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Caratterizzazione meccanica scaffold per tessuti ossei realizzati con stampa 3D e validazione modello computazionale

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Academic year: 2021

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(1)

SCUOLA DI INGEGNERIA INDUSTRIALE E DELL’INFORMAZIONE CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN INGEGNERIA BIOMEDICA

BIOMECCANICA E BIOMATERIALI

Tesi di Laurea Magistrale

CARATTERIZZAZIONE MECCANICA SCAFFOLD PER

TESSUTI OSSEI REALIZZATI CON STAMPA 3D E

VALIDAZIONE MODELLO COMPUTAZIONALE

Autore: Giorgio Scandelli

Matricola: 833500

Relatore: Prof. Pasquale Vena

Correlatore: Ing. Massimiliano Baleani

(2)

1 Introduzione 9 1.1 Tessuto osseo . . . 9 1.1.1 Tessuto corticale . . . 10 1.1.2 Tessuto trabecolare . . . 11 1.1.3 Proprietà meccaniche . . . 13 1.1.4 Principali patologie . . . 14

1.2 Riparazione dei difetti ossei . . . 16

1.2.1 Protesi . . . 16

1.2.2 Graft . . . 17

1.2.3 Ingegneria dei tessuti . . . 18

1.3 Scaffold per il tessuto osseo . . . 20

1.3.1 Proprietà richieste . . . 21

1.3.2 Modalità di fabbricazione . . . 22

1.3.3 Metodi di caratterizzazione . . . 24

1.3.4 Problematiche . . . 25

1.4 Scopo del lavoro . . . 27

2 Fondamenti Teorici 29 2.1 Stampa 3D . . . 30

2.2 Materiali elastici lineari . . . 32

2.3 Correlazione Digitale di Immagini . . . 35

2.4 Micro-Tomografia Computerizzata . . . 41

2.5 Metodo agli elementi finiti . . . 44

3 Materiali e Metodi 47 3.1 Modello agli elementi finiti . . . 47

3.1.1 Identificazione dei parametri che definiscono la microstruttura dello scaffold . . . 47

3.1.2 Realizzazione del modello . . . 49

3.1.3 Analisi del modello . . . 51

3.1.4 Analisi risultati modello computazionale . . . 52

3.2 Validazione del modello . . . 54

3.2.1 Selezione delle microstrutture di scaffold da caratterizzare sperimen-talmente . . . 54

3.2.2 Realizzazione degli scaffold . . . 54

(3)

3.3 Determinazione delle proprietà elastiche del bioinchiostro . . . 59 3.4 Confronto tra comportamento meccanico degli scaffold realizzati in

bioin-chiostro e le predizioni del modello FEM . . . 63

4 Risultati 65

4.1 Predizioni dell’analisi agli elementi finiti sui modelli in PCL . . . 65 4.2 Proprietà meccaniche degli scaffold in PCL . . . 70 4.3 Caratteristiche del materiale di base . . . 72 4.4 Predizioni modello FEM e proprietà meccaniche degli scaffold in bioinchiostro 76

5 Discussione dei risultati 79

6 Sviluppi futuri 82

(4)

1.1 Schema della struttura dell’osso compatto e immagine microscopica . . . . 11

1.2 Immagine al SEM di un osso trabecolare . . . 12

1.3 Disposizione delle trabecole ossee in base alla direzione del carico applicato 13 1.4 Esempi di fissatore esterno e di endoprotesi . . . 17

2.1 Stampante 3D Discoveryrcon cappa per operazioni in ambiente sterile . . 31

2.2 Setup Digital Image Correlation . . . 35

2.3 Rappresentazione del campo di spostamenti effettuati dai punti P e Q a seguito di una deformazione . . . 36

2.4 Rappresentazione del campo di spostamenti effettuati dai punti P e Q e T a seguito di una deformazione angolare . . . 38

2.5 Setup di uno scanner per µ-CT . . . 42

2.6 Immagine radiografica 2D acquisita tramite µ-CT . . . 43

2.7 Esempio di mesh 3D . . . 44

3.1 Sezione delle geometrie prese in considerazione per il modello computazionale 49 3.1 Costruzione di un piano dello scaffold tramite Solidworks . . . 51

3.2 Immagini al microscopio dei campioni stampati in PCL . . . 55

3.3 Illustrazione rappresentante il setup sperimentale del DIC per un’acquisizio-ne 2D . . . 57

3.4 Coppia di supporti creati ad hoc per permettere la levigatura su tutti i lati del provino . . . 59

3.5 Esempio pratico di binarizzazione effettuata su un provino bulk tramite Adap-tive Thresholding, con l’immagine originale (destra) e quella binarizzata (sinistra) . . . 61

3.6 Esempi di diverse tecniche di thresholding . . . 62

4.1 Unità Ripetitiva (U) costituente l’entità che ripetuta periodicamente crea un intero piano del modello . . . 65

4.2 Analisi di convergenza del modello numerico all’aumentare del numero di Unità Ripetitive per una struttura SPA . . . 66

4.3 Analisi di convergenza del modello numerico all’aumentare del numero di Unità Ripetitive per una struttura SPS . . . 67

4.4 Valori medi del modulo elastico, con rispettiva deviazione standard, delle microstrutture in PCL considerate . . . 71

4.5 Esempio di andamento lineare della curva sforzo-deformazione del provino Bulk_05 . . . 72

4.6 Esempio della costanza del Coefficiente di Poisson durante la prova nel provino Bulk_05 . . . 72

(5)

4.8 Esempio di andamento non costante del Coefficiente di Poisson durante la prova del provino Bulk_01 . . . 73 4.9 Esempio di rottura per piani avvenuta nel provino Bulk_02 . . . 74 4.10 Cricca microscopica da rottura fragile (in rosso) avvenuta a pochi istanti

(6)

1.1 Composizione dell’osso . . . 9 1.2 Contenuto minerale in tre ossa con differenti funzioni . . . 10 1.3 Caratteristiche a confronto dell’osso corticale e dell’osso spongioso . . . . 12 1.4 Confronto delle proprietà meccaniche dell’osso spongioso e dell’osso

corti-cale utilizzando due diverse tecniche sperimentali . . . 13 1.5 Variazione delle proprietà meccaniche infrasoggetto di osso prelevato dallo

stesso sito anatomico ma con diverse densità apparenti . . . 14 3.1 Risultati dell’analisi al microscopio ottico relativi agli scaffold in PCL . . . 55 3.2 Dimensioni dei campioni ritenuti validi ai fini dello studio dopo la levigatura 60 4.1 Valori numerici dei termini della matrice di rigidezza studiati nell’analisi di

convergenza per una struttura SPA . . . 68 4.2 Valori numerici dei termini della matrice di rigidezza studiati nell’analisi di

convergenza per una struttura SPS . . . 68 4.3 Valori del modulo elastico delle microstrutture analizzate . . . 69 4.4 Dimensioni delle microstrutture in PCL analizzate . . . 70 4.5 Risultati relativi ai calcoli del modulo elastico sui provini ritenuti validi ai

fini della prova . . . 74 4.6 Valori del modulo elastico calcolato con il modello numerico della struttura 76 4.7 Dimensioni degli scaffold in bioinchiostro ritenuti validi ai fini dello studio 77 4.8 Risultati dell’analisi µ-CT relativi agli scaffold in bioinchiostro . . . 77 4.9 Risultati relativi ai calcoli del modulo elastico sugli scaffold ritenuti validi ai

(7)

Lo scopo di questo lavoro di tesi è stato sviluppare un modello computazionale che fosse in grado di predire il comportamento meccanico di scaffold realizzati per la riparazione del tessuto osseo. Tale modello è stato validato per confronto con il modulo elastico apparente determinato sperimentalmente su scaffold realizzati in policaprolattone. Il modello è stato in grado di predire il modulo elastico determinato sperimentalmente a meno di un fattore sistematico pari a 2. Non è escluso che tale discrepanza sia stata dovuta ad un degrado del policaprolattone in fase di stampa, sebbene tale ipotesi non sia stata verificata. Il modello è stato quindi utilizzato per predire il comportamento di scaffold realizzati con un nuovo bioin-chiostro. Questo ha richiesto la caratterizzazione del materiale per determinarne i parametri elastici che costituiscono i parametri di ingresso del modello numerico. Le prove speri-mentali, eseguite per verificare l’accuratezza delle predizioni del modello precedentemente sviluppato, hanno evidenziato i limiti del nuovo bioinchiostro, rappresentati principalmente dalla sue estrema fragilità. Tale limite, già emerso in fase di caratterizzazione del materia-le, ha costituito una criticità impedendo la realizzazione di microstrutture più complesse in cui i piani successivi erano sfalsati tra loro. Questo ha impedito di completare il piano del-le attività pianificate in quanto i due tipi di microstrutture realizzate sono collassate senza essere in grado di sopportare livelli di carico tali da ipotizzare un comportamento lineare elastico, rendendo impossibile il confronto con le predizioni del modello numerico. Tale modello costituisce comunque la base per sviluppare uno strumento utile per selezionare di-verse tipologie di microstruttura sulla base delle proprietà meccaniche e delle caratteristiche microstruttturali ideali alla proliferazione e differenziazione delle cellule. Il completamento del suo sviluppo richiede il superamento della criticità attuale del bioinchiostro rappresentata dalla sue estrema fragilità.

