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Capitolo 4 Emigrazione intellettuale: l’opera dei toscani all’estero

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Capitolo 4

Emigrazione intellettuale: l’opera dei toscani all’estero

4.1 L’emigrazione degli intellettuali nella prima metà del Novecento

Negli anni successivi alla Grande Guerra si manifestò in Italia un incremento

degli iscritti nelle facoltà di medicina e fisica, che in breve tempo condusse a un aumento della disoccupazione tra gli intellettuali dovuto alla crisi economica causata dal conflitto mondiale, presente in gran parte del continente europeo. La condizione che si era affermata negli anni tra il 1915 e il 1918 aveva dato agli studenti aspettative destinate a essere totalmente disilluse. La grande quantità di feriti (a cui seguirono mutilati e invalidi di ritorno dal fronte nei luoghi di origine) e il potenziamento dell’industria bellica avevano creato tra i diplomati l’illusione che negli anni a venire la domanda di medici e fisici sarebbe cresciuta costantemente, fino a dare occupazione a un numero assai superiore di laureati rispetto alle opportunità lavorative di inizio secolo.300 Nel primo dopoguerra, invece, i dottori in queste discipline finirono per sperimentare la difficile esperienza della disoccupazione, condizione che condividevano con gli ormai da tempo svantaggiati laureati in lettere e giurisprudenza, e per loro l’emigrazione rappresentò l’unica soluzione per evitare l’insuccesso professionale.301

Nella seguente tabella si confrontano i dati degli iscritti alle università italiane

con gli studenti degli atenei francesi e tedeschi.302

Numero iscritti 1913-14 Numero iscritti 1919-20

Studi Italia Francia Germania Italia Francia Germania

Giurisprudenza 9380 16465 13718 10515 7735 27173

300 G. ARANGIO-RUIZ, Sull’aumento delle tasse universitarie, «L’università italiana», Anno I, n. 7-8, 10

agosto 1902. L’autore parla di disoccupazione nel commercio, in agricoltura e nell’industria, settori dove non venivano richieste “…né braccia né intelligenze…”, quindi anche in Italia i giovani con un titolo di studio avevano notevoli difficoltà a trovare una sistemazione lavorativa già a inizio secolo.

301 Vedere V. CASTRILLI, L’incremento della popolazione universitaria e l’emigrazione dei lavoratori

intellettuali, «Athena», numero 7-8, luglio-agosto 1923, p. 143.

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Medicina e farmacia Scienze e matematica Lettere e filosofia Totale 6422 4552 1908 22262 11676 7330 6586 42037 18123 8132 14456 54429 12180 7671 3432 33798 9837 5979 6339 29890 25533 10587 18603 81896

Tra il 1913 e il 1914 l’Italia aveva il minor numero di studenti universitari, dietro alla Francia che a sua volta si posizionava alle spalle della Germania. Nello specifico, in medicina gli italiani erano circa la metà dei francesi e un terzo dei tedeschi, anche se la differenza maggiore si manifestava tra gli aspiranti alle lauree in lettere e filosofia, dove gli italiani erano un terzo dei francesi e un settimo dei tedeschi. Per valutare correttamente tali dislivelli si deve considerare che in quegli anni se la popolazione francese era più o meno altrettanto numerosa rispetto a quella italiana, i tedeschi erano circa il doppio degli abitanti dei due paesi mediterranei, anche se la maggiore presenza di studenti universitari all’estero era in ogni caso innegabile.

Nel biennio 1919-1920 la condizione demografica dei tre stati non era mutata,303 ma gli iscritti agli atenei italiani, tranne che per le materie umanistiche, erano sensibilmente incrementati, raggiungendo gli studenti francesi in gran parte delle materie e arrivando quasi ai numeri dei tedeschi per la fisica e la matematica. A conti fatti, con la Grande Guerra gli studenti universitari italiani erano all’incirca raddoppiati, mentre in Francia erano più o meno dimezzati, condizione dovuta secondo Castrilli304 alla crescita economica di quest’ultimo paese legata all’annessione dell’Alsazia e della Lorena (regioni ricche di materie prime), che favorì l’impiego dei giovani nell’industria.305

303 Nel 1919 la popolazione italiana era stimata in 38.000.000 di individui e la popolazione francese l’anno

successivo arrivava a 39.400.000 individui, contro i tedeschi che nel 1919 ammontavano a 80.900.000 anime.

304 Vedere V. CASTRILLI, L’incremento della popolazione universitaria e l’emigrazione dei lavoratori

intellettuali, cit., pp. 145-146.

305 G. ARANGIO-RUIZ, Sull’aumento delle tasse universitarie, cit., dove si parla della tendenza dei giovani in

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La disoccupazione intellettuale in Italia era un fenomeno già a inizio secolo assai frequente, almeno per quanto lo poteva essere al tempo considerando che una parte ristretta della popolazione, non solo a livello nazionale ma di tutto il continente, poteva accedere alle scuole superiori e alle università. Volendo continuare confrontando i diversi aspetti che il problema assumeva nei vari paesi europei, Marzio Barbagli osserva che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento in Italia spesso la disoccupazione intellettuale portava a migrazioni dovute alla sola necessità di sopravvivere a livello economico. Di conseguenza molti diplomati e laureati all’estero finivano per impiegarsi in ambiti lavorativi totalmente estranei agli studi che avevano compiuto e in cui si richiedeva una preparazione limitata, mentre francesi, inglesi e tedeschi partendo per le colonie delle loro nazioni o per il continente americano cercavano di investire al meglio le conoscenze conseguite durante i loro studi.306

La continuità professionale, quindi, nell’emigrazione intellettuale italiana era un comportamento che riguardava solo una parte dei partenti in possesso di un’alta formazione, benché sia rimasta presente per tutta la prima metà del XX secolo e le fonti che vengono citate di seguito lo dimostrano.

Tornando alla Francia, se l’interesse per gli studi negli anni venti tendeva a

riguardare un numero di persone sempre più ristretto, in tutti i settori tecnici e a livello culturale il paese rimaneva per il tempo all’avanguardia e per questo motivo era meta degli intellettuali italiani, che per la disoccupazione o a causa della persecuzione del regime fascista cercavano un luogo dove svolgere liberamente le loro professioni.307 Tale condizione si era già affermata a inizio secolo quando i letterati fiorentini, aspirando a un rinnovamento culturale, compirono numerosi viaggi a Parigi e strinsero frequenti contatti con autori

e si richiede dai politici un maggiore impegno nel promuovere riforme, che possano dare opportunità di lavoro ai neolaureati e ai diplomati.

306 M. BARBAGLI, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia, Bologna, Universale Paperbacks

il Mulino, 1974, pp. 49-65.

307 Per una breve storia dell’emigrazione degli intellettuali italiani in Francia vedere S. TOMBACCINI, Storia

dei fuoriusciti italiani in Francia, Milano, Mursia, 1988, pp. 1-7, dove, oltre alle ragioni politiche e alle necessità economiche che alimentavano le partenze di massa verso questo Paese, si possono trovare riferimenti anche sulla vita di alcuni personaggi che detenevano un’alta formazione.

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francesi conosciuti e stimati a livello internazionale, come Apollinaire, che fu famoso in tutta Europa per mantenere rapporti diretti ed epistolari con giovani artisti di diverse nazionalità. La Francia al tempo rappresentava il centro della cultura mondiale, contrapposta all’Italia e, in particolare, alla città di Firenze, dove il folto gruppo di letterati che faceva capo alle varie riviste tra cui “La voce”, “Solaria”, “Il regno” e “La ronda” (tutte contraddistinte da un proprio indirizzo politico e da uno specifico taglio letterario) risentiva dell’eccessivo provincialismo che caratterizzava la loro attività intellettuale.308

Frequenti contatti con Apollinaire furono tenuti da Soffici, Brunelleschi e Melis, che furono i primi scrittori toscani a riconoscere la superiorità culturale della capitale francese, seguiti negli ultimi mesi della Grande Guerra da Giuseppe Ungaretti, che assegnato a una compagnia di stanza in Francia si impegnò a compiere un avanzamento qualitativo entrando a far parte di ambienti letterari di risonanza internazionale. Lo stesso Apollinaire curò un’antologia degli autori italiani e per Ungaretti tradusse in francese la raccolta di poesie “Il porto sepolto”. In pochi anni in tutta Europa la tradizione del viaggio di istruzione in Italia faceva ormai parte del passato; la tappa fondamentale per la formazione culturale di un letterato era diventata la città di Parigi, dove alcuni non si limitarono a un breve soggiorno come Soffici e Papini, ma preferirono spostarsi stabilmente, come nel caso di Modigliani.

