

Tairo in Mister Universo, durante il quale in- contrerà, in un breve episodio, Patti e Walter.

In quell’occasione veniamo a sapere che Asia è ancora con loro. Ma adesso ha otto anni.

Un morente microcosmo circense

Anche se la loro cinepresa è quasi invisibile, Covi e Frimmel non vogliono nascondere i meccanismi narrativi della storia, che è estremamente compatta e lineare. In questo morente microcosmo circense, al contempo triste e affascinante, si muovono in maniera discreta e non invadente. Perché questo film è come un pezzo di vita. Ma è anche un film che sottolinea in maniera determinante la rinascita della scuola italiana del documentario, segnata da grandi nomi come Pietro Marcello (Bella e perduta), Pippo Delbono (Sangue, Vangelo), Federica Di Giacomo (Liberami), Francesco Rosi (Fuocoammare) e Marina Parenti &

Massimo D’Anolfi come un’altra incredibile coppia di autori, il cui film quasi sperimentale, L’infinita fabbrica del Duomo, è stato proiettato l’anno scorso a Locarno nel programma col- laterale “Signs od Life”, mentre il loro ultimo documentario, Spira Mirabilis, ha avuto la sua première mondiale quest’anno alla Mostra di Venezia. A queste coppie si aggiungono Thanos Anastopoulos e Davide Del Degan che nel do- cumentario L’ultima spiaggia parlano di confini diversi, ovvero di quelli che separano la parte femminile da quella maschile della spiaggia triestina, con due bagnini serbi sulla linea di separazione, ma anche di confini politici, di zone e linee di demarcazione.

Ispirati dalle cose semplici

Tutti questi autori trovano ispirazione nelle cose semplici, come quel pezzo di ferro nelle mani di Arthur Robin, l’uomo più forte del mondo, che oggi vive in un luna park fati- scente nella periferia di Milano con la sua ex assistente, troppo debole per piegare ferri di cavallo con le mani, ma ancora sempre in buona forma fisica.

Oppure quella fionda con la quale il ragazzino di Rosi in Fuocoammare colpisce i cactus e gli uccelli. Rosi, come Covi & Frimmel, utilizza tutti gli strumenti del documentario per aprire fughe immaginarie imprevedibili. In tal modo, il film di Rosi non è soltanto un documentario sulla tragedia dei profughi, la quale contrap- pone il “nostro mondo” a “quello lì”, con un talento visivo eccellente e una particolare precisione nella drammaturgia, bensì è un rac- conto di formazione di un ragazzo, simpatico ma non troppo, con l’occhio bendato, figlio del Corsaro Nero. Infatti, quando il suo prota- gonista confida al medico i suoi problemi con la respirazione, il medesimo effetto di man- canza di aria assale anche lo spettatore già nella scena seguente nella quale egli osserva i profughi infreddoliti e disidratati, i cui corpi tremano di freddo, dopo esser stati evacuati dalla guardia costiera.

Cinquant’anni fa, i profughi dall’isola di Lampedusa affollavano la Ellis Island new- yorkese. Lampedusa è un’odierna Ellis Island, mentre gli isolani si sono trovati per puro caso dall’altra parte del confine. Ma Rosi osserva il mondo degli isolani e il mondo dei pro- fughi come due entità separate. Per questo motivo, la scena in cui la nonna di Samuel in Fuocoammare prepara un delizioso brodetto richiama una scena simile nel film A Bigger Splash, di Luca Guadagnini, nel quale una vecchietta dalla Pantelleria sta preparando una saporita ricotta senza prestare attenzione alla notizia dell’ennesima tragedia dei profu- ghi che giunge dal televisore in cucina. Ancora una volta è in gioco quella linea delicata che separa la realtà dalla finzione.

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Mister Universo (2016)

IL FILM È UN PEZZO DI VITA

«Dolce, spigliata, graziosa Ester Vrancich»

Nel novembre del 1979, dunque cinque anni dopo, torna Goldoni: “La locandiera”.

Ed è un successo personalissimo di Ester Vrancich (Fantov, al tempo). Il critico parla di “freschezza interpretativa”; Ester, scrive, è stata “dolce, spigliata, graziosa”.

Primo Goldoni, oltre che per lei, per Elvia Malusà e il suo futuro compagno di vita e di scena, Bruno Nacinovich.

Dopo altri quattro anni ”a-goldoniani”

il Maffioli propone la propria idea de “I Rusteghi” (scene e costumi sono di un Maestro; Misha Scandella, già stretto collaboratore di grandi registi di prosa e lirica, nonché di Lovro Von Matačić).

Scrive Anita Peresson: “Giuseppe Maffioli è stato il grande concertatore del formidabile lavoro... Elvia Nacinovich è stata la trionfatrice della serata”. Dei rusteghi vengono sottolineate le prove dell’inossidabile Nereo Scaglia e di Galliano Pahor.

Nella stagione 1986/87 tornano in scena “Le baruffe chiozzotte”. La regia è di Gabris Ferrari. Dei “vecchi” del Dramma, sul palcoscenico c’è il solo Glauco Verdirosi. C’è anche la Braico- Štifanić, ma è tutt’altro che “vecchia”. Di

“voci nuove” abbiamo Sandro Vrancich, Rossana Grdadolnik, Alida Delcaro, Dario Saftich, Lucio Slama. E, fiore all’occhiello, Dario Penne, notissimo doppiatore di divi americani. Sedici repliche, duemilacinquecento spettatori. Goldoni continua a piacere.

«La finta ammalata»

Due stagioni più tardi, nel marzo del 1989, a vent’anni dal suo esordio alla guida artistica del Dramma, si ripresenta Francesco Macedonio, con “La finta ammalata”. Contrariamente a quanto da qualche anno va portando in scena

in collaborazione con Sergio D’Osmo, ovvero una rilettura di Goldoni, spogliato di orpelli, in una Venezia tutt’altro che frizzi e lazzi, il regista goriziano propende per una lettura “onirica”, ma che viene interpretata come “vicina” alla tradizione dei Baseggio. D’altronde, anche se così fosse, il Goldoni che la platea di casa nostra conosce e ama è quello coniugato da Benettelli e da Scaglia. Chi li ha mai visti i Goldoni di Strehler e di Visconti e dello stesso binomio Macedonio-D’Osmo?

Plausi, comunque, per la giovane Rossana Grdadolnik.

1992/93: dopo quarantanni, riecco

“Sior Todaro brontolon”, nella messa in scena di Gabris Ferrari. Giulio Marini ed Elvia Nacinovich fanno il pieno quanto a simpatie del pubblico e consensi della critica. Lo spettacolo compie una delle tourneès istriane più corpose della sua storia: 24 recite.

Nel dicembre del 1996, per il mezzo

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“I Rusteghi”: Nereo Scaglia e Giulio Marini (Dalla pagina 5)

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