(8)

The aim of this work is to develop a computational model able to predict the mechanical behaviour of scaffolds produced for the restoration of bone tissue. Said model has been va-lidated by comparing the apparent elastic modulus determined experimentally on scaffolds made in polycaprolactone. The model was able to predict the experimental elastic modulus with a difference of a systematic factor of 2. This discrepancy could be caused by the de-gradation of the polycaprolactone in the printing process, although this hypothesis has not been verified. The model was then used to predict the behaviour of scaffolds made with a new bioink. This required the characterization of the material to determine its elastic para-meters, which constitute the input parameters of the numeric model. The experimental tests, performed to verify the accuracy of the model’s predictions formerly developed, highlighted the limits of the new bioink, which for the most part consist in its extreme fragility. This limit, already made evident in the bulk characterization, posed a critical issue preventing the production of more complex microstructures with an offset between consecutive planes. This prevented the completion of the planned studies since the two types of microstructure produced collapsed without being able to withstand load levels needed to speculate a linear elastic behaviour, making impossible the comparison with the numeric model predictions. This model is still a starting point to develop a tool useful to the selection of different types of microstructures based on the mechanical properties and the ideal microstructural features for the proliferation and differentiation of cells. The completion of its development requires to overcome the actual critical issue of the bioink represented by its extreme fragility.

(9)

1.1

Tessuto osseo

Il tessuto osseo è un tessuto connettivo mineralizzato che costituisce le ossa che, a loro vol-ta, costituiscono lo scheletro, una delle componenti chiave del corpo umano. Esso infatti ha svariate funzioni vitali tra cui dare sostegno ai tessuti molli dell’organismo, consentire il movimento tramite le articolazioni, proteggere gli organi vitali più sensibili, permettere l’omeostasi del calcio oltre a essere la sede di maggiore produzione di midollo osseo in età adulta per lo sviluppo di globuli rossi, globuli bianchi e piastrine. Grazie alla sua composi-zione, riassunta in Tabella 1.1, che comprende sia una parte organica che una inorganica mi-nerale, presenta ottime caratteristiche di durezza e di resistenza alla compressione, trazione e torsione.

Tabella 1.1: Composizione dell’osso [1]

Componenti Quantità in peso [%]

Sostanza inorganica 65-70

Matrice ECM 20-25

Collagene 90-96 % della matrice ECM

Proteoglicani e glicoproteine 4-10 % della matrice ECM

Acqua 9

Quindi il tessuto osseo può essere sostanzialmente visto come un materiale composito [2] costituito da una componente organica e una minerale, ovvero:

• Fibrille di collagene: come nella maggior parte dei tessuti connettivi si tratta di col-lagene di tipo I, con un modulo di Young di circa 1 GPa, e contribuisce alla flessibilità e resilienza del tessuto;

• Cristalli di apatite: si tratta di fosfato di calcio, con formula Ca10(PO4)++6 , che

di norma si lega con degli ioni ossidrile a formare idrossiapatite, con un modulo di Young che varia tra i 100 - 170 GPa, e fornisce le caratteristiche di elevata rigidezza e resistenza al tessuto.

Questo fa si che l’osso abbia un modulo elastico compreso tra quello dei suoi due compo-nenti principali, assestandosi su valori che sono tra i 10 - 20 GPa trovando quindi un buon compromesso tra resistenza e resilienza. Ci si può quindi aspettare che al variare della con-centrazione relativa dei due componenti si abbiano proprietà meccaniche diverse del tessuto osseo, come si può vedere in Tabella 1.2.

(10)

Tabella 1.2: Contenuto di sostanza minerale in tre ossa con differenti funzioni [3] Tipo di osso Contenuto minerale (%) Densità (g/cm3) Modulo Young (GPa) Resistenza flessione (MPa) Lavoro frattura (J/m2) Corna di cervo 59.3 1.86 7.4 179 6190 Femore di mucca 66.7 2.06 13.5 247 1710 Timpano di balena 86.4 2.47 31.3 33 200

Il tessuto osseo si può dividere in due categorie che verranno descritte in seguito e che differiscono non per composizione ma per fattori morfologici e strutturali.:

• Tessuto osseo corticale • Tessuto osseo trabecolare

Di seguito verranno presentate le principali caratteristiche morfo-strutturali di queste due categorie.

1.1.1 Tessuto corticale

Il tessuto osseo corticale si trova sulla superficie esterna della metafisi e dell’epifisi andando poi a formare la diafisi. Viene anche chiamato osso compatto in quanto non vi sono macro porosità evidenti ed ha una porosità ridotta che si attesta su un valore tra il 5 e il 30 % [4] in casi estremi.

La struttura di base del tessuto compatto è costituita da un’unità fondamentale definita osteone, una struttura circolare formata da lamelle, composte da fibrille di collagene rivestite di idrossiapatite, che si dispongono concentricamente ad un canale chiamato Canale di Ha-vers al cui interno scorrono i vasi sanguigni responsabili dell’apporto di nutrienti al tessuto e della rimozione delle sostanze di scarto. In un osteone maturo vi sono dalle 8 alle 20 lamelle intorno al canale di Havers e lungo i loro contorni sono presenti delle cavità che alloggia-no una delle componenti cellulari del tessuto osseo, gli osteociti. L’osteone è delimitato da una linea di cementazione ed è collegato con gli altri osteoni costituenti l’osso tramite delle lamelle interstiziali.

In Figura 1.1 si può osservare uno schema di una sezione di osso corticale dove vengono evidenziati tutti i componenti descritti e una sezione trasversale realizzata con microsco-pia ottica dove si notano in particolar modo il canale di Havers e le lacune contenenti gli osteociti.

(11)

(a) Struttura osso compatto

(b) Microscopia ottica di un sistema Haversiano

(medcell.med.yale.edu/histology/bone_lab/images/)

Figura 1.1: Schema della struttura dell’osso compatto [4] e immagine con un dettaglio del canale centrale e delle lacune

1.1.2 Tessuto trabecolare

La differenza sostanziale tra osso compatto e trabecolare è che quest’ultimo ha una macro porosità nettamente maggiore rispetto all’altro, valore che può variare tra 30 e 90 %

(12)

Figura 1.2: Immagine al SEM di un osso trabecolare (hansmalab.physics.ucsb.edu/afmbone.html)

collagene con depositata idrossiapatite, ma è a loro organizzazione che è radicalmente di-versa. Infatti non vi è formazione del Canale di Havers e non c’è un orientamento spaziale preferenziale delle lamelle che sono impacchettate a formare strutture traviformi denomina-te trabecole che danno il nome al tipo di denomina-tessuto, come è mostrato in Figura 1.2 dove sono presentate delle sezioni analizzate con tecnica microscopica.

Il criterio alla base di queste strutture è quello di massimizzare la resistenza meccanica utilizzando la minor quantità di materiale possibile. Quindi la struttura dell’osso trabecolare è molto influenzata dal tipo di carico a cui è sottoposto e dalla sua storia di carico, osserva-zioni che erano già state formalizzate da Wolff nelle omonime leggi nel 1892. Quanto detto si può osservare in Figura 1.3 dove è evidenziato come la disposizione delle trabecole ossee seguano le linee di forza del carico applicato in quella particolare regione anatomica.

Le similitudini (densità) e le differenze (densità apparente) tra i due tipi di tessuto sono riassunti in Tabella 1.3, ad evidenziare come il materiale di base costituente i due sia lo stesso.

Tabella 1.3: Caratteristiche a confronto dell’osso corticale e dell’osso spongioso [4]

Osso Compatto Osso Spongioso

5-30 % porosità 30-90 %

1.8-2.0 g/cm3 densità 1.8-2.0 g/cm3

(13)

Figura 1.3: Disposizione delle trabecole ossee in base alla direzione del carico applicato [4]

1.1.3 Proprietà meccaniche

L’osso ha un comportamento che, grazie alla sua organizzazione interna e ai materiali da cui è composto, può essere efficacemente approssimato come elastico. Tra l’altro è anche presente un range abbastanza ampio dove la deformazione è di tipo lineare, deformazioni che in ogni caso sono piccole e possono essere quindi definite come infinitesimali.

A livello locale l’osso corticale e quello trabecolare hanno proprietà meccaniche simili come si può vedere dallo studio di Turner et al. del 1999 [5] presentato in Tabella 1.4, con addirittura una valore maggiore del modulo elastico per l’osso spongioso rispetto al corticale sollecitato in direzione trasversale. Tuttavia, a causa delle differenze strutturali dei due, a livello macroscopico risultano essere molto diverse.

