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Robust design e statistical process control dei componenti utilizzati nella realizzazione di un set per infusione

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN INGEGNERIA BIOMEDICA

Robust design e statistical process control dei

componenti utilizzati nella realizzazione di un set

per infusione

Relatori:

Prof. Giovanni Vozzi Ing. Marco Mantovani

Candidato: Luciano Laricchiuta

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Indice

Introduzione v

1 Sistema per terapia infusionale 1

1.1 La terapia infusionale . . . 1

1.1.1 Tipi di soluzioni . . . 3

1.1.2 L’osmolarità . . . 4

1.1.3 La velocità di infusione . . . 5

1.2 Set per infusione . . . 6

1.3 L’accoppiamento Luer: aspetti storici . . . 10

1.4 Normative di riferimento . . . 12

1.4.1 ISO 594-1 - Conical fitting with a 6% (Luer) taper for syringes, needles and certain other medical equipment . . 12

1.4.2 ISO 594-2 - Conical fitting with a 6% (Luer) taper for syringes, needles and certain other medical equipment: lock fittings . . . 13

1.4.3 ISO 80369 - Small-bore connectors for liquids and gases in healthcare applications . . . 13

1.5 Stato dell’arte . . . 16

1.6 L’azienda Elcam Medical . . . 17

1.7 Obiettivo del lavoro di tesi . . . 19

2 Materiali e metodi 22 2.1 I polimeri . . . 22

2.1.1 Il polivinicloruro (PVC) . . . 26

2.1.1.1 Composti in miscela con il polivinilcloruro . . . 27

2.1.2 Il polietilene (PE) . . . 28

2.1.3 L’acrilonitrile butadiene stirene (ABS) . . . 29

2.2 I processi di lavorazione . . . 31

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2.2.1.1 Pressa per stampaggio ad iniezione . . . 32

2.2.1.2 Ciclo di funzionamento . . . 33

2.2.1.3 Parametri principali del processo di stampaggio 35 2.2.2 Il processo di estrusione . . . 36

2.2.2.1 Estrusore monovite . . . 37

2.2.2.2 Impianto di estrusione . . . 39

2.2.2.3 Sistema per ispezione del tubo di Nirox srl . . . 40

2.3 La metodologia Six-Sigma DMAIC . . . 43

2.3.1 Statistical Process Control (SPC) . . . 44

2.3.2 Metodi statistici per il miglioramento della qualità nei processi produttivi . . . 44

2.3.2.1 Stima parametrica . . . 44

2.3.2.2 Test delle ipotesi . . . 45

2.3.3 Variabilità nei processi produttivi . . . 46

2.3.4 Il Design of Experiments (DOE) . . . 48

2.3.4.1 Gli esperimenti programmati . . . 48

2.3.4.2 I piani fattoriali . . . 50

2.3.5 Robust design . . . 53

2.3.6 Le carte di controllo . . . 54

2.3.6.1 Carte di controllo per variabili . . . 56

2.3.6.2 Carte di controllo per attributi . . . 56

2.3.7 Indici di capability di un processo . . . 56

2.3.8 Metodologie del Six Sigma . . . 59

2.3.9 Metodologia DMAIC . . . 61 2.3.9.1 Define . . . 61 2.3.9.2 Measure . . . 62 2.3.9.3 Analyze . . . 63 2.3.9.4 Improve . . . 63 2.3.9.5 Control . . . 64

2.4 Validazione di processi produttivi . . . 64

2.4.1 Tipologie di validazioni di processo . . . 66

2.4.2 V-diagram: fasi della validazione di processo . . . 66

2.4.2.1 Protocollo di validazione (VP) . . . 67

2.4.2.2 Qualifica di installazione e funzionamento (IQ) . 68 2.4.2.3 Qualifica operativa (OQ) . . . 68

2.4.2.4 Qualifica delle prestazioni (PQ) . . . 69

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3 Progettazione del design del componente female Luer lock 71

3.1 Criteri di scelta del design . . . 71

3.2 Simulazione del processo di stampaggio ad iniezione del Luer lock femmina . . . 73

3.2.1 Analisi della confidenza di riempimento . . . 74

3.2.2 Analisi del tempo di riempimento . . . 78

3.2.3 Analisi degli intrappolamenti d’aria . . . 79

3.2.4 Analisi sottosquadri . . . 80

3.2.5 Simulazione mediante metodo degli elementi finiti (FEM) 81 3.3 TRS e stampo definitivo . . . 85

4 Validazione del processo di stampaggio e controllo statistico del processo di estrusione 88 4.1 Validazione del processo di stampaggio del female Luer lock . . . 88

4.1.1 Protocollo di validazione: VMP & PFMEA . . . 89

4.1.2 Molding IQ (qualifica di installazione) . . . 90

4.1.3 Molding OQ (qualifica operativa) . . . 92

4.1.3.1 Analisi della variabilità (robust design) . . . 98

4.1.4 Molding PQ (qualifica delle prestazioni) . . . 104

4.2 Validazione del processo di stampaggio del ruotino . . . 107

4.3 Full layout del perforatore . . . 111

4.4 Controllo statistico del processo di estrusione del tubo . . . 113

5 Conclusioni e sviluppi futuri 117

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Introduzione

La produzione industriale al giorno d’oggi si avvale di tecniche statistiche per il controllo dei processi produttivi. Ogni processo industriale, per ottenere elevati standard di produzione, deve tener conto della qualità del prodotto realizzato. La qualità richiede processi stabili e ripetibili, che diano prodotti conformi ai requisiti prestabiliti. Inoltre è necessario adeguarsi a ciò che è richiesto dal mercato: in un’ottica di miglioramento, a seguito di problematiche riscontrate nella realtà, possono cambiare le norme che regolano gli standard che un prodotto debba possedere, e per rimanere competitivi è obbligatorio rispettare ciò che la International Organization for Standardization (ISO) stabilisce. La ISO è la federazione mondiale di organismi nazionali di standardizzazione e rappresenta la più grande organizzazione a livello mondiale per la definizione di norme tecniche. Il presente lavoro di tesi si inserisce all’interno del progetto di sviluppo, industria-lizzazione e validazione dei processi produttivi di componenti utilizzati all’interno di un set per infusione di liquidi chiari.

La terapia infusionale consiste nella somministrazione di sostanze direttamente nell’apparato circolatorio, attraverso un dispositivo di accesso vascolare (ago o catetere) inserito in una vena. Mediante infusione possono essere somministrati medicinali, emoderivati, sostanze nutrienti e soluzione fisiologica.

Questo lavoro di tesi si pone l’obiettivo di sviluppare, industrializzare e validare i processi produttivi di componenti utilizzati all’interno di un set per infusione. In particolare saranno esaminati:

1. lo sviluppo e l’industrializzazione del componente Luer lock femmina secon-do la nuova normativa ISO 80369-7 (connettori per applicazioni intravenose e ipodermiche) con validazione del processo, attraverso la verifica delle conformità delle quote CTQs (Critical to Qualities), e ottimizzazione del processo produttivo mediante la condizione di Robust Design, tramite cui è possibile ottenere indici di capability più alti grazie alla minimizzazione della varianza;

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monitorando la misura in tempo reale del diametro interno ed esterno. I Luer lock appartengono alla famiglia dei connettori di piccole dimensioni per il trasporto di liquidi e gas in varie applicazioni mediche: ventilazione artificiale e distribuzione dei gas, nutrizione enterale, uretrali e urinarie, neuroassiali, intra-vascolari, misurazione non invasiva della pressione.

L’universalità della connessione Luer lock, standardizzata con la ISO 594, ha tuttavia riscontrato problemi di disconnessione fra apparecchiature mediche, causando danni al paziente ed in alcuni casi anche il decesso.

A fronte di queste problematiche ed evitare fenomeni di misconnection è stato deciso di sostituire la ISO 594 con una nuova normativa, la ISO 80369, che si pone l’obiettivo di rappresentare il documento di riferimento per lo sviluppo e la produzione di connettori Luer, specificandone il design a seconda del tipo di applicazione. Essendo il set di infusione utilizzato per terapie infusionali via vena, i componenti dovranno essere adeguati alla normativa ISO 80369-7 (connettori per applicazioni intravenose e ipodermiche).

Il lavoro di tesi è stato svolto presso la Elcam Medical Italy S.p.A con sede a Carpi (MO), un’azienda specializzata nella formatura e nell’assemblaggio di com-ponenti per dispositivi medici e prodotti personalizzati su specifiche del cliente. Produce una vasta gamma di componenti monouso per emodialisi, terapia IV (intravenosa), trasfusione, cardiochirurgia, anestesia e rianimazione.