La Francia fu uno dei maggiori punti di riferimento anche dei fuoriusciti antifascisti insieme all’Inghilterra, Paese dove nella seconda metà degli anni trenta si dirigevano in numero molto più contenuto. Le due grandi democrazie attiravano intellettuali e dissidenti politici per le loro leggi garanti della libertà del cittadino, che consentivano agli immigrati di mettere a frutto le proprie conoscenze e abilità professionali e di avere il diritto di difendere le ideologie personali, anche se la Francia fu solo il passaggio intermedio per poi dirigersi

308 Vedere S. ZOPPI, L’emigrazione letteraria in Francia all’inizio del Novecento, in Atti del convegno di

Firenze del 13-14 maggio 1993, Il mito della Francia nella cultura italiana del Novecento: l’emigrazione letteraria e politica in Francia dagli inizi del ‘900 al fascismo, a cura di Maria Cristina Chiesi, Firenze, Edizioni Electa, 1996, pp. 19-30.

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negli anni trenta negli Stati Uniti. Oltreoceano gli intellettuali italiani riuscirono a conseguire considerevoli risultati in molte discipline, tra cui la fisica atomica, grazie al contributo di Enrico Fermi, e la psicanalisi.309 A favorire la produttività agì anche la possibilità di rapportarsi con un pubblico preparato in grado di criticare l’operato di ricercatori, tecnici di varia formazione e attivisti politici, che venivano spinti a mettersi in discussione.

La presenza di intellettuali italiani negli Stati Uniti rimase, però, sempre minore rispetto al numero assai superiore di emigranti attivi a livello politico e culturale partiti dalla Germania hitleriana, che ammontavano a un terzo del totale dei tedeschi. Sempre un terzo del loro totale erano anche gli intellettuali ebrei, molti provenienti dall’Europa dell’Est.310 Questa condizione di minoranza numerica all’estero era dovuta al particolare clima di accettazione delle imposizioni del regime da parte della popolazione italiana istruita, spinta a tale atteggiamento sia dalla piena affermazione del fascismo nella seconda metà degli anni venti, sia dalla convinzione dei sostenitori di Mussolini che l’attività culturale, anche se non in linea con le ideologie del regime, non poteva portare un’opposizione consistente.

Il clima nelle università con la dittatura si mantenne disteso, consentendo la riflessione e il confronto, così quando il regime chiese ai professori accademici di firmare il loro consenso, soltanto dodici docenti ebbero la costanza di difendere fino in fondo i loro ideali rifiutandosi, su milleduecento risposte positive da parte di chi ai principi intellettuali aveva anteposto l’incolumità della propria famiglia.311 Eppure nessuna delle teorie alla base del governo del dittatore si avvicinava ai fondamenti storici e ideologici della cultura italiana

309 H. STUART HUGHES, Da sponda a sponda. L’emigrazione degli intellettuali europei e lo studio della

società contemporanea (1930-1965), Bologna, Il Mulino, 1977, p. 14., ma lo stesso argomento è trattato anche da L. FERMI, Illustrious immigrants: the intellectual migration from Europe 1930-41, Chicago, University of Chicago Press, 1968, p.16, dove l’autrice ricorda il consistente contributo degli intellettuali europei, tra cui molti di origine ebraica, alla cultura americana.

310 H. STUART HUGHES, Da sponda a sponda, cit., in particolare le pp. 13, 95 e 122.

311 Sull’argomento vedere G. FERRONI, Storia della letteratura italiana. Il Novecento, Torino, Einaudi Scuola,

2004, in particolare la tavola 219 a p. 35 in cui si riporta un elenco dei dodici professori universitari che ebbero il coraggio di non dare la loro adesione formale al fascismo. L’autore spiega che il clima nelle università divenne più teso con le leggi razziali dopo il 1938, quando furono allontanati i docenti di origine ebraica.

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contemporanea e tanto meno alla tradizione umanistica e rinascimentale312, tranne i noti riferimenti alla storia e alla società della Roma Antica.

L’esempio più significativo di questa accettazione degli intellettuali italiani dei principi politici di Mussolini fu Luigi Pirandello che, giunto alla notorietà sui cinquant’anni, contrariamente all’anticonformismo delle sue opere teatrali non volle mai opporsi al regime. A motivare la sua decisione probabilmente concorse lo scetticismo nei confronti di ogni forma di democrazia che aveva ereditato dall’ambiente familiare. Agli antipodi dello scrittore siciliano si poneva Benedetto Croce, in aperto dissenso con il fascismo, ma da quest’ultimo sopportato sia per la sua levatura culturale, sia perché ritenuto come ogni intellettuale non estremamente dannoso a livello politico.313

Contemporaneamente la Germania stava vivendo il lungo periodo democratico della repubblica di Weimar il cui governo, dopo il fallimento del colpo di stato di Monaco, aveva trovato stabilità, ma continuava a non proporre valide soluzioni per l’ingente crisi inflazionistica. Trovandosi impossibilitata dalle difficoltà sociali e finanziarie la popolazione istruita continuò per molto a trasferirsi all’estero, ma è interessante notare che negli anni trenta, dopo l’insediamento di Hitler al potere, le partenze andarono gradualmente a diminuire tranne presso gli intellettuali tedeschi di etnia ebrea, a dimostrazione dell’affermarsi di un’accettazione del regime da parte di chi svolgeva mestieri di intelletto simile a quanto era accaduto quasi dieci anni prima in Italia.

Ristabilita la democrazia in Italia e nella Germania Federale, nei primi anni cinquanta molti intellettuali europei da tempo residenti in modo stabile negli Stati Uniti iniziarono a organizzare il loro rimpatrio; i più impazienti erano gli anziani che avevano avuto sempre grandi problemi di integrazione nelle

312 L. OLSCHKI, The genius of Italy, New York, 1949, trad. it., L’Italia e il suo genio, Milano, Mondadori,

1953, vol. II, p.268. L’autore dimostra l’estraneità del pensiero politico fascista alla tradizione storico-culturale italiana, spiegando che il regime prese a modello ideologie appartenenti alla Rivoluzione Francese e al comunismo sovietico.

313 Cfr. P. VITA-FINZI, Italian fascism and the intellectuals, in AA. VV., The nature of fascism, a cura di S. J.

WOOLF, London, Morrison & Gibb, 1968, pp. 226-244. Sulle posizioni politiche di Pirandello vedere G. GIUDICE, Luigi Pirandello, Torino, Utet, 1963, pp. 232-233, a cui segue un’attenta riflessione sulla lunga disputa letteraria tra lo scrittore siciliano e Croce alle pp. 233-240.

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comunità ospitanti, malgrado la loro apertura alla diversità culturale, e non erano mai riusciti a prendere piena confidenza con la lingua inglese.

Completamente diversa era la condizione dei più giovani che erano stati capaci di raggiungere un elevato livello di integrazione, in gran parte disposti a rimanere nel luogo di arrivo, considerato ormai come una seconda patria. Tra questi due casi opposti si ponevano gli emigranti che per alcuni anni non presero una decisione definitiva, finendo per compiere più volte la traversata oceanica per valutare attentamente tutti i fattori legati sia alla possibilità di un ritorno in Italia, sia alla permanenza all’estero, tra cui la condizione politica internazionale e l’atteggiamento degli intellettuali statunitensi ai cambiamenti in atto.314

La guerra fredda, poi, mise la democrazia americana di fronte a un’ulteriore minaccia: il comunismo sovietico di Stalin, che poteva rappresentare non solo da un punto di vista storico ma anche a livello politico e militare una continuazione dei vecchi totalitarismi di estrema destra, altrettanto pericolosa e in grado di dare vita a un terzo conflitto mondiale. La gravità della situazione richiedeva agli intellettuali dei Paesi democratici occidentali di prendere una posizione a difesa della libertà di pensiero e di parola, un impegno in grado di spingere sia le nuove, sia le vecchie generazioni a tornare a lottare, ma che fu in massa disertato dalla maggioranza degli esponenti della cultura internazionale, in particolare negli Stati Uniti. E ormai anche gli intellettuali migranti non avevano più la forza per combattere, poiché persino i più anziani ritenevano che il quindicennio 1930-1945 avesse insegnato non solo cosa voleva dire impegnarsi a fondo per i propri diritti, ma anche quanto poteva essere difficile lottare con un nemico in possesso di strumenti ideologici per pilotare le masse. Dopo un lungo periodo di contrasti adesso era chiaro quanto fosse importante poter operare con la pace.315 Di fronte al nuovo nemico sovietico la maggior parte degli intellettuali preferì non intervenire, evitando di vedere nello stalinismo, come il buonsenso suggeriva, solo un nuovo germe del totalitarismo, pronto a diffondersi appena le

314 H. STUART HUGHES, Da sponda a sponda. L’emigrazione degli intellettuali europei e lo studio della

società contemporanea (1930-1965), cit., in particolare p. 329.