Tabella 1.4: Confronto delle proprietà meccaniche dell’osso spongioso e dell’osso corticale utilizzando due diverse tecniche sperimentali

Provino Modulo di Young

(acustico)

Modulo di Young (nanoindentazione)

Osso spongioso 17.50 ± 1.12 (n=3) 18.14 ± 1.70 (n=30)

Osso corticale (trasversale) 14.91 ± 0.52 (n=3) 16.58 ± 0.32 (n=60) Osso corticale (longitudinale) 20.55 ± 0.21 (n=3) 23.45 ± 0.21 (n=60) Osso corticale (media) 17.73 ± 0.22 (n=3) 20.02 ± 0.27 (n=60)

Il comportamento meccanico dell’osso può essere influenzato da una serie di fattori come: • Sito anatomico di estrazione del campione

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• Velocità di deformazione applicata

• Età e sesso del paziente da cui viene prelevato il campione

Data la natura preferenziale della disposizione delle strutture all’interno dell’osso in base alla direzione del carico esterno applicato il tessuto osseo è da definirsi un materiale fortemente anisotropo.

L’anisotropia del tessuto spongioso è dovuta all’orientamento delle trabecole ossee e vi-sta la loro disposizione spaziale in direzioni diverse in base al carico a cui sono sottoposte il suo comportamento può essere definito ortotropo. Quindi il tessuto trabecolare è molto influenzato dal sito di estrazione del campione. Infatti si possono osservare differenze signi-ficative in campioni con densità apparente simile prelevati da diversi distretti anatomici [6]. Tuttavia la densità apparente è a sua volta un parametro importante che può anche causare una differenza delle proprietà meccaniche infra-soggetto in campioni presi dagli stessi siti anatomici come evidenziato dagli studi di Ashman e Rho [7] (Tabella 1.5).

Densità apparente [Kg/cm3] Densità materiale [Kg/cm3] Modulo strutturale [GPa] Modulo materiale [GPa] Femore 1 (n=11) 283±79 1803±135 0.96±0.39 12.7±2.00 Femore 2 (n=21) 344±88 1777±190 1.78±0.86 13.10±1.55 Femore 3 (n=21) 375±110 1730±129 2.17±1.07 13.10±1.05

Tabella 1.5: Variazione delle proprietà meccaniche infrasoggetto di osso prelevato dallo stesso sito anatomico ma con diverse densità apparenti

Il comportamento del tessuto osseo corticale invece può essere considerato di tipo tra-sversalmente isotropo in quanto può essere visto come un composito con delle fibre annegate in una matrice, dove nella realtà la parte delle fibre è ricoperta dagli osteoni. Il tessuto quindi ha una direzione di carico preferenziale con proprietà meccaniche molto superiori alle altre, in questo caso quella longitudinale. Si è anche constatata una differenza di comportamento definita dal tipo di carico impresso all’osso compatto, ovvero se di trazione o compressio-ne, risultando in sforzi a rottura più elevati nel caso della compressione sia in direzione longitudinale che trasversale, mentre per quanto riguarda le deformazioni a rottura è predi-letta la direzione longitudinale a trazione e quella trasversale a compressione come si può estrapolare dagli studi di Natali e Meroi [8].

1.1.4 Principali patologie

Le patologie a carico del tessuto osseo possono essere molteplici e con varie cause, da de-ficienze ormonali a infezioni a difetti genetici. A queste deve aggiungersi la frattura di un

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segmento osseo. La frattura di un tessuto non costituisce un problema ma si possono veri-ficare casi di ritardo di consolidazione che possono evolvere in pseudoartrosi, caratterizzata dalla presenza di tessuto fibrocartilagineo. In questi casi la funzionalità del tessuto è com-promessa e può essere necessario l’intervento chirurgico, con la necessità di innesti ossei nei casi più complicati.

Le patologie più diffuse si possono riassumere brevemente di seguito:

• Osteoporosi: è una perdita di minerali all’interno dell’osso dovuta a deficienze or-monali [9]. Causa un infragilimento progressivo dell’osso rendendolo sempre più suscettibile a rotture anche a carichi bassi;

• Osteogenesi imperfetta: malattia genetica che causa malformazione e infragilimento delle ossa a causa di una anomalia nella sintesi del collagene di tipo I [10];

• Osteomielite: malattia infettiva dell’osso causata da batteri che causa dolori e limita-zione dei movimenti [11];

• Cancro: secondo la definizione coniata dall’oncologo Rupert Allan Willis è “una mas-sa abnormale di tessuto che cresce in eccesso ed in modo scoordinato rispetto ai tes-suti normali, e che persiste in questo stato dopo la cessazione degli stimoli che hanno indotto il processo” [12].

(16)

A partire dalla seconda metà del novecento si sono realizzati notevoli passi avanti in ambito medico-chirurgico per quanto riguarda le tecniche di riparazione di difetti o traumi che ri-guardano la quasi totalità dei tessuti del corpo umano, compreso il tessuto osseo. Ovviamente oltre alla ricerca medica è stata di fondamentale importanza anche quella ingegneristica nello sviluppo di nuovi materiali e dispositivi sempre più performanti e adatti ad essere utilizzati in un ambiente difficile come può essere il corpo umano. Le categorie di materiali da cui attingono i dispositivi biomedicali sono le più svariate, di natura organica e inorganica, tra cui metalli, polimeri, ceramici e compositi. La direzione verso la quale ci si sta spingen-do è quella dei cosiddetti materiali biomedicali di terza generazione [13] che combinano la biodegradabilità alla bioattività, aiutando il corpo a guarire da solo.

Nel campo delle riparazioni del tessuto osseo la macro categoria dei dispositivi biomedi-cali utilizzati sono:

• Dispositivi protesici; • Trapianto di graft; • Ingegneria dei tessuti. 1.2.1 Protesi

Per protesi si intende un dispositivo atto alla sostituzione o riparazione di una parte del corpo mancante o danneggiata da una determinata patologia o trauma. Questa categoria ha visto una crescita di utilizzo negli ultimi decenni soprattutto nei campi dell’ortopedia e dell’odontoiatria.

In campo ortopedico l’obiettivo principale è solitamente la restituzione della funzionalità ad un giunto articolare che è stato danneggiato da un evento traumatico. Esempi significativi sono la protesi d’anca, di ginocchio e di spalla; in campo odontoiatrico si hanno invece diversi tipi di impianti dentali.

Una classificazione dei dispositivi protesici può essere effettuata in base al luogo e alla durata dell’impianto:

• Endoprotesi: impianti a lungo termine che sono completamente inseriti all’interno del corpo umano senza collegamenti con l’esterno di alcun tipo (Figura 1.4b).

• Fissatori esterni: dispositivi atti al supporto completo o parziale di una parte danneg-giata in attesa della sua guarigione tramite meccanismi fisiologici. Non sono comple-tamente impiantabili e vengono fissati tramite viti e barre, ma la parte principale del dispositivo è esterna al corpo. Sono quindi impianti a breve-medio termine (Figura 1.4a).

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(a) Fissatore esterno Ilizarov applicato alla tibia

(b) Protesi d’anca

Figura 1.4: Esempi di fissatore esterno e di endoprotesi

1.2.2 Graft

Un’ulteriore tecnica di intervento nel caso della riparazione di tessuti biologici è quella dei graft, ovvero il trapianto di una parte di tessuto prelevato da un donatore e quindi teori-camente già pronta per essere impiantata senza dover seguire altre lavorazioni secondarie. Questa categoria di prodotti ha i suoi vantaggi rispetto alle controparti inorganiche in quanto il risultato finale dovrebbe portare ad un’integrazione completa con i tessuti preesistenti, ren-dendo indistinguibile il tessuto originale da quello trapiantato. Tuttavia, trattandosi di tessuti biologici, si possono avere gravi problematiche relative all’immunocompatibilità e al rigetto dell’impianto.

Una classificazione dei graft può essere fatta in base al tipo di donatore:

• Autograft: il donatore è il paziente stesso. Vengono prelevate piccole porzioni di tessuto sano in altre aree del corpo che non sono state danneggiate. È il tipo di trapianto

(18)

con meno rischi in quanto è essenzialmente nulla la possibilità di un rigetto visto che i tessuti hanno la stessa provenienza biologica;

• Allograft: il donatore è diverso dal paziente ma appartiene alla stessa specie. Così facendo si aumentano i rischi di una reazione immunologica, anche con trapianti tra parenti prossimi a meno di compatibilità del DNA mitocondriale, ma si aumenta di molto la quantità di tessuto prelevabile e impiantabile dando la possibilità di curare lesioni anche estese;

• Xenograft: il donatore appartiene ad una specie diversa da quella del paziente. È la soluzione con più potenziale per la commercializzazione su larga scala in quanto si potrebbe attingere dai tessuti di animali, ma sono anche elevati i rischi di rigetto o addirittura di trasmissione di zoonosi.

Nel caso particolare dei trapianti di tessuto osseo il gold standard è tutt’ora l’autograft, come si può constatare in diversi studi di letteratura eseguiti su animali di piccola-media taglia come ad esempio in conigli che mostrano risultati migliori quando trapiantati con autograft [14].

1.2.3 Ingegneria dei tessuti

L’ingegneria dei tessuti combina l’utilizzo di materiali inorganici e organici per portare a guarigione il tessuto danneggiato. Il procedimento prevede la semina di cellule su di un supporto artificiale, denominato scaffold, e la loro proliferazione prima dell’impianto. Le cellule, una volta colonizzato lo scaffold e essersi differenziate nel tipo cellulare proprio del tessuto danneggiato, dovrebbero produrre nuova matrice ECM così da aiutare la riparazione spontanea di una lesione che era in origine troppo estesa per i normali processi fisiologici. Le problematiche tipiche sono simili a quelle dei graft, ovvero la possibile risposta immuno-genica dell’organismo alle cellule impiantate, con l’aggiunta di considerazioni relative anche al materiale costituente lo scaffold che deve essere anch’esso biocompatibile e con prodotti di scarto dovuti alla sua degradazione gestibili senza problemi dal metabolismo.