Il presente lavoro, dopo aver fornito una panoramica generale sullo stato dell’arte (Capitolo 1) e sui materiali e gli approcci metodologici impiegati per lo svolgimen-to dello studio (Capisvolgimen-tolo 2), si pone come obiettivo la ricerca dei criteri di scelta della progettazione del dispositivo Luer lock femmina, avvalendosi di metodi di simulazione dello stampaggio ad iniezione e del comportamento strutturale del sistema, al fine di trovare la configurazione migliore e l’analisi dello sviluppo del prodotto e del processo avvalendosi della metodologia Six Sigma (Capitolo 3). Mediante l’utilizzo di protocolli validativi, Validation Protocol (VP), Installation Qualification (IQ), Operational Qualification (OQ), Performance Qualification (PQ), sono stati validati i processi produttivi del Luer lock femmina e del ruotino;

per mezzo di strumenti come il DOE (Design of Experiments) è stato ottimizzato il processo produttivo del Luer lock femmina mediante la condizione di Robust Design; attraverso l’ispezione dello spessore di parete durante la produzione del tubo impiegato per il set, è stato analizzato il controllo statistico del processo (Capitolo 4). Infine sono esposte le conclusioni del lavoro e gli eventuali sviluppi

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Sistema per terapia

infusionale

La terapia infusionale è una tipologia di trattamento molto diffusa nella pratica clinica quotidiana. Il presente capitolo illustra i principi e le modalità con cui può avvenire, i componenti necessari per formare un set per infusione e la normativa che regola il design dei connettori impiegati.

1.1 La terapia infusionale

La terapia infusionale consiste nella somministrazione di sostanze direttamente nell’apparato circolatorio, attraverso un dispositivo di accesso vascolare (ago o catetere) inserito in una vena.

Mediante infusione possono essere somministrati medicinali, emoderivati, sostituti del sangue, soluzioni tampone, sostanze nutrienti e soluzione fisiologica. In generale si ricorre a questo tipo di terapia quando è necessario un trattamento che sia efficace in termini di rapidità di effetto oltre che continuo in termini di dosaggio terapeutico. I motivi principali per cui si ricorre all’infusione sono vari: • somministrazione di farmaci che non possono entrare a contatto con

l’apparato gastroenterico;

• conservare o ripristinare la volemia e l’equilibrio elettrolitico;

• nutrizione adeguata quando è compromessa l’alimentazione per via enterale. L’erogazione di sostanze per via endovenosa può avvenire principalmente in due modi:

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• in bolo: il liquido viene iniettato in un’unica dose in vena, generalmente con una siringa. Questo metodo viene utilizzato nei casi in cui è neces-sario infondere il medicinale (concentrato o con soluzione fisiologica) in quantità non elevate e in un breve periodo di tempo, che comunque è caratteristico per ogni farmaco. Si elimina il rischio di complicazioni legate al posizionamento di un ago a permanenza, come avviene con l’infusione; • in infusione: quando il liquido è iniettato con strumenti appositi. Si

distinguono due categorie di infusione:

– intermittente: utilizzata nelle situazioni in cui il farmaco deve essere infuso per un periodo di tempo intermedio (dai trenta ai sessanta minuti) oppure quando devono essere effettuate più somministrazioni a breve distanza temporale;

– continua: impiegata per infondere in modo continuo e per lunghi periodi di tempo. Attraverso questa modalità di somministrazione è possibile mantenere costanti i livelli di concentrazione dei farmaci all’interno del paziente, inoltre è utilizzata anche per la nutrizione parenterale totale. I rischi di infezione sono bassi poiché i cateteri restano inseriti durante tutta la durata della cura senza essere toccati.

Figura 1.1: Grafico della concentrazione del farmaco in funzione del tempo

La differenza sostanziale fra un metodo standard (come iniezioni o pillole) e un metodo infusionale consiste nella fluttuazione o meno delle concentrazioni del farmaco all’interno della regione terapeutica (Figura 1.1).

Per regione terapeutica si intende quella zona in cui il farmaco garantisce l’effetto desiderato; per valori inferiori a quelli compresi in questa zona il paziente non sentirà i benefici della cura mentre per valori superiori il farmaco diventerà tossico. Il metodo standard comporta oscillazioni durante tutto il periodo di som-ministrazione poiché avviene a determinati intervalli di tempo. Di conseguenza

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all’interno della regione terapeutica si ha un valore medio e non l’effettivo dosag-gio. Invece attraverso l’infusione si ottiene una induzione continua di farmaco in modo da ridurre le fluttuazioni e, se la velocità di infusione risulta calibrata in maniera corretta, i benefici terapeutici sono garantiti in ogni momento. I vantaggi della terapia infusionale sono i seguenti:

• fornire farmaci, liquidi, supplementi nutritivi quando il paziente non può assumerli per via orale;

• il dosaggio del farmaco è preciso.

La terapia infusionale comporta i seguenti svantaggi:

• riduce i movimenti del paziente, la deambulazione e gli spostamenti; • è più costosa della terapia iniettiva ed orale;

• può causare complicanze come emorragia, infiltrazione, infezioni, sovrado-saggio.

1.1.1 Tipi di soluzioni

Le soluzioni disponibili per la somministrazione endovenosa si definiscono cristal-loidi o colcristal-loidi a seconda del loro contenuto e producono effetti diversi quando vengono infuse.

• Cristalloidi: sono comunemente chiamati "liquidi chiari". Sciogliendo i cristalli, come i sali e gli zuccheri, in acqua si creano i cristalloidi. Non contengono proteine e altri soluti ad alto peso molecolare, rimangono nello spazio intravascolare solo per un breve periodo prima di diffondersi attraverso la parete dei capillari nei tessuti. A causa di questa azione è necessario somministrare 3 litri di soluzione cristalloide per ogni litro di perdita di sangue. Sono esempi di soluzioni cristalloidi: la soluzione fisiologica, il destrosio e soluzioni contenti farmaci (ad esempio antibiotici). • Colloidi: contengono molecole di grandi dimensioni, come le proteine, che

non passano facilmente la membrana capillare, pertanto i colloidi restano nello spazio intravascolare per lunghi periodi. Queste molecole di grandi dimensioni aumentano la pressione osmotica nello spazio intravascolare provocando in tal modo il passaggio del fluido dallo spazio interstiziale e intracellulare allo spazio intravascolare. Per questo motivo i colloidi sono spesso indicati come espansori del volume ematico. I colloidi sono costosi, hanno un’emivita breve e richiedono refrigerazione. Sono esempi

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di soluzioni colloidi: l’albumina al 5% e al 20%, i sostituti del plasma, gli emoderivati e le soluzioni per nutrizione parenterale.

I liquidi e gli elettroliti somministrati per via endovenosa passano direttamente nel plasma (spazio del liquido extracellulare), vengono assorbiti in base alle caratteristiche del liquido e allo stato di idratazione del paziente. I liquidi più comunemente infusi sono il destrosio e la soluzione fisiologica, entrambi sono soluzioni cristalloidi.

1.1.2 L’osmolarità

L’osmolarità è una grandezza fisica che esprime la concentrazione di una soluzione, sottolineando il numero di particelle in essa disciolte indipendentemente dalla carica elettrica e dalle dimensioni. L’osmolarità è espressa in osmoli per litro (osmol/l o OsM) oppure, quando la soluzione è particolarmente diluita, in milliosmoli per litro (mOsM/l). Il suo valore esprime la concentrazione della soluzione, ma non dice nulla sulla natura delle particelle in essa contenute. Di riflesso, due soluzioni con uguale osmolarità avranno lo stesso contenuto numerico di particelle e le medesime proprietà colligative (stessa tensione di vapore, stessa pressione osmotica e stessa temperatura di congelamento ed ebollizione). Il pH, la conducibilità elettrica e la densità potrebbero tuttavia essere differenti, perché dipendono dalla natura chimica dei soluti e non solo dal loro numero. L’osmolarità sierica normale è intorno a 300 mOsM/l. Va detto, comunque, che l’osmolarità plasmatica efficace (o tonicità) non corrisponde a quella totale. Infatti determinano movimenti d’acqua dalla soluzione più concentrata a quella meno concentrata soltanto le molecole che non possono attraversare liberamente le membrane semipermeabili a esse interposte. Al contrario, ne esistono altre, come l’urea, che pur contribuendo alla determinazione dell’osmolarità sono liberamente permeabili (attraversano le membrane) e come tali non riescono a creare gradienti di acqua. Se l’osmolarità plasmatica si alza, perché aumentano i livelli di sodio nel sangue (ipernatriemia), tale soluto dovrà essere maggiormente diluito; in caso contrario si assisterebbe a un movimento d’acqua dal compartimento intra a quello extracellulare, con conseguente disidratazione della cellula.

Le soluzioni infusionali sono distinte in isotoniche, ipertoniche e ipotoniche in base alla loro osmolarità confrontata con quella plasmatica.