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condizioni lo avrebbero permesso anche nei Paesi democratici dell’Occidente. Certo, tale pericolo non doveva essere del tutto sottovalutato, ma alcuni sostennero che il regime non era assente da pregi ideologici e, malgrado la sua forma antidemocratica, palesava una sorta di illuminismo politico e sociale su cui era importante riflettere. Sulla scia di queste considerazioni, ci fu persino chi definì gli anni trenta un periodo “bassamente disonesto”, considerando la nostalgia per questo decennio un sentimento possibile solo nei giovanissimi irresponsabili o nei molto anziani.316

Fu questo l’indirizzo della cultura internazionale che spinse molti intellettuali italiani ed europei a scegliere il rimpatrio definitivo, dopo un periodo caratterizzato da incertezza, considerando che la nuova condizione della politica internazionale non dava più motivo di rimanere in esilio all’estero e che le battaglie ideologiche degli anni trenta erano ormai solo un ricordo per nostalgici.

4.2 Vari casi di emigrazione di cervelli dalla Toscana

Le fonti iconografiche rappresentano la varietà professionale degli emigranti toscani che si recarono all’estero per mettere a frutto le loro conoscenze in specifici settori della scienza e della tecnica o per far emergere le loro abilità artistiche. Si trattò di intellettuali formati culturalmente e nella pratica del loro mestiere nelle maggiori aree urbane della regione, nati da famiglie abbienti o tanto meno in grado di garantire loro una formazione di elevato livello. Diretti in diverse località tra l’Europa, l’America e l’Oceania, si confondevano sui piroscafi con la massa dei partenti di origine contadina, come un giovane musicista che, in una lettera inviata al proprio maestro (un certo Lunardi di origine lucchese) raccontava l’arrivo a Rio de Janeiro dopo la lunga traversata dell’Atlantico, descrivendo la forte emozione provata nel vedere la statua del Cristo:317 “L’impressione che si riceve nel momento dell’arrivo a Rio è tale da

316 Vedere I. HOWE, Decline of the new, New York, Harcourt Brace & World, 1970, in particolare pp. 21-22,

dove l’autore spiega che con il passare degli anni la cultura moderna divenne sempre più debole, sottolineando che “…modernism begins to exhaust itself “.

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non dimenticarsi facilmente; io arrivai di sera e lo spettacolo della città illuminata dalla statua del Cristo è cosa unica. Nel locale teatro municipale era in corso una grande stagione lirica con Gigli, Moscherini, Taglierini e tutti i migliori artisti italiani”.

Tra gli intellettuali si manifestava una consistente presenza femminile nel

canto e nella recitazione, attività artistiche al tempo più accessibili alla donna rispetto alle professioni tecniche o legate a una formazione umanistica; ne furono un esempio le attrici Anna Teobaldelli e Irene Badii, quest’ultima cugina dello scultore Libero Badii, che espose le sue opere nei musei del Messico, del Canada, degli Stati Uniti, della Francia, della Svezia e della Spagna. Ambedue erano originarie di Arezzo ed emigrarono in Argentina (nello specifico la Teobaldelli partì a inizio Novecento e la Badii nel 1924) proponendosi lo scopo di diffondere oltreoceano l’arte teatrale italiana.

Anna Teobaldelli, che si trasferì all’estero solo per alcuni anni, era nata a Sestino in provincia di Arezzo nel 1882. Di lei rimane un ritratto in cui indossa un abito completamente bianco e sfoggia un cappello sfarzoso e un ventaglio; un abbigliamento consono alla moda diffusa presso le classi borghesi tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, che poteva benissimo essere impiegato come costume di scena.318

Rispetto alla collega, l’attività di recitazione in Argentina di Irene Badii ebbe maggiore durata e, all’apice della carriera, permise all’attrice di fondare un teatro a Mar del Plata, dove si dava la possibilità agli emigranti italiani di assistere alle opere rappresentate nella loro lingua. Figlia di una famiglia di antifascisti, il padre Donato era stato in patria tra i primi sindacalisti dei lavoratori del marmo aretini e aveva svolto il ruolo di consigliere comunale per il partito comunista; perseguitato dal regine, dovette fuggire in Argentina insieme alla moglie e alla figlia, mentre in Francia i due figli fuoriusciti venivano uccisi dai sicari fascisti. In un ritratto degli anni venti appare un primo

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piano del volto di Irene Badii, da cui è possibile notare la sua netta somiglianza con la diva americana Rita Hayworth.319

Passando all’emigrazione maschile, già sul tramontare del XIX secolo si manifestava la tendenza dei ricercatori ad andare all’estero per avere maggiore riconoscimento, una forma di espatrio sopravvissuta con il passare dei decenni e tutt’oggi largamente praticata, come nel caso del fiorentino Pietro Paolo Baracchi, che si era laureato in ingegneria civile.320 Nato il 25 febbraio 1851, emigrò nel 1876 insieme al concittadino Carlo Catani e al pisano Ettore Checchi quando l’Oceania era ancora parte dell’impero della regina Vittoria, visitando gran parte della Nuova Zelanda fino a raggiungere l’Australia, dove si sistemò presso Melbourne. Divenuto assistente all’Osservatorio Astronomico della città che lo ospitava, la sua carriera fu caratterizzata da una scoperta di grande risonanza: la determinazione del meridiano di Darwin, che lo studioso toscano portò a compimento alcuni anni dopo la sua partenza, quando si trasferì nella località che prendeva il nome dal padre dell’evoluzionismo.

Baracchi morì il 23 luglio 1926. Di lui rimangono due immagini in cui appare ancora giovane: un ritratto a mezzobusto e una fotografia in cui lo studioso si trova in un giardino in compagnia di un amico più anziano (forse un collega dell’Osservatorio di Melbourne, ma nella fonte non viene specificato).321

I suoi compagni di viaggio, Ettore Checchi e Carlo Catani, svolgevano la professione di ingegnere e ambedue erano impegnati nello stesso settore di progettazione: la realizzazione in aree non ancora civilizzate di impianti idrici impiegati per favorire la diffusione della colonizzazione agricola. Il loro intento vivendo all’estero fu di contribuire allo sviluppo delle attività economiche del settore primario, che stava avendo anche in Australia un notevole peso sulla crescita del Paese, mettendo a disposizione la loro preparazione professionale e,

319 Viene citato il codice 476 (MEGT); la fonte è stata messa a disposizione da Valeria Bonilauri.

320 Sulla vita di Pietro Paolo Giovanni Ernesto Baracchi si veda il contributo di J. L. PERDRIX sul sito

dell’“Australian Dictionary of Biography” ( http://adb.anu.edu.au/biography/baracchi-pietro-paolo-giovanni-ernesto-5121), a cui è stata aggiunta una breve bibliografia. L’articolo è citato anche nella pagina di

www.facebook.com dedicata all’astronomo.

321 Si fa riferimento alle fonti contrassegnate con i codici 98 e 804 (MEGT), nelle cui intestazioni viene ancora

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proprio perché competenti nell’ambito della progettazione di tecnologie utili all’attività agricola, furono premiati insieme a Baracchi con la nomina di relatori del “Dipartimento di terre”.