La tipologia di impianto può essere divisa in categorie in base al tipo di cellule utilizzate: • Autologhe: le cellule utilizzate provengono dal paziente stesso. È la categoria più sicura e che riduce drasticamente la possibilità di reazioni immunitarie. Gli svantaggi di questo approccio sono la limitata disponibilità e la scarsa capacità di proliferazione in vitro;

• Allogeniche: le cellule impiantate provengono da un donatore esterno della stessa specie del paziente. In questo caso aumentano i rischi di immunogenicità ma aumenta notevolmente la disponibilità di materiale cellulare da poter utilizzare;

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• Xenogeniche: le cellule sono prelevate da un individuo esterno ma appartenente ad un’altra specie rispetto a quella del paziente. Questa soluzione viene utilizzata solo in casi molto particolari (cartucce disintossicanti per insufficienza epatica acuta) o in cui c’è un immediato rischio per la vita del paziente in quanto è altamente immunogenica sebbene sia la tipologia più facilmente reperibile in grosse quantità.

(20)

Per scaffold si definisce un supporto sintetico utilizzato per favorire la guarigione di lesioni altrimenti troppo grosse per essere riparate in autonomia dal corpo umano. La branca che ne fa largo utilizzo è l’ingegneria dei tessuti, in quanto allo scaffold deve essere affiancata anche una componente cellulare che si interfacci con i tessuti biologici presi in considerazione.

Gli scaffold sono strutture tridimensionali sulle quali vengono seminate cellule preceden-temente fatte proliferare in vitro. Devono quindi avere delle specifiche proprietà chimico-fisiche per favorire l’adesione cellulare e sostenere nelle fasi iniziali la crescita in vivo del tessuto da riparare. Nella maggior parte dei casi gli scaffold sono dispositivi biodegradabili con cinetica di degradazione dipendente dalla loro natura e composizione chimica, cinetica che deve essere calibrata per far sì che il processo di guarigione proceda in parallelo a quello di degradazione.

Per quanto riguarda la particolare categoria degli scaffold per tessuto osseo, essi devono avere delle proprietà meccaniche e chimiche che vadano a replicare, per quanto possibile, quelle dell’osso naturale, così da favorire una completa e rapida guarigione della lesione. Per questo negli anni sono state esplorate diverse classi di materiali per venire incontro a queste esigenze, dividendo quindi gli scaffold in diverse categorie:

• Polimeri: i polimeri sintetici più utilizzati in ambito biomedico sono essenzialmente l’acido poliglicolico (PGA), l’acido polilattico (PLA) e il policaprolattone (PCL) che coprono una vasta gamma di requisiti necessari alla rigenerazione dei tessuti [15]. So-no biocompatibili e biodegradabili con diverse cinetiche di degradazione che possoSo-no essere modulate in base alle proprietà chimiche del polimero scelto e delle necessità dell’applicazione. Tra questi il PGA è il materiale più cristallino e con proprietà mec-caniche più elevate, seguito dal PLA nella sua forma semicristallina e dal PCL che ha un comportamento molto più resiliente con elevate deformazioni a rottura (>700 %) [16]. Questa tipologia di materiali è largamente disponibile sul mercato e producibile su larga scala, sia in serie che in maniera custom grazie alle nuove tecnologie emer-genti come la stampa 3D. Bisogna tuttavia porre particolare attenzione al tipo e alla quantità dei prodotti di scarto di questo tipo di polimeri, che possono portare a reazioni infiammatorie e al rigetto dell’impianto [17].

• Metalli: sono sfruttati pe le loro ottime proprietà meccaniche e di supporto del ca-rico, specialmente in ortopedia e odontoiatria. In particolar modo è stato esplorato ampiamente l’uso del titanio e delle sue leghe, come il Nitinol, sia per le proprietà meccaniche simili a quelle dell’osso naturale ma anche per le sue particolari proprietà di memoria di forma che possono essere sfruttate in particolari applicazioni. Una delle problematiche di questa classe di materiali per l’utilizzo come scaffold è la difficoltà di

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lavorazione e soprattutto la necessità di trattamenti superficiali per favorire l’adesione cellulare.

• Ceramici: i materiali ceramici sono molto indicati nelle applicazioni di rigenerazio-ne del tessuto osseo per la loro similarità con la comporigenerazio-nente mirigenerazio-nerale dell’osso, in particolare si parla della famiglia dei calcio fosfati (CaP) [18]. I più diffusi com-mercialmente sono: idrossiapatite (HA), calcio solfato emiidrato (CSH), carbonato di calcio, dicalcio fosfato (DCP), tricalcio fosfato (TCP). Tuttavia quello usato nella maggioranza dei casi è l’idrossiapatite in quanto costituente della parte minerale del-l’osso naturale e, nella sua forma di scaffold poroso, riesce a legare fattori di crescita e diventare un materiale osteoinduttivo [19].

• Origine naturale: polimeri di origine naturale possono essere utilizzati per la realizza-zione di scaffold per tessuti ossei, grazie alle loro spiccate proprietà di biocompatibilità e al fatto che producono prodotti di degradazione che sono completamente riassorbiti o espulsi dall’organismo. I più diffusi e studiati sono il collagene, acido ialuronico, fibroina e chitosano.

• Compositi: negli ultimi periodi si è visto un largo interesse verso materiali compositi che permettano di coprire le lacune che ogni classe di materiali elencati preceden-temente ha, grazie appunto al loro uso combinato [20]. Solitamente viene utilizzata una matrice di polimero con delle inclusioni di calcio fosfato per elevare le proprietà meccaniche della struttura e portare le proprietà osteoinduttive tipiche dei calcio fosfa-ti senza inficiare in maniera importante la biodegradabilità della matrice polimerica. Anche l’utilizzo di polimeri naturali come il collagene, in abbinata con calcio fosfati, ha portato a risultati ottimi vista la similarità con la composizione del tessuto osseo naturale, con l’aumento della differenziazione degli osteoblasti e dell’osteogenesi in generale [21].

1.3.1 Proprietà richieste

Per poter essere impiantati gli scaffold devono avere determinate proprietà che garantiscano una buona riuscita dell’intervento a medio-lungo termine. Per questo devono soddisfare le seguenti richieste:

• Biocompatibilità: lo scaffold non deve causare reazioni immunitarie che possano por-tare ad un rigetto da parte dell’organismo. Inoltre anche i prodotti di scarto derivati dalla degradazione non devono essere tossici per l’ambiente biologico in cui si trova; • Proprietà meccaniche: lo scaffold deve avere proprietà meccaniche molto simili a

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Se così non fosse si avrebbe, soprattutto nei primi periodi post operatori, un alto ri-schio di cedimento prematuro dell’impianto o una cattiva integrazione con il tessuto originario;

• Porosità: uno scaffold per potersi integrare con il tessuto circostante ha bisogno di avere una porosità controllata e ben definita, che permetta la formazione di nuovi ca-pillari sanguigni per l’apporto di nutrienti, consentendo la sopravvivenza e la proli-ferazione della popolazione cellulare al suo interno. Quindi i pori dovranno essere interconnessi tra loro e la porosità dovrà avere un determinato valore in base a che tipo di tessuto osseo lo scaffold andrà a sostituire (trabecolare o compatto). Diversi studi sono stati effettuati nel corso degli anni per comprendere quale fosse la dimensione più adatta per i pori e, sebbene il dibattito sia ancora aperto su certe questioni, è stata stimata essere tra i 450 e i 1300 µm [22, 23];

• Biodegradabilità: perchè uno scaffold agisca nella maniera corretta deve avere una precisa cinetica di degradazione, che proceda di pari passo al processo di guarigione della lesione così da fornire maggiore supporto nei primi periodi, lasciando poi spazio al nuovo tessuto e consentirgli quindi di maturare e sopportare i carichi fisiologici in maniera graduale;

• Osteoconduttività: proprietà secondo la quale lo scaffold deve fornire alle cellule un ambiente adeguato per aderire, proliferare e formare una matrice extracellulare sulla sua superficie [24];

• Osteinduttività: abilità di indurre la formazione di nuovo tessuto osseo attraverso stimoli meccanici e biologici [24].