• Le soluzioni isotoniche, come la soluzione fisiologica (NaCl allo 0,9%) o il destrosio al 5%, hanno un’osmolarità vicina a quella plasmatica (tra 240 e 340 mOsm/l). Tali soluzioni sono in equilibrio con il flusso sanguigno e non incidono sul movimento dei liquidi verso e dalle cellule endoteliali

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delle vene. Per tale ragione essi sono i diluenti più comuni per numerosi farmaci somministrati per via endovenosa (per esempio la vancomicina). • Le soluzioni ipotoniche, ad esempio l’acqua sterile, hanno un’osmolarità

inferiore a 250-260 mOsm/l. Tali soluzioni, quando entrano nel flusso sanguigno, causano il movimento dell’acqua nelle cellule endoteliali della vena; il risultato può essere un’irritazione della vena o una flebite, se le cellule attirano troppa acqua fino a scoppiare. Per questa ragione, l’acqua sterile e le altre soluzioni ipotoniche sono generalmente utilizzate per diluire i farmaci ipertonici, specialmente nelle persone che hanno una quantità di liquidi in circolo limitata, come i bambini e i neonati.

• Le soluzioni ipertoniche hanno invece un’osmolarità superiore a 300-310 mOsm/l con valori che raggiungono anche 500-1.000 mOsm/l e richiamano acqua dalle cellule dei vasi endoteliali nel lume vascolare, causando il loro restringimento e l’esposizione della membrana a ulteriori danni (flebiti chimiche, irritazioni, trombosi). Tra le soluzioni fortemente ipertoniche ci sono per esempio la soluzione glucosata al 20% (1.112 mOsm/l) e il bicarbonato all’8,4% (2.000 mOsm/l). L’osmolarità delle soluzioni iperto-niche può provocare danni all’endotelio della vena, innescando un processo infiammatorio e lo sviluppo di flebite. Solitamente queste soluzioni non sono diluenti adatti. In letteratura è dimostrato che le soluzioni ipertoniche che superano i 600 mOsm/l possono indurre una flebite chimica in una vena periferica entro 24 ore. Una soluzione ipertonica può essere infusa in modo sicuro attraverso una vena centrale; il grande volume di sangue in una vena centrale diluisce la soluzione, abbassando la sua osmolarità (tonicità). Invece in una vena periferica il volume di sangue non è adeguato per garantire un’emodiluizione significativa; di conseguenza la soluzione ipertonica attira l’acqua dalle cellule endoteliali della vena, provocando una contrazione e lasciando la vena vulnerabile a flebiti, inflitrazioni e trombosi.

L’osmolarità è dunque uno dei possibili fattori che possono provocare una flebite chimica. Naturalmente è necessario considerare l’osmolarità non soltanto del farmaco, ma anche del diluente. È importante che l’osmolarità dei farmaci somministrati sia inferiore alle 600 mOsm/l.

1.1.3 La velocità di infusione

La velocità di infusione delle soluzioni somministrate per via endovenosa dipende da diversi fattori tra cui:

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• l’osmolarità: le soluzioni ipertoniche vanno infuse lentamente per il loro effetto di richiamo di liquidi nello spazio intravascolare;

• i principi attivi (per esempio chemioterapici, antibiotici, amine, eparina) o elettroliti (come il potassio) contenuti nella soluzione che necessitano di un controllo attento della velocità con pompa d’infusione;

• le condizioni del paziente: le persone anziane, cardiopatiche e nefropatiche rischiano il sovraccarico per cui la velocità di infusione deve essere ridotta e controllata scrupolosamente;

• il calibro dell’accesso venoso; • le condizioni del sito;

• il volume complessivo di soluzione da infondere.

Se il farmaco da somministrare è irritante, è possibile rallentarne l’infusione, prevedendo la sua somministrazione per un periodo più lungo e aumentando in questo modo il tempo per l’emodiluizione. Un’infusione rapida aumenta il rischio di flebite, in quanto riduce il tempo dell’emodiluizione e consente alla soluzione molto concentrata (ipertonica) di venire a contatto con la tunica intima della vena; rallentare la somministrazione aumenta solo di poco il tempo di contatto. In genere l’infusione in una vena centrale richiede un’ora, mentre in una vena periferica è consigliato aumentare il tempo di infusione a due ore.

1.2 Set per infusione

Per formare un set per terapia infusionale sono necessari diversi tipi di componenti; sebbene ognuno di essi abbia una specifica funzionalità, sono accomunati dal fatto di essere realizzati in materiale biocompatibile, nella maggior parte dei casi sono prodotti con materiali termoplastici.

La forma e le specifiche dei componenti possono variare in base all’utilizzo finale oltre che alla richiesta di avere un design particolare per motivi legati ad esigenze progettuali ma, soprattutto, a determinate normative da rispettare.

Un set standard di infusione (Figura 1.2) è formato dai seguenti componenti: • un contenitore sterile: bottiglia di vetro, bottiglia di plastica o sacchetto

di plastica preriempito di fluidi;

• un connettore (spike), che permette di perforare la chiusura in gomma della bottiglia di fluido;

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• una camera di gocciolamento (drip chamber), che consente alla soluzione di fluire una goccia alla volta rendendo facile identificare la portata del flusso e ridurre la possibile formazione di bolle d’aria, costituito da un pozzetto in plastica trasparente dove gocciola l’infusione;

• un lungo tubo sterile con un morsetto per regolare o interrompere il flusso (roller clamp);

• un ultimo connettore che permette il collegamento con un ago o l’ac-coppiamento con un’altra linea di infusione sulla stessa vena (Luer lock adapter).

Figura 1.2: Set standard di infusione

La velocità con cui somministrare il liquido interessato dalla terapia può essere regolata in due modi:

• attraverso una pompa da infusione, che permette un controllo preciso della velocità di infusione e della quantità totale di fluido da infondere all’ora e nell’arco delle 24 ore;

• attraverso infusione con gocciolamento per gravità. Nei casi in cui non è necessario un preciso controllo della velocità di infusione o in tutti quei

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casi in cui la pompa non è disponibile, la flebo è spesso lasciato fluire semplicemente posizionando il sacchetto al di sopra del livello del paziente e utilizzando il morsetto per regolare la velocità.

L’infusione per gocciolamento sfrutta la variazione di pressione con la quota per ottenere un fluido a pressione superiore a quella del sangue all’interno della vena (che è superiore alla pressione atmosferica) secondo la legge di Stevino:

p = ⇢g h (1.1)

dove p è la pressione idrostatica esercitata dalla colonna di fluido (P a), direttamente proporzionale a ⇢ (densità del fluido in Kg/m3, g

(accelera-zione di gravità pari a 9,81 m/s2) e h (altezza del punto considerato in

m).

Figura 1.3: Esempi di infusione con pompa (a sinistra) e per gocciolamento (a destra)

Al connettore terminale del set è attaccato un dispositivo per l’accesso endovenoso, utilizzato sia per la somministrazione del fluido che per ottenere sangue (come campione da analizzare). Si distinguono tre tipi di dispositivi:

• Ago cavo ipodermico: è quello più semplice in quanto direttamente posi-zionato in vena. All’ago può essere collegata una siringa (per iniettare il suo contenuto o per aspirare sangue) o un catetere di varia lunghezza. Il sito più comodo per l’accesso dell’ago è individuato in una vena facilmente identificabile, di solito una delle vene sul dorso della mano oppure la vena mediana cubitale al gomito.

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• Catetere venoso periferico: breve catetere di pochi centimetri di lunghezza, inserito attraverso la cute in una vena periferica; è di solito un’agocannula, cioè un dispositivo in cui un tubicino di plastica flessibile cannula viene montato sopra un ago di metallo trocar. Una volta che la punta dell’ago e la cannula si trovano all’interno della vena, il trocar viene ritirato e scartato in un contenitore rigido per aghi usati e la cannula viene fatta avanzare all’interno della vena nella posizione considerata più appropriata e sicura. È il metodo di accesso endovenoso più utilizzato sia in ospedale sia nelle attività sanitarie in ambito pre-ospedaliero.

Figura 1.5: Catetere venoso periferico

• Catetere venoso centrale: è posizionato all’interno di una grande vena, di solito la vena cava superiore o la vena cava inferiore, o l’atrio destro del cuore. Questo posizionamento, seppure con diversi vantaggi (rapidità di effetto, accesso alla pressione venosa centrale e ad altre variabili fisiolo-giche, somministrazione di farmaci irritanti per le vene periferiche), può comportare rischi di sanguinamento, infezione, cancrena, tromboembolia, oltre ad essere di difficile inserzione.

Figura 1.6: Kit per catetere venoso centrale

Prima di applicare il set di infusione è necessaria una "inizializzazione" che consiste nel far uscire una quantità di liquido dal connettore terminale del set, in

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modo da assicurarsi che non venga infusa aria che possa provocare un’embolia gassosa (ostruzione del normale flusso sanguigno all’interno di un vaso causata da una bolla d’aria). La presenza di bolle d’aria circolanti nel sistema vascolare può essere molto pericolosa, in quanto gli emboli potrebbero raggiungere anche le arterie del cervello, le coronarie che irrorano il muscolo cardiaco e i vasi sanguigni che conducono il sangue deossigenato dal cuore ai polmoni. Se le bolle d’aria finiscono nei vasi arteriosi del cervello, potrebbero provocare un ictus (di tipo ischemico embolico); se raggiungono le coronarie, potrebbero dar luogo a un attacco di cuore; se giungono nell’arteria polmonare o in una delle sue ramificazioni (embolia polmonare), potrebbero determinare insufficienza respiratoria.