Ettore Checchi (nato a Pisa l’11 luglio del 1853) si dedicò all’esplorazione delle zone selvagge bagnate dal fiume Murray, nella parte settentrionale della regione Victoria, il corso d’acqua di maggiore portata dell’Australia, spingendosi fino alle sorgenti. Morto il 19 luglio del 1946, anche di lui rimane un ritratto a mezzobusto322 (di cui non è nota di datazione), dove appare in una posa composta ripresa di tre quarti.323

Oltre alla realizzazione di impianti idrici a scopo di bonifica per le aree paludose, Carlo Catani, nato a Firenze il 22 aprile 1852, fu spesso attivo nella progettazione di infrastrutture di vario genere, tra cui strade e ponti. La sua opera maggiore fu il recupero negli anni a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento della palude di Koo-Wee-Rup, nel West Gippsland, dove impiegò un elevato numero di emigranti disoccupati che versavano in condizioni talmente critiche, da non avere nemmeno i mezzi per mantenere le loro famiglie. Morì nel 1918324 a Melbourne, nella località di Saint Kilda, dove tutt’oggi si erge in sua memoria un monumento al centro del Catani Gardens, i giardini che prendono il suo nome. L’ingegnere toscano trascorse amareggiato l’ultimo periodo della vita per la perdita del figlio Eric, caduto in battaglia nel 1916.325

Negli anni in cui Baracchi, Checchi e Catani emigrarono in Oceania partiva per l’Australia anche il medico Tommaso Fiaschi (1853-1927). Dopo aver circumnavigato la grande isola, il dottore fiorentino si stabilì a Sidney nel 1875. Oltre venti anni dopo, nel 1896 quando fondò in Australia la Società Dante Alighieri, decise di vestire i panni di medico militare per partecipare alla Guerra d’Abissinia, ma non fu la sua unica esperienza nell’esercito; infatti nel 1899 si

322 Si tratta del codice 101 (MEGT).

323 Anche sulla vita di Ettore Checchi vedere il sito dell’“Australian Dictionary of Biography”, in particolare il

contributo di Ronald East accessibile all’indirizzo http://adb.anu.edu.au/biography/checchi-ettore-5570.

324 Per la vita di Catani, infine, il link dell’“Australian Dictionary of Biography” è

http://adb.anu.edu.au/biography/catani-carlo-giorgio-domenico-enrico-5532, da cui si accede alla biografia scritta da Ronald Mc Nicoll.

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schierò a fianco dei soldati australiani nel conflitto contro i Boeri in Africa e nel 1916 ricoprì ancora il ruolo di medico militare nella Grande Guerra sul fronte italiano. Due anni prima Fiaschi era stato nominato chirurgo del viceré e comandante del “General Australian Hospital”.326

Nel 1921 tornò definitivamente in Australia, dove oltre alla propria professione si impegnò nella coltivazione della vite in qualità di esperto del settore; sostenitore degli effetti curativi del vino, già dalla fine del XIX secolo aveva chiamato il suo vigneto Tizzana, prendendo il nome da un sobborgo della città di Firenze. La coltivazione per il felice impatto paesaggistico è ancora oggi sotto la protezione del Ministero della Belle Arti.327

4.3 Il contributo di architetti e ingegneri allo sviluppo del Sud America

Diversi studiosi, tra cui Emilio Franzina, hanno rivalutato il contributo degli italiani allo sviluppo delle attività produttive dell’Argentina, malgrado a volte la loro influenza sia stata motivo di violenza e intolleranza da parte degli autoctoni.328 Di frequente (come nel caso del Campidoglio di Washington citato in precedenza) ingegneri e architetti di origine mediterranea, custodi di un ampio bagaglio di conoscenze maturate mediante una lunga tradizione secolare, hanno impresso all’aspetto urbanistico di alcuni Paesi dell’America Latina una chiara connotazione classicheggiante, in un periodo in cui le arti figurative e le scienze tecnologiche di questi stati erano ancora estremamente limitate a causa della recente liberazione dal colonialismo.

La storia di Giovanni Veltroni dimostra la stima che veniva riservata agli intellettuali toscani meritevoli nel settore della progettazione architettonica. Nato a Firenze il 21 novembre del 1880, si laureò all’accademia di belle arti.

326 Una fotografia di Fiaschi con la divisa militare dell’armata australiana è archiviata con il codice 805 (MEGT);

datata 1900, risale al periodo in cui il medico partecipò alla guerra contro i Boeri. Il soggetto viene inquadrato di tre quarti in una posizione seria e composta, come se fosse sull’attenti.

327 Si tratta di un altro ritratto di Fiaschi, fatto in età più avanzata rispetto all’immagine precedente.

Contrassegnato con il codice 100 (MEGT), nell’intestazione si riassumono brevemente le vicende del migrante in Australia.

328 Cfr. E. FRANZINA, Il problema storico della presenza italiana in Argentina, cit. L’argomento viene

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Ebbe modo sotto la guida del maestro Enrico Ristori di mettere in pratica le sue capacità collaborando a molte opere, tra cui il Ponte Umberto I° a Torino. Chiamato a Genova, realizzò il progetto per l’edificio della borsa, un’imponente struttura che suscitò l’interesse del presidente uruguaiano Don José Battle y OrdÓñez. Quando quest’ultimo giunse nel 1908 nel capoluogo ligure per

conoscere Veltroni, gli propose di emigrare in Uruguay a soli ventotto anni e lavorare allo sviluppo urbano della capitale, compito a cui l’intellettuale toscano dedicò tutta la vita, acquisendo con il tempo il titolo ufficioso di “architetto di Montevideo” per i risultati conseguiti nella progettazione di alcuni edifici, che donarono un aspetto migliore alla città in un periodo di sviluppo economico.329 Dalla sua matita uscirono il Palazzo del Governo, la sede del Banco della Repubblica Orientale dell’Uruguay e l’edificio del Ministero della Salute Pubblica: sono soltanto alcune tra le strutture ideate da Veltroni sia per commissione governativa, sia nella professione privata, che gli valsero la nomina a direttore del Dipartimento di Architettura del Ministero delle Opere Pubbliche. Si trattava di un incarico di massima responsabilità e di alto prestigio per un emigrante di origine italiana, poiché la cerchia dei maggiori architetti di Montevideo avrebbe preferito assegnare il titolo a un uruguaiano. Veltroni tenne la nomina fino alla morte, avvenuta il 9 gennaio 1942.

Accusato di essere troppo legato all’arte neoclassica, caratteristica stilistica palese nei suoi edifici, in realtà i colleghi che criticavano l’architetto di Montevideo non tenevano in considerazione alcune soluzioni strutturali che apparivano all’avanguardia per le consuetudini del tempo. Ne è un esempio la grande volta della sala centrale del Banco della Repubblica, che persino tutt’oggi può essere ritenuta consona alle più severe norme di sicurezza.330 Sulla facciata la struttura, che si sviluppa in lunghezza, presenta una fila centrale di colonne posta all’ingresso dell’edificio, costituito da un ampio loggiato alle cui

329 Le informazioni sulla vita di Giovanni Veltroni sono state prese dal sito http://museogenteditoscana.it. 330 Dell’edificio del Banco della Repubblica rimane una foto datata anni trenta con il codice 358 (MEGT), messa

a disposizione dall’“Associazione figli della Toscana” in Uruguay, come le fonti che sono citate di seguito in cui compaiono altre strutture progettate da Veltroni.

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estremità di destra e di sinistra si posizionano due statue; l’insieme dona per l’appunto un imponente aspetto classicheggiante al palazzo.

Lo stesso classicismo si ritrova nel Municipio della città di Salto,331 sempre con un colonnato posizionato all’ingresso, ma arricchito rispetto all’esempio precedente da un volume a forma di campanile a fianco dell’edificio. Quest’ultimo, per le sue caratteristiche strutturali e stilistiche, può essere considerato una soluzione intermedia tra il classicismo del Banco della Repubblica e la sede del Ministero di Salute Pubblica, dove ormai non appare più il colonnato all’ingresso ma, su una costruzione molto più semplice di forma cubica, torna una sorta di campanile posto al lato che fa assumere al palazzo un aspetto simile a una cattedrale in stile romanico.332

Gli esempi citati consentono di capire la notevole versatilità artistica di Veltroni, in grado di proporre varie forme di architettura dal classicismo al barocco e, nei suoi ultimi anni di lavoro, all’Art Déco, adeguandosi alle necessità imposte dall’ubicazione e dalla funzione delle strutture che doveva progettare; fu senza dubbio questa disponibilità che permise all’architetto di Montevideo di essere preferito ad altri colleghi autoctoni.