1.3.2 Modalità di fabbricazione

Un punto fondamentale in questo campo è trovare la giusta combinazione di materiali ade-guati allo scopo ma che siano anche producibili con tecniche non troppo sofisticate e che diano un buono controllo sul risultato finale. Per gli scaffold negli anni sono state esplorate diverse modalità di fabbricazione, e le più utilizzate sono suddivise in due macrocategorie ed elencate di seguito:

1. Tecniche tradizionali: sono tecniche basate generalmente su passaggi in soluzione o comunque sull’utilizzo di solventi e soluti, in forma liquida o meno, e sono le prime ad essere state sviluppate per la fabbricazione di scaffold per l’ingegneria dei tessuti. Tra queste vi sono:

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• Solvent Casting / Particulate Leaching: prevede la creazione di una soluzione tra il polimero desiderato (originariamente PLLA o PLGA) e un apportuno sol-vente (cloroformio o cloruro di metilene) che viene poi deposta in una vaschetta contenente un agente porogeno solubile in acqua (NaCl). Dopo aver fatto evapo-rare il solvente il tutto viene percolato in acqua fino a che il porogeno non si è completamente dissolto lasciando dietro di sè una porosità che varia in base alla sua concentrazione iniziale e al diametro dei suoi cristalli [25];

• Fiber Bonding: avendo a disposizione delle fibre del polimero prescelto (in ori-gine PGA) si possono connettere tra di loro a formare una struttura tridimensio-nale tramite l’immersione in una soluzione di un polimero a più basso punto di fusione (PLLA) che, una volta fatto evaporare il solvente, lascia le fibre del pri-mo polimero legate con il secondo. Dopodichè si procede a portare il tutto a una temperatura maggiore a quella di fusione di entrambi i polimeri così che il secon-do si sciolga prima facensecon-do da supporto al primo che, una volta fuso, creerà dei punti di giunzione tra le varie fibre creando una struttura tridimensionale solida. Successivamente il polimero a basso punto di fusione verrà fatto dissolvere con un oppurtuno solvente risultando nella struttura porosa finale [26];

• Gas Foaming: per evitare di usare solventi potenzialmente tossici se non corret-tamente rimossi nel processo produttivo, si è pensato di utilizzare un gas come agente porogeno [27]. In questo procedimento il polimero viene saturato con anidride carbonica ad alta pressione per qualche tempo e poi la pressione vie-ne riportata rapidamente a quella ambiente diminuendo la solubilità del gas e lasciando quindi dei vuoti;

• Electrospinning: in questo processo una soluzione polimerica viene posta alla fine di un tubo capillare, sostenuta solo dalla sua tensione superficiale. Questa soluzione viene sottoposta a un campo elettrico che la carica fino a quando le forze di repulsione elettrica, causate dall’accumulo di cariche sulla punta del capillare che generano una forza opposta a quella della tensione superficiale, non sovrastano quest’ultima, causando quindi la creazione di un flusso carico che può essere direzionato con un campo elettrico. Durante il tragitto il solvente evapora lasciando una fibra di polimero carica che verrà poi raccolta su uno schermo metallico [28]. Negli ultimi anni questa tecnica è stata perfezionata allo scopo di creare strutture tridimensionali adatte alla funzione di scaffold [29].

2. Tecniche non tradizionali: sono tecniche di recente sviluppo e che hanno portato di-versi vantaggi rispetto a quelle tradizionali precedentemente elencate. Tra questi i più evidenti sono un maggiore controllo sulla geometria finale del campione, con porosità

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ben distribuite e interconnesse. Inoltre le geometrie possono essere anche comples-se e ben riproducibili visto che tutte queste tecniche si basano sulla realizzazione di un modello CAD (Computer Aided Design) dell’oggetto contenente le informazioni sulle sezioni trasversali ai vari livelli che verranno riprodotte strato per strato fino ad ottenere il prodotto finale. Le tecniche oggi più diffuse sono:

• Stereolitografia (SLA): il processo si basa sulla polimerizzazione tramite irrag-giamento UV di un monomero fotopolimerizzante allo stato liquido. Dopo che il raggio laser ultravioletto ha realizzato il pattern riguardante uno strato, il vasso-io su cui si deposita il solido viene abbassato nella vasca del monomero così da permettere la realizzazione del successivo strato e così via [30];

• Stampa a getto di leganti: basata sulla tecnologia di stampa a getto d’inchio-stro, una testina spruzza del legante su un letto di polimero in polvere unendo tra di loro particelle adiacenti e formando così la sezione trasversale desiderata. Il tutto viene poi abbassato e un altro strato di polvere viene aggiunto per ripetere il processo. In questo caso la polvere che non viene fissata con il legante forni-sce un supporto fisico all’oggetto in fase di produzione e verrà successivamente eliminata alla fine del procedimento [31];

• Fused Deposition Modeling (FDM): basata sull’estrusione del materiale fuso in forma di fibre da un ago di stampa a formare strati successivi grazie all’abbassa-mento del piatto di stampa dopo ogni passata [32].

• Plotter 3D: tecnica basata sull’estrusione di polimero in forma liquida o pastosa tramite aria compressa [33]. La tecnica di stampa è analoga a quella dell’FDM descritta in precedenza.

1.3.3 Metodi di caratterizzazione

Dopo che lo scaffold è stato prodotto si avvia la parte sperimentale per la caratterizzazio-ne delle sue varie proprietà di interesse, caratterizzazio-necessarie per una comprensiocaratterizzazio-ne delle possibilità di successo del dispositivo nelle varie situazioni in cui potrebbe essere utilizzato. Queste proprietà generalmente sono:

• Resistenza meccanica e anisotropia: per stabilire i carichi massimi a cui può venire sottoposto il dispositivo prima di rompersi e un’eventuale direzione di carico preferen-ziale. Vengono generalmente utilizzate macchine di prova uniassiale in configurazione confinata e non;

• Superficie colonizzabile: definisce la superficie utile alla colonizzazione della com-ponente cellulare impiantata insieme allo scaffold;

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• Permeabilità: per stimare la capacità dello scaffold di essere attraversato da un liqui-do. Utilizzata anche per valutare l’interconnessione tra i pori e quindi la capacità di apporto di nutrienti a tutta la popolazione cellulare che colonizza lo scaffold;

• Porosità: parametro utilizzato per analizzare la dimensione dei pori e la loro distri-buzione tramite varie tecniche come la porosimetria a mercurio o la porometria a flusso;

• Morfologia: utilizzata per stabilire la struttura interna dello scaffold e eventualmente valutare se ci sono differenze sostanziali con il design originale, possibilmente dovute al processo produttivo. La tecnica più utilizzata per questo genere di studio è la Micro Tomografia Computerizzata (vedi Paragrafo 2.4).

Altri metodi di analisi superficiale largamente utilizzati possono essere, solo per citarne alcu-ni, la Microscopia ottica e la Microscopia a scansione elettronica (SEM) che permettono però di analizzare solo le superfici visibili, al contrario della Micro Tomografia Computerizzata. 1.3.4 Problematiche

Sebbene gli scaffold facciano parte di una categoria di dispositivi che negli ultimi anni ha suscitato molto interesse nella comunità medica e scientifica non sono ancora utilizzati su larga scala in quanto hanno ancora delle problematiche irrisolte che possono portare ad un fallimento prematuro dell’impianto in certe situazioni. I problemi rientrano in quattro categorie:

• Proprietà meccaniche non adeguate: quando si tratta di lavorare in un ambiente biologico come il corpo umano la tipologia di tessuti che si va ad incontrare è molto varia, e di conseguenza gli scaffold devono adattarsi alle proprietà di ogni singolo tes-suto che cercano di andare a riparare. Nel caso specifico di scaffold ossei un problema ancora in via di risoluzione è il bilanciamento delle proprietà di resistenza e resilienza in quanto, se una arriva a sovrastare l’altra, si possono avere scaffold molto resistenti ma fragili e viceversa. L’osso naturale ovvia a questo problema essendo un materia-le di tipo composito (vedi Paragrafo 1.1) e facendo della sua versatilità uno dei suoi punti di maggiore forza. Ad oggi si fa ancora fatica a trovare dei materiali composi-ti sintecomposi-tici i cui componencomposi-ti soddisfino tutte le proprietà richieste per essere ucomposi-tilizzacomposi-ti nella medicina rigenerativa (vedi Paragrafo 1.3.1) e che siano al contempo di facile produzione;

• Mancanza di osteointegrazione: una volta impiantato lo scaffold può non venire completamente integrato nel sito di impianto in quanto non ha le proprietà chimico-fisiche adeguate per interfacciarsi con il tessuto naturale. Di conseguenza si è alla

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ricerca di materiali chimicamente più compatibili e che simulino più verosimilmente il comportamento del tessuto osseo così da venire riconosciuti come componenti non estranee. Altra strada che sta venendo percorsa è quella di trattamenti superficiali che portino agli stessi risultati descritti in precedenza senza però variare completamente la natura dei materiali costituenti, trattamenti che possono essere chimici o meccanici e che portino a un maggior reclutamento di cellule osteoprogenitrici dall”organismo o una maggiore proliferazione delle cellule precedentemente seminate sullo scaffold. Per farlo possono essere utilizzati dei fattori di crescita o delle proteine specifiche dell’ECM depositate sulla superficie dello scaffold [34];

• Neovascolarizzazione: è di fondamentale importanza che alle cellule all’interno dello scaffold arrivino nutrienti perchè sopravvivano e segnali chimici per la differenziazio-ne. Siccome questo non può avvenire tramite semplice diffusione essendo le distanze troppo lunghe, vi è la necessità che lo scaffold venga vascolarizzato con nuovi capil-lari. Questo però non è così semplice in quanto è necessaria la giusta percentuale di macro porosità, una dimensione dei pori adeguata nonchè la loro interconnessione per favorire la cosiddetta neovascolarizzazione;

• Cinetica di degradazione errata: lo scaffold deve anche avere una cinetica di de-gradazione adeguata e che sia, nella situazione ideale, direttamente proporzionale al processo di guarigione. Questo garantirebbe un adeguato supporto alla popolazione cellulare impiantata così che possa proliferare e produrre nuova matrice ECM così da riparare la lesione nelle varie fasi della guarigione, oltre a fornire anche un supporto puramente meccanico per far sì che nei primi periodi il danno non vada a peggiorare e che più avanti il nuovo tessuto prenda i carichi fisiologici in maniera graduale. Questo è reso complicato dal grande numero di materiali diversi utilizzati e che posseggono cinetiche e modalità di degradazione differenti tra loro, nonchè dal fatto che per com-prendere appieno queste meccaniche in fase di studio, andrebbero fatti dei test in vivo difficili da eseguire quando possibili.