La camera di gocciolamento, presente dopo il flacone, consente di vedere il liquido che scende a gocce ed è fondamentale per prevenire un’embolia gassosa, se adeguatamente riempita di soluzione da infondere. Per lo stesso motivo, durante il cambio di flacone, il morsetto è indispensabile nella chiusura del tubo.

1.3 L’accoppiamento Luer: aspetti storici

Il connettore Luer, un tipo di connettore specifico di piccole dimensioni, si incon-tra quotidianamente nella pratica clinica. Il familiare Luer maschio conico al 6% (a slittamento) e il meccanismo di chiusura Luer (Luer-Lock, Becton Dickinson, Franklin Lakes, NJ) sono utilizzati da quasi un secolo in una vasta gamma di applicazioni mediche per via endovenosa, neurassiale, enterale e aerea.

Il design Luer conico al 6% è stato concepito nel 1897 quando Hermann W. Luer depositò il brevetto statunitense n°583.382 per la sua siringa ipodermica di precisione in vetro smerigliato, migliorando l’idea nata nel 1896 ad opera di Karl Schneider, il quale realizzò per la Hermann Wülfing Luer Company di Parigi una siringa costituita da un cilindro in vetro e da uno stantuffo anch’esso in vetro, senza altri materiali per garantire la tenuta tra le due superfici. La modifica con accoppiamento conico al 6% di Hermann W. Luer permetteva una connessione rapida e senza perdite di gas o fluidi.

Nel 1925 Fairleigh S. Dickinson depositò il brevetto statunitense n°1.742.497 apportando una modifica alla siringa di Hermann W. Luer (Figura 1.7). La mo-difica includeva un cono del 6% e un nuovo componente portante del manicotto, l’elemento 5 della Figura 1.7. Le camme a spirale, gli elementi 9 e 10 della Figu-ra 1.7, eFigu-rano distanziati con spazio sufficiente per consentire al mozzo di ruotare liberamente fino a quando facevano attrito con la superficie esterna dell’ugello, l’elemento 2. Il nuovo elemento di bloccaggio, basato sui connettori Luer ma con

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Figura 1.7: Brevetto statunitense n°1.742.497 di Fairleigh S. Dickinson

l’aggiunta di un filetto a vite, fu successivamente chiamato Luer-Lock (Becton Dickinson). Il Luer-Lock si è rivelato così efficace che oggi è onnipresente nella pratica medica, fornendo una connessione sicura e facilmente staccabile nelle apparecchiature per via endovenosa, neurassiale, enterale e aerea. Infatti, si stima che ben 40 connettori di piccole dimensioni possono essere utilizzati in un singolo paziente cardiaco.

L’universalità di questa connessione internazionalmente standardizzata ha tutta-via riscontrato problemi di disconnessione fra apparecchiature mediche, causando danni al paziente ed in alcuni casi anche il decesso: negli ultimi quattro decenni sono stati segnalati più di 200 disconnessioni di tubazioni e cateteri. Block et al. suggeriscono che il connettore Luer è una delle principali cause di inconvenienti di questo tipo. La ECRI Institute (già Emergency Care Research Institute, un’or-ganizzazione no-profit per la valutazione della sicurezza delle apparecchiature mediche ed editore della rivista Health Devices) ha introdotto il connettore Luer nella "Top 10" delle tecnologie pericolose per la salute.

Quasi un secolo dopo la sua invenzione, il connettore Luer è soggetto a con-troversie. I responsabili della sicurezza nell’ambito medico e le autorità di

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regolamentazione hanno chiesto una riprogettazione del connettore Luer e lo sviluppo di norme internazionali per prevenire le disconnessioni.

1.4 Normative di riferimento

La International Organization for Standardization (ISO) è una federazione mondiale di organismi nazionali di standardizzazione che coinvolge 164 nazioni, nata nel 1947 a Ginevra e rappresenta la più grande organizzazione a livello mondiale per la definizione di norme tecniche.

Le norme ISO sono numerate con un formato del tipo ISO nnnn:yyyy – titolo, dove nnnn sta ad indicare il numero della norma, yyyy l’anno di pubblicazione (talvolta omesso) e il titolo che contiene una breve descrizione della norma.

L’attività di preparazione delle norme internazionali viene effettuata attraverso i comitati tecnici ISO. I progetti degli standard internazionali discussi dai comitati tecnici vengono trasmessi agli organi membri per la votazione; la pubblicazione come norma internazionale richiede l’approvazione di almeno il 75% degli organi membri votanti.

1.4.1 ISO 594-1 - Conical fitting with a 6% (Luer)

ta-per for syringes, needles and certain other medical

equipment

La ISO 594-1 è stata pubblicata nel 1986 con l’obiettivo di rappresentare il riferimento principale per la progettazione e industrializzazione di ogni tipo di connettore Luer per applicazioni medicali. Infatti rappresenta la normativa per i connettori conici al 6% (Luer) e specifica i requisiti per siringhe ipodermiche, aghi e alcune attrezzature mediche come set per infusione e trasfusione. La parte della normativa riguardante i requisiti consiste in cinque punti:

1. Gauging, in cui sono illustrati gli strumenti (gauges) per i test;

2. Liquid leakage, dove viene definito il metodo per testare la tenuta della connessione Luer nel caso di trasporto di liquido con una determinata pressione;

3. Air leakage, dove viene definito il il metodo per verificare la tenuta della connessione Luer nel caso di trasporto di gas medicali con una determinata pressione;

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4. Separation force, in cui viene definita la modalità per verificare che il connettore Luer rimanga connesso con il riferimento, se sottoposto ad una forza assiale;

5. Stress cracking, test di rottura dovuta a stress, dove viene definito il metodo per verificare che il connettore non subisca rotture dopo una connessione di 48h.

1.4.2 ISO 594-2 - Conical fitting with a 6% (Luer)

ta-per for syringes, needles and certain other medical

equipment: lock fittings

La ISO 594-2 è stata pubblicata nel 1991 ma ha subito una revisione nel 1998, tuttora considerata come riferimento. È la normativa per i connettori Luer lock, ovvero i connettori conici con presenza della filettatura.

La normativa è articolata in cinque paragrafi:

1. Scopo: la specifica dei requisiti che devono possedere i connettori conici al 6% realizzati con materiali rigidi e semirigidi;

2. Normative di riferimento: elenca le tre normative su cui cui è basata la ISO 594-2, ovvero ISO 594-1, ISO 468 (Surface roughness - Parameters, their values and general rules for specifyng requirements.), ISO 7886-1 (Sterile hypodermic syringes for single use);

3. Dimensioni e tolleranze: quote da rispettare per quanto riguarda la filettatura, per la conicità si fa riferimento alla ISO 594-1;

4. Requisiti: comportamenti che deve rispettare il connettore durante le misure, i test di tenuta in liquido e aria, il test della forza di separazione, il test del momento di svitamento, test di rottura dovuta a stress, la facilità di assemblaggio;

5. Metodi per i test: dettagli di tutti i valori e le tolleranze applicati nei metodi di test a cui sottoporre i connettori Luer lock.

1.4.3 ISO 80369 - Small-bore connectors for liquids and

gases in healthcare applications

I progressi della medicina hanno portato ad un notevole aumento del numero di dispositivi medici utilizzati sul paziente. Molti di questi dispositivi rientrano nelle categorie di dispositivi di monitoraggio, dispositivi diagnostici e dispositivi

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per l’erogazione di farmaci.

Tali dispositivi eseguono una serie di funzioni simili, ma non intercambiabili. Gli esempi includono: la somministrazione endovenosa di liquidi, l’alimentazione enterale, il campionamento del gas respiratorio, la misurazione della pressione sanguigna non invasiva e l’iniezione di farmaci intratecali. Nonostante la diversa natura delle funzioni svolte, molte di queste apparecchiature mediche utilizzano un sistema universale di connettori small-bore (piccole dimensioni) basati sul connettore Luer conico al 6% Luer, come specificato nelle ISO 594-1:1996 e ISO 594-2:1998.

La vicinanza di diversi connettori intorno ad un solo paziente può aumentare la probabilità di avere disconnessioni accidentali con conseguenze anche fatali. La normativa ISO 80369 si pone l’obiettivo di sostituire la normativa ISO 594 per ridurre la probabilità di disconnessioni durante l’utilizzo dei connettori Luer, introducendo le linee guida per la progettazione di connettori Luer con design diverso a seconda del tipo di applicazione. La normativa si divide in otto parti, la prima in cui si dichiarano i requisiti generali e le altre in cui vengono riportate le specifiche tecniche per i tipi di applicazione, infine un’ultima sezione dedicata ai test methods.