A differenza di Veltroni, di cui si ricordano principalmente le scelte stilistiche, la vita di Giovanni Pelleschi, ingegnere civile emigrato in Argentina dopo alcuni anni di lavoro in Italia, oltre a presentare aspetti ricorrenti nell’indirizzo degli studi conseguiti nel luogo di origine e negli obiettivi perseguiti all’estero agli intellettuali italiani che nella prima metà del Novecento decidevano di investire emigrando le loro conoscenze, prova quanto potessero essere varie le attività collaterali alla professione svolta e i riconoscimenti attraverso cui consolidare la propria fama. Infatti Pelleschi, oltre ad avere incarichi di grossa responsabilità, riuscì a essere un rappresentante dell’ingegneria e in generale della conoscenza divulgata dagli italiani Argentina; studioso della cultura e dell’ambiente del

331 Vedere il codice 357 (MEGT), con cui è catalogata un’immagine dell’edificio. Sia questa che la fonte

successiva sono datata anni trenta.

332 Dell’ultimo esempio dell’architettura di Veltroni rimane una fotografia con il codice 356 (MEGT).

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Paese che lo ospitava, fu anche esploratore e diede il nome delle figlie ad alcune località che sorsero in luoghi da civilizzare.333

Giovanni Pelleschi era nato a Follonica nel 1845 da Francesco Nicola, direttore delle miniere locali e amministratore dei beni granducali in Maremma, che aveva voluto per il figlio un’istruzione superiore nelle migliori scuole. Quest’ultimo si diplomò con il titolo di perito in meccanica e costruzioni presso l’Istituto Tecnico Reale nel 1866 e, dopo aver svolto il servizio militare nel 35° fanteria, fece le sue prime esperienze come progettista di strade e acquedotti nello studio fiorentino di Giovanni Morandini.334

Nel 1875 decise di partire con la moglie e le figlie ancora bambine per Buenos Aires, dove inizialmente si impiegò nel reparto di assistenza tecnica civile, che sovrintendeva tutti i lavori pubblici in Argentina ed era diretto dall’ingegner Pompeo Moneta, presso cui Pelleschi si occupò di progettazione edilizia e di linee ferroviarie, tra le quali il tracciato che collega Andalgala e Aconquija. Nel 1877 compì la sua prima spedizione dirigendosi lungo il fiume Bermelo con il fine di stabilire la navigabilità del corso d’acqua per costruzioni di ingegneria civile, ma l’occasione risultò propizia al colto migrante toscano anche per compiere ricerche sulla flora e la fauna del luogo e sulla lingua e le abitudini degli indios.335 Fu invece dell’anno successivo la sua nomina a ispettore tecnico delle Ferrovie Centrali Argentine, carica che lo impegnò nella costruzione di nuovi tracciati ferroviari con stazioni di sosta per il tempo talmente all’avanguardia nell’offerta dei servizi, da ricevere in alcuni casi finanziamenti dall’Inghilterra, come accadde per il tracciato tra Villa Maria e San Ruffino. Le immagini delle località che prendono il nome dalle figlie dell’ingegnere toscano non sono solo una prova del prestigio che quest’ultimo conseguì in terra

333 La duplice attività di ingegnere ed esploratore di Pelleschi viene ricordata anche nell’intestazione di un suo

ritratto degli anni dieci, codice 413 (MEGT); l’immagine a mezzobusto è inserita in uno spazio di forma circolare, sotto cui si legge “Ingeniero Juan Pelleschi”. Come gli altri documenti iconografici sul migrante toscano, la fotografia è stata messa a disposizione dalla discendente Mary Bassi.

334 Di questo periodo rimane un ritratto di Pelleschi ventenne catalogato con il codice 414 (MEGT). Il soggetto,

vestito con abiti eleganti, siede su una sedia tendendo sulle ginocchia un bastone da passeggio; la posa rigida e le tende alle sue spalle permettono di intuire che si trova in uno studio fotografico.

335 Come per Veltroni, anche le informazioni sulla vita di Pelleschi si possono reperire dal sito

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straniera, ma consentono anche di intuire l’ubicazione delle aree geografiche in cui Pelleschi realizzava i suoi progetti:336 di solito si trattava di territori lontani dai centri urbani dove sorgevano degli insediamenti in seguito al passaggio di nuove linee ferroviarie, che consentivano lo spostamento all’interno di aree di grandi dimensioni. Le città di Ausonia e Cesira sono una sorta di isole civilizzate in mezzo alla natura selvaggia, come si può notare nelle fonti che rappresentano le stazioni delle due città.

Altrettanto interessante per comprendere il livello sociale dell’ingegnere civile è un’immagine337 datata 5 ottobre 1929 della villa da lui fatta costruire come abitazione familiare. Villa Pelleschi appare in una cartolina che il proprietario inviò a un conoscente autoctono (forse un collega, ma nel breve messaggio scritto in alto a destra non si specifica chi fosse il destinatario) non solo per mostrare l’imponenza della struttura, ma anche una parte dell’ampia tenuta circostante. L’emigrante toscano, come altri italiani all’estero che raggiunsero risultati significativi, volle lasciare un segno tangibile della sua presenza attraverso una residenza dello stesso livello architettonico dei palazzi cittadini abitati dalla popolazione più abbiente.

Nel 1911, all’apice della sua carriera, Pelleschi rimpatriò recandosi a Torino all’Esposizione Internazionale, dove accompagnò il re Vittorio Emanuele III e la regina Elena presso il padiglione argentino, ormai testimone per l’Italia dei risultati che la collaborazione degli emigranti intellettuali aveva permesso di raggiungere nel processo di sviluppo dei Paesi sudamericani.338 Altri documenti attestano come il nostro si sia spesso prestato a favorire i contatti tra la patria e la nazione che lo ospitava, conservando sempre un forte interesse per le sue

336 Si fa riferimento alle fonti 406, 407 e 408 (MEGT), ma si veda anche la fonte 409 (MEGT) con l’immagine

del muro al confine della città di Etruria (su cui si ricorda che il centro è stato fondato nel 1893), altra area urbana che porta il nome di una figlia di Giovanni Pelleschi. Sono documenti datati 2000.

337 La fonte è contraddistinta dal codice 412 (MEGT). Nell’immagine Villa Pelleschi appare collocata su un sito

leggermente rialzato rispetto alla zona coltivata posta in basso. Si tratta di una cartolina e questo consente di intuire come l’edificio fosse conosciuto e ritenuto di un buon livello architettonico; sulla foto si legge: Compiobbi l’Oleandro (probabilmente la località in cui si trovava la struttura), Villa Pelleschi.

338 Il momento fu immortalato in una foto catalogata con il codice 411 (MEGT). Nell’immagine Pelleschi sta

entrando nel padiglione argentino al fianco del re d’Italia, mentre una donna davanti a lui (forse la regina) sale lo scalino all’ingresso dell’edificio.

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origini culturali, un legame che con la Grande Guerra lo spinse ad arruolarsi con il grado di ufficiale superiore nell’esercito italiano e di organizzare il ritorno di altri connazionali. Alla fine del conflitto il Primo Segretario di Sua Maestà scrisse una lettera al migrante339 per avvertirlo che il suo valore sarebbe stato premiato con il titolo di Cavaliere dell’Ordine della Corona e di Primo dell’Ordine di San Maurizio e Lazzaro.340

Giovanni Pelleschi morì nel 1922 in Argentina ma, nel rispetto delle sue ultime volontà, il suo corpo fu inumato in Toscana.

4.4 Emigrazione politica e azione sindacale all’estero

Durante la prima metà del XX secolo l’opposizione dei fuoriusciti ostili al

fascismo nei Paesi europei e nel continente americano e la lotta per i diritti dei lavoratori immigrati soffrirono spesso di mali comuni, come la diffidenza palesata dagli autoctoni. Se da una parte i movimenti operai all’estero furono contrari ad accettare gli stranieri, allo stesso tempo gli italiani che organizzavano i partiti di sinistra o professavano l’anarchismo, limitando il proprio operato all’opposizione lontano dalla patria verso il regime di Mussolini, condannavano i loro gruppi a essere allontanati dalle vicende della politica e dalle iniziative di protesta dei Paesi in cui si erano stabiliti.341

Ad alimentare i dissensi nei confronti dei lavoratori mediterranei concorreva il docile comportamento di questi operai nei confronti dei datori di lavoro, che li potevano impiegare durante gli scioperi persino a bassi compensi nel momento in cui i manifestanti cercavano di fermare la produzione industriale per contrattare migliori condizioni. L’italiano era considerato un crumiro, che con la sua estrema disponibilità dava l’occasione al padronato di abbassare i salari, perché disposto anche ad accettare compromessi a suo assoluto svantaggio pur di poter avere un guadagno dalla permanenza all’estero. Tali atteggiamenti in

339 Una copia scannerizzata della lettera, datata 1918, è archiviata con il codice 509 (MEGT).

340 Con i codici 510 e 511 (MEGT) sono catalogate le copie scannerizzate dei documenti che attestano i titoli con

cui fu premiato da Sua Maesta Vittorio Emanuele III Giovanni Pelleschi.