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Obiettivo di questo progetto di laurea magistrale è l’implementazione di una procedura per la selezione della microstruttura di scaffold per la rigenerazione del tessuto osseo basata su criteri di rigidezza meccanica, tenendo conto dell’idoneità alla semina e differenziazione delle cellule nella microstruttura, eseguita utilizzando le predizioni di modelli agli elementi finiti. Pertanto sarà eseguita un’analisi computazionale con la realizzazione di un model-lo agli elementi finiti rappresentante model-lo scaffold. Le analisi che verranno eseguite avranno lo scopo di ottenere dei dati sulle proprietà elastiche della struttura, in particolar modo del modulo di elasticità apparente. Le predizioni dei modelli saranno confrontate con i valori determinati sperimentalmente sulle medesime microstrutture. Il modello dovrà riprodurre in modo attendibile il reale comportamento dello scaffold, sebbene con le necessarie semplifi-cazioni introdotte per ridurre i costi computazionali. La procedura permetterà di prevedere con sufficiente accuratezza la variazione del modulo elastico apparente al variare di alcuni parametri strutturali, così da poter restringere il campo dei provini di interesse da dover pro-durre e provare sperimentalmente, riducendo in maniera drastica tempi e costi sia dovuti alla produzione stessa dei campioni che alla preparazione del setup sperimentale.

Lo studio può essere quindi diviso in quattro parti:

1. Realizzazione del modello computazionale ed esecuzione delle analisi elastiche: in questa fase sono stati realizzati i modelli CAD selezionando le geometrie di interesse allo studio variando determinati parametri strutturali come il diametro della fibra, la distanza tra le fibre in un piano e lo sfasamento tra i piani. Il tutto è stato poi esportato per effettuare l’analisi elastica per ottenere i valori del modulo di elasticità apparente nelle varie direzioni della nostra struttura;

2. Caratterizzazione degli scaffold prodotti con materiale noto e validazione del mo-dello: in questa fase sono stati prodotti e caratterizzati quattro tipologie di scaffold realizzati in Policaprolattone (PCL), selezionate basandosi sui risultati ottenuti dall’a-nalisi numerica, per poter stabilire il grado di corrispondenza tra i dati sperimentali e quelli computazionali e ottenere quindi una validazione del modello e determinare l’accuratezza delle predizioni. Gli scaffold sono stati caratterizzati mediante una prova di compressione monoassiale non confinata e l’utilizzo della tecnica di correlazione di-gitale di immagini per la misura degli spostamenti superficiali tra i diversi livelli dello scaffold

3. Caratterizzazione del nuovo materiale di base: poichè il progetto prevede l’utiliz-zo di un nuovo bioinchiostro per la realizzazione degli scaffold, e non essendo note a priori le proprietà meccaniche necessarie per il modello computazionale per poter de-finire il comportamento elastico del materiale (modulo di Young e di Poisson), è stata

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eseguita una campagna di prova mirata a caratterizzare il materiale mediante prove di compressione monoassiale non confinata per determinare i parametri richiesti;

4. Caratterizzazione degli scaffold prodotti con il materiale di interesse: all’interno di questa parte conclusiva sono stati prodotti e testati scaffold realizzati con il nuovo bioinchiostro, con medesime caratteristiche geometriche dei campioni analizzati nella fase due, allo scopo di valutare l’idoneità di tali scaffold a riempire difetti ossei e l’accuratezza delle previsioni del modello computazionale adattato con i parametri del nuovo materiale.

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In questo capitolo vengono presentati i fondamenti teorici sui quali sono basate le varie tecniche di indagine utilizzate in questo progetto, che verranno poi descritte nel caso d’uso specifico all’interno del Capitolo 3. Il tutto è divisibile in macro categorie in base all’ambito di studio nel quale queste tecniche vengono utilizzate:

• Produzione dei campioni: qui vengono esposti i principi alla base del processo pro-duttivo attraverso una stampante 3D (Paragrafo 2.1) e i motivi per i quali questo tipo di tecnologia è particolarmente indicato per questo tipo di applicazione;

• Analisi elastiche: vengono richiamati i fondamenti riguardanti la meccanica dei con-tinui con la definizione di materiali isotropi e ortotropi (Paragrafo 2.2) e la teoria su cui si basa la correlazione digitale di immagini (Paragrafo 2.3) per la misurazione di spostamenti e deformazioni non misurabili con metodi tradizionali;

• Analisi morfologiche: viene esposto il principio di funzionamento di un sistema per la Micro Tomografia Computerizzata (Paragrafo 2.4) utilizzato per scansionare i cam-pioni ed estrarne le caratteristiche morfologiche effettive e valutare possibili errori in fase di produzione;

• Analisi computazionale: si descrivono le basi del metodo agli elementi finiti (Pa-ragrafo 2.5), necessario per convertire problemi che ricadono nel campo dei continui ma necessitano di essere discretizzati per far sì che un calcolatore possa risolvere i problemi assegnati.

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Verranno qui ora presentate le modalità di funzionamento e le possibilità offerte dalla stam-pante 3D usata in questo studio, ovvero la 3D Discoveryrprodotta dalla regenHU (regenHU Ltd, Villaz-St-Pierre, Switzerland), visibile nell’immagine in Figura 2.1.

L’unità di base della stampante prevede una tavola su cui deve essere posto il supporto di stampa dei campioni, tale tavola si può muovere in direzione Y, mentre il supporto a portale delle varie testine di stampa si può muovere in direzione XZ. I tre movimenti lineari ortogo-nali permettono di coprire tutto il range delle coordinate spaziali. Questo specifico modello, rispetto a quelli descritti nel Paragrafo 1.3.2, differisce per il fatto che la componente mobile in direzione verticale non è più la base dove il provino viene stampato ma la testina di stampa stessa.

Una caratteristica di questo modello è il fatto di poter effettuare le stampe in ambiente sterile, in quanto le testine di stampa sono poste all’interno di una cappa che può essere sterilizzata tramite irraggiamento UV. Questo rende la stampante 3D utilizzabile anche in ambito biologico qualora sia necessario depositare cellule, ottenute da colture cellulari, nella struttura realizzata con la stampante 3D.

Per tale motivo la stampante è dotata di tre testine di stampa che permettono di utiliz-zare diversi tipi di materiali all’interno dello stesso macchinario. Questa soluzione offre la possibilità di realizzare provini constituiti da più di un materiale che può essere sia parte integrante del provino stesso sia di supporto che poi verrà rimosso. Nello specifico le tre testine di stampa sono costituite da :

• un termoestrusore per permettere la stampa di polimeri termoplastici;

• una testina per la stampa di bioinchiostri e di materiali in forma di liquido viscoso; • una testina per la deposizione delle componenti cellulari o idrogeli a bassa viscosità. Nell’eseguire la stampa, dipendentemente dal materiale specifico utilizzato, si devono defini-re velocità della testina di stampa, temperatura e numero di giri al minuto nel termoestrusodefini-re, mentre nelle altre due testine la velocità di deposizione e la pressione che spinge lo stantuffo a monte della siringa contenente il liquido che deve essere stampato.

Il percorso che la testina di stampa deve seguire per la creazione dell’oggetto prescelto è definito con un programma scritto in G-code, codice largamente utilizzato nelle macchine utensili a controllo numerico. Il codice può essere generato automaticamente all’interno del software proprietario dove è presente un modulo che permette lo sviluppo di progetti CAD, oppure creato importando un file in formato .stl creato usando software commerciali non proprietari. Questa opzione permettte di creare percorsi utensile complessi, avendo però

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sempre cura di rispettare il vincolo principale di questa stampante, ovvero la stampa per piani X-Y successivi.

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Esistono diversi tipi di comportamento che i materiali possono mostrare quando sollecitati da una forza esterna e quello più basilare è quello lineare elastico isotropo. Le peculiarità dei materiali che appartengono a questa classe sono:

• proprietà meccaniche uguali in tutte le direzioni (isotropia); • proporzionalità diretta tra sforzi e deformazioni (linearità);

• recupero completo delle deformazioni avvenute a seguito dell’applicazione del carico quando esso viene rimosso (elasticità).