Figura 1.8: Rappresentazione schematica della ISO 80369

• ISO 80369-2 Connectors for breathing systems and driving gases applica-tions: riguarda applicazioni di ventilazione artificiale e distribuzione di gas medicali. Il Luer lock ricopre un ruolo fondamentale, in quanto accoppiato ad un ad un capnometro consente, durante la somministrazione di ossigeno, la misurazione della concentrazione o della pressione parziale di CO2 nei

gas respiratori o l’induzione dell’anestesia, oltre a consentire connessioni per differenti metodiche di ventilazione non invasiva.

• ISO 80369-3 Connectors for enteral applications: per applicazioni di nu-trizione enterale (nunu-trizione artificiale che prevede la somministrazione di alimenti attraverso il posizionamento di una sonda nell’apparato digerente). • ISO 80369-4 Connectors for urethral and urinary applications: per

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appli-impiegati in associazione a sonde vescicali, per consentire l’accesso ai canali di drenaggio e irrigazione.

• ISO 80369-5 Connectors for limb cuff inflation applications: per il collega-mento di sfigmomanometri, nei sistemi di misurazione non invasiva della pressione, per il bracciale con lo strumento di misura.

• ISO 80369-6 Connectors for neuraxial applications: per applicazioni neu-roassiali, per l’iniezione di sostanze anestetiche durante terapia epidurale o intratecale.

• ISO 80369-7 Connectors with 6% (Luer) taper for intravascular or hy-podermic applications: Luer lock con 6% di conicità per applicazioni intravascolari e ipodermiche, in particolare per la circolazione extracor-porea del sangue per terapia infusionale (somministrazione di soluzioni e farmaci tramite vena) e trasfusionale.

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1.5 Stato dell’arte

Esistono due tipologie di raccordi Luer:

• lo Slip Luer, basato sull’idea originale di Hermann Wülfing Luer;

• il Luer Lock, basato sul miglioramento del design introdotto da Fairleigh S. Dickinson.

I raccordi Slip Luer (connettori a scivolamento) grazie alla conicità del 6% garantiscono una perfetta tenuta ermetica attraverso il semplice contatto tra le superfici del connettore maschio con il connettore femmina.

Figura 1.10: Esempio di connettore Slip Luer maschio

I raccordi Luer Lock presentano una filettatura a livello dell’incastro in modo da poter garantire una connessione salda. Il Luer lock maschio ha un alloggiamento esterno con filettatura nella parete interna, mentre il Luer lock femmina ha l’aggiunta di una filettatura esterna all’altezza del cono. I filetti permettono di unire insieme i due raccordi, serrando la connessione al fine di fornire un fissaggio meccanico. Il risultato è una connessione a prova di tenuta che può essere facilmente separata svitando i due raccordi.

Figura 1.11: Esempio di Luer Lock maschio (a sinistra) e femmina (a destra)

Ad oggi sul mercato la maggior parte dei connettori Luer viene ancora pro-dotta con la normativa ISO 594, che prevede un unico design per ogni tipo di applicazione medica; i vari dispositivi differiscono tra loro solo per aspetti

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secondari, ad esempio per la sede tubo (che dipende dal tipo di applicazione in cui il componente verrà utilizzato) o per il materiale con cui vengono prodotti. I materiali principalmente utilizzati per la realizzazione dei connettori Luer sono:

• Polivinilcluoruro (PVC);

• Acrilonitrile-Butadiene-Stirene (ABS); • Polipropilene (PP);

• Policarbonato (PC).

Tutti questi materiali soddisfano la specifica richiesta dalla normativa ISO 594, appartenendo alla categoria dei materiali polimerici rigidi o semirigidi.

Tuttavia, poiché i Luer lock conformi alla ISO 594 presentano lo stesso design ma sono utilizzati in varie tipologie di applicazioni mediche, possono causare disconnessioni accidentali.

La normativa ISO 80369 è stata redatta per stabilire le linee guida per la progettazione dei connettori Luer lock specificandone le dimensioni delle quote che interessano la filettatura e l’accoppiamento conico, differenti in base al campo applicativo in cui vengono utilizzati.

1.6 L’azienda Elcam Medical

Elcam Medical è un’azienda, di proprietà del Kibbutz Bar’Am in Israele, leader mondiale nel comparto della componentistica in materiale plastico utilizzata in campo biomedicale per il controllo dei flussi nei dispositivi per infusione. L’azienda Elcam Medical ha acquisito nel 2009 la Injectech di Denver in Colorado e nel 2010 la Lucomed S.p.a. di Carpi in Italia, divenuta quindi Elcam Medical Italy.

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Elcam Medical è un’azienda specializzata in quattro grandi aree cliniche: • terapia IV (intravenosa) e anestesia;

• monitoraggio del paziente; • cardiologia e radiologia;

• sistemi per l’iniezione e il rilascio di farmaci.

Elcam Medical Italy è un’azienda specializzata nella formatura e nell’assemblaggio di componenti per dispositivi medici e prodotti personalizzati su specifiche del cliente. Produce una vasta gamma di componenti monouso per emodialisi, terapia IV (intravenosa), trasfusione, cardiochirurgia, anestesia e rianimazione. In particolare svolge attività di:

• produzione di componenti stampati e pre-assemblati per la fabbricazione di dispositivi medici, anche su specifiche ed esclusive del cliente;

• produzione e distribuzione di dispositivi medici monouso in forma di: – sistemi di drenaggio post-operatorio e accessori;

– cateteri di drenaggio post-operatorio e accessori; – cannule e tubi di aspirazione intraoperatoria; – linee emodialisi e accessori;

– I.V. sets e accessori; – sistemi tubolari;

– prodotti monouso per dialisi, infusione, trasfusione, drenaggio; • produzione di dispositivi medici e di semilavorati, su specifiche del cliente. Gli ambienti di produzione Elcam Medical Italy sono costituiti da quattro clean rooms, aree asettiche all’interno delle quali viene monitorata elettronicamente sia la sovrapressione che la temperatura e l’umidità, e vengono tenuti costantemente sotto controllo il grado di pulizia e il livello di contaminazione microbiologica. Le clean rooms sono tutte classificate, in accordo con la normativa EN ISO 14644-1, “ISO Class 8”, progettate e realizzate secondo le più moderne tecniche costruttive e in grado di soddisfare le esigenze qualitative e quantitative della propria clientela.

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Figura 1.13: Camera bianca Elcam Medical Italy

1.7 Obiettivo del lavoro di tesi

Lo scopo del lavoro di tesi è quello di sviluppare, industrializzare e validare i processi produttivi di componenti utilizzati all’interno di un set per infusione di liquidi chiari.

In particolare saranno trattati i seguenti punti:

• analisi delle fasi di sviluppo del connettore Luer lock femmina, verificando che rispetti le specifiche riportate nella normativa ISO 80369-7 (connettori per applicazioni intravenose e ipodermiche); il componente sarà utilizzato in set per infusione e il vantaggio della nuova configurazione conforme alla normativa consente di ridurre il rischio di misconnection improprie e, di conseguenza, accrescere la sicurezza del paziente;

• studio del processo di validazione, approfondendo in particolar modo la metodologia Six-Sigma, dei componenti:

– Luer lock femmina, sviluppato con design conforme alla ISO 80369-7; – ruotino, componente del morsetto insieme al roller;

• analisi dimensionale dei campioni del perforatore realizzato con stampo pilota, verificando che siano conformi alle normative ISO 80369-7 (per quanto riguarda il Luer lock femmina) e ISO 1135-4 (per quanto riguarda la punta);

• controllo statistico del processo di produzione del tubo impiegato nel set per infusione.

I componenti citati sono parte del set per infusione rappresentato in Figura 1.15. Il kit così composto permette infusione con gocciolamento per gravità di soluzioni

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cristalloidi.

In questo lavoro saranno esaminati: • il Luer lock femmina;

• il ruotino; • il perforatore;

• il tubo di dimensione opportuna che connette i vari componenti.

Figura 1.14: Luer lock femmina, ruotino rosso e perforatore

Il componente roller con cui è assemblato il ruotino, la camera di gocciolamento e il Luer lock maschio (a cui si connette il perforatore) sono componenti già conformi alle rispettive ISO, validati e prodotti.

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Materiali e metodi

Nel presente capitolo sono inizialmente considerati i materiali polimerici utilizzati per la realizzazione dei componenti (polivinicloruro per il Luer lock femmina e il tubo, polietilene per il ruotino, acrilonitrile butadiene stirene per il perforatore). Successivamente sarà illustrato il metodo di lavorazione per la loro produzione, ovvero il processo di stampaggio ad iniezione e di estrusione; verrà quindi descritta la metodologia Six Sigma tramite approccio DMAIC e la strategia validativa utilizzata per l’analisi dei processi.