341 Vedere S. LUCONI, Emigrazione, vita politica e partecipazione sindacale, in AA. VV., Storia d’Italia

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molte circostanze portarono a un’aperta ostilità verso gli immigrati, che sfociarono in episodi di violenza durante cui molti rimasero feriti o uccisi, come accadde nel 1874, quando i minatori italiani furono coinvolti in uno scontro con i dipendenti autoctoni in sciopero negli impianti di estrazione del carbone bituminoso vicino alla città di Pittsburgh, in Pennsylvania.342

Nella partecipazione alla vita politica gli italiani incontravano difficoltà in certi casi anche maggiori, a causa della loro estraneità alle vicende di governo e alle problematiche sociali degli stati che li ospitavano. La prospettiva di un possibile rimpatrio in breve tempo spingeva gli esuli a ritenere la vita all’estero un semplice nascondiglio dai loro oppositori, per continuare dai Paesi europei o dal continente americano a seguire le sorti della loro nazione. Ancora una volta, almeno inizialmente, l’emigrazione non veniva considerata un’opportunità di integrazione nelle comunità estere. Tale atteggiamento fu particolarmente evidente durante il periodo fascista nei fuoriusciti,343 che si concentrarono in maggioranza in Francia (dove si calcola che ripararono 28.000 antifascisti), Paese dove la libertà politica e la vicinanza all’Italia permisero di mantenere frequenti contatti con socialisti, comunisti e anarchici ancora residenti in patria e attivi nella lotta al regime. Ma in momenti storici precedenti e in altri Paesi il comportamento dei rifugiati politici non era stato diverso, ne erano stati una dimostrazione i dissidenti che a fine Ottocento all’estero si impegnavano in lunghe discussioni sull’importanza di fare del XX settembre una festa nazionale. Questa condizione finì per limitare le richieste di naturalizzazione: infatti, l’acquisizione della cittadinanza era legata alla possibilità di accedere al voto e, di conseguenza, di partecipare alla vita politica. In molti casi erano le stesse legislazioni dei luoghi di arrivo a ridurre l’interesse degli stranieri per la conquista del diritto elettorale, perché quest’ultimo veniva concesso dopo un periodo di permanenza troppo prolungato e non tutti gli emigranti erano

342 H. G. GUTMAN, Lavoro, cultura e società in America nel secolo dell’industrializzazione, 1815-1919, Bari,

De Donato, 1979, pp. 191-230. Secondo l’autore fu nelle miniere vicino a Pittsburgh che vennero impiegati per la prima volta i lavoratori italiani come crumiri.

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intenzionati a rimanere all’estero per molto tempo. Era ciò che accadeva in Francia, dove si poteva votare dopo dieci anni di residenza e, soltanto dal 1938, dopo cinque anni.344 A tale ostacolo si deve aggiungere l’opinione diffusa presso i socialisti italiani impegnati negli scioperi che il voto, nei paesi democratici sviluppati a livello economico e sociale, era uno sorta di truffa compiuta dalla borghesia ai danni del proletariato, una delle armi più efficaci del padronato industriale per curare i propri interessi.345

Ma, al di là dei fattori ideologici o di carattere legislativo che interessavano i migranti in possesso di conoscenze politiche, a influire sulle decisioni della maggior parte della popolazione italiana all’estero nella prima metà del XX secolo in merito alla cittadinanza e, di conseguenza, al diritto di voto erano motivazioni legate al livello culturale ereditato dal luogo di origine. Si deve considerare che molti già in patria non erano soliti presentarsi alle urne a causa della scarsa confidenza con le vicende politiche del loro paese. Alle ultime elezioni che precedettero l’avvento del regime fascista nell’Italia meridionale continentale partecipò solo il 51% della popolazione e nelle isole il 46,3%; l’affluenza alle urne fu leggermente superiore nell’area settentrionale, dove gli elettori ammontarono al 65,4% del totale.346 Queste persone, già semianalfabete in patria, giunte all’estero si esprimevano a fatica nella lingua autoctona e non erano in grado di leggerla e di scriverla, di conseguenza non potevano conseguire la cittadinanza che veniva data solo agli stranieri alfabetizzati. Tali limitazioni, però, non impedirono a una parte minoritaria, ma pur sempre rilevante, degli italiani all’estero di impegnarsi con costanza nell’attività politica e nei movimenti sindacali, conseguendo in alcuni casi notevoli risultati. Per la presenza alle urne, va tenuto in considerazione che il fascismo ebbe un giudizio

344 S. LUCONI, Emigrazione, vita politica e partecipazione sindacale, cit., p. 332. Da notare che tutt’oggi in

Italia si concede la cittadinanza a un immigrato extracomunitario solo dopo dieci anni dal suo arrivo e comunitario dopo quattro anni.

345 E. VEZZOSI, Il socialismo indifferente. Immigrati italiani e Socialist Party negli Stati Uniti del primo

Novecento, Roma, Edizioni lavoro, 1991, in particolare p. 220, dove si specifica che ci fu un costante aumento dei voti degli immigrati anche nelle località dove gli scioperi sindacali ebbero esito negativo, come avvenne per le proteste dei tessitori a Patterson nel 1913.

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completamente opposto rispetto alle convinzioni dei gruppi di sinistra e degli anarchici: disinteressato al valore del voto come strumento per accrescere le possibilità di contrattazione degli emigranti sul mercato del lavoro, il regime considerava la partecipazione degli italiani all’estero alle elezioni utile a rivendicare una posizione più forte nei rapporti con gli altri stati. Fin dai primi anni venti Mussolini, raggiunto da poco il potere, pensò di utilizzare questa strategia in politica estera; il suo obiettivo era stabilire contatti diplomatici vantaggiosi con gli Stati Uniti per convincere il vecchio alleato a ridurre il pagamento imposto all’Italia dei debiti fatti per finanziare la Grande Guerra.347 Fu grazie anche alla propaganda del regime finalizzata all’incremento delle naturalizzazioni e all’acquisizione del diritto elettorale presso gli emigranti, che durante la prima metà del Novecento molti italiani si candidarono per cariche di vario livello, riuscendo a raggiungere l’elezione. I risultati maggiori si ebbero negli Stati Uniti, dove l’affluenza alle urne degli stranieri iniziò a lievitare con le presidenziali del 1928, che videro la candidatura del cattolico irlandese Alfred E. Smith, governatore dello stato di New York, riconosciuto dall’elettorato di origine mediterranea un possibile rappresentante delle necessità degli immigrati, meritevole di fiducia anche perché diverso dal modello di politico protestante di origine anglosassone prevalente nell’élite della federazione statunitense.348 Sostenitore dell’abrogazione del protezionismo, Smith fu battuto dal repubblicano Herbert C. Hoover. La partecipazione degli emigranti alle urne aumentò ulteriormente negli anni della depressione economica, quando si schierarono a favore del New Deal e, in particolare, delle riforme riservate all’assistenza statale del nuovo presidente Theodore Roosevelt, che potevano consentire alla popolazione straniera di sopravvivere alla crisi. Prendendo come riferimento le città di Filadelfia e Pittsburgh emerge che tra il 1930 e il 1940

347 S. LUCONI, La «diplomazia parallela». Il regime fascista e la mobilitazione politica degli italo-americani,

Milano, Franco Angeli, 2007, in particolare p. 10 dove si parla dell’utilizzo degli emigranti italiani “…come gruppi di pressione per influenzare i governi stranieri e indurli ad attuare politiche più favorevoli agli interessi del fascismo in campo internazionale” e p. 23 dove questo genere di politica estera, opposta alle restrizioni che in seguito saranno imposte dal regime all’emigrazione, viene vista nei confronti degli Stati Uniti.

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l’aumento del numero dei voti fu rispettivamente del 70% e del 287,6%.349 Queste percentuale risultano di gran lunga superiori all’incremento demografico e, quindi, alla crescita dei potenziali elettori, e confermano che nel periodo della crisi economica ci fu una maggiore presenza degli stranieri alle urne.