Il legame costitutivo che esprime questo tipo di comportamento è descritto dalla seguente relazione:

ε = Cσ (2.1)

dove ε è il tensore delle deformazioni, σ è il tensore degli sforzi e C è la matrice di cedevo-lezza. I parametri appena elencati possono essere espressi dalle seguenti matrici:

ε = h εx εy εz γyz γxz γxy iT σ = h σx σy σz τyz τxz τxy iT (2.2) C=            1 E − ν E − ν E 0 0 0 −ν E 1 E − ν E 0 0 0 −ν E − ν E 1 E 0 0 0 0 0 0 G1 0 0 0 0 0 0 G1 0 0 0 0 0 0 G1            (2.3)

Nella matrice descritta nella relazione 2.3 sono presenti le costanti elastiche del materiale: • E: modulo di Young o modulo elastico longitudinale;

• ν: coefficiente di Poisson;

• G: modulo elastico trasversale o tangenziale.

Le suddette costanti elastiche sono legate tra loro dalla seguente relazione:

G= E

2(1 + ν) (2.4)

.

L’equazione 2.1 può essere riscritta introducendo la matrice di rigidezza S come:

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ed è legata alla matrice di cedevolezza dalla relazione:

C= S−1 (2.6)

Il modello isotropo costituisce una forte semplificazione, soprattutto quando si studiano materiali porosi quali gli scaffold oggetto di questo lavoro, perciò viene generalmente uti-lizzato nelle fasi preliminari di studio di un materiale o dispositivo. Per svolgere analisi più approfondite è solito introdurre un modello costitutivo più complesso come quello ortotropo, descritto da 9 costanti che definiscono il comportamento del materiale:

• 3 moduli elastici longitudinali 

E1 E2 E3 

; • 3 moduli elastici tangenziali G12 G13 G23

 ; • 3 coefficienti di Poisson ν12 ν13 ν23

 .

Di conseguenza la definizione della matrice di cedevolezza 2.3 mantiene la stessa struttura ma varia le sue componenti:

C=            1 E1 − ν21 E2 − ν31 E3 0 0 0 −ν12 E1 1 E2 − ν32 E3 0 0 0 −ν13 E1 − ν23 E2 1 E3 0 0 0 0 0 0 G1 23 0 0 0 0 0 0 G1 13 0 0 0 0 0 0 G1 12            (2.7)

La differenza rispetto al modello isotropo sta nel fatto che ora il comportamento del materiale sarà dipendente dalla direzione di applicazione del carico esterno, mentre prima si assumeva che le sue proprietà fossero uguali in tutte le direzioni. Quindi questo è un modello che rap-presenta una situazione più vicina alla realtà per molte classi di materiali e, se la situazione lo consente, è sempre consigliabile il suo uso per una caratterizzazione più precisa ed con errori di approssimazione il più possibile ridotti.

Per la caratterizzazione di un materiale considerato ortotropo si devono effettuare 6 pro-ve differenti nelle direzioni principali di applicazione del carico, il tutto per permettere di assemblare la matrice di rigidezza associata. Queste prove sono divise in due gruppi da 3, ovvero:

• 3 prove di trazione o compressione monoassiale nelle direzioni X, Y e Z; • 3 prove di taglio nei piani XY, YZ, XZ.

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Conducendo le singole prove in controllo di spostamento si possono ricavare le sei compo-nenti medie del tensore degli sforzi al termine di ognuna. Conoscendo a priori il tensore delle deformazioni, la matrice di rigidezza per ogni singola prova può essere assemblata e verrà isolata la riga corrispondente alla direzione principale della prova effettuata, in quanto le altre danno un contributo trascurabile. Grazie poi alla linearità del problema e al principio di sovrapposizione degli effetti si costruisce la matrice di rigidezza totale del campione, do-ve ogni colonna corrisponde ad una delle prodo-ve appena effettuate. Nello specifico la prima colonna corrisponderà alla trazione/compressione monoassiale in direzione X, la seconda a quella in direzione Y, la terza in direzione Z, la quarta al taglio nel piano YZ, la quinta al ta-glio in XZ e la sesta al tata-glio in XY. Di seguito viene riportato l’esempio della composizione della prima colonna della matrice di rigidezza totale:

ε =                      εxx(imposta) εyy εzz γxy γxz γyz                      ¯ σ =                      ¯ σ11xx ¯ σ22xx ¯ σ33xx ¯ σ12xx ¯ σ13xx ¯ σ23xx                      ⇒ ⇒ S=             σ11xx εxx σ11xx εyy σ11xx εzz σ11xx γxy σ11xx γxz σ11xx γyz σ22xx εxx σ22xx εyy σ22xx εzz σ22xx γxy σ22xx γxz σ22xx γyz σ33xx εxx σ33xx εyy σ33xx εzz σ33xx γxy σ33xx γxz σ33xx γyz σ12xx εxx σ12xx εyy σ12xx εzz σ12xx γxy σ12xx γxz σ12xx γyz σ13xx εxx σ13xx εyy σ13xx εzz σ13xx γxy σ13xx γxz σ13xx γyz σ23xx εxx σ23xx εyy σ23xx εzz σ23xx γxy σ23xx γxz σ23xx γyz             ⇒ ST OT =            σ11xx εxx · · · σ22xx εxx · · · σ33xx εxx · · · σ12xx εxx · · · σ13xx εxx · · · σ23xx εxx · · ·            (2.8)

Una volta completata la matrice di rigidezza si può applicare la relazione 2.6 per ricavare quella di cedevolezza, consentendo di ricavare i moduli elastici con le seguenti relazioni:

E1= 1 C11 E2= 1 C22 E3= 1 C33 (2.9) G23= 1 C44 G13= 1 C55 G12= 1 C66 (2.10)

(35)

In ambito sperimentale esistono tipologie di campioni che, per la loro particolare geometria o le caratteristiche del materiale costituente, comportano notevoli difficoltà nella misurazio-ne di alcuni parametri come spostamenti e deformazioni con metodi diretti e tradizionali quali possono essere trasduttori di spostamento o estensometri. Alcuni esempi di queste pro-blematiche possono essere un’eccessiva fragilità, dimensioni molto piccole, modifiche nel comportamento del campione apportate dall’applicazione stessa degli strumenti di misura (ad esempio in materiali porosi). Di conseguenza sono stati ricercati metodi alternativi che potessero risolvere questo tipo di problemi, fino ad arrivare all’utilizzo di tecniche di natura ottica che sfruttano la teoria della deformazione e il metodo di correlazione [35] per mettere a confronto immagini del campione prese in istanti successivi durante una prova per valuta-re i conseguenti spostamenti e deformazioni avvenuti. Il modello sperimentale è costituito generalmente da due telecamere per l’acquisizione delle immagini, come può essere visto in modo schematico in Figura 2.2. Per poter permettere il confronto delle immagini ottenute il campione deve essere dotato di un pattern che crei delle zone chiare e delle zone scure sulla supeficie. Tale pattern permette di identificare in modo univoco la posizione di porzio-ni (subset) di superficie moporzio-nitorata. La posizione di ogporzio-ni subset è una funzione uporzio-nica dello stato di deformazione della superficie medesima e cambia con il progredire della deforma-zione stessa. Quindi il sistema identifica in ogni immagine acquisita la posideforma-zione spaziale del baricentro di ogni subset in cui è divisa l’immagine.

Figura 2.2: Schema del setup per la correlazione digitale di immagini per un’analisi 3D (adattata da [36])

(36)

Figura 2.3: Rappresentazione del campo di spostamenti effettuati dai punti P e Q a seguito di una deformazione

Dati due punti P e Q e un campo di spostamento u (Figura 2.3) si ha: d~s +~u(Q) = ~u(P) + d~s∗. Essendo d~s∗= d~s + d~u si ottiene:

~u(Q) = ~u(P) + d~u (2.11)

dove il primo termine rappresenta lo spostamento del punto P.

Sviluppando in serie di Taylor il termine d~u, e trascurando i termini di ordine superiore al primo, si ottiene:

u(Q) = u(P) + J(P)ds (2.12)

dove J(P) è la matrice Jacobiana delle componenti dello spostamento, ovvero:    ux(Q) uy(Q) uz(Q)   =    ux(P) uy(P) uz(P)   +     ∂ ux(P) ∂ x ∂ ux(P) ∂ y ∂ ux(P) ∂ z ∂ uy(P) ∂ x ∂ uy(P) ∂ y ∂ uy(P) ∂ z ∂ uz(P) ∂ x ∂ uz(P) ∂ y ∂ uz(P) ∂ z     ·    dx dy dz    dove il vettorehdx dy dz iT rappresenta d~s.

Si può dimostrare che la parte emisimmetrica della matrice Jacobiana nel punto P è la matrice di rotazione R(P), mentre la parte simmetrica è la matrice di deformazione ε(P), ovvero:

R(P) = 1 2 h

(37)

ε (P) = 1 2 h J(P) + J(P)T i (2.14) di conseguenza si ha: u(Q) = u(P) + R(P)ds + ε(P)ds (2.15)

Quindi la matrice di deformazione è definita come:

ε (P) =      ∂ ux ∂ x 1 2  ∂ ux ∂ y + ∂ uy ∂ x  1 2  ∂ ux ∂ z + ∂ uz ∂ x  1 2  ∂ uy ∂ x + ∂ ux ∂ y  ∂ uy ∂ y 1 2  ∂ uy ∂ z + ∂ uz ∂ y  1 2  ∂ uz ∂ x + ∂ ux ∂ z  1 2  ∂ uz ∂ y + ∂ uy ∂ z  ∂ uz ∂ z      (2.16)

dove gli elementi sulla diagonale principale rappresentano le variazioni di lunghezza nelle tre direzioni principali, e gli elementi al di fuori della diagonale rappresentano invece gli scorrimenti angolari puri nei tre piani.