2.1 I polimeri

I materiali polimerici sono sostanze organiche macromolecolari costituite da un elevato numero di gruppi atomici caratteristici (unità ripetitive) uniti in catena mediante la ripetizione dello stesso tipo di legame forte (covalente).

Benché, a rigore, anche le macromolecole tipiche dei sistemi viventi (proteine, acidi nucleici, polisaccaridi) siano polimeri, nel campo della chimica industriale con tale termine si intendono comunemente le macromolecole di origine sintetica, ovvero materie plastiche, gomme sintetiche, fibre tessili, ma anche i polimeri sin-tetici biocompatibili usati nelle industrie farmaceutiche, cosmetiche e alimentari. Il numero di unità ripetitive che formano un polimero è detto grado di polimeriz-zazione. Le molecole da cui derivano le unità strutturali si definiscono monomeri: il monomero è l’unità base da cui si parte nella sintesi del polimero. Il numero di legami che un monomero può formare con altri monomeri nella formazione di un polimero è indicato come funzionalità (f) del monomero:

• se la funzionalità è uguale a 2 il polimero ha una struttura a singola catena lineare;

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• se la funzionalità è maggiore di 2 si possono avere polimeri a struttura ramificata o reticolata, in cui le ramificazioni formano delle maglie chiuse (Figura 2.1).

Figura 2.1: Struttura lineare, ramificata e reticolata

In base alla natura dei monomeri si possono avere due tipi principali di polimeri: • omopolimeri, costituiti dalla ripetizione di una sola unità strutturale; • copolimeri, caratterizzati dalla presenza di unità strutturali di tipo diverso. I materiali polimerici sono molto importanti in campo biomedicale poiché rappre-sentano circa il 45% dei biomateriali e sono utilizzati in molteplici applicazioni come sistemi a rilascio di farmaci, componenti di consumo, materiali per protesi, impianti e dispositivi extracorporei.

I polimeri hanno numerosi vantaggi:

• relativa facilità di lavorazione per la produzione in svariate forme come membrane, tubi, fili, fibre, spugne, microsfere;

• bassi costi di produzione;

• disponibilità di un ampio spettro di proprietà fisiche e meccaniche. In relazione alla loro natura i polimeri possono essere classificati in:

• polimeri naturali organici, ad esempio cellulosa e caucciù;

• polimeri artificiali, ottenuti dalla modificazione di polimeri naturali, come l’acetato di cellulosa;

• polimeri sintetici, ossia polimerizzati artificialmente (ad esempio PVC e PET).

In relazione al tipo di processo di polimerizzazione da cui sono prodotti si distinguono in:

• polimeri di addizione; • polimeri di condensazione.

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In base alle proprietà termiche, i polimeri si dividono in due classi: termoindu-renti e termoplastici.

Polimeri termoindurenti

I polimeri termoindurenti sono costituiti da macromolecole con un basso grado di reticolazione.

Dopo essere stati modellati in una forma permanente e reticolati attraverso una reazione chimica, non possono essere nuovamente rimodellati con il calore in un’altra forma.

In seguito al riscaldamento a una temperatura troppo elevata si degradano o decompongono, quindi non possono essere riciclati. La struttura più comune è formata da una rete di atomi di carbonio uniti tramite legame covalente per for-mare un solido rigido; legati covalentemente nel reticolo tridimensionale possono esserci anche atomi di azoto, ossigeno, zolfo o altri elementi.

Esempi di polimeri termoindurenti sono il poliuretano e le resine epossidiche.

Polimeri termoplastici

I polimeri termoplastici costituiscono la maggior parte dei polimeri utilizzati a livello industriale e sono costituiti da lunghe macromolecole all’interno delle quali gli atomi sono collegati tra loro da legami covalenti. Tali macromolecole, che possono essere lineari o presentare ramificazioni più o meno lunghe, sono completamente indipendenti allo stato fuso o di soluzione, mentre allo stato solido sono vincolate da legami secondari di Van der Waals.

Quest’ultimi hanno un’energia circa 1-2 ordini di grandezza inferiore a quella dei legami primari e sono dovuti alla presenza, temporanea o permanente, di dipoli elettrici.

Riscaldando un polimero termoplastico i legami secondari vengono meno pro-gressivamente e le macromolecole manifesteranno nuovamente la possibilità di scorrimento reciproco; il materiale fuso così ottenuto può essere stampato (o ristampato) per ottenerne un pezzo finito con tecniche quali l’estrusione o lo stampaggio ad iniezione.

La solidificazione di un polimero termoplastico, o più in generale di un qual-siasi polimero dallo stato fuso o di soluzione, può portare in relazione alla sua costituzione chimica, alla configurazione macromolecolare e alla velocità di raf-freddamento, ad un solido amorfo o parzialmente cristallino (semicristallino). Allo stato solido i polimeri possono esibire una grande varietà di comportamenti e presentare proprietà molto diverse a seconda soprattutto dell’architettura delle macromolecole costituenti.

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Figura 2.2: Tipico diagramma P-V-T (Pressione-Volume-Temperatura) per polimeri termoplastici

Se il raffreddamento dallo stato fuso avviene molto lentamente, si favorisce la cristallizzazione del polimero ovvero la formazione di una struttura in cui le macromolecole assumono una disposizione sterica, ordinata e periodica. La cristallizzazione è tuttavia ostacolata dall’aggrovigliamento delle catene macromo-lecolari, che tendono a raggiungere una configurazione casuale e reciprocamente interpenetrata (random coil). Anche nei casi più favorevoli, la cristallizzazione non è mai completa (fino a 95-96%) e neppure perfettamente regolare, con il risultato che esisteranno al più polimeri semicristallini aventi morfologie cristalli-ne e amorfe reciprocamente interconcristalli-nesse. Le zocristalli-ne cristallicristalli-ne sono caratterizzate dalla loro temperatura di fusione (TM) e da una densità propria ⇢c(chiaramente

maggiore della corrispettiva ⇢adella regione amorfa) calcolabile dai parametri

reticolari della cella cristallina unitaria. TM rappresenta la più alta temperatura teorica alla quale le regioni cristalline possono esistere, ma nella realtà la fusione di tali porzioni avviene in un certo intervallo di valori. I polimeri amorfi, e le zone amorfe dei polimeri semicristallini, sono caratterizzati dalla temperatura di transizione vetrosa (TG) alla quale passano dallo stato vetroso (duro e rigido) allo stato gommoso (tenero e grandemente deformabile). Tale transizione corrisponde all’inizio della possibilità di movimento delle catene polimeriche che, al di sotto di TG, sono "congelate" in una disposizione fissa. Sia TM sia TG aumentano al crescere della rigidità delle catene e delle forze di attrazione intermolecolari. Il grado di cristallinità di un polimero dipende dalla velocità di raffreddamento alla quale è sottoposto, da eventuali azioni meccaniche esterne, ma soprattutto dalla regolarità geometrica.

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Se le unità ripetitive sono geometricamente semplici e di piccole dimensioni un alto grado di cristallinità è facilmente raggiungibile mentre se i monomeri sono complessi la formazione di porzioni cristallizzate sarà molto più difficoltosa. Alcuni materiali termoplastici hanno catene ramificate e di conseguenza sono quasi completamente amorfi e incapaci di cristallizzare, anche se sottoposti a ricottura.

I materiali termoplastici sono ampiamente utilizzati in pratica medica. Trovano applicazione nella realizzazione di sacche per soluzioni infusionali, impianti come valvole cardiache artificiali e articolazioni, componenti monouso (raccordi, sirin-ghe, tubi). Il motivo principale per cui trovano così largo impiego è sicuramente la garanzia di igiene, nonché il fatto di essere dei materiali in grado di soddisfare la richiesta di biocompatibilità del settore medicale.

Alcuni esempi di polimeri termoplastici sono il polivinicloruro (PVC), il polietile-ne (PE), l’acrilonitrile butadiepolietile-ne stirepolietile-ne (ABS), il polistirepolietile-ne (PS), il polipropilepolietile-ne (PP), il policarbonato (PC), .

Le prime tre tipologie di polimeri termoplastici citati saranno oggetto di appro-fondimento in quanto costituiscono i materiali di realizzazione, rispettivamente, dei componenti Luer lock femmina e tubo, ruotino e perforatore.

2.1.1 Il polivinicloruro (PVC)

Il polivinicloruro (PVC) è una materia plastica sintetica largamente usata per l’elevata resistenza chimica e la capacità di essere mescolato con additivi per fabbricare un gran numero di prodotti con svariate proprietà fisiche e chimiche. Grazie all’elevata biocompatibilità e alla possibilità di essere sterilizzato, il PVC è utilizzato anche in ambito biomedicale, principalmente per la realizzazione di contenitori per la conservazione del sangue, pellicole per il confezionamento degli strumenti chirurgici, cateteri, cannule e componenti per somministrazioni intravenose.

Il polivinilcloruro è un polimero la cui unità ripetitiva è illustrata in Figura 2.3. A causa della presenza dell’ingombrante gruppo cloruro laterale, il polimero

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risulta essenzialmente amorfo e non è in grado di ricristallizzare.