La parte ristretta dell’elettorato di origine italiana che riuscì a passare a una partecipazione attiva alla vita politica all’estero ebbe la possibilità di accedere all’istruzione per merito principalmente dei genitori che, sopportando la situazione di emarginati nei luoghi di destinazione, avevano compreso l’importanza della formazione scolastica per favorire il processo di integrazione. In alcuni casi i giovani stranieri ricevettero anche l’aiuto delle comunità religiose protestanti, come accadde a Cornelius Granai. Nato da una famiglia di cavatori toscani, a causa di un incidente a una mano gli fu offerta la possibilità di laurearsi in legge alla Siracuse University dalla Chiesa Metodista e di presentarsi alla candidatura di governatore del Vermont, tracciando la strada al figlio Edwin Granai, politico democratico che nel 1990 è stato eletto senatore.350

4.5 Luigi Campolonghi, pellegrino e soldato in difesa della libertà

Originario di Pontremoli ma vissuto per lungo tempo in Francia come

oppositore del regime fascista, Luigi Campolonghi fu un esempio di difesa degli ideali legati al sindacalismo rivoluzionario e al socialismo, una fede politica e un impegno sociale portati avanti mediante la costante attività giornalistica svolta come inviato e redattore di vari periodici italiani e francesi. Più del conterraneo Alceste De Ambris, che visse all’estero solo per brevi periodi, Campolonghi, stabilendosi in Francia con la famiglia ancora giovane e rimanendo oltralpe fino all’ultimo anno di vita, fu costretto ad affrontare tutte le frequenti difficoltà

349 S. LUCONI, Little Italies e New Deal. La coalizione rooseveltiana e il voto italo-americano a Filadelfia e a

Pittsburgh, Milano, Franco Angeli, 2002, p. 241.

350 La storia di Coriolano ed Edwin Granai è stata ricostruita sul sito http://museogenteditoscana.it con

informazioni che possono essere integrate attraverso materiale iconografico. Figlio di uno scalpellino emigrato a Barre nel Vermont a inizio Novecento, quando la madre di Cornelius Elvira Volpi rimase vedova per sopravvivere dovette inserirsi nel traffico clandestino delle sostanze alcoliche, fonte di guadagno per molte emigrate che, come a lei, non era stata riconosciuta la pensione in seguito alla morte del marito, benché avvenuta per motivi legati all’ambiente di lavoro. Scoperta dalle autorità di polizia, fu in breve arrestata, processata e chiusa in un istituto di correzione.

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dell’emigrante intellettuale per creare un proprio spazio professionale e coltivare l’attività politica nella società straniera. Il suo carattere di lavoratore instancabile gli permise di raggiungere un livello di integrazione e una libertà di azione tali da diventare non solo un valido riferimento dalla Francia per il sindacalismo rivoluzionario italiano, ma anche uno scrittore attivo nella cultura e nella società del paese in cui aveva trovato rifugio.

Luigi Campolonghi nacque il 14 agosto 1874 da una famiglia lunigianese con un tenore di vita apprezzabile. Rimasto orfano ancora giovanissimo, fu affidato allo zio Bernardo, che si impegnò affinché potesse frequentare il liceo grazie a una borsa di studio; in quegli anni il giovane socialista si dedicò alle opere di Giuseppe Mazzini351, di cui prediligeva “I doveri dell’uomo”, che era solito leggere ai compagni la sera di nascosto ai precettori già ai tempi del collegio (ricordato nelle sue memorie come una sorta di prigione). Quando fu scoperto a professare ideologie mazziniane, però, venne espulso prima dal liceo di Teramo, che era diretto da suo zio Francesco, e successivamente dal liceo Pellegrino Rossi di Massa. A questi primi allontanamenti, malgrado l’alto rendimento scolastico, si aggiunsero altre difficoltà all’interno dell’ambiente universitario, che tuttavia non furono sufficienti a convincere il giovane intellettuale a tradire la sua fede politica. Il mazzinianesimo per lui e per De Ambris rappresentò una sorta di introduzione al socialismo, poiché quest’ultima ideologia politica costituiva un’espressione più alta delle teorie che erano state alla base del pensiero democratico dell’eroe risorgimentale.

Per le prime azioni sindacali a livello locale, Campolonghi individuò un modello di riferimento nell’avvocato lunigianese Pietro Bologna, fondatore insieme al maestro Antonio Maffi del “Circolo Operaio Pontremolese” il 21 aprile del 1887 e della “Cooperativa di Produzione e di Lavoro” il 21 maggio

Diversi anni dopo il figlio ormai avvocato ebbe la soddisfazione di partecipare a un processo nella stessa aula di tribunale dove la madre aveva ricevuto la sua condanna.

351 L. CAMPOLONGHI, Una cittadina italiana fra l’80 e il 900, ritratto in piedi, Milano, Ed. Avanti, 1962; in

questa opera il giornalista offre un ritratto umoristico della società pontremolese tra i due secoli, raccontando con altrettanta ironia la sua gioventù. In particolare alle pp. 50-57 descrive il carattere dello zio Bernardo attraverso vari aneddoti e alle pp. 72-82 parla del periodo passato in collegio.

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1893, organizzazioni volte a destare la popolazione rurale dalla secolare apatia che la spingeva a piegarsi al potere padronale.352 Insieme a Bologna il nostro compì le prime visite presso le comunità contadine residenti sulla montagna massese per far conoscere i diritti dei lavoratori, riscotendo quasi sempre clamorosi insuccessi.353 I braccianti agricoli, infatti, condizionati dai limiti imposti dalla religione cattolica e timorosi dei ricatti dei signori, quando vedevano i sindacalisti iniziavano a gridare “Aiut, aiut, a gh’è i diavli, a gh’è i diavli”354, armandosi di bastoni e di forconi per costringere alla fuga gli indesiderati promotori della lotta del popolo.

Maggiori consensi furono conseguiti attraverso il periodico “La Terra”, diffuso in tutta l’area della Lunigiana, che rappresentò il primo approccio formativo del giovane intellettuale al giornalismo politico. Fondato da Campolonghi con la collaborazione di Bologna e del coetaneo Alceste De Ambris,355 il quindicinale, a cui collaborarono altri intellettuali di sinistra tra cui Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, non faceva che riproporre gli ideali di ribellione al potere padronale già lungamente dibattuti durante i discorsi campestri, ma adesso rielaborati in seguito ad attente riflessioni, in modo da poter essere diffusi almeno presso la popolazione alfabetizzata.356

Con i moti milanesi del 1898, che ebbero una poderosa eco nella provincia di Massa Carrara, il gruppo dei sindacalisti rivoluzionari pontremolesi presero in esame la possibilità di mettere in pratica le teorie discusse e predicate presso i lavoratori, ma sul momento prevalse il buonsenso di evitare una battaglia

352 Ivi: alle pp. 127-128 l’autore racconta che già ai tempi del liceo gli ideali socialisti erano visti da lui e da altri

studenti, tra cui Alceste De Ambris, come l’unica vera dottrina da divulgare presso il popolo pontremolese dei lavoratori, in gran parte costituito da artigiani poveri come materassai e calzolai. I giovani sindacalisti chiamavano il socialismo “Idea nuova”.

353 Per questo periodo della vita di Campolonghi vedere M. TASSI, Luigi Campolonghi, pellegrino e soldato di

libertà 1876-1944, Pontremoli, Tip. Artigianelli, 1969, in particolare le pp. 8-22.

354 “Aiuto, aiuto, ci sono i diavoli, ci sono i diavoli”.

355 G. RICCI, Alceste De Ambris dal socialismo eroico di Lunigiana al sindacalismo rivoluzionario, Pontremoli,

Tip. Artigianelli, 1974, p. 31, dove si ricorda che il De Ambris, di pochi anni maggiore di età rispetto al Campolonghi e agli altri compagni socialisti, stimolava nel gruppo “….la passione rivoluzionaria dei giovani goliardi pontremolesi”. Nella stessa pagina si accenna anche alla diffidenza dei contadini avvicinati durante le uscite campestri.