Nella correlazione digitale d’immagini si ipotizza che il campo degli spostamenti non altera il valore di intensità luminosa nei punti della superficie. Inoltre, nel caso della correla-zione digitale d’immagini in 2 dimensioni si ipotizza che la deformacorrela-zione fuori piano sia trascurabile. Questo permette di eliminare il contributo della deformazione z nelle altre due direzioni.

Il sistema DIC identifica la posizione di due punti P e Q, o meglio di due subset centrati nei punti P e Q, nella loro configurazione indeformata (P; Q) e deformata (P∗; Q∗). Facendo tendere il punto Q al punto P lungo una generica direzione r del piano, si ottiene che la deformazione nel punto P in direzione r è data da:

εr= lim Q→P

|P∗Q∗| − |PQ| |PQ|

Qualora la direzione r coincida con uno degli assi principali, la misura della variazione della distanza fornisce la deformazione lungo quell’asse:

εx= lim ∆x→0 ux(x + ∆x; y) − ux(x; y) ∆x = ∂ ux ∂ x (2.17) εy= lim ∆y→0 uy(x; y + ∆y) − uy(x; y) ∆y = ∂ uy ∂ y (2.18)

Se invece si considerano tre punti P, Q e T (Figura 2.4) nella configurazione indeformata (P; Q; T ) e deformata (P∗; Q∗; T∗) e le semirette q e t uscenti dal punto P e passanti per i punti Q e T, dalla condizione indeformata a quella deformata si può verificare una variazione

(38)

Figura 2.4: Rappresentazione del campo di spostamenti effettuati dai punti P e Q e T a seguito di una deformazione angolare

dell’angolo ˆqttra le due semirette. Facendo tendere i punti Q e T al punto P si ottiene che la deformazione angolare (scorrimento puro) è data da:

εqt = lim Q→P T→P

( ˆqt− ˆq∗t∗)

Qualora i punti Q e T giacciano sugli assi principali, identificando quindi le direzioni x e y si ottiene: εxy= lim ∆x→0 ∆y→0 ( ˆxy− ˆx∗y∗) =ux(x; y + ∆y) − ux(x; y) ∆y + uy(x + ∆x; y) − uy(x; y) ∆x = ∂ ux ∂ y + ∂ uy ∂ x = 2γxy (2.19) Pertanto qualora fosse possibile misurare il campo di spostamenti, si può calcolare il campo di deformazioni associato. La correlazione usa i valori di intensità luminosa per iden-tificare la posizione di subset sulla superficie del provino. Indicando con f la funzione che

(39)

fornisce i valori d’intensità luminosa del punto P nella condizione non deformata e deformata abbiamo:

f(P) = f (x, y)

f∗(P∗) = f∗[x + ux(P), y + uy(P)]

(2.20)

In modo analogo per il punto S con coordinate (x + dx, y + dy), si può scrivere: f(S) = f (x + dx, y + dy)

f∗(S∗) = f∗(x + ux(S) + dx, y + uy(S) + dy)

(2.21)

Partendo da questi presupposti e dal fatto che il pattern d’intensità si deforma ma non altera il suo valore locale a causa della deformazione stessa (i.e. f (P) = f∗(P∗)) per ogni punto, il problema si formula nella ricerca di un subset contenente un punto P e tutta una serie di punti S nell’intorno di P contenuti nel subset, che nell’immagine deformata presenti la stessa intensità luminosa del subset di riferimento. A causa del rumore di immagine e di digitalizzazione l’uguaglianza non si può soddisfare esattamente. Pertanto il problema si riconduce alla minimizzazione di una funzione di errore:

err=

i

[ f∗(S∗i) − f (Si)]2 (2.22)

dove con i si sintende il generico punto S del subset centrato in P.

L’equazione 2.22 può essere vista come una distanza euclidea fra le due regioni di pixels. Possiamo infatti riformularla come:

d2(u, v) = n

x=−n n

y=−n [ f1(x, y) − f2(x + ux, y + uy)]2 (2.23)

L’equazione così ottenuta compara ciascun pixel dell’immagine di riferimento con quella deformata e centrata in (x+u,y+v). Esplicitando i vari termini si ha:

d2(u, v) = n

x=−n n

y=−n  f2 1(x, y) − 2 f1(x, y) f2(x + ux, y + uy) + f22(x + ux, y + uy)  (2.24)

Il primo termine, quello di riferimento, è costante. Se anche il termine riferito alla seconda regione di pixel è approssimatamente costante il rimanente termine

c(u, v) = n

x=−n n

y=−n [ f1(x, y) f2(x + ux, y + uy)]

(40)

può essere considerato come una misura della similitudine fra regioni di interesse. Questo approccio ha però dei forti limiti dovuti alla non invarianza da condizioni di illuminazione esterna e alla dipendenza dalle dimensioni della regione raffrontata. Per questo motivo si preferisce normalizzare il termine per renderlo meno dipendente dalle condizioni descritte:

c0(u, v) =q∑ ∑ [ f1(x, y) f2(x + ux, y + uy)] ∑ ∑ f12(x, y) ∑ ∑ f2(x + ux, y + uy)

(2.25)

Il valore del coefficiente normalizzato varia fra 0 ed 1 e può essere quindi visto come una probabilità di correlazione fra le due regioni di pixels prese in esame. È possibile tramite approssimazioni iterative giungere alla soluzione che meglio soddisfa l’equazione 2.25 e minimizza di conseguenza l’equazione 2.24 arrivando così a stabilire la reale posizione di un punto P nella configurazione deformata. Tale operazione può essere ripetuta per tutti i centri dei subset in cui è divisa la superficie, permettendo così di calcolare una mappa discreta di spostamenti e deformazioni superficiali sulla base dei principi descritti in precedenza.

(41)

La micro-tomografia computerizzata (µCT) è una tecnica di analisi non invasiva che negli ultimi anni ha trovato applicazione nei più svariati campi. È particolamente utile non solo per lo studio di caratteristiche superficiali e esterne di un dispositivo ma anche per anali-si interne, in quanto permette di caratterizzare anche strutture dalla geometria complessa. In ambito biomedicale è utilizzata nello studio del tessuto osseo o di scaffold; infatti que-sta tecnica permette di misurare sia parametri morfologici come la macro e microporosità, l’interconnessione dei pori e la loro dimensione media, sia il grado di mineralizzazione del materiale che costituisce la struttura. Le analisi possono essere condotte sia in vitro, su cam-pioni di tessuto espiantati, o in vivo, su modelli di piccoli animali, per verificare, ad esempio, lo stato e le modalità di avanzamento nel tempo di patologie nel tessuto osseo [37, 38]. Nel contesto dello studio di scaffold, o in ogni caso di biomateriali porosi, la µCT può essere utilizzata per valutare il progredire nel tempo della rigenerazione di tessuto dopo la semina di materiale cellulare [39], oltre che per determinare le caratteristiche microstrutturali dello scaffold, come descritto in seguito nel presente lavoro.

Il funzionamento di una macchina per µCT si basa sulla presenza di una sorgente di raggi X e un rilevatore. I raggi X attraversano l’oggetto sotto analisi e vengono raccolti dal rilevatore dalla parte opposta che, tramite un collimatore e uno scintillatore (Figura 2.5), genereranno un’immagine radiografica. L’oggetto viene poi ruotato di una frazione di gra-do e il processo viene ripetuto fino al raggiungimento di una rotazione di 180° (da 180° a 360° le immagini sono le stesse ma specchiate). Si può osservare un esempio di immagine radiografica 2D in Figura .

(42)

(b) Componenti sistema di rilevazione

Figura 2.5: Schema del principio di funzionamento di uno scanner per µ-CT (a) e dettaglio del sistema di rilevazione [40] (b)

In base a quanto i raggi X vengono attenuati dal passaggio attraverso il campione si può dedurre la struttura interna e il materiale costituente. Questa attenuazione, che deve avvenire per far sì che il rilevatore riesca a ricevere le informazioni necessarie, rende però partico-lamente difficile caratterizzare classi di materiali che hanno un coefficiente di attenuazione troppo alto risultando opachi, come il piombo, o troppo basso risultando trasparenti, come il berillio. La legge che regola l’attenuazione dei raggi X è data da:

I1= I0e(−µt) (2.26)

dove:

I1= intensità dei raggi X dopo il passaggio nel campione;

I0= intensità dei raggi X prima del passaggio nel campione;

µ = coefficiente di attenuazione; t= spessore del campione.

Tutte le immagini acquisite vengono rielaborate per ricostruire un’immagine 3D della strut-tura scansionata tramite l’utilizzo di algoritmi di ricostruzione di immagini. Sono stati pro-posti diversi algoritmi di ricostruzione tra cui il più utilizzato e efficiente è l’algoritmo di ricostruzione per fasci conici di Feldkamp, Davis e Kress [41].

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