Le intense forze coesive tra le catene polimeriche nel PVC sono dovute princi-palmente ai forti momenti dipolo generati dagli atomi di cloro. I grossi atomi elettronegativi di cloro causano impedimento sterico e repulsione elettrostatica che riducono la flessibilità delle catene del polimero. Questa immobilità moleco-lare causa difficoltà nella lavorazione dell’omopolimero: il PVC può essere quindi utilizzato solo in poche applicazioni senza ricorrere all’impiego di plastificanti e altri additivi; questi ultimi sono necessari per poter lavorare il PVC ma con-dizionano fortemente le caratteristiche di biocompatibilità. Per preservare la biocompatibilità, vengono di solito utilizzati plastificanti particolari quali alcuni poliesteri, l’ASE (alkylsulphonic phenyl ester), il tri-octyl-tri-mellitate (TOTM), il DINCH (diisonocyclohexane dicarboxylate), l’ATBC (acetyltribul citrate) e il DEHTP (diethylhexylterphtalate).

Il PVC omopolimero ha le seguenti caratteristiche:

• resistenza meccanica relativamente alta, accompagnata da fragilità; • buone proprietà elettriche;

• elevata resistenza ai solventi;

• buona resistenza chimica e alla fiamma grazie all’alto contenuto di cloro.

2.1.1.1 Composti in miscela con il polivinilcloruro

Come spiegato in precedenza, il polivinilcloruro viene comunemente utilizzato con l’aggiunta di additivi, quali plastificanti, stabilizzanti termici, lubrificanti, riempitivi e pigmenti.

I plastificanti conferiscono morbidezza e flessibilità ma abbassano la resistenza a trazione. Queste proprietà possono variare in un ampio intervallo se si cambia opportunamente il rapporto tra plastificante e polimero. Sono generalmente composti ad alto peso molecolare, come ad esempio esteri dell’acido ftalico, scelti in modo da essere completamente miscibili e compatibili con il materiale di base. Per preservare la biocompatibilità, vengono di solito utilizzati plastificanti particolari quali alcuni poliesteri, l’ASE (alkylsulphonic phenyl ester), il tri-octyl-tri-mellitate (TOTM), il DINCH (diisonocyclohexane dicarboxylate), l’ATBC (acetyltribul citrate) e il DEHTP (diethylhexylterphtalate).

Gli stabilizzanti termici vengono aggiunti al PVC per prevenire la degrada-zione termica sia durante la lavoradegrada-zione che durante l’uso come prodotto finito. Gli stabilizzanti tipici usati possono essere interamente organici o inorganici, ma in genere sono composti organometallici a base di stagno, piombo, bario-cadmio,

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calcio e zinco.

I lubrificanti conferiscono maggior fluidità al fuso durante la lavorazione e prevengono l’adesione alle superfici metalliche. I lubrificanti usati comunemente sono cere e esteri grassi.

I riempitivi, come il carbonato di calcio, sono aggiunti principalmente per abbassare i costi dei composti di PVC.

I pigmenti, sia organici che inorganici, sono usati per dare colore, opacità e resistenza agli agenti atmosferici.

2.1.2 Il polietilene (PE)

Il polietilene è un composto chimico, prodotto di polimerizzazione dell’etilene, avente quindi struttura ( CH2CH2 )n.

Figura 2.4: Unità strutturale ripetitiva del polietilene

Appartiene alla famiglia delle resine termoplastiche, si presenta come un solido trasparente (forma amorfa) o bianco (forma cristallina) con ottime proprietà isolanti e di stabilità chimica, è un materiale molto versatile e una delle materie plastiche più economiche.

In base alla distribuzione dei pesi molecolari e al grado di ramificazione si ottengono tipi di polietilene con proprietà e usi differenti:

• Polietilene a bassa densità (LDPE): si ottiene polimerizzando l’etilene a pressione di 1000-3000 bar, a temperatura fino a 350°C, in presenza di catalizzatori capaci di favorire il processo di polimerizzazione a radicali liberi (perossidi). Il processo è fortemente esotermico e, pertanto, avvenendo in condizioni adiabatiche, sarebbe capace di produrre un innalzamento di temperatura di 12-13°C per ogni % di etilene che reagisce; per evitare il verificarsi di eccessivi innalzamenti di temperatura, capaci di portare alla decomposizione (esotermica) del polietilene o dello stesso etilene, occorre asportare almeno in parte il calore di reazione. Il polietilene a bassa densità costituisce masse bianche, untuose, traslucide, trasparenti in piccolo spessore; riscaldato, al disopra di 60°C comincia a perdere la propria cristallinità e verso 110°C è completamente amorfo e si considera "fuso". È

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un prodotto flessibile tenace, fragile solo se raffreddato a temperature molto al di sotto dello zero. Pochissimo solubile nei vari solventi, impermeabile all’acqua, pochissimo permeabile ai gas e ai vapori, è dotato di particolari caratteristiche elettriche (bassa permettività, basso fattore di potenza, elevata resistenza dielettrica ecc.). Molto stabile chimicamente anche fino a circa 290°C, è insensibile agli acidi, agli alcali, alle soluzioni saline, ecc.; l’ossigeno invece provoca una certa ossidazione e degradazione specie alla luce; termicamente è abbastanza stabile e tale stabilità può aumentare in presenza di antiossidanti. Il polietilene a bassa densità è impiegato per preparare film (per avvolgere prodotti alimentari o altro), per la fabbricazione di lastre, per rivestimenti di conduttori.

• Polietilene ad alta densità (HDPE): si ottiene dalla polimerizzazione del-l’etilene a bassa pressione (20 bar ca.), a temperature di poco superiori a 100°C, usando catalizzatori molto attivi, quali ossido di cromo esavalente depositato su un supporto di silice-allumina oppure ossidi dei metalli di transizione addizionati di promotori contenenti metalli alcalini o alcalino-terrosi o composti metallorganici. Il polietilene ad alta densità presenta un elevato grado di cristallinità, al quale si accoppiano, rispetto al polietilene a bassa densità, un aumento di brillantezza, di temperatura di rammolli-mento, di carico di rottura a trazione, di inerzia chimica; in contrapposto, presenta minore permeabilità a gas e vapori e minore trasparenza. Il polie-tilene ad alta densità è impiegato per la fabbricazione di oggetti stampati (per pressoiniezione e per soffiaggio), per manufatti resistenti agli acidi, per parti di impianti chimici ove si richieda protezione contro agenti corrosivi. Il polimero può anche essere addizionato, al momento della lavorazione, con agenti reticolanti che ne fanno aumentare il peso molecolare migliorandone corrispondentemente alcune proprietà tecnologiche. Si preparano anche tipi con peso molecolare molto elevato, con alto punto di fusione ed elevate proprietà meccaniche, difficili da lavorare (di solito solo per sinterizzazione), per impieghi particolari.

2.1.3 L’acrilonitrile butadiene stirene (ABS)

L’ABS è un terpolimero ottenuto per copolimerizzazione di tre monomeri: l’acri-lonitrile, il butadiene e lo stirene (Figura 2.5).

L’acrilonitrile conferisce resistenza termica e chimica, il butadiene determina la resistenza e la duttilità della gomma, mentre allo stirene si associa la brillantezza superficiale, la facilità di lavorazione e il basso costo. Quando non contiene

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butadine, l’ABS si trasforma in SAN (acrilonitrile stirene), un materiale che possiede caratteristiche simili ma tenacità inferiore.

Figura 2.5: Unità strutturali ripetitive di stirene, butadiene e acrilonitrile

L’ABS è un materiale termoplastico amorfo, con possibilità di variazioni nella struttura, e risulta tenace, resiliente e facilmente lavorabile. Oltre ai puri polimeri in ABS esistono anche i polyblend di ABS, ovvero miscele di ABS con cloruro di polivinile o policarbonato.

L’ABS presenta buone caratteristiche meccaniche: è rigido e tenace anche a basse temperature (sino a -40°C), possiede elevata durezza, con buona resistenza alla scalfitura, elevata resistenza all’urto. Con l’aggiunta di fibre di vetro si aumenta il modulo elastico e la resistenza meccanica, a discapito però della tenacità. La resistenza superficiale e di volume è elevata con carica elettrica molto bassa e presenta buona resistenza chimica, soprattutto all’acqua, alle soluzioni saline acquose, agli acidi diluiti e alle soluzioni alcaline, agli idrocarburi saturi (benzina), agli oli minerali e ai grassi animali e vegetali. La resistenza all’invecchiamento è ottenuta con formulazioni pigmentate contenenti nerofumo. Non resiste a acidi minerali concentrati, idrocarburi aromatici (benzolo) e clorurati, esteri, eteri e chetoni.

Per quanto riguarda le condizioni ambientali e d’uso, l’ABS presenta una buona resistenza termica, tanto che può essere utilizzato da circa -45°C sino a +185°C. È un materiale sicuro dal punto di vista fisiologico, una volta polimerizzato il materiale risulta completamente atossico.