356 Sul periodico “La Terra” vedere G. B. FURIOZZI, Alceste De Ambris e il sindacalismo rivoluzionario,

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prematura. La prudenza, però, non evitò a Bologna e ad altri attivisti di ricevere la sgradita visita delle forze dell’ordine, che in seguito alle segnalazioni sulla pericolosità della loro attività politica li arrestarono; soltanto Campolonghi, avvertito per tempo dell’imminente retata della polizia, riuscì a fuggire prima che fosse catturato. Si rifugiò sulle montagne liguri di Zerasco, dove la popolazione locale, rude nel comportamento ma pronta a venire in soccorso delle persone oppresse, gli offrì protezione e mezzi di sostentamento grazie all’intercessione del parroco di Pontremoli, che lo accompagnò nel suo ritiro.357 Non troppo tempo dopo il nostro partì per Marsilia.

Durante il suo primo soggiorno oltralpe il giovane intellettuale manifestò subito l’intenzione di mettere a frutto le conoscenze in campo politico e giornalistico acquisite durante i primi anni di attività nel gruppo a cui faceva capo Pietro Bologna e di essere pronto, pur di conseguire tale obiettivo, a partire da una condizione sociale umile per risalire la china. Rispetto a gran parte dei rifugiati italiani all’estero che si occupavano unicamente delle questioni della loro nazione, il migrante pontremolese manifestò sempre un fervido interesse per i problemi politici e sociali della Francia, considerandosi fin da subito un membro della comunità che lo ospitava e, per questa ragione, incapace di astenersi dal dare il suo contributo.

Campolonghi visse a contatto con i connazionali costretti alle condizioni più disperate, cercando di accendere in loro una speranza attraverso una costante opera di propaganda degli ideali legati al sindacalismo rivoluzionario. Si adattò in un primo momento alle professioni più umili, tra cui il ciabattino e il facchino, in attesa di riuscire a prendere i primi contatti con le riviste francesi e di iniziare l’attività di pubblicista.358 Nei suoi articoli sul “Petit Provençal” si

altri otto numeri, perché nell’estate dello stesso anno la pubblicazione fu sequestrata durante lo stadio di assedio causato dai moti milanesi, che dalla provincia di Massa Carrara fu esteso a tutta la Toscana. Fu allora che venne arrestato il Bologna.

357 M. TASSI, Luigi Campolonghi, pellegrino e soldato di libertà 1876-1944, cit., pp. 38-40.

358 Alcune notizie sui primi anni di vita di Luigi Campolonghi in Francia sono state prese dai siti internet

http://it.wikipedia.org/wiki/Luigi_Campolonghi,

www.treccani.it/enciclopedia/luigi-campolonghi_(Dizionario_Biografico) e www.lunigiana.ms.it (su quest’ultimo sito è stata pubblicata una recensione sull’opera Una cittadina italiana fra l’80 e il 900).

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nota lo stile di uno scrittore deciso, capace di affrontare in modo razionale i problemi di maggiore attualità, qualità importanti per un intellettuale attento e riflessivo che emergono anche nei suoi interventi sul giornale “L’emigrante”, pubblicato a proprie spese, e nei volumi delle opere “Vita d’esilio” e “La Zattera”, quest’ultima ristampata a Buenos Aires in lingua spagnola.

Rientrato in Italia, nel 1900 si sposò con Ernestina Cassola, sorella della consorte di Leonida Bissolati, con cui Campolonghi si legò in un rapporto intellettuale che durò tutta la vita. È in questo periodo che ricevette la nomina di segretario della camera di lavoro di Savona, un ruolo analogo a quello che a inizio secolo stava ricoprendo Alceste De Ambris a Parma. Fu vicino al vecchio compagno di battaglia quando arrivò il momento tanto atteso di mettere in pratica gli ideali coltivati in passato con il grande sciopero parmense359, ma il destino del giornalista toscano era legato alla Francia, dove emigrò di nuovo ma stavolta non come rifugiato politico, quando nel 1910 fu assunto con il ruolo di corrispondente da Parigi per il “Secolo” e il “Messaggero”, i due maggiori organi di stampa di cui si poteva avvalere la democrazia radicale italiana. Aveva già lavorato per il primo quotidiano lo stesso anno come inviato a Barcellona per il processo farsa che doveva portare alla condanna a morte di Ferrer e a Lisbona con lo scoppio della rivoluzione repubblicana.

Nella capitale francese il sindacalista non si limitò a una continua e produttiva attività giornalistica, ma partecipò anche ai salotti culturali, tra cui le riunioni di Lina Cavalieri e della signora Menard-Dorian, centri di incontro che si aprirono agli antifascisti tra la fine degli anni venti e buona parte degli anni trenta. Campolonghi si proponeva di rappresentare la cultura italiana, convinto che al di là dell’impegno nel contrastare il fascismo, si dovessero istaurare rapporti solidi tra il suo paese e la Francia per dare vita a una comunità intellettuale internazionale volta al futuro e all’affermazione degli ideali socialisti.360 Il

359 Cfr M. GORKIJ, Racconti d’Italia, Roma, Atlantica, 1945, pp. 8-12; si tratta del paragrafo intitolato A

Genova, in cui si racconta l’accoglienza riservata ai figli degli scioperanti dagli operai radunati nel porto, una testimonianza di come la protesta scoppiata a Parma avesse avuto larga risonanza.

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nostro si assumeva l’onere di promuovere tale connubio, ponendosi nella sua professione giornalistica e nelle conferenze che aveva l’occasione di tenere l’obiettivo di testimoniare gli aspetti culturali non solo della società italiana, ma anche di quella francese nei rapporti che manteneva con la patria.

Il risultato maggiore di questa lunga opera di lavoro intellettuale volta alla promozione degli ideali di libertà e di difesa dei diritti delle classi popolari fu la L.I.D.U. (Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo), un’iniziativa di respiro internazionale realizzata grazie alla collaborazione di De Ambris, con il quale Campolonghi (presidente dell’ente) tornò in contatto quando il rifugiato politico toscano iniziò il suo secondo esilio francese.361 L’attività della lega fu divulgata attraverso un bollettino, che destò l’interesse degli emigranti italiani, e fu influenzata anche dalle conoscenze acquisite da De Ambris (segretario della L.I.D.U.) durante una breve permanenza in Brasile, dove si era adoperato per incentivare il movimento di protesta presso i braccianti agricoli delle fazendas. Era stato in questo periodo che aveva fondato, insieme ad altri compagni emigrati a San Paolo, il periodico a cui aveva dato lo storico nome di settimanale “L’Avanti”, che rappresentò il primo giornale di indirizzo politico di sinistra stampato nello stato brasiliano.362

Il 7 aprile del 1940, di ritorno da una missione propagandistica in Tunisia, Luigi Campolonghi veniva colpito da emiplegia mentre la sua nazione era prossima a entrare in guerra, malattia che lo costrinse a rinunciare alla proposta inviatagli via lettera dall’università della Columbia di prendere la cattedra di scienze politiche. Per un breve periodo si sistemò a Bordeaux presso l’abitazione del figlio Leonida, che si era arruolato nella resistenza, ma poi braccato allo stesso tempo dalle forze della polizia di Petain e dagli emissari della dittatura franchista, dovette chiedere il permesso per rientrare in Italia. A Mentone venne arrestato, ma riuscì a farsi scarcerare e a trasferirsi nel novembre del 1943 a Ivrea, dove fu ospitato dai parenti con la consorte; solo adesso Campolonghi,

361 Se ne parla anche in P. AUDENINO e A. BECHELLONI, L’esilio politico tra Ottocento e Novecento, in AA.

VV., Storia d’Italia Einaudi Annali 24, cit., p. 355.

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dopo oltre trent’anni di vita all’estero, rientrava in patria con il proposito di trovare una sistemazione definitiva. Nella cittadina piemontese rese nota la sua presenza solo ai partigiani, ritenendo importante da parte sua almeno offrire un sostegno morale alla resistenza, ma per la sicurezza della sua famiglia dopo poco dovette spostarsi ancora più a nord, a Settimo Vittore. In questa località fece per alcuni mesi una vita totalmente appartata, costretto a un forzato esilio fisico e a una inattività intellettuale che gli pesarono più di qualsiasi malattia o condanna, data la sua natura di instancabile lavoratore.

Luigi Campolonghi morì nella notte tra il 20 e il 21 dicembre del 1944, mentre la moglie, per accontentare il suo desiderio di rivivere il momento della disfatta del regime fascista, gli stava leggendo alcuni vecchi articoli di giornale che annunciavano lo sbarco degli alleati in Italia.

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