L’ABS può essere lavorato con buona facilità per iniezione (la temperatura della massa fusa va da 200 a 240°C e può raggiungere anche i 270°C per i tipi speciali), estrusione (la temperatura di tale lavorazione va da 180 a 220°C; è possibile anche l’estrusione-soffiaggio di corpi cavi, a temperature di 160-180 °C). L’ABS, se confrontato con altri polimeri, è estremamente resistente all’impatto, è facilmente colorabile, consente anche di ottenere tinte metallizzate. Quando è stabilizzato, resiste bene alle radiazioni UV e pertanto è impiegabile all’esterno, essendo igroscopico necessita di essere essiccato prima della lavorazione.

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2.2 I processi di lavorazione

I processi in uso per trasformare granuli e pastiglie in prodotti finiti come fogli, barre, oggetti estrusi, tubi o parti stampate sono molti e differenti. Il processo che viene usato dipende in certa misura dal fatto che si tratti di un materiale termoplastico o di uno termoindurente.

In genere i termoplastici vengono riscaldati sino al rammollimento e quindi modellati prima del raffreddamento.

Per i materiali termoindurenti, che non sono stati completamente polimerizzati prima di venire lavorati nella forma definitiva, si adotta un processo mediante il quale avviene una reazione chimica per cui le catene polimeriche vengono legate tra loro in modo da formare una struttura a rete tridimensionale. La polimerizzazione finale si può ottenere mediante calore e pressione oppure per azione catalitica a temperatura ambiente o a temperature più alte.

I processi maggiormente utilizzati per i termoplastici, ma non per i termoindu-renti, sono:

• stampaggio ad iniezione; • estrusione;

• stampaggio per soffiatura e termoformatura.

I processi invece che vengono utilizzati anche per termoindurenti sono: • stampaggio per compressione;

• stampaggio per trasferimento;

• stampaggio ad iniezione con iniettori a vite reciproca.

In questo lavoro di tesi, il processo di stampaggio ad iniezione e il processo di estrusione hanno permesso la realizzazione dei componenti.

2.2.1 Il processo di stampaggio ad iniezione

Lo stampaggio ad iniezione è uno dei processi di produzione industriale con materiali termoplastici più diffusi e permette di avere elevate produttività man-tenendo i costi di esercizio bassi, purché la quantità prodotta riesca a giustificare l’investimento iniziale. Nel processo di stampaggio ad iniezione si ha la trasfor-mazione di un polimero (generalmente in forma di granuli) in un manufatto con forma definita.

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Lo stampaggio ad iniezione presenta numerosi vantaggi:

• consente la produzione di prodotti finiti, cioè prodotti che non hanno bisogno di lavorazioni aggiuntive e che presentano geometrie piuttosto complesse;

• i materiali possono essere lavorati con una notevole precisione dimensionale con tolleranze molto strette;

• possibilità di ottenere elevati volumi di produzione. Il processo di stampaggio ha anche i seguenti svantaggi:

• prevede un oneroso investimento iniziale per acquistare pressa, stampo e attrezzature ausiliarie;

• necessità di avere più stampi in base a ciascuna parte da realizzare; • difficoltà di lavorare parti con grandi variazioni di spessore.

2.2.1.1 Pressa per stampaggio ad iniezione

La pressa per stampaggio ad iniezione è la "macchina" che serve per ottenere quel processo di trasformazione delle materie plastiche dallo stato solido (granulo) allo stato fluido e infine nuovamente allo stato solido (particolare nello stampo). Una tipica pressa (Figura 2.6) è costituita da due unità fondamentali:

• l’unità di iniezione, i cui elementi principali sono la tramoggia di carica (hopper), la vite di plastificazione (reciprocating screw), il cilindro di pla-stificazione (barrel), gli elementi riscaldanti (heaters) e l’ugello (nozzle). Questa unità contribuisce alla fase di riscaldamento e quindi plastifica-zione del polimero: il materiale così riscaldato è trascinato in avanti dal movimento rotatorio della vite punzonante che scorre nel cilindro ed in seguito è iniettato attraverso l’ugello con un movimento di avanzamento della stessa vite.

• l’unità di chiusura, i cui elementi principali sono il semistampo fisso (sta-tionary platen) collegato all’unità di iniezione, la parte mobile dello stampo (movable platen) collegata alla chiusura a ginocchiera, le centraline per il raffreddamento, gli estrattori per l’espulsione del prodotto finito o eventuali manipolatori esterni, il motore per la regolazione del gruppo di chiusura. Ha la funzione di tenere chiuso lo stampo durante tutta la fase di iniezione e di mantenimento in pressione e di aprirlo al momento dell’estrazione.

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Figura 2.6: Schema di una pressa idraulica

2.2.1.2 Ciclo di funzionamento

Prima dell’operazione di stampaggio, il cilindro di plastificazione, all’interno del quale scorre una vite senza fine, viene riscaldato alla temperatura di esercizio necessaria per fondere il materiale all’interno grazie alla presenza di una serie di resistenze elettriche termostate, seguendo uno specifico programma preimpostato dall’operatore in funzione del tipo di materiale utilizzato e della compattezza del pezzo finito. Il granulato di polimeri plastici viene prelevato da un serbatoio a forma di imbuto detto tramoggia. Essendo un processo ciclico, il tipico ciclo di stampaggio può essere diviso nelle seguenti fasi sequenziali (Figura 2.7):

• riempimento (filling): il granulato miscelato viene caricato nel cilindro di plastificazione mediante la tramoggia; la vite punzonante, attraverso la sua particolare filettatura e alla rotazione con movimento indietro, consente la plastificazione del materiale riscaldato per attrito all’interno del cilindro facendolo avanzare verso la zona di iniezione. Uno spostamento rapido in avanti della vite forza il polimero fuso attraverso l’ugello nella cavità dello stampo chiuso, dove assumerà la forma desiderata. Durante l’iniezione del materiale si ottiene circa l’85% del peso del pezzo: il completamento al 100% avviene nella successiva fase;

• impaccamento-mantenimento (packing-manteinance): una volta che la cavità è riempita, inizia la fase di impaccamento-mantenimento, durante la quale si continua a iniettare materiale così da compensare il ritiro dovuto alla solidificazione del polimero nello stampo. L’impaccamento continua

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fino al congelamento del punto di iniezione (gate). Si tratta di una fase delicata poiché influenza pesantemente le deformazioni post stampaggio; • raffreddamento (cooling) e plastificazione (plastication): finita la fase

di impaccamento, il materiale all’interno continua a raffreddarsi fino a quando anche il punto più caldo raggiunge la temperatura di estrazione. La fase di raffreddamento è gestita da centraline che fanno circolare il fluido (generalmente acqua) all’interno dello stampo, il quale è dotato di una opportuna canalizzazione di raffreddamento e di inserti con elevata conducibilità termica. In contemporanea al raffreddamento, la vite continua a ruotare per plastificare il materiale all’interno del cilindro, e convoglia il polimero fuso nella parte anteriore, pronto per essere iniettato al ciclo successivo;

• apertura dello stampo ed espulsione del pezzo (mold opening and part ejection): quando il materiale si è raffreddato a sufficienza lo stampo si apre e il pezzo viene espulso mediante estrattori opportunamente posizionati nello stampo in modo tale da non compromettere la qualità del pezzo.

Figura 2.7: Ciclo di stampaggio

Durante queste operazioni i parametri di processo devono essere accuratamente regolati poiché influenzano le caratteristiche del materiale e, quindi, del prodotto finito. Queste fasi influenzano significativamente anche la produttività del processo poiché la velocità di produzione dipende da quanto velocemente il

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materiale è riscaldato e da quanto velocemente è raffreddato all’interno dello stampo.

Figura 2.8: Fasi dello stampaggio ad iniezione

2.2.1.3 Parametri principali del processo di stampaggio

- Temperatura delle resistenze di cilindro (injection temperature): tem-peratura del cilindro all’interno del quale avviene la plastificazione del granulo.

- Risucchio (decompression after plasticizing): arretramento assiale della vite che si esegue per decomprimere la dose in modo che, all’apertura dello stampo, il materiale non esca dall’ugello. Il suo valore è proporzionale al valore della carica e a quello della contropressione.

- Contropressione di dosaggio (back pressure): pressione che viene ap-plicata sull’estremità posteriore della vite e provoca un rallentamento della sua traslazione all’indietro mentre il materiale fuso si accumula nella camera di iniezione.

- Volume dose (dose): quantità di materiale che viene iniettato nello stampo; è comunemente espressa in millimetri per avere un riscontro immediato sulla corsa della vite.

- Velocità di iniezione (injection rate): velocità massima lineare della vite con cui la dose è iniettata all’interno dello stampo.

- Pressione di iniezione (injection pressure): pressione che la macchina deve essere in grado di fornire per superare le varie resistenze che si

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